Giuseppe Conte POESIE SCELTE da “Poesie 1983-2015” Oscar Mondadori pp. 372 € 22 “Il progetto novecentista del poeta ligure”, il “Grande Progetto”, “La fuoriuscita dal Novecento”, “La funziona risarcitoria e salvifica della poesia”, con un Commento di Giorgio Linguaglossa

mimmo paladino matematica

mimmo paladino matematica

Nato nel 1945 a Imperia, Giuseppe Conte si è laureato nel 1968 all’università statale di Milano. A Milano per Feltrinelli pubblica nel 1972 il saggio La metafora barocca. Ancora a Milano pubblica la sua prima breve raccolta di poesie L’ultimo aprile bianco (Società di poesia, 1979) seguito dalla più ampia raccolta L’Oceano e il Ragazzo (Rizzoli, 1983). Insegnante di lettere in una scuola superiore di Sanremo, Conte si è dedicato sia alla traduzione (da Whitman, Blake, Shelley e Lawrence) sia alla narrativa nella quale dopo l’esordio con Primavera incendiata (Feltrinelli, 1980), pubblica Equinozio d’autunno (Rizzoli). Nel 1988 presso la Biblioteca Universale Rizzoli pubblica la raccolta di poesia Le stagioni. Negli anni Novanta, dopo aver abbandonato l’insegnamento intensifica l’attività in prosa con i romanzi: I giorni della nuvola (Rizzoli, 1990), Fedeli d’amore (ivi, 1993), L’impero e l’incanto (ivi, 1995) Il ragazzo che parla al sole (Longanesi, 1997) e Il terzo ufficiale (ivi, 2002); con i saggi: Il mito giardino (Tema celeste, 1990), Terre del mito (Mondadori, 1991) e Manuale di poesia (Guanda, 1995) contenente riflessioni sul comporre in versi; con le antologie poetiche: La lirica d’Occidente. Dagli inni omerici al Novecento (1990), La poesia del mondo. Lirica d’Occidente e d’Oriente (ivi, 2003). Ha pubblicato le raccolte poetiche: Dialogo del poeta e del messaggero (1992 e Canti d’Oriente e d’Occidente (1997) entrambe edite da Mondadori, seguite da Nuovi canti (San Marco dei Giustiniani, 2001). Nel 2015 esce il volume Poesie 1983-2015 negli Oscar Mondadori.

Mimmo Paladino

Mimmo Paladino

Commento di Giorgio Linguaglossa

Il progetto novecentista della poesia di Giuseppe Conte. Il Grande Progetto

Gli anni che hanno fatto seguito al ’68 hanno visto la poesia con la “p” maiuscola eclissarsi in un fenomeno di massa. Era accaduto che lo sperimentalismo aveva aperto i rubinetti dell’improvvisazione e dell’interludio. La poesia diventa un fenomeno di massa, col risultato che un sempre maggior numero di autori si auto definisce poeta, ci si comporta da poeti, si richiede la dicitura di poeta. E la poesia rinasce come «poesia-confessione», «poesia della contestazione», «poesia dell’opposizione», «poesia visiva» «poesia corporale», come se il sostantivo da solo non bastasse a designare quella cosa misteriosa che si traduce in tanti vestiti linguistici che replicano le mode del momento in base ad una eclettica euforia espressiva, esibizione narcisistica, stilematica postavanguardistica ormai priva dei freni inibitori dello stile. Il Postmoderno fa irruzione nella società di massa, massificando ed omologando anche la poesia, anzi, rompe gli argini della forma-poesia della civiltà letteraria che si stava congedando, quella, tanto per intenderci dei Montale, dei Pasolini, dei Luzi, per dar luogo ad una pseudolirica informe ed abnorme. Anche Pasolini e Montale contribuiscono, indirettamente e contro la loro volontà, a favorire questo processo col non-stile dei loro ultimi libri e l’adozione di un «parlato» pseudo giornalistico. La prima fotografia di questo pubblico di massa che bussa alle porte della poesia è datata 1975 con l’antologia Il pubblico della poesia, nella quale i giovani curatori, Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, inseriscono un gran numero di autori diversissimi per stile e per maturità poetica. Si narra che leggendo l’antologia, e le autopresentazioni degli autori inseriti, Fortini abbia detto che questi nuovi letterati gli sembravano un po’ simili ai pittori, ormai incapaci di dar ragione della loro opera e di inserirla in un orizzonte culturale. Come notò Berardinelli, era visibile una dimidiata coscienza critica degli autori inseriti, ciascuno di essi si credeva poeta per il solo fatto di esserci. Si era in presenza di una democrazia poetica del tutto autoreferenziale. I presupposti, come notò Mengaldo, “restano quelli di una poeticità privatistica ed effusiva”.

In questo contesto, l’autopromozione diventa una attività a tempo pieno per quegli autori che vogliono differenziarsi dalla massa, ad essi spetta il premio della canonizzazione editoriale, un cronachismo lirico sempre più pervasivo egemonizza la koiné poetica colta. La «poesia privatistica» e l’autoreferenzialità delle pose poetiche di molti autori di punta monopolizzano il gergo poetico che diventa qualcosa di refrattario al senso dei lettori e, soprattutto, diventa un linguaggio corpo separato, un linguaggio per iniziati da profferire durante il rito sacro della rappresentazione orale. I poeti diventano la personificazione di atti di fede, e si comportano anche come tali. Surrogano la un tempo rigorosa costruzione dei testi con atteggiamenti, pose, liturgie, conformismi. L’aura perduta del testo viene interpolata e sostituita dal mito dell’Autore. L’Autore diventa il testo.

Mimmo Paladino

Mimmo Paladino

È in questo giro di anni che si forma la personalità intellettuale di Giuseppe Conte. La reazione del giovane poeta alla democratizzazione della poesia  è immediata e perentoria: rifiuto della massificazione della poesia e la ferma decisione di riproporre una poesia esoterica, mitica, panica, mitomodernista, innica che saltasse la democrazia lirica del decennio precedente per riagganciarsi alla tradizione del D’Annunzio dell’Alcyone, al Foscolo mitico e neoclassico, insomma alla più alta tradizione poetica italiana. Organizza  numerosi episodi mitomodernisti, tra i quali ricordo il convegno “La nascita delle grazie”, un evento organizzato a Riccione dai poeti Giuseppe Conte, Rosita Copioli, Mario Baudino, Roberto Mussapi, Tomaso Kemeny e da Stefano Zecchi. Il poeta ligure ripristina e persegue una poesia che inglobi in sé il Mito e lo «spirito dell’utopia». Scrive Conte nel Manuale di poesia del 1995: «la scomparsa della poesia dalle società occidentali non testimonia una crisi della poesia quanto una patologia di quelle società stesse». Il Novecento è «un secolo di nulla e di morte» (Lettera, 2000), di qui la sua polemica contro quei critici, come Ferroni, che teorizzavano negli anni Novanta una «poesia postuma», Conte polemizza contro la povertà della poesia, contro la demitizzazione della poesia, scrive che «la poesia non è mai stata postuma» (Poiesis 1997), e rivendica per essa un ruolo di guida, una funzione alta. Le Muse «sono correnti di energia vivente che ci richiamano il brivido sacro da cui tutte le arti nascono, lo scandalo, la persistenza del divino nella nostra mente (…) il poeta incontra le Muse ed ha commercio con loro». (Manuale di poesia)

Il primo libro di Conte, L’oceano e il ragazzo (1983) viene salutato da Calvino e da Citati come un libro di svolta della poesia italiana. Vi si trova tutto quello che caratterizzerà la poesia del poeta maturo: il mito del mare e della gioventù, il mito della natura, della fauna dei boschi, il tema del vento etc:

Ho dimenticato tutto, scrivo
perché dimenticare è un dono: non
desidero più che alberi, alberi, prode
di vento, onde che vanno e tornano, l’eterno
rinascere sterile e muto delle
cose

Mimmo Paladino

Mimmo Paladino

È una novità per la poesia italiana. Il timbro delle parole musicali, la voce antica ed austera, la positura certo non demotica, il tono oracolare-prosodico, tutto ciò viene subito interpretato dai contemporanei quasi come un’offesa alla poesia che si faceva in quegli anni, perpetrata ai danni di un pervasivo sperimentalismo. E poi il giovane poeta non perde occasione per sostenere le proprie tesi, di entrare con decisione nelle discussioni sulla poesia, ovunque se ne dia una occasione. Oggi, con il senno degli anni trascorsi, sopite le polemiche di quegli anni, possiamo tracciare una quadro più ponderato della poesia di Giuseppe Conte. Quella poesia era una novità, ma una novità che guardava al passato, che operava uno strappo e una ricucitura con la tradizione recente. Oserei dire che, paradossalmente, la poesia di Conte diventa oggi riconoscibile per via della sua irriconoscibilità; la sua lirica endecasillabica che apparve negli anni Ottanta una provocazione, in realtà riecheggiava quella della alta tradizione del primo Novecento, Conte gettava a mare tutte le impalcature ideologiche che gli ingombravano il passo e si lanciava, lancia in resta, contro le disordinate retroguardie degli sperimentalisti e degli epigonismi rilanciando una funzione risarcitoria, salvifica della poesia di contro alla cultura della barbarie e dello scetticismo.

Il successo arride da subito alla controproposta di Giuseppe Conte che, in una certa misura, viene incontro ad un bisogno diffusamente sentito di reazione alla invasione del post-sperimentalismo. Inoltre, Conte è anche un abile regista di una guerriglia a tutto campo contro le parole d’ordine ormai consunte degli sperimentalisti. E anche questo è un punto decisivo a suo vantaggio, coopta nella sua battaglia per la Bellezza e il Mito una numerosa schiera di poeti e di letterati e ne diventa l’alfiere e il condottiero. Fin qui la strategia pubblica. Per la poesia il discorso da farsi è più sfumato, quell’endecasillabo sonoro e modulato che il poeta ligure adopera con perizia acustica, è il portato di una tradizione illustre, il prodotto di una tradizione lunghissima che affonda le proprie radici fino alle Rime del Petrarca. Non apre una nuova stagione della poesia italiana, piuttosto la chiude, prosciuga i pozzi della tradizione lirica traducendo quella forma lirica in forma lirico-prosodica. Alla fine, al poeta ligure resterà uno stile inequivocabile, distinguibilissimo, maturo, un endecasillabo articolato, ricco di aggettivi e di sfumature coloristiche e acustiche, che non può, però, più essere sviluppato dall’interno, uno stile che d’ora in avanti si prolungherà, oserei dire, grazie alla propria forza d’inerzia. Infatti, le poesie del primo libro non presentano elementi di distinguibilità rispetto agli inediti di questi ultimi anni posti in calce al volume, segno che non c’è stata una peristalsi interna, non si sono verificati sviluppi in quello stile mirabilmente acquisito.

Il mio gusto personale guarda con interesse e favore alla poesia dei Canti d’Oriente e d’Occidente (1997), in particolare nelle parti in cui il poeta ligure abbandona il suo endecasillabo sonoro per abbracciare una forma prosodica aperta, la forma innica però dimidiata con l’ausilio di un pedale basso, quasi prosastico, con il che fa scaturire attriti tra la frase nominale piana e diretta e l’andamento della forma innica che tende a far lievitare verso l’alto il tonosimbolismo della frase nominale. È il modo personalissimo con il quale Conte whitmaneggia e omereggia, assume la posa e la voce del bardo, gonfia il petto e parla gridando a pieni polmoni. Ecco l’incipit del poema «Oh Omero, oh Whitman”:

Oh Omero, oh Whitman, che cosa celebrare, e come posso io ora celebrare, oh mondo, oh notte!

Come posso alzare questa voce avvilita, come posso riempire le cavità dei miei polmoni rattrappiti

e farne due cieli gonfi di nuvole che volano e di foglie invase e rose dall’autunno

e dire «io sono il poeta, il distruttore, io sono il poeta, colui che salva»

e vedere ancora con quale elastica immobilità gli alberi sono intermediari tra l’azzurro e la terra

e mettere il loro ritmo nella carne e nel sangue di un verso – perché ha sangue e carne un verso –

e sentire le città che si offrono alla poesia come una bocca si offre a mille altre bocche in un bacio

e possedere le strade, le piazze, le automobili, le insegne della pubblicità, i grattacieli, le chiese

i ponti, le strade, le cupole, le colonne, i portici, i tetti, i grandi magazzini, i cinema

essere tutti i passanti, i negri, i cinesi, i maghrebini, gli indiani, i rasta, i vietnamiti, gli slavi

sentire tutto vivente come potrebbe essere se in noi la nostra anima cantasse ancora, oh mondo, oh notte!

E io, l’uomo più arido, più solo, io che non credo, io che conosco le vie della disperazione

e io, l’uomo più arido, più libero, io che non faccio nient’altro che fermare parole su un foglio

come potrò aggiungere le mie parole alla distruzione – perché la poesia è rovine, resti, ormai

Non sono d’accordo con chi, come Giorgio Ficara, nella prefazione al volume, individua nella poesia di Conte «una poetica ostinatamente antinovecentista», anzi, al contrario, direi che la ricerca del poeta ligure si è mossa ordinariamente tutta all’interno del Novecento, con l’accortezza di ritagliarsi un proprio segmento di esso che da D’Annunzio passa per Sbarbaro di Pianissimo al Montale degli Ossi rivisto e corretto tramite un «riduttore» narrativo ospitando il traliccio del racconto mitico, per arrivare ad un neoclassicismo tutto suo. C’è, è innegabile, una continuità novecentista, non vedo l’utilità ermeneutica di doverla negare o dimidiare.  E in questa continuità sta, a mio avviso, la forza e il successo del magistero stilistico di Giuseppe Conte. Indubbiamente, quel progetto stilistico di «uscire dal Novecento» (Poiesis, 1997) caldeggiato in più occasioni dal poeta ligure, rimarrà una nobile aspirazione, quel progetto di sortire fuori dal «conformismo dell’arco costituzionale della poesia italiana» (Poiesis, 1997), è rimasto un progetto incompiuto, e non poteva essere diversamente, in considerazione che la via imboccata e perseguita da Giuseppe Conte era tutta all’interno della poesia novecentesca. Per quel Grande Progetto è mancata la forza e la profondità dello strappo, ma, probabilmente, non poteva e non può un poeta singolo, anche il più grande, operare uno strappo di tale portata. Conte ha tentato una rifondazione del linguaggio poetico, ma i tempi non erano forse maturi per questo progetto. Siamo arrivati ormai ai giorni nostri, e quel Grande Progetto, lucidamente intravisto dal poeta ligure, è rimasto incompiuto ed attende ancora oggi chi possa incaricarsi di doverlo riproporre.                                    

Giuseppe Conte

Giuseppe Conte

Giuseppe Conte

Parole estranee a sua moglie

Saranno state le due le tre l’altra
mattina quando sono entrato nel letto e ti ho
parlato. Tu dormivi e ho premuto la
mia palpebra contro la tua calda. Volevo
dirti parole che ci sono estranee, quelle
dell’amore che eterna: era tragica
la mia resa: le regole del gioco cadute. Così dietro
le nostre palpebre non gli occhi, le orbite. Le
nostre dita di pietra i nostri fianchi fondali e
laghi i nostri piedi fluiti e ormai viticci
e nidi per le civette. Non saremo più
insieme. Non ne parleremo mai più. Futuri
venti soffieranno sulle nostre finestre dal mare
lontano noi saremo topi meduse
fiori.

Animali etruschi

Entrano nella morte con i capelli
raccolti dietro la nuca, in un sorriso
prosciugato, abbandonati
su un fianco, inclini a scendere
senza ricordi, hanno mani
estranee, cadute; in molti reggono
lo specchio dentro la destra.

entrano dove non si muore più. Traversano
buio e profondità. riaffiorano
sugli orli di un mare smosso da delfini
volanti, da draghi, da quadrighe
di grifoni.

Non fu un «uomo» questo che vedi sgretolato
in foglie, cortecce, calcinacci, intorno
a un teschio. Fu gioia senza nome, leggera,
di pietre, di ali, di sole.

*

Il grifone dal becco d’aquila, dal corpo
smagrito, più di cane che di destriero,
calato sul dorso del cervo tenero
lo divora.

Ha dorso arcuato il cervo, gambe
di canna. Cade eppure non piange. La sua corsa
finisce davanti al silenzio
di un albero – foreste
nascono da un solo albero, avrà acacie
d’oro e mattini per sé ancora.

Il grifone ha occhi vuoti, ali
ferme, randagio ma ormai di pietra;
non odia, non vuole nulla, non sa
perché: uccidere per lui è un sogno
inevitabile.

Che cos’era il mare

Che cos’era il mare? Aveva
code d’acqua e zampe d’acqua tra le
rocce, levigava i ciottoli, faceva
sigle di luce sulla sabbia: era
profondo ma insensibile, si diceva, e
celibe, individuale, sterile.
In onde riottose o calme
maree saliva e discendeva, circondava
le terre, lui lunare, lui freddo, irriducibile
nel suo votarsi al movimento e all’aridità.
Le navi lo solcavano in lunghe scie.
Ora si è persa la memoria delle tempeste
e dei fari, dei velieri e dei transatlantici, dei
naufraghi, dei carichi di porpora e
di carbone, di Tiro, di Londra.
Era profondo ma insensibile, si diceva, dimora
delle conchiglie, delle famiglie dei
pesci, estinte, ora: aveva fondali viscidi, crateri e
alghe, e coralli.
Tagliava i promontori, reggeva le isole.
Giocava, lui muto, sprezzante, inservibile,
felice nei suoi movimenti
vitali.

da L’Oceano e il ragazzo, Rizzoli, Milano, 1983

Giuseppe Conte cop

Riaverti

È così facile riaverti?
ritrovarti anche dopo l’abbandono
dopo che ti ho derisa, che ti ho detto
odiosa, e che imputavo a te la grazia
mancata di ogni carezza e di ogni bacio.
Oh, allora lo volevo essere un daino
solitario nell’alba, che sa puntare
le narici al tepore di calendula
dei primi raggi. E ti scacciavo, come
se tu fossi infedele al mio desiderio
tu che di tutti i desideri sai
la fonte. Ora sei tornata.
Sei nuova e sei con me, vicina,
anima.

da Dialogo del poeta e del messaggero, “Il Nuovo Specchio” Mondadori, 1992

Giuseppe Conte

Giuseppe Conte

Alle origini

Riaverti così, sentire
in me che tu sei simile
al vento e agli anemoni.
Alle origini. Riaverti
dopo il tempo dell’abbandono
dopo gli oltraggi e l’odio
senza pentimenti, senza perdono.
Sono stato lontano da te
per anni come uno che
vuole essere solo, più
solo di un muro diroccato
più immobile di un sasso
che non lambisce il mare.
Poi abbiamo incominciato a viaggiare.
Dove ci siamo incontrati,
anima? In che piazza di
città, in che prato,
in riva a che torrente?
E ora sei qui, da sempre
simile al vento, ai fiori, ai vulcani.
Alle origini.

da Dialogo del poeta e del messaggero, “Il Nuovo Specchio” Mondadori, 1992

In endecasillabi

A sedici anni, lettore poiché era giusto
allora soltanto di Catullo e di Shakespeare
scrissi per una compagna di liceo
versi come «Nessuna donna mai
fu amata tanto,/ quanto tu sei…»
Dio, non sapevo niente di donne, di amore.
Quella ragazzina bruna, dalle labbra
sporgenti, gli occhi grandi come
due albicocche, ci erano usciti tutti
con lei, fuorché io, il suo cantore.
Io la guardavo, sperduto. Come avrei
voluto abbracciarla, tempestarle
il capo di quel segreto che erano i baci.
Io la guardavo a scuola, per strada,
la domenica alla messa nella Chiesa
detta dai frati. Poi tornavo a casa, aprivo
i libri, Lesbia, Rosalinda, Ofelia
e lei, e i sogni su lei, in endecasillabi.

.
Pallide, cedevoli ragazze inglesi

Da ragazzo, quando mi apparivano
polvere e assurdo il mondo e il mio volto
né alberi né mare mi parlavano.
Non sapevo come chiamare
le agavi torreggianti, il rosso raccolto
in spighe dell’ aloe, non avevo
occhi per loro. Ma leggevo i poeti.
E amavo pallide, cedevoli
ragazze inglesi. Le sognavo nei quieti
e lunghi pomeriggi d’inverno, ricordavo
i baci ricevuti e quelli promessi
e se l’angoscia – quella ineludibile
angoscia d’esser vivi, cui forse è pari
soltanto la gioia in intensità –
se non mi soffocava allora, era per
loro, Mallarmé, Baudelaire,
per la loro musica vera,
e per le pallide, cedevoli ragazze inglesi.

da Dialogo del poeta e del messaggero, “Lo Specchio” Mondadori, 1992

mimmo paladino

mimmo paladino

C’è una dolcezza giù nella vita
IX
C’è una dolcezza giù nella vita
che non cambierei con niente
di ciò che appartiene al cielo.
È quando chissà da che, perché cominciano
fra due bocche estranee sino ad allora
i miracoli tiepidi d’aurora
dei baci.

da “Canti di Yusuf Abdel Nur”, in “Giuseppe Conte, Canti d’Oriente e d’Occidente”, “Il Nuovo Specchio” Mondadori, 1997

1

Non finirò di scrivere sul mare.
non finirò di cantare
quello che c’è in lui di estatico
quello che c’è in lui di abissale
la sua vastità disumana
senza pesantezza, senza un vero confine
la sua aridità senza sete, senza spine
le sue forme in perenne mutamento
sottomesse alle nuvole, al vento
e al cammino in cielo della luna.
Non ne conosco, non c’è nessuna
cosa più docile e più feroce
più silenziosa e più roca
più malleabile e turbolenta
di te, mare.
Ti piace contraddirti perché sei libero
e per i liberi. Ti piace ridere
sotto il bianco tiepido soffio del levante
ti piace saccheggiare con le libecciate
e piangere con nere palpebre tagliate.
Hai visto civiltà passare, quante?
Molto prima degli uomini e degli imperi
molto prima delle montagne e delle foreste
tu eri là.
Celebravi le tue solitarie feste.
Hai visto le triremi dei cartaginesi
le galee armate dai genovesi
numerose come stelle, alte come torri
le navi che portarono in Islanda
i vichinghi fuggiaschi che raccontò Snorri
Sturluson con le sue fisse metafore.
hai visto i polipi scindersi e gemmare
meduse su meduse nei fondali,
i naufraghi invano cercare
tra ghiacci e gorghi la salvezza
e non hai mai mosso un dito per loro,
hai accolto nel tuo silenzio buio i relitti,
li hai incrostati, protetti,
sei un vecchio padrone cinico
una madre troppo carezzevole
sei un amante incestuoso
sei un onanista, un asceta.

e se ti contraddici, è perché sei libero
e per i liberi, non hai dato all’uomo
la possibilità di recintarti, di venderti
di fare di te lotti, proprietà
hai dato fiori di luce senza frutti
hai dato ricchezze, hai dato lutti
ma mai tutto te stesso.
Di te nessuno può dire: sei mio.
Sei di tutti e di un esiliato dio.
Non servi, non ti inchini
se non alla legge delle maree
che un metronomo cosmico ha definito.
Ti amano i solitari, i lussuriosi
che trovano in te tutte le sinuosità
tutte le vischiosità del piacere
ti amano gli increduli, i cercatori
d’oro e di niente,
gli esseri tenuti in scacco da un insano
desiderio di conoscere l’eterno grazie al presente
ti amano i visionari, gli avventurieri,
tu non sei per chi è statico e appagato
ti amano i disperati, prigionieri
di un sogno che non si è mai avverato.

Inedito da Poesie (1983-2015) Oscar Mondadori 2015

Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino Gezim Hajdari 2015 Bibl Rispoli

da dx Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino e, a sx Gezim Hajdari Roma presentazione del libro “Delta del tuo fiume” aprile 2015 Bibl Rispoli

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi tra cui Nelly Sachs e alcune poesie di Georg Trakl. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma con Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto.
Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio PilatoMimesis, Milano Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000 – 2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e Three Stills in the Frame Selected poems (1986-2014) Chelsea Editions, New York. nel 2016 cura l’Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo, sempre nello stesso anno pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Ha fondato la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  – Il suo sito personale è: http://www.giorgiolinguaglossa.com

e-mail: glinguaglossa@gmail.com

14 commenti

Archiviato in Crisi della poesia, critica della poesia, Poesia contemporanea, poesia italiana del novecento

14 risposte a “Giuseppe Conte POESIE SCELTE da “Poesie 1983-2015” Oscar Mondadori pp. 372 € 22 “Il progetto novecentista del poeta ligure”, il “Grande Progetto”, “La fuoriuscita dal Novecento”, “La funziona risarcitoria e salvifica della poesia”, con un Commento di Giorgio Linguaglossa

  1. gabriele fratini

    Conte non ha creato un proprio stile, ha privilegiato l’attenzione alle tematiche e alla pulizia del linguaggio, a certi contenuti “antichi” che sappiano coinvolgere il lettore. Ma ha ridato un minimo di ordine, insieme ad altri, in un periodo di totale anarchia della bruttezza poetica: dopo Balestrini, l’ultimo Zanzotto, il secondo Montale, l’enigmatico Sanguineti, la noia dei lombardi “allineati”, l’incomprensibile Rosselli e lo sfacelo del terzo o quarto o quinto PPP transumanante, guardo più che favorevolmente a questo poeta ligure vissuto ai margini degli schemi, non supportato né dalla sinistra né dai cattolici, né dalle avanguardie né dai “figli di Caproni”, e che è riuscito a ricavarsi il suo spazio da più di trent’anni in quest’ambiente sempre più ostile, incattivito e ridimensionato della poesia. Un saluto.

  2. attanasio cavalli

    Questa “poesia” di Conte non l’ho mai trovata così singolare rispetto ad altri poeti della sua epoca; per me si inscrive senza poi dare risaltare più di tanto nella piattezza generale… è ovvio che ci sianto state delle ecccezioni
    ma i suoi versi non fanno parte di queste eccezioni, e non sono eccezionali affatto come tanti dicono, compreso, qui, il commentaore.

  3. Gentile Attanasio Cavalli,

    mi scusi ma lei mi mette in bocca parole che io non ho mai scritto, non ho scritto che i versi di Conte siano «eccezionali», ho fatto un ragionamento sul tardo Novecento e sulla posizione della poesia di Conte in quel contesto, si può essere d’accordo o no, totalmente o parzialmente con la mia traccia critica, ma se si è in disaccordo sarebbe bene tentare di argomentare il perché non si è d’accordo senza avventurarsi in dizioni genericiste come “piattezza generale” e “singolare”, che sono espressioni legittime a livello del senso comune ma non sono appropriate in sede di commento critico di un percorso di poesia che dura dal 1983.
    Io ritengo invece che la poesia di Conte sia un tutt’uno con la sua poetica e la sua ricerca di un “Progetto” di “uscita dal Novecento”. Ecco, mi sembra che questo merito vada riconosciuto a Giuseppe Conte, per l’ampiezza di orizzonte che questa intuizione rivela e per le ricadute concettuali di una tale posizione di poetica. Il tentativo di riabilitare la metafora e il Mito, anche qui, a mia opinione, mi sembra che Conte abbia un grande merito per la poesia del tardo Novecento e di questi ultimi anni: quello di aver spezzato un tabù che ha pesato negativamente per lo sviluppo della poesia italiana recente.

  4. Pasquale Balestriere

    Non posso dire di aver letto molto di Giuseppe Conte, ma, per quelle che sono le mie conoscenze, sento di condividere la posizione di Gabriele Fratini. Conte ha costruito un suo percorso poetico senza clamori ed isterismi, senza scelte radicali o eversive, perfettamente consapevole di quanto sia aberrante e controproducente rifiutare in toto ogni esperienza poetica del passato e di come nel passato covi e maturi ogni germe del futuro. La sua poesia mi pare tenere tranquillamente una sua strada autonoma, secondo me notevole per la capacità del poeta di dominare l’atto creativo.
    Pasquale Balestriere

  5. Una poesia “tranquilla” senza chissà quali alzate di ingegno o ricerca di effetti speciali istrionici. Suo pregio e suo limite.

  6. attansio cavalli

    Gentile Linguaglossa: nessuna parola sua in bocca (non) scritta da Lei. “eccezionale” si riferisce a come fu accolta la poesia del Conte allora, cioè come un qualcosa di straordinario: “viene salutato da Calvino e da Citati come un libro di svolta della poesia italiana”: affermare questo è riconoscere come alcuni giudizi siano fuorvianti e sono legati a gruppi di potere egemoni: Resto del parere che ho espresso sopra… la poesia del Conte non mi è estranea e come il 95% della poesia italiana finirà nel dimenticatoio, o meglio nell’inghiottitoio del nulla, e questo è peggio!
    Quanto riguarda il signor Balestriere che scrive “secondo me notevole per la capacità del poeta di dominare l’atto creativo”.- bisogna domandarsi prima cosa significa “atto creativo” il quale può esser letto negativamente: creare malamente! La Poesia ha bisogno invece di “clamori ed isterismi”: non vedo in queste manifestazioni nulla di limitativo! E quanto a spezzare “tabù” spesso è controproducente: la continuità in un errore è una iterazione che alla Poesia non nuoce: se si persegue nell’errore significa anche che ancora di può spremere, altrimenti non si ha nulla da dire!
    Un poeta disse: “Vedete come sono tranquillo, come il polso di un defunto”… che stia tranquillo il Conte con la critica tranquilla!
    Grazie e una prece per tutti

  7. Pingback: Giuseppe Conte ~ Animaux étrusques | L'ambre & L'abeille

  8. Pasquale Balestriere

    « … bisogna domandarsi prima cosa significa “atto creativo” il quale può esser letto negativamente: creare malamente! La Poesia ha bisogno invece di “clamori ed isterismi”: non vedo in queste manifestazioni nulla di limitativo! »
    Signor “Attanasio Cavalli”, se lei non riesce a capire che cosa possa significare “atto creativo” nel contesto di una discussione letteraria, sono affari suoi; e, se questo fosse il caso, bene farebbe ad andare a leggersi Topolino. Quanto al resto, la poesia non ha assolutamente bisogno di clamori ed isterismi, e neppure di velleitarismi e barocchismi, che a lei sembrano piacere tanto; non ha bisogno di ostensioni né di protagonismi, egoismi, egotismi; la poesia non ha bisogno di interpreti sguaiati e pittoreschi come le ràbule antiche. Capisce? La poesia è una cosa seria. E Giuseppe Conte ne è interprete valido, onesto, autorevole.
    Aggiungo che ho molto apprezzato il commento di Giorgio Linguaglossa. Di notevole spessore critico.
    Pasquale Balestriere

  9. attanasio cavalli

    Signor Balestriere,
    LEi di Poesia non comprende molto, non sa nemmeno cosa sia, poi che ha bisogno anche di tutto ciò che Lei invece rifiuta. Lei non possiede una “tendenza” alla Poesia, poi che non è un poeta, affatto! Quanto riguarda il commento del Linguaglossa non ho affatto criticato negativamente, anzi tutto il contrario! Topolino? e perché no, meglio che leggere quanto scrive:l apoesia onesta? autorevole? valida? Non sa quelche scrive!

  10. Pasquale Balestriere

    Constato che ho messo il dito nella piaga, se lei replica con espressioni così insolenti. E lo fa servendosi di uno pseudonimo, perché, come spesso le accade, “dimentica” di firmarsi con il suo vero nome, che non è certo “Attanasio Cavalli”. Le segnalo che i cavalli sono animali nobili, a volte addirittura purosangue. Mica sono ronzini.
    Lei, dico lei, pseudo- Attanasio-Cavalli, di per sé già comico, diventa addirittura esilarante quando mi accusa di non sapere quello che scrivo. Il bello è che l’accusa viene da chi -come lei, appunto- non scrive correttamente due righe in prosa neppure sotto minaccia di carcere duro, litiga platealmente con l’italiano, vi inciampa continuamente fino a cadere rovinosamente (perché -lo sa?- lei non finisce mai di stupirmi per le sue corbellerie linguistiche). E pretende di fare … il poeta? Può ingannare chi crede che le sue -diciamo così- invenzioni morfosintattiche siano licenze poetiche e le sue crasse elucubrazioni siano poesia, mentre invece ….
    Quanto a me, non so se sono un poeta, egregio signore. Spero di esserlo. Però, però una laurea in arte poetica me l’hanno comunque data, senza che io abbia brigato per averla. E, chissà perché, ho conseguito molti primi premi in concorsi di poesia. Non credo che sia tutto e sempre un fatto casuale. Tuttavia nutro costantemente, in particolare nei miei confronti, qualche ombra di saggio e salvifico dubbio. Condizione che proprio non la riguarda, anzi neppure la sfiora, visto che lei, con altro nome ( e con sicumera smodata e burbanza incallita), farcisce ogni angolo di questo blog con un profluvio lutulento di parole e di immagini, tetre e opprimenti, forzate e istrionicamente esibite fino all’inverosimile.
    E per di più, a confermarmi le sue (scarse) competenze nel settore del patrio idioma, lei ha sbagliato anche l’interpretazione dell’ultima frase del mio precedente intervento. Infatti, nell’ apprezzamento per il commento di Linguaglossa non c’era, da parte mia, alcuna allusione a quanto scritto da lei. Insomma, sì, lei non c’entrava nulla.
    Ancora una volta, egregio signore, ha semplicemente equivocato. E anche questo le capita spesso.
    In ultimo, come ho già scritto una volta, le confermo che io, pur avendo molto da imparare da altri, non ho nulla, ma proprio nulla da apprendere da persone come lei (ci mancherebbe altro!) sia nel campo della poesia che in quello della letteratura. E, naturalmente, della lingua italiana
    Impari a stare al suo posto, per favore. E sia anche un po’ più umile, ché non le farà male. Anzi.
    Pasquale Balestriere

    • Giuseppe Conte

      Ringrazio Gabriele Fratini e Pasquale Balestriere per i loro commenti pacati sul mio lavoro poetico, quanto ad Attanasio Cavallo Vanesio, non ho niente da rispondere al suo ego così gonfio

  11. Una possibile via di uscita dal novecento poetico italiano

    Durante gli anni Novanta del Novecento con la rivista “Poiesis” (fondata nel 1993 e durata fino al 2006) iniziai a sostenere l’idea che si dovesse uscire dal novecento poetico italiano conservando su un piano più alto le sue conquiste imprescindibili, ma in quegli anni, morirono delle collaboratrici di valore: Giorgia Stecher nel 1996 e Maria Rosaria Madonna nel 2002 e non trovai altri protagonisti che potessero supportarmi nell’idea di una uscita dal novecento. Già Giuseppe Conte, in quegli stessi anni, aveva sostenuto il progetto di una uscita dal novecento sedizioso che scorgeva nella dicotomia di lirica e antilirica e di avanguardia e retroguardia le direttrici in base alle quali costruire il discorso poetico. Va riconosciuto quindi al poeta ligure un merito indiscutibile: quello di aver indicato una possibile via di uscita dal novecento poetico italiano. Il progetto non era di facile esecuzione, anch’io condividevo e condivido tuttora quel progetto, ma ci sono voluti trenta anni per iniziare a metterlo in pratica, con la nuova ontologia estetica quel progetto ha trovato una soluzione, quant’anche parziale e non esaustiva a detta di alcuni, ma comunque quel progetto è oggi una via percorribile e attendibile.
    Oggi il discorso è diventato più complesso per i molteplici fattori, nazionali e internazionali, a causa della pandemia del Covid e la guerra di invasione dell’Ucraina. Una guerra cambia la disposizione delle cose e le cose, quelle cose che fino a ieri ci apparivano sotto un certo punto di vista, oggi ci appaiono diverse.

    Una fame di riconoscibilità, una sete di omologismo. Il problema cui si trova davanti la poesia di oggi è quello di una forma-poesia riconoscibile. Gli scrittori e soprattutto i «poeti» mirano a creare qualcosa di immediatamente riconoscibile e identificabile. Il problema di una forma-poesia riconoscibile, è sempre quello: se l’«io» sta in un luogo, immobile, anche l’«oggetto» sta in un altro luogo, immobile anch’esso.

    Il discorso poetico diventa un confronto tra il qui e il là, tra l’io e il suo oggetto, tra l’io e il suo doppio, e il discorso lirico assume un andamento lineare. Ma, se poniamo che l’oggetto si sposta, l’io vedrà un altro oggetto che non è più l’oggetto di un attimo prima; di più, se anche l’io si sposta di un metro, vedrà un oggetto ancora differente, anche posto che l’oggetto se ne fosse stato fermo nel suo luogo tranquillamente per un bel quarto d’ora. E così, il discorso lirico (o post-lirico) si può sviluppare tra due postazioni in stazione immobile. Altra cosa è invece se le due posizioni, ovvero, i due attanti, cambiano il loro luogo nello spazio; ne consegue, a livello sintattico, un moto di ripartenza, di stacco e di arresto e, di nuovo, di stacco. Avremmo una poesia che non si muove più secondo un modello lineare ma secondo un modello non-lineare. Voglio dire che già Mallarmé aveva distrutto il modello lineare dimostrando che esso era una convenzione e null’altro e, come tutte le convenzioni, bisognava derubricarla e passare ad uno sviluppo non più lineare ma circolare della poesia.

    Gran parte della poesia contemporanea che si fa in Europa parte da un assunto acritico: dalla stazione immobile dell’io, con l’io al «centro del mondo», attorno al quale ruota tutta la fenomenologia degli oggetti; in modo consequenziale i giri sintattici, anche se di illibato nitore e rigore metrico, si dispongono in modo lineare, come tipico di una tradizione recente: l’io di qua e gli oggetti di là, in un costante star-di-fronte.

    Questo tipo di impostazione, intendo quello della stazione immobile dell’io e della distanza fissa tra l’io e gli oggetti, conduce, inevitabilmente, al pendio elegiaco. L’elegia ti costringe a cantare la «distanza». L’elegia è tipicamente consolatoria. In definitiva, il dialogo tra l’io ed il suo oggetto si rivela essere un dialogo posizionale, posizionato, «convenzionale». Infine, chiediamoci: che genere di poesia scrivere in un’epoca afflitta, come scrive Ewa Lipska, da «eccesso di memoria»? E non è questa la domanda cruciale che si pongono anche i poeti della «nuova ontologia estetica», magari in forma invertita, come «decesso o oblio della memoria»?

    • Giuseppe Conte

      Caro Linguaglossa, di nuovo grazie per l’attenzione e per la passione teorica che ti anima, e che io ho sentito per tutto il corso della giovinezza, e che continuo a sentire, interrogandomi , avendo sempre più dubbi che certezze, ma anche più sogni e speranze che dubbi (Il mito greco e la manutenzione dell’anima).

  12. caro Conte,

    il tuo libro, L’oceano e il ragazzo (1983), è un’opera che spezza la riconoscibilità della forma-poesia di quegli anni, perché amplia il suo raggio di investigazione, ripristina la cantabilità della struttura metrica, introduce il mito quale linea di forza primigenia che è presente anche nella poesia del mondo di oggi, un mondo privo di mito, dove parlare di «manutenzione dell’anima» è quasi un fuori-discorso. La forza di una forma-poesia la si può misurare, con qualche idea di attendibilità, a distanza di tempo quando cambiano le coordinate storiche e stilistiche, e tu sei senza dubbio un poeta trasversale, che taglia le coordinate poietiche degli ultimi quattro decenni di poesia. Tu sei un poeta dell’Occidente, quell’Occidente europeo che oggi sembra aver smarrito la propria identità e la propria riconoscibilità. Ezio Mauro nelle pagine odierne di “Repubblica” si chiede come sia potuto avvenire che noi qui in Occidente non siamo più in grado di distinguere, riferendosi alla guerra in Ucraina, l’aggressore dall’aggredito. In poesia è accaduto in questi ultimi decenni qualcosa di analogo: non siamo più in grado di distinguere una forma innovativa da una epigonica, tutte le parole che oggi sembrano offrirsi gratis appaiono scambiabili ed equidistanti. Il mondo ci appare avvolto in una gran commistione di disinformazia, e la forma-poesia dei poeti delle ultime generazioni non sembra esente da questa generale deriva, si cerca l’immediata riconoscibilità, ci si adegua al presente delle scritture egemoni. In queste condizioni la poesia sembra languire…

    Ha scritto Francesco Cataluccio in un commento del 18 marzo:

    «La Russia è europea, ma non occidentale. Il Giappone è occidentale, ma non europeo. “Occidentale” significa stato di diritto, democrazia, proprietà privata, mercati aperti, rispetto per l’individuo, diversità, pluralismo di opinioni, e tutte le altre libertà di cui godiamo, che a volte diamo per scontate. A volte dimentichiamo da dove vengono. Ma l’Occidente è questo.

    Ha scritto Lucio Tosi il 18 marzo 2022:

    «Ma a volte non si capisce, specie nella poesia kitchen, dove si voglia andare a parare. La causa di uno scontento, la traccia di un’aspirazione, la costante di un sentimento, mai esplicitati razionalmente (l’aura o l’ologramma di una poesia è spesso ignota all’autore), sono misteriose risultanti.»

    Vincenzo Petronelli ha scritto il 30 marzo 2021:

    «La poetica Noe denuncia esattamente questo vuoto di significato, che ormai contrassegna il lessico tradizionale e quindi la produzione letteraria e poetica che da essa discende, perché non rappresenta più il reale ed il reale stesso, peraltro è sfaccettato, frantumato in diverse direzioni, indirizzato verso nuovi paradigmi, non più riconducibili al dominio dell”IO”. Il reale è esattamente nella stessa situazione di frantumazione che abbiamo analizzato per i simboli religioni, per mancanza di una rappresentazione simbolica.
    E’ proprio in quest’interstizio che si pone la Poetry kitchen, andando a ripescare i residui di quel reale frantumato, tra i meandri dimenticati del quotidiano, tra i cocci dell’arrembaggio di un capitalismo sempre più finanziario e sempre manufatturiero, che genera gli oligarchi ed i nani di corte che stanno devastando il nostro esistente. Modestamente, la Poetry kitchen, cerca di restituirne i contorni del naufragio e ri-semantizzarli in una nuova cosmologia semantica, in un nuovo paradigma di significati».

    Ha scritto Marie Laure Colasson il 15 marzo 2022:

    «Nella poesia kitchen il pensiero logico-sequenziale, di tipo “alfabetico”, sembra essere stato in buona parte sostituito da un tipo di pensiero nello stesso tempo “olistico” e “multi-tasking”.
    Il dizionario Garzanti scrive che con multi-taksing «si dice di sistema operativo (informatico) in grado di eseguire contemporaneamente più programmi alternando il tempo dedicato all’esecuzione di ciascuno di essi.
    Etimologia: ← voce ingl.; comp. di multi- ‘multi-’ e il v. to task ‘assegnare un compito’.»

    Lo spettro della Poetry kitchen

    Uno spettro si aggira per il mondo della poesia di accademia che si fa in Italia… Lo spettro della poetry kitchen
    Possiamo perimetrare il luogo vacante del soggetto a misura dell’insuccesso della simbolizzazione

    Il detto secondo cui «l’io non è più padrone in casa propria», significa che l’io è uno straniero a se stesso, che nella soggettività si annida una alienazione primaria non eliminabile

    non possiamo pensare nulla che preceda il linguaggio, il Reale appare, da un lato come una eccentricità interna ad esso, dall’altro come un eccedente della struttura linguistica

    La parola è il cavallo di Troia, una volta che fa ingresso nella città delle parole, si perde nelle strade più svariate, e il significante è il suo cavaliere che crede ingenuamente di guidare il cavallo secondo i suoi desideri, ma si inganna

    Il Reale in sé non è assolutamente nulla, è semplicemente un vuoto nella struttura simbolica che segnala una impossibilità. Il Reale non equivale a qualcosa di esterno che non si lascia catturare dalla rete simbolica ma rappresenta la smagliatura stessa all’interno di tale rete.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.