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Il mondo di Giorgia Stecher (Messina, 14 luglio 1929-Trento, 24 aprile 1996), a cura di Marisa Armato, con Dieci poesie inedite da Pagine poetiche sparse

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Mario De Biasi_ 1954 foto d’epoca

Il mondo di Giorgia Stecher, di Marisa Armato

Il mio incontro col mondo di Giorgia risale ai miei primi anni universitari quando, assetata di poesia, leggevo versi, anche quelli pubblicati sui periodici locali, che andavo ricopiando su vecchie agende. Una, in particolare, mi colpì così tanto da indurmi a ritagliarla e custodirla gelosamente tra le pieghe del mio portamonete:

Se tu fossi nato qui
al riverbero di questo mare turchino
che lo scirocco perennemente increspa
con infaticabile respiro
forse capiresti questa nostra
mania di vivere sul bagnasciuga
tra l’azione l’incuria
e la forte propensione allo sbadiglio
Altrove dove la tramontana
sferza il viso ai passanti
e le brume diffondono
provvidenziali grigiori
si va di fretta per procacciare
colori alla giornata
ma qui nell’abbaglio del sole
l’unica tentazione è nel dormire
come gatti al calore
gli artigli sono solo per l’incauto
che osi turbare il sonno

Questi versi, titolati «Messina», portavano in calce appuntate le iniziali G. S. senza altra notizia dell’Autore. Conoscevo, allora, la Signora Palermo (col nome del marito) per il suo impegno nel sociale profuso instancabilmente nelle periferie urbane, zone marginali della città ma mai avrei potuto immaginare che tali sentimenti, espressi con forte incisività e da me pienamente condivisi, potessero appartenerle. Di tanto in tanto li andavo rileggendo scoprendovi la bellezza del paesaggio, l’amore per il mare e i caratteri tipici dell’esser siciliano.
Quale fu la mia gioia, molti anni più tardi, nel ritrovarli nel volume di poesie, titolato Non la terra, 1983 (Ed. Il Vertice). Quel che mi colpì fu lo scoprire che erano stati scritti da una poetessa messinese, dal cognome straniero parente alla lontana di Alfonso Gatto e di Bartolo Cattafi: «due indimenticabili maestri ed amici con i quali condivise il tormento/amore per il sud», ai quali l’Autrice dedica la raccolta.
Fu Lucio Zinna, nella premessa, ad indicarmi la chiave di lettura di «questa poetessa autentica… il cui impegno sociale è pari all’impegno letterario, di un modo solo di essere nell’esistenza» e a farmi collegare il volto familiare con i versi amati.
Avevo intuito, in questa scelta di poesie (nove in tutto), le lotte contro i «mulini a vento» in questa «Piccola città»:

Queste facce straviste
nei barbagli psichedelici
dei fortuiti incontri.
Queste sagome uguali
che pure mutano col cauto giro
delle mode e degli anni.
Queste idee che traspirano
da grinte instupidite
per il lungo cercare solo assensi
negli occhi vuoti del prossimo
e barlumi da predare
per microscopiche scalate.
Ogni giorno che passa
io rinnego la vostra realtà
ed altre banchine anelo
dove altre facce crescono
in humus più fecondo

…come capivo quel suo e mio essere pesce fuor d’acqua…

Non la terra appiccicata al fondo
delle scarpe di questo suolo
senza più radici.
Non le strade dove un’orma
non dura né un ricordo.
Non gli uomini rassegnati
ad un lento morire senza storia

(Non la Terra) …

verso altri lidi dirigendo il volo
vedremo rifiorire la speranza.
Forse planeremo leggeri
sulle dolci pianure
liberi dalle catene vischiose
dei pesanti retaggi

(Forse).

E come realisticamente, con ironia serena ma amara, aveva descritto i «Siculi»:

Continueremo ancora
ad ammiccare
parlarci con un cenno
tra le ciglia
e sosterremo a scudo
la furbizia ciascuno
per suo conto
coperto e cautelato.
Armi a breve gittata
adotteremo nell’ambito
del singolo
e stringeremo paglia
tutti insieme
come è stato da sempre
in saecula saeculorum.

Avevo condiviso con Giorgia il desiderio di partire, portando pesantemente nella valigia l’amore per questa terra – ho fatto l’emigrante culturale – e, come una malia, il desiderio di tornare, che diventava sempre più forte dopo ogni lontananza, mi ancorava alle mie battaglie:

Chi l’avrebbe mai detto che poi
arrivasse un giorno in cui partendo
io non chiedessi che di ritornare
perché il partire più ambito non è
per altri luoghi ma è il partire
da sé dai propri spettri

(«Tornando da Parigi»).

E scoprire, come per incanto, l’antica saggezza- gemma preziosa del suo e del mio cuore-la bellezza del mare:

Dove vai per il mondo/ se la fetta più bella l’hai davanti/ cosa cerchi oltre la gioia degli occhi/ che non guasta bellezza (Dal Parnaso) …

Il paesaggio unico dello stretto, i colori, i profumi, i miti, la magia:

La calamita che attira qui è l’acqua di mare,
l’acqua di mare turchino
balenante
con cui vive in simbiosi la mia pelle
e quella montagna verde oltre lo stretto
eterna meta
a cui mi piace tendere le braccia

(Non la Terra) … sì proprio questo color d’oro del tramonto, questo specchio di mare con barche e scilla e cariddi fata morgana mito…

foto d'epoca 3

foto d’epoca di nudo

Questo paesaggio incantato, che guardava ammaliata dal balcone di casa su al Parnaso, dalle maioliche di color verde- molto più tardi, aprendomi da amica anche il suo mondo, le ritrovai reali e non un mero artificio poetico- e che aveva reso eterno in versi, come lo scatto di una fotografia, apparteneva a noi «Eredi del Sole» consanguinei degli dei sonnacchiosi sempre e remoti/ immuni dalle voglie poliedriche degli uomini (Dal Parnaso), scoprendo di condividere con lei anche l’amore per il mare, metafora della vita, sempre mutevole, immenso, insondabile… il mare del canto delle sirene ammaliatrici, degli abissi, di Colapesce, di fata Morgana, del faro, della barca, delle reti, del vento, dell’isola che non c’è, del porto, della vela, dei relitti, dei naufragi… il mare colore del vino, dorato o argentato, sacro nell’eterno ciclo, non a caso a chiusura della raccolta campeggiava nella pagina bianca: La porta verde della Chiesa è il mare… un verso, un verso soltanto di Alfonso Gatto.

Incominciai, così, a leggere di Giorgia anche gli scritti letterari, oltre quelli strettamente poetici, che, di tanto in tanto, come gemme preziose uscite dallo scrigno, faceva uscire sulla rivista “Issimo” (Ed. Il Vertice) di cui faceva parte della redazione e sulla terza pagina della Gazzetta del Sud, come collaboratrice, apprezzando l’eleganza dello stile e la sua capacità di cogliere, da grande conoscitrice dell’animo umano, gli aspetti più nascosti degli argomenti che andava ad analizzare.
In particolare dell’edizione Minerva piccoli testi di poesia, titolata «Fotograffiti», sei poesie in tutto: «Mi porto in giro», «Radiografie», «Basta un soffio da nulla», «I lacchè», «Foto di Anna», «Foto di gruppo con zia Nata», mi colpì la prima nella quale, con pochi versi come pennellate, dipingeva la sua vita:

Mi porto in giro un corpo leggero
lievitato alla fatica del vivere
che ancora adesso raramente s’inceppa
nei disagi del viaggio che s’inerpica
baldanzoso sopra i dossi sale e scende
scalini predilige le marce sulle distanze
lunghe. È l’anima invece che stanca
di far da vela o propellente alle volte
s’affloscia e s’inzavorra. Occorre
che nuovo vento la sospinga perché tenda
ai suoi fiati i mille nodi

col pensiero conclusivo, breve ma significativo, di Carmelo Pirrera, editore, amico e curatore della collana: «Graffiando la vernice di un “quotidiano” di finto e a volte patetico decoro, Giorgia Stecher in componimenti lucidi e attenti, dove l’ironia dosata con mano accorta e garbata o corrosiva presenza, perviene ad immagini inedite di un mondo che pure è sotto gli occhi di ognuno». E ricordo, ancora oggi, una frase di Mario Luzi che aveva particolarmente colpito Giorgia, in un suo incontro col Poeta, da riportarla integralmente sul ben noto quotidiano locale: «l’artista è chiamato a qualcosa, a una richiesta della sua natura a cui lui deve rispondere attraverso la porta dell’autenticità e della legittimazione che lo autorizza a interpretare anche gli altri».
E in Giorgia tutto è autenticamente vero!
Quale gioia provai molti anni dopo – anch’io ero stata invitata come poetessa ad una nota manifestazione letteraria – quando si sedette al mio stesso tavolo. Le confessai timidamente di portare, da anni sempre con me, la poesia «Messina» e gliela mostrai.
Giorgia, con quel suo sorriso del quale si vestiva come nei giorni di festa, non fu per nulla sorpresa della cosa. Mi confessò che le poesie camminavano da sole per strade diverse dalle sue. Scrisse su questo anche una poesia, titolata «Versi», che trovai nel volumetto Il conto in rosso, uscito postumo:

I versi che ho scritto camminano
per me con gli stivali delle sette
leghe. Io ferma: Loro di già
approdati in altra terra
senza ch’io ne sapessi.
A volte mi tornano per bocche
sconosciute che di loro mi parlano
ed io resto stranita per ciò che
a sentir quelle hanno svelato
cose mai transitate dalla mente e che
saranno sfuggite mio malgrado dal secretaire
di cui custode gelosa mi credevo
ineccepibile e parsimoniosa.

Da allora, marzo 1986, ebbe inizio la nostra amicizia, un sodalizio artistico e affettivo unico, fatto di amore per la poesia dei sentimenti, delle piccole cose, della lotta quotidiana, del desiderio di fermare il tempo, della ricerca della bellezza sia essa manifestazione della natura che interiore, schiva da ogni bassezza o compromesso che invita, nonostante tutto, a sognare e a sperare in un’armonia universale, che è già certezza di eternità. Ci scambiammo i nostri libri e fu così che ebbi tra le mani il volume Qual Nobel Bettina Ed. Il Vertice, raccolta di poesie, ordinata da lei stessa e dedicata alla Madre, molte delle quali, già apparse in riviste ed antologie letterarie.
La sintesi di Dario Bellezza nella prefazione al testo: «anche la Stecher è alla fine una poetessa d’amore, d’amore sublimato nelle cose, e nei giorni, nella follia dei gesti ripetuti e imbalsamati nelle ore e nel secolo, ma tutti virtuosamente casti, non esibizionistici, un po’ timidi, forse talvolta reticenti, fieri di una sicilitudine antica e rimossa per un forte contatto con le atrocità della vita e della Storia», mi trovò concorde e, in particolare, questi versi mi toccarono il cuore:

E un giorno
diventerò patetica
quando con mani insicure
rovisterò il passato
per trovarvi l’appiglio
alla sopravvivenza
e nel sorriso dei figli
la condiscendenza annoiata scoprirò
che si riserva ai vecchi
e non saprò
se sia meglio morire
o aggrappati ai relitti
tenacemente resistere.
…. Voglio essere viva sulle ali
del mondo ora che il tramonto
si attarda nella piega dell’occhio
che la gola s’increspa nel riflesso
sfrontato dello specchio…

Ed ancora…

La felicità che stava nei miei occhi
non appena ti ho visto
contro il banco del bar
– Andiamo altrove a prendere il caffè?-
La felicità che stava nella mia mano
che stringeva la tua
– stringimi la mano ti prego –
La felicità che mi girava attorno
mi sfiorò i capelli una volta
una sola volta lungo il corso
arrancante dei miei anni
La felicità che comparve e disparve
in un solo giorno imbarcatasi
con te nella stazione di Giardini
in un famelico treno…
La felicità che avremmo voluto
esistesse negli altri in noi
in un raggiungibile luogo
concreta e catturabile con nostre
minuscole reti ed invece
era la chimera dalle mille facce
quelle improbabili della nostra illusione

(Dalle Nebbie VII XI XIV)

L’Amico Emanuele Schembari – poeta scrittore, saggista – in un articolo apparso il 24/2/87 sulla Gazzetta del Sud, dal titolo Il poeta e le sensazioni minime Qual Nobel Bettina (1986), libro di Giorgia Stecher, ha saputo egregiamente cogliere l’anima di Giorgia, espressa nelle poesie di questa raccolta:

«…Quella della Stecher è una poesia giocata su sensazioni minime, suscitate da piccoli episodi, dall’osservazione del quotidiano, immersa in una realtà limitata, in apparenza, che cresce e finisce col rappresentare, tutta la drammaticità del vivere. La voce è dimessa, senza canto, senza compiacimenti, con versi al limite della prosa ma che, alla conclusione di ogni lirica, sfumano in struggente poeticità. L’autenticità della sua proposta è racchiusa nella parola, che tende a trasformarsi in una sorta di amara e malinconica autoironia. E le poesie appaiono come una serie di segmenti, appartenenti ad una lunghissima, non conclusa linea spezzata, nella sequenza logica delle idee, espresse in dialoghi senza risposte, in monologhi pensosi, in interrogativi ai quali, implicitamente si è già risposto…»

Come non trasalire leggendo i versi delle poesie «Non credo che tornino», oppure «Chissà chi muove i fili». ed ancora «Mi rimane», «Ripieghi», «Una fede» e «Alla poesia».
Istanti, frammenti, cocci di vita alla ricerca della felicità, con bilanci a perdere, in amore come donna (figlia-moglie-madre), nell’amicizia, nei rapporti con se stessa e con gli altri, nelle verità celate o sottintese, nelle battaglie sociali per la dignità dei simili, nel vortice dell’esistenza alla ricerca di un piccolo spazio dove custodire la magia delle attese, i sogni ad occhi aperti, i sassolini colorati e luminescenti raccolti per strada ….Momenti di eternità, registrati in un taccuino del cuore quasi a voler fermare il tempo, a rubare attimi di poesia alla

«zampata del tempo, fotogrammi scollati,/ spezzoni di vita vissuta o solo/ desiderata, paure sotterrate/ nei meandri dell’anima» (Sogni a Mantova). E mi appare una «bambina bellissima che circolava per casa e a cui tutte le fate/ regalarono doni / anche quella cattiva/ che qualcosa portò a nostra insaputa e in un posto recondito la mise» (Vedo vengo parto) con sogni, desideri, speranze naufragate/ …nel si deve e nel si può- non si può (La Frode), e poi la vita fatta di strade, di conti da saldare, di scelte, imposte o fatte per caso, o dettate dal cuore, che non lascia vedere oltre la speranza e l’illusione, verso porti vagheggiati, stazioni con valigie cariche di attese, «fatte e disfatte, i relitti degli amori passati… Il regno fantastico dov’ero / ad inseguir nuvole bugiarde o l’angelo del focolare», il quotidiano senza più un palpito d’amore (Donne), che fagocita ogni aspirazione, ogni partenza, ogni poesia dalle pagine accartocciate della vita. E ci si ritrova con le rughe in viso a fare bilanci che sono sempre in rosso perché la giovinezza è ormai inevitabilmente sparita con il suo scrigno magico ammaliatore e allora che resta, oltre l’amicizia sincera e rara di pochi, se non la poesia a farci continuare a vivere?

«Mi rimane quel poco che ho rubato/ all’ordine delle cose predisposte/ ai doveri sanciti nei consessi dei padri./ Svicolando dall’area dei tutori dell’ordine/ puntualmente maschi e trasgressori/ ho compreso l’ebbrezza del cleptomane/ nel sottrarre l’oggetto dal bazar./ Mi rimane quel poco che ho rubato/ all’angelo del focolare nell’icona/ quando riposte le ali ho camminato/ con i miei piedi pesanti sulla terra».

La poesia, come memoria, come «linea spezzata» da fissare nel tempo a noi stessi e agli altri, luoghi, affetti, momenti particolari che non si vogliono perdere perché fanno parte di noi e della nostra storia è il motivo recondito delle successive raccolte Album (Ed. Il Vertice) e Altre foto per Album (Scettro del Re) 1991, 1996 con l’inserimento di altri personaggi ed eventi da eternare in versi, «dove il dato personale, il riferimento autobiografico, il richiamo al quotidiano – grazie al garbo che è della scrittura – si fanno poesia, cioè pane che è possibile dividere con gli altri», come ha ben messo in evidenza Carmelo Pirrera, nella postfazione ad Album.

Sono sempre con me
quelli che se ne andarono
inghiottiti dal gelo della notte!
Alcuni sedevano miti sulla soglia
guardando il dispiegarsi degli eventi
in recondite stanze architettati
Altri solcavano la vita
col passo trionfante distribuendo
fulmini e blandizie tutti
però credendo di avere nel forziere
una fetta cospicua di minieternità.
Un turbine li spazzò via ad uno ad uno
nel volgere di un giorno!
Di loro ben poco è rimasto
oltre la cineteca del ricordo
a cui ho accesso io sola
ed all’antologia delle canzoni
che zufolo nell’intento di evocarli.

Mentre per Giorgio Linguaglossa, nella Postfazione ad Altre foto per Album:

«…la Stecher non vuole salvare il mondo, né riscattare la morte, l’arte può al massimo risarcire con una moneta fuori corso l’ingresso nel Nulla di un “piccolo mondo antico” spazzato via dalla intercapedine del Tempo, l’irrompere devastante di una modernità selvaggia…“il dignitoso commiato” di un’epoca … di una borghesia interrotta, prima del boom economico e rimasta senza il naturale ricambio generazionale. Mai nessun accenno al presente, soltanto il filo del ricordo che introduce ad uno ad uno i personaggi sulla scena del minuscolo teatro dei pupi. Dopo ogni comparsa cala il sipario».

Le foto di famiglia, alcuni avi morti nel terremoto del 1908 presenti all’obiettivo, sono l’unica «traccia del loro (nostro) breve passaggio in questo mondo», come chiarisce la stessa Autrice nell’apertura di Album, che si pregia di ben due «Autoscatti»: «uno si rivede da mamma prosperosa/ dalla predica facile…la ragazza coi fiori nei capelli/ e col cuore che canta/ oltre la convenzione dell’età/ la ragazza che inalbera/ una forsennata speranza/ malgrado tutto malgrado gli altri/ e voi cari figlioli che macinate/ implacabili il mio tempo», l’altro fa una descrizione di sé molto veritiera: «Non posso farci nulla sono svizzera/ l’orologio è il mio buttafuori/ l’amico che inflessibile mi lancia/ mi riprende mi stende mi appallottola,/ l’amico a cui son grata perché non mi gabella non m’illude/ nel suo ingranaggio m’include/ con scansioni assordanti».

Ma la mia preferita di questa raccolta non è «Raccontava mia Madre – ad Alfonso Gatto», dove Giorgia ironizza sull’origine della sua Musa ma è «Altra foto di mia Madre» per quella sorta di complicità tra le due vite accomunate dall’età e dalle sofferenze:

«Tu lo sai bene come non giunse al piano/ la mia strada e come tenera voce non mi avvolse./ Tu lo sai bene come il fiume del tempo/ lascia erose le rive e rami secchi/ ammassa lungo la foce./ Tu lo sai bene che mi vieni incontro/ nell’ombra maculata delle acacie/ il tuo vestito a pois sul fondo azzurro/ e l’alone dorato dei capelli mentre ti guardo/ spenta come oggi sei e ti vedo e mi vedo come siamo: Basta un lampo degli occhi/ per capirci».

«Quasi tutti i versi sono endecasillabi scanditi su un ritmo piano e perfino docile e invitano a seguire il dipanarsi delle figure in movimenti essenziali ed eleganti. Da qui l’impressione di entrare in un piccolo museo in cui sono raccolti sogni perduti e ritrovati, speranze, situazioni in atto, presenze della fantasia e presenze della realtà vissuta, E l’impressione si fa sempre più spazio d’una civiltà che non vuole rinunciare al retaggio del vecchio mondo ma è consapevole che il mondo sparirebbe se tutto fosse segregato e limitato». Ci fa notare Dante Maffìa, presentatore di questa singolare raccolta, nella quale è presente, oltre le notizie bibliografiche sull’Autrice con gli editi, anche una ricca bibliografia della critica.

Dal marzo 1986 Giorgia fu per me, oltre che amica, anche preziosa ed insostituibile collaboratrice per un progetto letterario dedicato ai giovani delle Scuole Medie Superiori e successivamente aperto a tutti i poeti: il Premio di poesia “Mario Rappazzo”. Sua fu l’idea della poesia inedita e di un premio nazionale condividendo con me gli amici poeti, critici e scrittori. Fu componente effettiva dal 1993 al 1995; a lei anche il compito della stesura dei giudizi sulle poesie vincitrici. Intanto alternava periodi via via sempre più lunghi tra Messina e Trento quando ci incontravamo -ora di rado- era sempre sorridente, non mostrandomi segni di sofferenza o di cedimento anzi quando ci sentivamo telefonicamente la voce era serena e calda come sempre. Nascondendomi fino alla fine la gravità del suo male, mi dettò per telefono i giudizi critici poco prima di lasciarci.
Di tanto in tanto leggevo sue poesie pubblicate su antologie; trovai bellissima «Tramonti» pubblicata nel 1993 in La Musa dentro (Blu di Prussia Ed.) e poi trovata ne «Il conto in rosso» (Ed. Il Gabbiano):

«Come s’imbruma il dorato riverbero
del mondo e come le campane smettono di suonare!
Il tramonto comincia
con questo inabissarsi delle luci
con queste piccole porte che si chiudono
tante le mani che già si ritraggono
lasciando segni nell’aria del loro
breve cenno di saluto e se appena
ti volti più non li vedi i visi
i luoghi le sagome le orme…

e la poesia «Lettera»:

Sapessi come mi coccolo adesso
come mi crogiolo al sole in lunghi
break di pigrizia come faccio chilometri
per procurarmi una chicca
come carpisco al volo ciò che la vita
conduce, l’attimo in cui spillare
il bene dissimulato tra le anse del male
come sorrido anche quando non potrei
come ridimensiono le mie voglie
e come mi accontento anche dell’ora
rubata alla routine e al guardiano del faro
su in garitta che dietro il fascio
di luce forse mi cerca.

Consapevole del mutamento esterno operato dal male, che incalzava inesorabilmente, nascose tra le mura di un ospedale a Trento la fragilità e l’incertezza dell’attesa, rubando al tempo non più padrona di se stessa, frazioni infinitesimali e rovistando con mani insicure il passato per trovarvi un appiglio per continuare a tener testa al desiderio di lasciarsi andare con l’unica vera compagna della sua vita: la poesia «che si ricordi di me di tanto in tanto e che mi faccia cenno e che mi chiami per rinverdirmi l’idea d’esser viva» (Alla Poesia).
Il 24 aprile 1996 Giorgia è salita in punta di piedi, come era nel suo stile, sull’ultimo treno senza binari né fermate destinazione obbligata: il guardiano del Faro; il datore della luce, del mare, della bellezza è là che l’aspetta, un breve cenno della mano alzata: la sua voce come sussurro di vento ci lascia il suo «Commiato» (dicembre 1995), indirizzato alla sua amica del cuore, Giulia Perroni, il suo testamento spirituale che non è un addio ma un ritrovarsi nell’autenticità della sua poesia che ce la rende viva, ancora oggi, in mezzo a noi e in noi.

                              a Giulia

Tutto mi serve 
la parola dorata che bussa alla mia porta
Un sorriso dell’anima che mi giunga da te
da chicchessia.
Non son più la padrona di me stessa com’era
fino a ieri, altro padrone subdolo mi abita
adesso rubo qualche giorno ai giorni e non so
fino a quando potrò farlo. Il tempo
in fondo al tunnel è come una nebulosa che mi attende
dovrò per forza entrarci prima o poi e in quel nulla
dissolvermi salutati gli amici: te dentro il tuo giardino
gli altri e tutti che compagni mi furono nel bene
qualcuno anche nel male veramente ma quello
non l’ho visto che in un lampo, era te
che inseguivo e quelli come te rari e lontani
perduti in mille sogni di bellezza.

(Marisa Armato,  gennaio 2019)

Giorgia Stecher volto

Dieci poesie da Pagine poetiche sparse

Io volo sul filo del giorno

Io volo sul filo del giorno
come il gabbiamo sull’onda.
Non più mi appartengono
le ore chiare del sole
che con pane ed affetti
ho barattato.
Chi mai mi presterà
l’attimo imprescindibile
per carpire dal branco guizzante
la rondine d’argento
senza affondare le ali
nell’acqua inquinata?

.

L’illusione

dove sono le snelle ragazze
d’ambra che nei giardini a mare
correvano con me nei meriggi
abbacinati d’agosto?
Aiuole a rosmarino e odore di
salsedine dai flutti sbriciolati
sul parapetto di granito.
E dove quella coi capelli
di sole, viola gialla
tra un mazzo di viole?
In un fagotto di donna per via
ti ho intravisto, compagna
dei giochi andati col vento
della sera o tra le pieghe
di uno stanco viso, il tuo sorriso.

.
Ringraziamento

Anche questo ti devo
magnifica trivella della mia anima
che tanto in fondo hai scavato
da raggiungere la linfa segreta
che in oscuri rivoli
si disperdeva.
Attonita attingo alla fonte
in cui si muta questa vena di poesia.
Ruscello, torrente, fiume impetuoso diventa!
Sconvolgi le uniformi trame
di questo mio vivere all’ombra
nel cantuccio in cui mi sospinsero
risacche di timidezze e di pudori,
e liberami, liberami,
travolgimi nel turbinio spumoso
della tua acqua chiara
che corre verso il mare!
ho rivisto, primavera.
Ma voi non eravate certamente,
io non conosco queste signore
grevi che dicono con me
di aver giocato.
Non ditelo!
Levigati e tersi ancora i volti
che i miei specchi riflettono
al mattino ed agili le membra
che avviano il motore.
Non ditelo, io non conosco
queste grevi signore!

.

Dall’asse della mia retta parallela

Dall’asse della mia retta parallela
guardo alla tua e vivere ti vedo
ma ciò che vedo
un miraggio è solo
ché se tendo una mano per toccarti
in dorato pulviscolo
l’immagine dilegua.

suprema ottusità dell’illusione
se altri prima di noi hanno sancito
che mai si toccheranno
due rette parallele.

.

All’ellisse del tuo volo

All’ellisse del tuo volo
d’ape inquieta
tra fiori senza nettare,
il bandolo ho legato
dei segreti pensieri.
Con l’eco del tuo nome,
son sicura,
io ridarò alle stelle
nell’ora del commiato
la flebile mia voce
perché nulla di magico
ho mai avuto
oltre al tuo sguardo d’amore
in un piovoso meriggio.

.

Tu mi parli

Tu mi parli con voce sommessa
e da distanze lunghe.
Onde sonore m’investono
di aggrovigliati bisbigli
che decifrar non posso.
parlami chiaro e forte
che l’eco delle parole
si propaghi e risuoni
per le mie stanze vuote
dove da troppo tempo
io vivo in quest’attesa;
allora solamente risponderò,
allora solamente.

.

Le case delle suore

Le case delle suore hanno facciate bianche
e grandi finestre verdi
che sempre chiuse stanno.
All’interno esse hanno un patio ombroso
con qualche macchia di sole
e sale silenziose dove tra i pochi arredi
disposti all’intorno con molta simmetria,
campeggiano la statua della santa protettrice,
il ritratto della fondatrice, del papa,
il gruppo delle consorelle;
e corridoi lunghissimi, odorosi e lucenti
che l’occhio poi smarrisce
perché forse svaniscono in cielo.
çe case delle suore hanno canti bellissimi
con voci di fanciulle e accordi di pianole,
tutte cose che altrove non si trovano più;
e vi aleggia una quiete, un sapore d’antico
in cui qualcuna delle mie radici
nei momenti d’angoscia ancor oggi s’inoltra.
O case delle suore che restate,
chissà cosa sarebbe della pace che avete
se le grandi vostre finestre di speranza
voi dischiudeste al mondo.

.

Mille volte

Mille volte abbiamo annodato
i fili del nostro patto d’amore
e mille volte li abbiamo disciolti.
Pazienza folle che solo
gli schizofrenici invidiarono,
dannato gioco di vecchi bambini
in cui s’incenerirono
tutti i più verdi abeti
delle nostre finestre.

.
Il platano

Un albero hanno lasciato in via Brasile
dentro un cortile tra i nuovi palazzi;
un platano gigantesco superstite retaggio
di un’epoca remota, posto colà a vegliare,
con l’ombra sua possente, case di pescatori
e reti e nasse.
Il coraggio di abbatterlo è mancato
ai vandali solerti del creato
e lo si può vedere tra tre spigoli,
spezzati i rami, spiumati ed adattati
in quell’esiguo spazio in cui l’hanno costretto.
Delle sue antiche fronde una ne resta,
ad un sopravvissuto cielo protesa,
le irte bacche e le palmate foglie a sostenere.
Quel platano son io, tutte le donne siamo:
da quell’esiguo spazio in cui ci hanno costretto
a più liberi cieli proteso il superstite ramo
nel trionfo fiorito
di tutte le sue bacche e le sue foglie.

.

Il necrologio

Il necrologio diceva:
“Sposa e madre esemplare
dedicò la sua vita
al culto della famiglia”.
Conosco il tipo:
tutte le cure ai pochi fiori
della sua piccola serra
da sfoggiare sull’abito più bello;
neanche un po’ d’acqua
ai campi abbandonati e riarsi
dietro il muro alto della casa.

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Gino Rago e Mario M. Gabriele sull’Antologia di Poesia dell’Epoca della stagnazione spirituale, Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016 pp.352 € 18) a cura di Giorgio Linguaglossa VERSO UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA – I poeti del Presente ablativo – con Nove poesie di Maria Rosaria Madonna. PRESENTAZIONE DELLA ANTOLOGIA Venerdì, 21 ottobre h 17.30, All’ALEPH, Vicolo del Bologna, 72 ROMA

Antologia cop come è finita la guerra di Troia non ricordo

Gino Rago

VERSO UN NUOVO PARADIGMA POETICO

La Introduzione di Giorgio Linguaglossa non lascia margini ad ulteriori dubbi: si è chiusa in modo definitivo la stagione del post-sperimentalismo novecentesco, si sono esaurite le proposte di mini canoni e di mini progetti lanciati da sponde poetiche le più diverse ma per motivi, diciamo, elettoralistici e auto pubblicitari, si sono esaurite la questione e la stagione dei «linguaggi poetici», anche di quelli finiti nel buco dell’ozono del nulla; la poesia italiana sembra essere arrivata ad un punto di gassosità e di rarefazione ultime dalle quali non sembra esservi più ritorno. Questo è il panorama se guardiamo alle pubblicazioni delle collane a diffusione nazionale, come eufemisticamente si diceva una volta nel lontano Novecento. Se invece gettiamo uno sguardo retrospettivo libero da pregiudizi sul contemporaneo al di fuori delle proposte editoriali maggioritarie, ci accorgiamo di una grande vivacità della poesia contemporanea. È questo l’aspetto più importante, credo, del rilevamento del “polso” della poesia contemporanea. Restano sul terreno  voci poetiche totalmente dissimili ma tutte portatrici di linee di ricerca originali e innovative.

Molte delle voci di poesia antologizzate vibrano, con rara consapevolezza dei propri strumenti linguistici, in quell’area denominata L’Epoca della stagnazione estetica e spirituale, che non significa riduttivamente stagnazione della poesia ma auto consapevolezza da parte dei poeti più intelligenti della necessità di intraprendere strade nuove di indagine poetica riallacciandosi alle poetiche del modernismo europeo per una «forma-poesia» sufficientemente ampia che sappia farsi portavoce delle nuove esigenze espressive della nostra epoca. Innanzitutto, il decano della nuova poesia è espressamente indicato nella persona di Alfredo de Palchi, il poeta che con Sessioni per l’analista del 1967, inaugura una poesia frammentata e proto sperimentale, una linea che, purtroppo, rimarrà priva di sviluppo nella poesia italiana del tardo Novecento ma che è bene, in questa sede, rimarcare per riallacciare un discorso interrotto. Un percorso che riprenderà Maria Rosaria Madonna con il suo libro del 1992, Stige, forse il discorso più frammentato del Novecento, dove il «frammento è l’intervento della morte dell’opera. Col distruggere l’opera, la morte ne elimina la macchia dell’apparenza»(T.W. Adorno Teoria estetica, 1970 Einaudi).

Un discorso sul «frammento» in poesia ci porterebbe lontano ma ci aiuterebbe a collocare certe opere del Novecento, come quella citata di de Palchi con l’altra di Maria Rosaria Madonna.

In un certo senso, questa Antologia vuole riallacciare un «discorso interrotto», collegare i «membra disiecta», capire le ragioni che lo hanno «interrotto» per ripartire con maggiore consapevolezza da un nuovo discorso critico della poesia del secondo Novecento. Forse adesso i tempi sono maturi per rimettere al centro della poesia italiana del secondo Novecento poeti come Alfredo de Palchi, Angelo Maria Ripellino ed Helle Busacca, ma anche Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher ingiustamente dimenticati. Ne uscirebbe una nuova mappa della poesia italiana. In fin dei conti, questa Antologia vuole essere un contributo per la rilettura della poesia del secondo Novecento.

Se c’è una unica chiave di lettura della poesia del Presente essa sta, a mio avviso, nello spartiacque rispetto alle Antologie storiche come Il pubblico della poesia del 1975 a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli che apriva ad un’epoca della «poesia-massa» e ai poeti «uomini di fede», non più «intellettuali» a tutto tondo come quelli della precedente generazione poetica. I poeti dell’epoca della stagnazione sono dei solisti e degli isolati, sanno di essere fuori mercato e fuori moda, sanno di essere dei reperti post-massa e ne accettano le conseguenze: Annamaria De Pietro, Carlo Bordini, Renato Minore, Lucio Mayoor Tosi, Alfredo Rienzi, Anna Ventura, Antonio Sagredo, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone, Steven Grieco-Ratgheb,  Edith Dzieduszycka, Mario M. Gabriele, Stefanie Golisch, Ubaldo De Robertis, Guglielmo Aprile, Flavio Almerighi, Gino Rago, Giuseppina Di Leo, Giuseppe Talìa (ex Panetta)sono autori non legati da rapporti amicali o di gruppo, personalità indipendenti che si sono mosse da tempo e si muovono ciascuna per proprio conto ma in direzione d’un eurocentrismo «critico » e dunque proiettate oltre la crisi, oltre Il postmoderno, oltre il problema dei linguaggi poetici epigonici.

Alcuni autori fanno una poesia del presente ablativo (Flavio Almerighi, Giulia Perroni, Luigi Celi, Adam Vaccaro, Antonella Zagaroli), altri adottano lo scandaglio mitico del “modernismo” europeo:  si  guarda a  narratori come Joyce con l’Ulisse, a Salman Rushdie con Versetti satanici (1998), a T.S. Eliot con La Terra Desolata, ma anche a Mandel’stam, Pasternak, Cvetaeva, agli svedesi Tomas Tranströmer , Lars Gustafsson, Kjell Espmark, ai polacchi Milosz, Herbert, Rozewicz, Szymborska, Zagajewskij, si rivisitano alcuni miti da traslare nello spirito del contemporaneo. Poesia che adotta il  metodo mitico come allegoria del tempo presente (Rossella Cerniglia, Francesca Diano, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago) con esiti notevoli. Si tratta di autori nuovi ma non più giovanissimi né nuovissimi, l’aspetto più appariscente è l’assenza dei poeti delle nuove generazioni, e questo è un elemento degno di essere sottolineato e approfondito che consegno alla riflessione dei lettori.

C’è una diffusa consapevolezza della Crisi dei linguaggi e della rappresentazione poetica quale dato di fatto da cui prendere atto e ripartire; sono i poeti «abilitati dalla consapevolezza della frammentazione dei  linguaggi e della dis-locazione del soggetto poetante» – come giustamente segnala Giorgio Linguaglossa in Prefazione – sono i poeti antologizzati che spingono il metodo mitico nella forma del «frammento», accelerando la crisi di quell’ «Io» non più centro unificante delle esperienze, né più unità di misura del reale, ma ente frantumato, disgregato della realtà nella quale una certa «coscienza» di ciò che è da considerarsi «poetico» è tramontata forse irrimediabilmente ed ha smesso d’essere luogo della sintesi. L’«io» è stato de-territorializzato definitivamente, e di questo bisogna, credo, prenderne atto e tirarne le conseguenze.

Direi che la nuova poesia guarda con interesse ai nuovi indirizzi della fisica teorica, della cosmologia, della biogenetica, in una parola pensa ad una nuova ontologia del poetico

Roma, agosto 2016

Ulteriori, importantissime notizie  possono essere attinte dalle preziose meditazioni critiche di Luigi Celi intorno a Come è finita la guerra di Troia non ricordo  su altre voci poetiche di rilievo presenti  nell’Antologia di Poesia Italiana Contemporanea, postate su L’Ombra delle Parole del 18 luglio 2016.

https://lombradelleparole.wordpress.com/?s=luigi+celi

Postilla di Giorgio Linguaglossa  VERSO UN NUOVO PARADIGMA POETICO

Cambiamento di paradigma (dizione con cui si indica un cambiamento rivoluzionario di visione nell’ambito della scienza), è l’espressione coniata da Thomas S. Kuhn nella sua importante opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) per descrivere un cambiamento nelle assunzioni basilari all’interno di una teoria scientifica dominante.

L’espressione cambiamento di paradigma, intesa come un cambiamento nella modellizzazione fondamentale degli eventi, è stata da allora applicata a molti altri campi dell’esperienza umana, per quanto lo stesso Kuhn abbia ristretto il suo uso alle scienze esatte. Secondo Kuhn «un paradigma è ciò che i membri della comunità scientifica, e soltanto loro, condividono” (La tensione essenziale, 1977). A differenza degli scienziati normali, sostiene Kuhn, «lo studioso umanista ha sempre davanti una quantità di soluzioni incommensurabili e in competizione fra di loro, soluzioni che in ultima istanza deve esaminare da sé” (La struttura delle rivoluzioni scientifiche). Quando il cambio di paradigma è completo, uno scienziato non può, ad esempio, postulare che il miasma causi le malattie o che l’etere porti la luce. Invece, un critico letterario deve scegliere fra un vasto assortimento di posizioni (es. critica marxista, decostruzionismo, critica in stile ottocentesco) più o meno di moda in un dato periodo, ma sempre riconosciute come legittime. Sessioni con l’analista, invece, invitava a cambiare il modo con cui si considerava il modo di impiego della poesia, ma i tempi non erano maturi, De Palchi era arrivato fuori tempo, in anticipo o in ritardo, ma comunque fuori tempo, e fu rimosso dalla poesia italiana. Fu ignorato in quanto fu equivocato.

Dagli anni ’60 l’espressione è stata ritenuta utile dai pensatori di numerosi contesti non scientifici nei paragoni con le forme strutturate di Zeitgeist. Dice Kuhn citando Max Planck: «Una nuova verità scientifica non trionfa quando convince e illumina i suoi avversari, ma piuttosto quando essi muoiono e arriva una nuova generazione, familiare con essa.”

Quando una disciplina completa il suo mutamento di paradigma, si definisce l’evento, nella terminologia di Kuhn, rivoluzione scientifica o cambiamento di paradigma. Nell’uso colloquiale, l’espressione cambiamento di paradigma intende la conclusione di un lungo processo che porta a un cambiamento (spesso radicale) nella visione del mondo, senza fare riferimento alle specificità dell’argomento storico di Kuhn.

Secondo Kuhn, quando un numero sufficiente di anomalie si è accumulato contro un paradigma corrente, la disciplina scientifica si trova in uno stato di crisi. Durante queste crisi nuove idee, a volte scartate in precedenza, sono messe alla prova. Infine si forma un nuovo paradigma, che conquista un suo seguito, e una battaglia intellettuale ha luogo tra i seguaci del nuovo paradigma e quelli del vecchio. Ancora a proposito della fisica del primo ‘900, la transizione tra la visione di James Clerk Maxwell dell’elettromagnetismo e le teorie relativistiche di Albert Einstein non fu istantanea e serena, ma comportò una lunga serie di attacchi da entrambi i lati. Gli attacchi erano basati su dati empirici e argomenti retorici o filosofici, e la teoria einsteiniana vinse solo nel lungo termine. Il peso delle prove e l’importanza dei nuovi dati dovette infatti passare dal setaccio della mente umana: alcuni scienziati trovarono molto convincente la semplicità delle equazioni di Einstein, mentre altri le ritennero più complicate della nozione di etere di Maxwell. Alcuni ritennero convincenti le fotografie della piegature della luce attorno al sole realizzate da Arthur Eddington, altri ne contestarono accuratezza e significato.

Possiamo dire che quell’epoca che va da L’opera aperta di Umberto Eco (1962) a Midnight’s children (1981) e Versetti satanici di Salman Rushdie (1988) si è concluso il Post-moderno e siamo entrati in una nuova dimensione. Nel romanzo di Rushdie il favoloso, il fantastico, il mitico, il reale diventano un tutt’uno, diventano lo spazio della narrazione dove non ci sono separazioni ma fluidità. Il nuovo romanzo prende tutto da tutto. Oserei dire che con la poesia di Tomas Tranströmer finisce l’epoca di una poesia lineare (lessematica e fonetica) ed  inizia una poesia topologica che integra il fattore Tempo (da intendere nel senso delle moderne teorie matematiche topologiche secondo le quali il quadrato e il cerchio sono perfettamente compatibili e scambiabili) ed il fattore Spazio. Chi non si è accorto di questo fatto, continuerà a scrivere romanzi tradizionali (del tutto rispettabili) o poesie tradizionali (basate ancora su un concetto di reale e di finzione separati), ovviamente anch’esse rispettabili; ma si tratta di opere di letteratura che non hanno l’acuta percezione, la consapevolezza che siamo entrati in un nuovo «dominio” (per dirla con un termine nuovo).

Giorgio Linguaglossa Gino Rago

G. Linguaglossa e G. Rago

Appunto di Mario M. Gabriele

La recente antologia di Giorgio Linguaglossa: Come è finita la guerra di Troia non ricordo. Poesia italiana contemporanea, Edizioni Progetto Cultura, 2016, non appartiene a nessuna di quelle pubblicate nel Secondo Novecento, in quanto ha una sua specifica particolarità, che è quella della diversità progettuale, al di là dei consueti sistemi linguistici omologati. Questa antologia ha il pregio di essere un ventaglio poetico aperto a tutto campo, rispetto alle antologie generazionali e sperimentali degli anni Settanta-Ottanta. Essa si collega, senza preclusione alcuna, nelle diverse proposte poetiche, mai ferite dal pregiudizio, e da qualsiasi altra interferenza. Il curatore ha operato un proprio sistema di “guida” per immettere la poesia nel giusto raccordo anulare. Nel Postmoderno la poesia ha cambiato il proprio cromosoma. Il locus preferito è un fondo senza fondo, dal quale risalgono  in superficie  i detriti fossili e linguistici. È forse questo il vero senso di appartenenza della poesia: essere per non essere. In questo repertorio vengono alla luce modelli diversi fra loro, per sensibilità, stile e provenienza culturale, come un laboratorio fenomenologico di spezzoni del nostro vivere quotidiano, distanziato da qualsiasi affiancamento all’emozione, fatta evaporare dalle attuali condizioni di crisi economica e mondiale, che si riflettono poi sulla poesia. Allora si può ben dire che l’operazione antologica di Linguaglossa non ha nulla a che vedere con le periodizzazioni dei vari Cortellessa e nipotini universitari, e con qualsiasi procedimento di repressione e omissione di nomi e opere, in quanto trattasi di autentico disvelamento di voci e opere poetiche che hanno ridato dignità e fiato alla parola, con un nuovo rinascimento linguistico, che non esclude l’acquisizione delle figure grammaticali percepite for its own sake and interest, (al di là e al di fuori del significato delle parole”. (Hopkins). I poeti presenti sono: Flavio Almerighi, Guglielmo Aprile, Carlo Bordini, Luigi Celi, Rossella Cerniglia, Alfredo de Palchi, Annamaria De Pietro, Ubaldo De Robertis, Francesca Diano, Giuseppina Di Leo, Edith  Dzieduszycka, Mario M.Gabriele, Stefanie Golisch, Steven Grieco-Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Maria Rosaria Madonna, Renato Minore, Giuseppe Panetta, Giulia Perroni, Gino Rago, Alfredo Rienzi, Antonio Sagredo, Lucio Mayor Tosi, Adam Vaccaro, Anna Ventura, e Antonella Zagaroli, che formano un mosaico poetico dai molteplici riflessi espressivi.

Infine, una parola sul titolo Come è finita la guerra di Troia non ricordo, ci porta all’interno della problematica dell’oblio dell’Essere e dell’oblio della Memoria, tipica della nostra civiltà tecnologica. L’Epoca della stagnazione stilistica e spirituale diventa in questa antologia l’accettazione e l’esaltazione della pluralità degli stili e dei modelli, riconquistata libertà da ogni ipotesi di forzosa omogeneizzazione stilistica per motivi che con la poesia nulla hanno a che fare. Un ventaglio di proposte poetiche di alto valore estetico che è un grande merito aver valorizzato e riunificato in una Antologia veramente plurale.

Poesie di Maria Rosaria Madonna (1940-2002) comprese nella Antologia

Sono arrivati i barbari

«Sono arrivati i barbari, Imperatore! – dice un messaggero
che è giunto da luoghi lontani – sono già
alle porte della città!».
«Sono arrivati i barbari!», gridano i cittadini nell’agorà.
«Sono arrivati, hanno lunghe barbe e spade acuminate
e sono moltitudini», dicono preoccupati i cittadini nel Foro.
«Nessuno li potrà fermare, né il timore degli dèi
né l’orgoglio del dio dei cristiani, che del resto
essi sconoscono…».
E che farà adesso l’Imperatore che i barbari sono alle porte?
Che farà il gran sacerdote di Osiride?
Che faranno i senatori che discutono in Senato
con la bianca tunica e le dande di porpora?
Che cosa chiedono i cittadini di Costantinopoli?
Chiedono salvezza?
Lo imploreranno di stipulare patti con i barbari?
«Quanto oro c’è nelle casse?»
chiede l’Imperatore al funzionario dell’erario
«E qual è la richiesta dei barbari?».
«Quanto grano c’è nelle giare?»
chiede l’Imperatore al funzionario annonario
«E qual è la richiesta dei barbari?».
«Ma i barbari non avanzano richieste, non formulano pretese»
risponde l’araldo con le insegne inastate.
«E che cosa vogliono da noi questi barbari?»,
si chiedono meravigliati i senatori.
«Chiedono che si aprano le porte della città
senza opporre resistenza»
risponde l’araldo con le insegne inastate.
«Davvero, tutto qui? – si chiedono stupiti i senatori –
e non ci sarà spargimento di sangue? Rispetteranno le nostre leggi?
Che vengano allora questi barbari, che vengano…
Forse è questa la soluzione che attendevamo.
Forse è questa».

Parlano la nostra stessa lingua i Galli?

Si sono riuniti in Senato il Console
con i Tribuni della plebe
e i Legati del Senato… c’è un via vai di toghe
scarlatte, di faccendieri
e di bianche tuniche di lino dalle dande dorate
per le vie del Foro…
Qualcuno ha riaperto il tempio di Giano,
il tempio di Vesta è stato distrutto da un incendio
alimentato dalle candide vestali,
corre voce che gli aruspici abbiano vaticinato infausti presagi
che il volo degli uccelli è volubile e instabile
e un’aquila si sia posata sulla cupola del Pantheon
che sette corvi gracchiano sul frontone del Foro…
corrono voci discordi sulle bighe del vento
trainate da bizzosi cavalli al galoppo…
che il nostro esercito sia stato distrutto.

Caro Kavafis… ma tu li hai visti in faccia i barbari?
Che aspetto hanno? Hanno lunghe barbe?
Parlano una lingua incomprensibile?

E adesso che cosa farà il Console?
Quale editto emanerà il Senato dall’alto lignaggio?
Ci chiederà di onorare i nuovi barbari?
O reclamerà l’uso della forza?
Dovremo adottare una nuova lingua
per le nostre sentenze e gli editti imperiali?
Che cosa dice il Console?
Ci ordinerà la resa o chiamerà a raccolta gli ultimi
armati a presidio delle nostre mura?
Hanno ancora senso le nostre domande?
Ha ancora senso discettare sul da farsi?
C’è, qui e adesso, qualcosa di simile a un futuro?
C’è ancora la speranza di un futuro per i nostri figli?
E le magnifiche sorti e progressive?
Che ne sarà delle magnifiche sorti e progressive?

Sono ancora riuniti in Camera di Consiglio
gli Ottimati e discutono, discutono…
ma su che cosa discutono? Su quale ordine del giorno?
Ah, che sono arrivati i barbari?
Che bussano alla grande porta di ferro della nostra città?
Ah, dice il Console che non sono dissimili da noi?
Non hanno barba alcuna?
Che parlano la nostra stessa lingua


Autodifesa dell’imperatrice Teodora

Procopio? Chi è costui? Un menagramo, un bugiardo,
un calunniatore, un furfante.
Non date retta alle calunnie di Procopio.
È un bugiardo, ama gettare fango sull’imperatrice,
schizza bile su chiunque lo disdegni; è la bile
dell’impotente, del pervertito.
Ma è grazie a lui che passerò alla storia.
Sono la bieca, crudele, dissoluta, astuta Teodora,
moglie dell’imperatore Giustiniano, la padrona
del mondo orientale.
E se anche fosse vero tutto il fango che Procopio
mi ha gettato sul volto?
Se anche tutto ciò corrispondesse al vero? Cambierebbe qualcosa?
È stata mia l’idea di inviare Belisario in Italia!
È stata mia l’idea di un codice delle leggi universali!
E di mettere a ferro e a fuoco l’Africa intera.
Soltanto i morti sono eterni, ma devono essere
morti veramente, e per l’eternità affinché siano tramandati.
Un tradimento deve essere vero e intero perché ci se ne ricordi!
Voi mi chiedete:
«Che cosa penseranno di Teodora nei secoli futuri?».
Ed io rispondo: «Credete veramente che i posteri abbiano
tempo da perdere con le calunnie e le infamie di Procopio?
Che costui ha raccolto nei retrobottega di Costantinopoli
tra i reietti e i delatori della città bassa?».
Ebbene, sì, ho calcato i postriboli di Costantinopoli,
lo confesso. E ciò cambia qualcosa nell’ordito del mondo?
Cambia qualcosa?
Il potere delle parole? Vi dirò: esso è
debole e friabile dinanzi al potere delle immagini.
Per questo ho ordinato di raffigurare l’imperatrice Teodora
nel mosaico di San Vitale a Ravenna,
nell’abside, con tutta la corte al seguito…
E per mezzo dell’arte la mia immagine travalicherà l’immortalità.
Per l’eternità.
«Valuta instabile», direte voi.
«Che dura quanto lo consente la memoria», replico.
«A dispetto delle calunnie e dell’invidia di Procopio».


La reggia che fu di Odisseo

Che cosa vogliono i proci che frequentano
la reggia che fu di Odisseo?
E che ci fa sua moglie Penelope
che di giorno tesse la tela con le sue ancelle
e di notte tradisce il suo sposo
nel letto dei giovani proci?
Sono passati dieci anni dalla guerra di Troia
e poi altri dieci.
I proci dicono che Odisseo non tornerà
e nel frattempo si godono a turno Penelope
la loro sgualdrina.
Si godono la reggia e la donna del loro re
sapendo che mai più tornerà.
Forse, Odisseo è morto in battaglia
o è naufragato in qualche isola deserta
ed è stato accoppato in un agguato.
La storia di Omero non ci convince
non è verosimile che un uomo solo
– e per di più vecchio –
abbia ucciso tutti i proci, giovani e forti.
La storia di Omero non ci convince.
Omero è un bugiardo, ha mentito,
e per la sua menzogna sarà scacciato dalla città
e migrerà in eterno in esilio
e andrà di gente in gente a raccontare
le sue fole…


Il merlo gracchiò sul frontone d’un tempio pagano

Il merlo gracchiò sul frontone d’un tempio pagano
il mare sciabordando entrò nel peristilio spumoso
e le voci fluirono nella carta assorbente
d’una acquaforte. E lì rimasero incastonate.

Due monete d’oro brillavano sul mosaico del pavimento
dove un narciso guardava nello specchio
d’un pozzo la propria immagine riflessa e un satiro
danzante muoveva il nitore degli arabeschi
e degli intarsi.

*

È un nuovo inizio. Freddo feldspato di silenzio.
Il silenzio nuota come una stella
e il mare è un aquilone che un bambino
tiene per una cordicella.
Un antico vento solfeggia per il bosco
e lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma
che rimbalza contro il muro
e torna indietro.


Alle 18 in punto il tram sferraglia

Alle 18 in punto il tram sferraglia
al centro della Marketplatz in mezzo alle aiuole;
barbagli di scintille scendono a paracadute
dal trolley sopra la ghiaia del prato.
Il buio chiede udienza alla notte daltonica.

In primo piano, una bambina corre dietro la sua ombra
col lula hoop, attraversa la strada deserta
che termina in un mare oleoso.

Il colonnato del peristilio assorbe l’ombra delle statue
e la restituisce al tramonto.
Nel fondo, puoi scorgere un folle in marcia al passo dell’oca.
È già sera, si accendono i globi dei lampioni,
la luce si scioglie come pastiglie azzurrine
nel bicchiere vuoto. Ore 18.
Il tram fa ingresso al centro della Marketplatz.
Oscurità.

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Luigi Celi sull’Antologia di Poesia Contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Progetto Cultura, 2016 pp. 352 € 18). “lo smarrimento delle grandi narrazioni”; “La dis-locazione del Soggetto”; “La perduta primazia del Linguaggio”; “Filosofia e poesia convergono sulle domande perenni: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?”

L’Antologia di Poesia Contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, pubblicata per le Edizioni Progetto Cultura, Roma 2016, si distingue per i testi antologizzati e per l’introduzione acuminata, per certi versi Unheimlich (perturbante), del curatore. Linguaglossa volge la sua attenzione in prevalenza al Ground, al Fondamento per lui ormai franto, della Kultur.

L’Antologia include nomi importanti. Dirò solo di quelli di cui conosco, almeno in parte i testi, gli altri non me ne vogliano.

Nell’ampio recinto della poesia novecentesca e contemporanea per la sua storia e per la qualità della sua opera spicca Alfredo De Palchi, sempre sorprendente nei suoi versi, poeticamente tagliente, soprattutto nelle invettive, c’è molta realtà e pensiero nella sua poesia.

Altri emergono per il prestigio dei loro curricula o sono poeti della cui bravura non si può dubitare, a iniziare da Carlo Bordini, che si impone con la sua lieve autoironia e ci offre una poesia d’“anima piena di microfratture”, compiuto esito di una scrittura moderna di frammento; Guglielmo Aprile, invece, sembra essere il più «antico» tra i poeti presentati.

Irraggiano luce le policrome immagini in versi di Renato Minore che cerca “l’invisibile punto di convergenza di tutti i colori”; in dialogo con suggestioni provenienti dall’Oriente si muove sull’onda dell’impermanenza verso “un vuoto pieno di vuoto” come piuma che cade nel fondo… Minore rende mercuriali, inafferrabili, soggetto e oggetto, focalizza “anelli” di luce “nella sfera del piccolo”, mobili biglie colorate, pixel in danze casuali, ciechi sciami sapienti accucciati sulla punta di uno spillo.

Steven Grieco-Rathgeb è poeta capace di veicolare nelle sue poesie suggestioni e apporti di una cultura planetaria: “accostando le labbra al bicchiere” ottiene “in dono per breve la visione/ che varca il punto di fuga”…; dalla sua esperienza vissuta in Oriente, dall’India al Giappone, attinge il sentimento dell’“evanescenza di tutte le cose”, e trasferisce in un parlare lieve, in un sussurrare dialogico, cadenze, intonazioni, respiri e fluttuazioni su cuscini di mare, memorie di incontri, anche ricordi in frantumi, armonie inudite, vuoti oscuri di “un’impervia, ubriaca pienezza”… è la filosofia dell’ ukiyo-e !

Fanno eco in un Occidente mitico, che si dibatte tra archetipi e memorie omeriche e tragiche, i versi di Gino Rago che rivisitano la “guerra di Troia”, la sua caduta e il dolore estremo di ogni madre di cui è archetipo Ecuba … “il grembo è tutto” (…) “amammo il greto asciutto di madri remote” cantava Rilke; Rago ci s-vela “la verità del tragico suggello”, cioè, appunto, “come è finita la guerra di Troia”, in una articolazione poematica di largo respiro, che risponde seriamente all’ironico verso di Brodskij, che dà il titolo all’Antologia. Anche la poesia di Francesca Diano rilegge il mito ma non per attualizzarlo quanto per consegnarci una nuova lettura di esso.

Maria Rosaria Madonna offre una poesia di qualità in altalena tra storia e mito. Adam Vaccaro oscilla anch’egli con grande perizia tra “poesia di pietra” e “poesia di carne”. Anna Ventura ci stupisce con versi eccentrici, fuori del tempo e dello spazio, con le sue rappresentazioni, di Torquemada e altri personaggi, che sembrano sculture all’aperto. E poi i testi straordinari di Stefanie Golisch.

Lucio Mayoor Tosi scrive come dipingendo un irrappresentabile Koan, dialoga mentre medita… e infrange il senso sull’ombra dura dei suoi quesiti, ombra che gli viene incontro.

Antonella Zagaroli ha una poesia di leggerezza graffiante… orge di stelle e versi fuori dal recinto, mentre Flavio Almerighi introduce nel verso una drammatica e graffiante leggerezza.

Abbiamo poi la poesia barocca, sensuosa e puntuta di Antonio Sagredo. Sagredo danza sui suoi versi come uno Zaratustra su carboni ardenti e con lui danza chi legge. Versi accaldati di sesso, raggi libertini, non manca di coniugare a un acceso lirismo la poesia di pensiero.

Porta in sé il tragico, la poesia di Edith Dzieduszycka, con una versificazione asciutta, puntuale, chiara e distinta, rispondente almeno in ciò alla tradizione francese, per quanto in questa Antologia la scelta della poetessa sia orientata su testi di metapoesia, di riflessione in versi sulla propria scrittura.

La scelta del curatore non tiene molto in conto la poesia civile. Il recupero della dimensione sociale avviene (se e quando si dà) su altri piani, primo tra tutti quello della ri-mitologizzazione dei miti. Oltre il già citato Gino Rago, abbiamo la poesia al femminile, più classica nella forma che nel contenuto, di Rossella Cerniglia. Letizia Leone spicca con la sua poesia della crudeltà degna di un Artaud: il “supplizio fossile”, l’“estasi della macellazione” del satiro Marsia ad opera di un Apollo che rivela i limiti ermeneutici di chi vede nell’apollineo soltanto aspetti estetizzanti, Apollo è in realtà il double inquietante di Dioniso. Incalzante… tambureggiante nel verso, estrema e raffinata, Letizia Leone edifica cattedrali risuonanti che s-pietrificano, organi e orchestre di archetipi… e sangue.

Non è assente, nell’Antologia, la poesia di pensiero, a cui almeno per alcuni testi mi inscrivo anch’io, insieme a Linguaglossa, rivendicando le differenze, com’è giusto, nello stile e nell’intento. Questo tipo di poesia ha un minimo comun denominatore basato su una scommessa: fermentare i versi con i semi di domande abissali, quelle che la stessa filosofia moderna ha cessato di porre da quando ha preteso di aver ridotto a “non senso” ogni proposizione che non sia scientifica.

Insieme a Linguaglossa diversi poi sono gli autori che mostrano una forte propensione all’innesto, alla poesia colta. La qualità della poesia è più che evidenziata in questa Antologia dal lavoro scaltrito sul linguaggio, dalla capacità di articolare conoscenze, di operare innesti in osservanza a quel criterio o spirito della scrittura moderna, che si è imposto a livello planetario a partire dal “modernismo” di Pound ed Eliot. Così operano Ubaldo De Robertis, Giuseppina Di Leo, Mario M. Gabriele, Giuseppe Panetta Talìa, e certo non si escludono i poeti citati, tutti molto abili, convincenti. Ci sono alcuni che hanno cercato di recuperare la struttura poematica, come Rago e Giulia Perroni.

Giulia Perroni antologizza testi lontani tra loro; gli ultimi, tratti dal poema La tribù dell’eclisse,  denotano una luminosa/oscurità – “una complessità fatta ragione”, “una complessità fatta Babele” – per l’uso insistito, sguincio, dell’ossimoro e della metafora: “Per metafore un mondo in sé complesso”. Sebbene la scrittura sembra frangersi in “titoli di capitoli mancanti” o in “arpeggi di un incessante divenire”, ciò è a “custodia dell’infinito perdersi”, “in un viavai” d’immagini sonore teso a “un punto irraggiungibile” di cui “ogni vibrare è specchio”.

Torniamo adesso alla Prefazione di Giorgio Linguaglossa. Essa costituisce una qualificata componente di questo libro bifronte, ha un tale spessore filosofico da dover essere onorata, problematizzata. Si sostiene una tesi estrema, che nel mondo contemporaneo, accentuatamente nella poesia italiana, a sfaldarsi non siano solo le poetiche tradizionali, ma proprio il linguaggio come possibilità di conoscenza onto-logica; con il crollo del nesso essere/logos è stata compromessa la relazione tra soggetto e oggetto. Dopo Derrida e Lacan, per Linguaglossa è stata distrutta la possibilità di attingere il Fondamento, al punto che l’arbitrarietà dei segni, in poesia, si è mutata in “lallazione” di un falso “io”. Giudizi drammatici, frustate anche per gli autori dell’Antologia. Un cumulo di rovine si accresce come di fronte all’Angelo di Klee trascinato a rovescio dal vento mentre si copre il volto con le ali.

Ci soffermiamo sulla negazione del binomio soggetto/oggetto. La psicoanalisi di Lacan ci ha insegnato che “Esso”, l’ “Inconscio” parla; “l’io non parla, è parlato”; “noi siamo parlati”, “non parliamo”…; non è chi non veda la consonanza tra lo psicoanalista e il critico, ma non so se su questo limaccioso, abissale limen Linguaglossa intenda accamparsi senza riserve. Il “principio di indeterminazione” di Heisemberg, certo, ci dimostra che nella fisica subatomica lo strumento che si adopera per l’osservazione delle particelle subisce una pur minima modifica nel momento stesso in cui cerca di determinare l’oggetto; si darebbe cioè una sorta di biunivoco contraccolpo: l’oggetto modifica il soggetto e viceversa. Generalizzando, è come dire che né oggetto né soggetto valgono assolutamente. Mi domando se ciò che ha rilevanza nella fisica sub-atomica valga comunque in filosofia o nel mondo sociale o nella fisica non subatomica. Per Giorgio Linguaglossa i linguaggi della poesia si sono “de-territorializzati”: ciò equivale al “rotolare della X verso la periferia”, di cui parlava Nietzsche, quale idea del soggetto che “si andava a frangere nella periferia”; la cosa non attiene quindi solo l’uscita del pianeta poesia dall’orbita di ogni sistema planetario dei linguaggi sensati. Potrei dar forza storico-critica all’argomentazione di Linguaglossa, aggiungendo che il processo in questione ha due poli, il primo attiene all’affermazione della centralità del Soggetto, almeno da Cartesio a Fichte, il secondo segue il movimento opposto di dissoluzione della soggettività, cosa che può essere connessa con la morte di Dio, come annunciata nella Gaia Scienza. Foucault a sua vota proclamava, all’interno del suo rigido strutturalismo, che anche l’uomo è morto. Non è stato Nietzsche ad aver contestato per primo il “soggetto” quale sorgente e termine della filosofia?.

Si apre nel tempo moderno una parabola che sembra voler giungere ora a tragica conclusione. Il Moderno per molti versi nasce dalla Rivoluzione scientifica e dalla “rivoluzione copernicana” operata (in filosofia) prima che da Kant, da Galilei e da Descartes. Quest’ultimo ha posto rigorosamente il problema del metodo scientifico e filosofico della modernità, ha dettato le regole ad directionem ingenii e attraverso il superamento del “dubbio metodico” è approdato al Cogito, al Soggetto che pensa e perciò esiste. Questo Soggetto recupera la conoscenza della realtà attraverso le idee di Res cogitans e di Res extensa; non si procede dalla realtà alla conoscenza, ma si segue il percorso opposto. Attraverso un cogitare metodicamente matematizzante sarebbe possibile la “certezza” del conoscere, anche in metafisica.

La centralità moderna del pensare “soggettivo” sul piano di ogni operatività, anche nell’arte, nella poesia, non equivale ancora a quel totale arbitrio che poi nel tempo – sul crollo di questa premessa cartesiana – si è sviluppato, ben oltre le divaricazione tra arte e scienza, fede e scienza nella deriva postmoderna che giunge alla frantumazione dei canoni in arte, poesia e nel tracollo dell’etica. Quando una pluralità non è riconducibile all’unità, non c’è più forza gravitazionale, i molti diventano un coacervo caotico. Queste mie osservazioni, mi chiedo, rinforzano o indeboliscono la tesi di Linguaglossa? Subito dopo Cartesio l’attacco empirista, pre-illuminista e illuminista al Soggetto, viene condotto, e più radicalmente, in Hume, fino alla contestazione dell’esistenza di un “io sostanza”. L’io individuale per Hume è solo un’identità fittizia e l’essere è ricondotto alla percezione dell’essere. Kant chiamerà fenomeno ciò che possiamo conoscere, l’oggetto è fenomeno, non noumeno, cosa in sé. Nel XVII e nel XVIII secolo dunque si opera una svolta cruciale si sfalda la vecchia visione del mondo, le idee stesse di soggetto ed oggetto vengono rielaborate più volte.

Antologia cop come è finita la guerra di Troia non ricordoPsicoanalisi, Sociologismo e Neoempirismo nel XX sec. hanno dato il colpo di grazia ad una concezione unitaria del Soggetto, nonostante che la Critica kantiana avesse recuperato a livello trascendentale il primato del Soggetto (“L’io penso” legislatore), smontando la critica humiana come affrettata e incauta. Non si tratta più del soggetto individuale ma di una Soggettività trascendentale. Le forme del conoscere (e poi dell’agire) sono a priori, operano indipendentemente dall’esperienza e ne costituiscono la precondizione universale e necessaria. Il trascendentale (da non confondere con il trascendente) della Soggettività è un modo di conoscere gli oggetti, i fenomeni, grazie alle intuizioni di spazio e di tempo e a categorie (attività a priori) comuni a tutti gli individui. Il Soggetto si rivela ancora una volta, dopo Cartesio “legislatore della natura”, una Volontà, un “Volo”, più che un “Cogito”. Da questa radice, cioè a partire dalla Rivoluzione scientifica, nasce quindi il carattere impositivo della tecno-scienza e della cultura occidentale tout court. Cosa che, se pure in altri termini, è stata evidenziata da Heidegger, con il concetto di Gestell, da Nietzsche con la “volontà di potenza”.

Hegel rappresenta il tentativo estremo e più sistematico di recupero dell’ontologia: “il reale è razionale e il razionale è reale”, vuol dire per Hegel che la Ragione appartiene all’universo, come un’anima al corpo, ne è la Legge immanente di sviluppo in termini dialettici, e la soggettività diventa un momento del processo di autocoscienza dello Spirito del Mondo. Anche l’oggetto non esiste se non come momento di una dialettica universale. Marx rovescerà in senso materialistico la Weltanschauung hegeliana, conservando alla realtà socio-economica, che egli considera strutturale, un carattere dialettico, ma il termine soggettività e tutto ciò che si possa riferire al soggetto verrà depotenziato. Se vogliamo l’unico soggetto della storia a cui riconoscere un qualche peso strutturale (non sovrastrutturale) è la classe operaia vista all’interno delle contraddizioni sociali quale unico motore della rivoluzione.

La critica al Soggetto ha avuto ripercussioni drammatiche in politica. I totalitarismi hanno elevato da una parte monumenti all’arbitrio del Capo, quale personificazione dello Stato Assoluto, e dall’altro hanno ridotto, nella loro Statolatria, i singoli a escrescenze callose della collettività.

Della colpevolezza della Ratio, del Cogito nel mondo moderno ha piena consapevolezza Linguaglossa. Anche in poesia egli trasporta la sua tesi: il moderno non si è liberato dalla sua colpa ma l’ha istituzionalizzata; certo “il signor Cogito” ha distrutto il “quaderno nero”, ma “la polizia segreta” lo cerca; “il sole si è inabissato”, e “la Lubjanca ha convocato il violinista” (il poeta, il musicista, l’artista), ma infine “C’è un solo colpevole”… è “il signor Cogito”…

La progressiva emarginazione della poesia nella modernità, in Occidente, ha dato luogo al canto consolatorio, sommesso, di una umanità dolente, ripiegata liricamente su se stessa, che vive un’esistenza scissa tra pubblico e privato; essa si autocomprende ed esprime nell’ottica del frammento. Anche nelle versioni più elegiache del poetico c’è il tentativo di dare respiro al singolo, aria pura dove s’addensa inquinamento culturale, recupero di bellezza in un mondo di brutture. Questo ambivalente ripiegamento comporta lo smarrimento delle grandi narrazioni della poesia epica, ancora vitali ed efficaci nel seicento, nel settecento, in quei contesti in cui la rivoluzione della modernità non aveva portato a maturazione i suoi frutti. Anche questo è un modo di dare rilievo agli aspetti più inquietanti dell’esistenza. “Gli alberi erano rossi: di frutta o di sangue non importa”…, nota con versi efficaci e incisivi, Alfredo Rienzi.

Ne La nascita della tragedia di Nietzsche viene rivendicato il primato del dionisiaco sull’apollineo sotto la scia del “pessimismo” di Schopenhauer – pessimismo ontologico, presente anche in Leopardi -, il che equivale a cogliere nel tragico la cifra più propria dell’esistente, per quanto nel dionisiaco si affermi anche una visione istintiva, fino alla sfrenatezza, della soggettività. Il tragico è una categoria assoluta che non riguarda solo il passato, esso è rappresentazione, prefigurazione e presentimento di ciò che avverrà nel mondo con due spaventose guerre mondiali e che continua ad evenire sulla soglia dell’autodistruzione del genere. La tecno-scienza coniugata alla logica di mercato non è solo fonte di progresso, ma comporta rischi mortali. È quotidiana la scoperta di un’esistenza umana deprivata di essenza, mercificata, radicata nella struttura socio-economica della storia, divorata dalla frenetica ricerca del “profitto”, dall’onnivora invadenza dei media, del virtuale che ci confonde di irrealtà. Il marxismo aveva denunciato il carattere autodistruttivo della Ragione borghese soggettivista, la incontrollata libera iniziativa, il primato dell’arbitrio mercantile e ad essa aveva opposto la Ragione oggettivata (scientifica) della Rivoluzione comunista, che doveva passare per la lotta di classe e la dittatura del proletariato. L’arte e la poesia dovevano diventare “politiche”, collaborare a questa rivoluzione.

Per ritornare all’Antologia un verso in uno dei testi antologizzati di Ubaldo De Robertis recita: “La tragicità della vita si nasconde dietro l’immagine/ più misteriosa e lieta”….

L’esinanirsi della forma-poesia, certo, è una minaccia che Linguaglossa ha ben focalizzato. Accade alla poesia ciò che si è verificato in filosofia: all’ottica del sistema, di Spinoza ed Hegel, è subentrata l’esigenza di affrontare motivi legati al “particulare”, all’esistenza; ciò è avvenuto in Kierkegaard, Nietzsche, Jaspers, Marcel, Heidegger; ecco allora Ungaretti, Caproni, Montale, Luzi, Penna, Campana, o altrove, rispetto all’ Italia, Rilke o Celan che del tragico assapora il calice delle rovine nel frammento non consolatorio. La cultura moderna volge al problematicismo, allo scetticismo, al nihilismo. Vengono sollevate questioni di confine, sui rapporti tra filosofia e scienza, scienza e fede, politica e arte, e la poesia ha dovuto slittare verso la prosa. Filosofia e poesia convergono sulle domande perenni: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo; non ci si accontenta di scrivere sull’amore, la vita, la morte, la bellezza; i poeti non accettano che la ragione matematizzante e strumentale della tecnica riduca l’uomo a mero ingranaggio di un sistema economico, finanziario o politico. Rispetto alla poesia civile, più prosasticamente aggressiva degli ultimi decenni, tuttavia anche in alcuni testi di questa Antologia, ritroviamo un’esigenza di conoscenza che fa superare alla poesia il ristretto ambito estetico, a cui molti – non certo Giorgio Linguaglossa – vorrebbero inopinatamente circoscriverla.

Luigi Celi è nato in Sicilia, in provincia di Messina, ha insegnato per trent’anni nelle scuole superiori di Roma. Esordisce con un romanzo in prosa poetica L’Uno e il suo doppio, e un breve saggio filosofico/letterario, La Poetica Notte, per le edizioni Bulzoni (Roma, 1997). Pubblica diversi libri di poesia: Il Centro della Rosa, Scettro del Re, Roma, 2000; I versi dell’Azzurro Scavato Campanotto, Udine, 2003; Il Doppio Sguardo Lepisma, Roma, 2007; Haiku a Passi di Danza (Universitalia, 2007, Roma); Poetic Dialogue with T. S. Eliot’s Four Quartets, con traduzione inglese di Anamaria Crowe Serrano (Gradiva Publications, Stony Brook, New York, 2012). Quest’ultimo testo, già tradotto in francese da Philippe Demeron, è in pubblicazione a Parigi. Per la sua opera poetica ha avuto riconoscimenti, premi e menzioni.

Sue poesie edite e inedite e suoi testi di critica si trovano su Poiesis, Polimnia, Studium, Gradiva, Hebenon, Capoverso, I Fiori del Male, Pagine di Zone, Regione oggi, Le reti di Dedalus ( rivista on line). Nel 2014 pubblica un saggio filosofico-letterario su Kikuo Takano per l’Istituto Bibliografico Italiano di Musicologia. 

Presente in numerose antologie, tra gli studi critici a lui dedicati ricordiamo: Cesare Milanese su Il Centro della Rosa, nel 2000; Sandro Montalto, su “Hebenon”, nel 2000; Giorgio Linguaglossa, su Appunti Critici, La poesia italiana del Tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte Scettro del Re, 2002; La nuova poesia modernista italiana Edilet, 2010; Dante Maffia in Poeti italiani verso il nuovo millennio, Scettro del Re, 2002; Donato Di Stasi su Il Doppio Sguardo, nel 2007; Plinio Perilli, per Poetic Dialogue. È presente con dieci poesie nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) e Il rumore delle parole (EdiLet, 2015)

Con Giulia Perroni ha creato il Circolo Culturale Aleph, in Trastevere, dove svolge attività di organizzatore e di relatore dal 2000 in incontri letterari, dibattiti, conferenze, mostre di pittura, esposizioni fotografiche, attività teatrali. Ha organizzato incontri culturali al Campidoglio, un Convegno su Moravia, e alla Biblioteca Vallicelliana di Roma.

 

 

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Caffè Notegen, Roma, via del Babuino 159 – Caffè Notegen…«Cronaca di una morte annunciata». La società letteraria di fine Novecento. La civiltà degli incontri letterari e delle riviste a cura di Gino Rago – Con poesie degli anni Novanta di Gino Rago, Giorgia Stecher, Giuseppe Pedota, Salvatore Martino e Giorgio Linguaglossa

caffè NotegenUn giorno dell’anno 1875 Giovanni (Jon) Notegen,  «il droghiere di Tschilin », un villaggio svizzero dell’Engadina, mette la strada sotto i piedi e giunge a Roma. Qui, in via Capo Le Case, a breve distanza dalla  Via Sistina e dalla Scalinata a Trinità dei Monti,  Jon Notegen apre una drogheria. Ma pochi anni dopo, nel 1880 per l’esattezza storica, il «droghiere Jon» si sposta a via del Babuino, al civico 159. Rinnova il locale e contemporaneamente ne fa  un Bar-Caffetteria, una torrefazione del caffè, una drogheria e una piccola fabbrica di marmellate speciali le quali, per la vicinanza dell’Albergo di Russia, oggi « Hôtel de Russie», subito si diffusero anche all’estero per i numerosi turisti stranieri che l’Albergo ospitava.

Tra le due Guerre Mondiali, la drogheria e il Bar-Caffetteria diventano un tipico punto d’incontro e di ritrovo dei più noti e celebrati artisti e intellettuali dell’epoca. Negli anni ’50 il Caffè Notegen è ormai un’istituzione e la sera, dopo lo spettacolo,  vi si fa ritorno. Non è difficile incontrarvi Carlo Levi ed Ennio Flaiano, Alfonso Gatto e Corrado Cagli, con  i più assidui frequentatori  “di casa” al  Notegen   Piero Ciampi,  Monachesi, Guttuso, Zavattini, Bertolucci, Adriano Olivetti, Corrado Alvaro, Linuccia Saba, Maria Luisa Spaziani, Milena Milani, Eva Fischer, Iosif Brodskij. Ma la crisi del Centro storico è alle porte. Teresa Mangione, a tutti nota come Teresa Notegen perché moglie di Leto, uno dei fratelli Notegen e accolto

da tutti come «amico degli Artisti», con tutta la gente della cultura, dello spettacolo, dell’arte, della poesia e con tutti gli “artigiani” gravitanti nella «vecchia Roma», ne avverte i rischi e sensibilizza appassionatamente Sovrintendenza ai Beni Culturali e Consiglio comunale capitolino per la salvaguardia del Notegen dal rischio chiusura.

piazza_ di-spagna2Nel 1988 il Caffè viene restaurato e la «saletta delle marmellate» finalmente recuperata viene destinata a colazioni, pranzi di lavoro, riunioni conviviali, incontri culturali. Sempre vivi nella memoria, non soltanto degli addetti ai lavori, i “martedì di poesia”.  Ricordo che negli anni Novanta si sono tenute qui tutte le presentazioni dello storico quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che contava nella sua redazione Giorgio Linguaglossa, Laura Canciani, Giorgia Stecher, Giulia Perroni, Giuseppe Pedota e molti altri poeti «esterni», tra i quali lo scrivente che allora viaggiava tra Trebisacce e Roma. E come non ricordare Salvatore Martino e Luigi Celi. Forse, l’ultimo bagliore di quella antica civiltà dei caffè letterari. Poi, intorno alla fine del primo decennio di questi anni 2000, il Notegen chiude definitivamente…  Nel locale al 159 di Via del Babuino, a pochi passi da Sant’Attanasio, da Piazza di Spagna e da Piazza del Popolo, di quella vitalità oggi è rimasta forse appena un’ombra sul muro.

Indeterminazione, relatività, equazioni di Maxwell, verso libero e non libertà nel verso, metafora tridimensionale, modernismo e postmodernismo, rapporto tra  «io »poetico e «oggetto», differenza fra «oggetto» e «cosa», tempo e poesia: grandi, inquietanti questioni dibattute nella sala delle marmellate dai poeti che circolavano attorno a “Poiesis”. Forse, uno storico del passato recente potrà «ricostruire» lo stato di salute della poesia di quegli anni e dei poeti, soprattutto operanti in Roma, attraverso le vicende del Caffè Notegen…«Cronaca di una morte annunciata», realmente avvenuta nella indifferenza generale e nella inerzia dell’amministrazione dei sindaci Rutelli e Veltroni.

Gino Rago

caffè Notegen. 1jpgDue poesie di Gino Rago dal Caffè Notegen (1999)

Locandina Caffè Notegen
Via del Babuino, 159 Roma*

Noccioline americane
Ostriche australiane
The inglese
Salmone canadese
Cous-cous marocchino
Dolce tunisino
Burro danese
Whiskey irlandese
Palmito cubano
Caffè brasiliano
Colonia francese
Vongola cinese
Caviale russo
Profumi di lusso
Odori di cucina
Petrolio e benzina
Sapone e acetone
Con qualche gettone
Panini e cornetti
Riso e spaghetti
Formaggi e surgelati
Telefoni occupati
Juke-box a tutto spiano
Flipper alla mano
Tommaso sorridente
Teresa accogliente
Sempre tanta gente
Di giorno e di notte(gen)
Tra sussurri e grida
Mosul, Avati e Guida.

* N.B. La locandina è nata in una serata conviviale al Notegen su un tavolino con Giorgio Linguaglossa, Vito Riviello e Gino Rago, dopo la presentazione di due libri di poesia, nella «saletta delle marmellate». Lo scherzo piacque a Teresa e ne ricavò la «Locandina del Caffè Notegen». Era il maggio del 1999.

.

Un bergamotto sul fiato della morte
(in ricordo del Caffè Notegen)

Se il poeta sceglie da quale parte stare
il mondo trova sempre il suo tono,
il suo timbro, il suo colore. Lessico
d’alghe. Sintassi di conchiglie.
Al centocinquantanove di Via del Babuino
la sirena invita l’uomo stanco
all’ultimo sentiero di lumache.
Sotto il passo incerto di frontiera
Teresa spalma un giallo
profumato di limoni.
“Die Klage. Das Ruhmen”.
Il lamento. L’elogio. Euridice. Orfeo.
Un bergamotto sul fiato della morte.
Da quell’altana d’aria a Trinità dei Monti
chi ricorda il viola di Scilla, il tormento
della figlia eletta di Zurigo, l’enigma sul mare
a Chianalea. Chi sussurra l’estasi
d’una spadara, l’incanto della musica
sull’acqua, la sorte d’una piuma
in quel vento sul dorso della mano. (Al Caffè Notegen
di Via del Babuino bussava indarno il male
alle vetrine, né mai trovò ricetto la malinconia.
Sostava sui selci neri l’orma verde bile dell’intrigo).
Al galoppo sul niente d’una soglia nessuno tema
il viaggio al centro della notte.
Forme. Visi. Voci. Specchi. Eventi. Lontani
anche i vapori sugli attriti della carne.
Di quei palpiti vitali, di tanta joie de vivre
sì e no un’ombra oggi resta sul muro.
Ma se il viandante tace, se allenta la corsa,
se a Sant’Attanasio asseconda l’occaso
al Notegen di Via del Babuino daccapo i poeti
clessidrano il tempo, fermano in sé il respiro
degli alberi, risgabellano vantandosi
d’essere schegge dell’eternità. Torna sugli scalini
a prillare aprile. Il sangue riscorre più in fretta
del canto… E le azalee sanno fare il resto.

Giorgia Stecher volto

Due poesie di Giorgia Stecher da Altre foto per album (1996)

Il bisnonno

(dopo il terremoto del 1908)

Accorso al molo tu
chiamavi le barche: Teresa
Carmelina dove siete?
Sornione il mare ti lambiva
i piedi come mostro placato
dopo il pasto tra i resti
del banchetto e tu
a strapparti i capelli disperato.
Di te questa l’immagine
che m’hanno consegnato e a nulla
vale guardare il mezzobusto
che ti immortala grave ma quietato
sopra l’emblema inutile dell’àncora.

.
L’Altra Nonna

Di te ricordo i capelli
suddivisi in due bande da una riga
e la trappola per topi che inventasti
servendoti di un ditale e di una pentola.
Dicevano di te ch’eri una gran signora
che avevi il mestolo d’oro e molto argento,
prima della sterzata della stella.
Mi è rimasto il tuo nome soltanto
ed un ventaglio che col vento
che tira qui da noi, è superfluo
agitare, per soffiarsi.

.
Foto di Parente Sconosciuta

En souvenir de ta soeur c’è scritto giù
nell’angolo data due maggio novecentotredici
e tu stupenda contro una finestra un profilo
perfetto da cammeo, le braccia abbandonate
perfettissime, collo vestito perle
acconciatura talmente belli da sembrare
finti. Eppure sei esistita, col tuo francese
spedito ineccepibile e gli squisiti modi
da gran dama, lo diceva la Gina che sapeva
tutte le vecchie storie di famiglia.

 

Giuseppe Pedota foto anni Settanta

Giuseppe Pedota foto anni Settanta

Poesie di Giuseppe Pedota da Equazione dell’infinito (1996)

I campi dello splendore

I

De profundis o madre l’inesausta
chiara tristezza e queste lunghe lune
ti chiamano e le stanze luminose
ancora mi posseggono all’incanto
delle verdi stagioni della luce

sono tornato dall’illimite
per la felicità di nascermi da un sogno
tuo acerbo di granoverdemaggio

Lucania lucis l’eden tra la torre
normanna di Tricarico e le selve
di lupi che odoravano di neve

e falchi neri le ali di rugiada
inseminati da sapienza i venti
grand’inventori di storie e di sciarade
sulle flotte ulissiache dei sogni

e l’avida di spazi
Genzano emersa da abissali
valloni ebbri d’aglianico e di risa
scenografia arrogante per attori
cattivi contro il cielo come solo
sanno esserlo per genìe segrete
le progenie di Orazio e di Pitagora

matematica e mistica lubrica e libertà
crudele sole nostre ospiti

II

e ancora andiamo per queste strade di vento
con un frullo di stelle tra le ciglia

Lucania lucis come allora andiamo
quando ancora sottile nel tuo ventre
sentivo raggrumarsi i vaticini
delle imminenti apocalissi e glorie

ma è sublime vertigine del tempo
il grande gioco
di frantumarci nell’oblio di ciò che fummo
e che saremo

e fu storia mai sazia
di coincidenti epifanie
nascere l’anno della croce uncina
che provava i suoi artigli d’acefalia deforme
devastando i colori ed il cuore di Klee

e per quali segnali d’elezione
egli mi rese la sua scienza
di render l’invisibile visibile?

.
III

quali segni esaltanti e disperanti
protessero da intrighi
la mia stupefazione a menti aliene

perché annulla i dies irae della storia
il sonno d’un bambino

perché si aprivano le vene
di dèmoni e sibille e di profeti
tra le dita
di Michelagnolo che urlava
al suo papa i crediti mancati
dei lapislazzuli sistini

per quali segni
a pretesto di fame si compose
Amadeus il suo Requiem

e può un blu-viola distico
disperare all’abiura d’un amore?
Lucania

questo paese è lontano da ogni senso
e dagli dèi
forse
ci corre dentro nelle vene un segno
un turgore di luce
di silenzi
appartenute a un sogno di remote
civiltà stellari

la circonferenza s’è aperta
nel punto delle mie fughe
nel punto dei miei ritorni
come teorema d’amore

la mia Lucania è un’Itaca
di tutte le ombre
che mi crearono la luce
di spazi che mi allevarono
con la storia dei venti
e i lutti delle donne nero eterno
come utero di vergini

neri occhi hanno scavato ombre più vere
di chi le rifletteva

un’esca per i flutti
di giovinezze ambigue

i passi delle mie lune nere
vengono dove si attendono
che il viaggio della luce
svegli i bradi cavalli di ombre
per criniere di vento

 

Giorgio Linguaglossa al Mangiaparole 2013

Giorgio Linguaglossa al Mangiaparole, Roma 2013

Poesie di Giorgio Linguaglossa (da Paradiso, 2000)

Enigma

Per il lugubre occhio di Kore
per il funebre drappeggio dell’angelo
dal trono dove regna Proserpina
osserviamo gli uccelli cantare
dove era il laurociliegio
rumoroso di tuoni.

Benché il suo occhio sia frigido
rigide rondini tornano al sole
dal nostro nero mare all’azzurro
palazzo del re dei re, sapremo
dimenticare il sole perché
incontrarsi era desiderio.

.
L’imperatrice Teodora e la sua corte*

La melancholia dell’imperatrice Teodora
e del seguito imperiale recita
il trionfo fittizio, nomenclatura
monumentale museificata nel vetro.
L’ampia corona deposta sul capo
immobile assottiglia lo strepito
dei passi del corteo che collima
con il corteggio di tenebre.
Gli occhi di Teodora ci osservano
dalla rigidità della decorazione musiva
laddove non esiste il tendaggio
dell’inquietudine.

* Mosaico della chiesa di “San Vitale” a Ravenna

*

Vidi l’Angelo dai quattro volti
che guardava in quattro specchi il mio
sembiante riflesso, il quadruplice
barbaglio della luce incidente il profilo
araldico. L’abbaglio di otto occhi
celesti assorti nel nulla dell’oscurità.
tetagrafico, tetacriptico profilo.

Salvatore Martino da “”La fondazione di Ninive” 1977

A una distanza pari dalla giungla seguendo il filo di un
airone basso nelle correnti dell’aria Disposti a seguitare
malgrado l’oroscopo straniero verso l’alto del piano dove
spirali si rincorrono e la schiera alata dei pesci Intorno
il sentiero mostrava tracce d’un’altra carovana passata
chissà in un giorno di aprile Si avanzava per gradi
lo sguardo fisso al perimetro del dolore

but if you think of a periscopal motion
of thinghs and animals

L’arsenico nel vino i segnali del passo Dalla bocca del
capanno un grido di fucili Stormi inquieti di volatili e
il rosso cremisi delle piume alla vista dei cani
Ci spingemmo avanti senza l’appiglio delle streghe
Poi avrai notizie dagli agenti del cielo Orbite e sonde
le riprese di luna e mille crateri illuminati dalla
fiamma silicea Come sciogli il granito?
A una distanza pari dalla giungla l’anima si riduce ad una
massa che invade le finestre entra nelle cantine squarcia
i vetri e le porte precipita negli alambicchi Piombo
***
Doppiata la collina si piega il tempo per cogliere il
tracciato che scende in un azzurro paese dove laghi
s’incontrano il verde meridiano e oltre la fossa il cielo
Tradito dai sicari
Ci siamo tinte le mani con bianchissima calce
coperto i sopraccigli col sudario una flora batterica
per coltivare agavi o la demenza di chi spera
al mattino un oroscopo astuto delle carte
Non c’è comparazione col metallo quello duro e temprato!
La fossa spaventosa degli inganni precipita intatte
carovane l’oro disciolto nei crogioli l’interminabile spirale
conquista il punto Ricomincia l’ascesa a gironi più fondi
Nel Maelström attorcigliati Cibele e il corpo di Attis
ritrovato una piatta famiglia di lombrichi Sirene
calamitate a riva da un canto più del loro sinistro
Siede il giovane Orfeo la lira stanca lungo il braccio
sul cavalcante Egeo stanco dell’Ade stanco dell’Olimpo
tradito dagli amici le mani di bianchissima calce e un
vuoto contro la mezzaluce balenata in pieno dormiveglia
dalla camera accanto
Dovremmo salire E gonfiare nell’azoto
Una centuria volatile
***
Se ancora disperi di vedermi e i passi si cancellano
nella veglia a mezz’aria tra desiderio e fatica
E un’ora dopo ai piedi di una lunga valle
ti prendessero per mano quasi dicendo una preghiera
Mercoledì 8 gennaio in una valle
E ti conducessero per cerchi e rottami senza una
cruda stanchezza ch’è poi attesa di non attendere
E ti prendessero quando singhiozzano i merli con una
storia da decifrare portandoti attraverso canali di metallo
Se ancora i passi si cancellano
***

Gino Rago  nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Ind.le presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Progetto Cultura, Roma, 2016). Altre poesie compaiono nella Antologia Poeti del Sud (EdiLet, Roma, 2015) sempre a cura di Giorgio Linguaglossa.

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Donato di Stasi “note su La tribù dell’eclisse di Giulia Perroni” (Passigli 2015)   con una selezione di brani poetici dal libro di Giulia Perroni

bello ritratto di donnaIl Poema dello Überall e del Nirgends di Donato di Stasi

Ci sono ancora nella scrittura poetica cose ineffabili che non si possono spiegare, un residuo di mistero, un qualcos’altro che continua imperterrito a mormorare alla coscienza insoddisfatta del poeta, alla verità incompleta della sua ragione. Questo qualcos’altro è il lato metastorico, inesauribile della realtà: presenta un carattere dubbio e anfibolico e non smette di interrogare con il suo mutismo, con i suoi balletti di ombre (la skiagraphia platonica).

La tribù dell’eclisse riguarda per un verso il mondo che non c’è più (la Sicilia favolosa dell’infanzia, l’infanzia storica ottocentesca di quest’Italia tribolata, la passione sociale e l’emancipazione delle donne), per altro verso argomenta del mondo che non c’è ancora (la certezza vivente della trascendenza, la presenza di una sfera intangibile, ma pienamente attingibile dal discorso poetico).

Nello sguardo rivolto al mondo che non c’è più si assiste a un ripetere dei fatti (gli studenti toscani che a Curtatone nella prima guerra d’indipendenza salvarono i piemontesi dall’accerchiamento austriaco, sacrificando le proprie giovani vite), si giunge a constatare verità dolorose (i ricordi familiari, la disfatta del nido, i rimpianti dopo la morte dei genitori), ci si dispone a rispecchiare le proprie ansie e i propri desideri in urto con l’ordinarietà omologante che dilaga in tutti gli strati della società.

Con il ricorso a uno straordinario e innovativo flusso poematico, work in progress  fitto di frammenti e di lacerti di senso, Giulia Perroni inaugura  a suo modo, e di suo pugno, un mondo che non è ancora venuto, stante l’attuale processo storico e il suo decorso temporale, totalmente preda del materialismo più distopico e annichilente, a cui è possibile opporre, salutarmente, l’indicazione di una smagante utopia, definita nei termini di non-luogo e non-tempo, esattamente com’è leggibile nei toni favolistici e mitici dell’incipit, messo lì non a caso:

Visione astrale Giuseppe Pedota acrilico su perplex anni Novanta

Visione astrale Giuseppe Pedota acrilico su perplex anni Novanta

C’era una Biancaneve che pativa
l’alba non appariva
in verde prato solo i nani compivano
il tormento di essere fatui e bimbi

(…)

Una guerra di lame inconsistenti
come le ombre che conquista il sole

Mia prigione che fa delle magnolie
un indugio di terra

E della donna e del rapporto antico
nella triade impetuosa non si parla (pp. 13-14)

Giulia Perroni forza il linguaggio, tenta di far emergere conoscenze e annunciare esperienze che l’individuo sembra avere dimenticato, soprattutto nella sfera morale e nella dimensione dell’indicibile. L’impegno etico dell’Autrice risulta così intenso che riversa tutta la tensione nella parola, affinché riacquisti forza espressiva, attraverso un sapido mélange di suoni  e una concreta riabilitazione della struttura essenziale dei significati.

Da pagina 13 a pagina 167 scorre un ininterrotto fiume eracliteo di frammenti oscuri e chiarissimi, descrittivi e riflessivi, narrativi e astratti in senso mallarmeano, storici e atemporali, sociologici e assolutamente intimi, antropologici in senso culturale e biologici in quanto riferiti all’esistenza naturale del mondo e della donna che pronuncia il pronome personale io  e il pronome possessivo mio.

Ciascun frammento produce un duplice scatto intellettivo e volitivo, come se lo spirito fosse tornato ad abitare la casa dell’essere, pur con un diverso modo di incedere, rispetto al suo passato storico, riuscendo infatti a costringere in un’unica torsione esistenziale particolarità  e universalità.

Ciascun frammento fornisce una debita provvista di materiali, una spinta semantica tesa a percorrere i sentieri remoti dell’inconscio che, via via, affiorano in direzione di un racconto epico-archetipico:

Mnemosyne di Dante Gabriele Rossetti

Mnemosyne di Dante Gabriele Rossetti

Eppure in me la vita era bellissima
come una dea da sacrifici umani
implacabile mostro che ghermiva
l’implacabile bimba che sognava

(…)

Conosci la ferita
Essa rimane tanto quanto il mio amore
Il Nirvana dell’albero risuona
si scolora la rabbia si allontana
l’ingrandito ruscello e nella mano
titilla i desideri (p. 15)

La sfera oscura e imprevedibile del sé nascosto viene fatta collidere con la dimensione superficiale delle cose, ne scaturisce un intenso sentimento della vita che spalanca una dimensione verticale e  perpetuamente innalza l’atto poetico al cielo della metafisica.

A una realtà impotente, contraffatta, disperata, Giulia Perroni sostituisce l’istante fatale e decisivo del suo linguaggio che progredisce per frammenti verso la totalità, troppo commovente, troppo esaltante per non essere colta: Überall (ovunque) e Nirgends (novunque, in nessun posto) costituiscono gli estremi confini tra i quali si svolge il viaggio della dickinsoniana Tribù dell’eclisse. Nel corso del tragitto l’istante si radicalizza, si sottrae alla temporalità, per farsi concreto e esistente, per manifestare (una volta vissuto) l’aspirazione inconcussa all’unità, al fondamento, all’assoluto.
Frammenti vicini tra loro, irregolari e asimmetrici (versi ipometri e ipermetri, strofe di diversa lunghezza, distici, terzine, quartine, sestine, ottava rima, ecc.), disegnano un percorso lento e accelerato, fino a che l’ultima parola si spegne in un silenzio gravido di verità.

Frammenti non preordinati, prosainversi mutevole, frutto di una scrittura raffinata, disposta su differenti piani espressivi che risalgono dall’impercettibilità inconscia alla chiarezza significante della coscienza.

Giulia Perroni alza un canto dolcissimo, a tratti ruvido, tenue e fragoroso: suoni e sillabe di altezza sempre mobile, dentro microintervalli di senso, mai statici, dinamicamente centripeti, volutamente centrifughi, proprio a imitare il battito della vita, diastole e sistole di una ragionata e casuale irradiazione di significanti e significati.

Frammenti non univocamente interpretabili, enigmatici senza nascondere nulla, chiaroveggenti senza la stucchevolezza del profetismo, realistici senza mai perdere il riferimento al significato ultimo delle cose:

Giuseppe Pedota, L'universo acronico, anni Novanta

Giuseppe Pedota, L’universo acronico, anni Novanta

Immagino quell’anima pesante che chiede a tutti un grido

E il corpo che non muore

(La tristezza)

Lapidato come un’estasi tranquilla nella pace dei sogni

Squartato come un sacco

E Giulia ha il collo vergine e stupendo dell’umiltà dei fiori

Il suo giardino ha sette stelle e spade

Il pozzo il suo sublime

L’orologio la quintessenza d’arca
Il brulicare i tulipani d’oro

E questo è tutto

Il nostro sogno è il sogno (p. 81)

Giulia Perroni pratica i suoi esercizi di respirazione, immergendosi nella complessa articolazione del divenire, assecondando la polivalenza del tempo: riepiloga le forme assunte dalla Storia e le distrugge,  ribadisce il valore della vita e il suo logoramento, si lega al principio della stabilitas loci (la Sicilia nel verso Il suo giardino ha sette stelle e spade) e assomma un fitto tessuto di paradossi (Il nostro sogno è il sogno). Permanenza e mutevolezza si piegano all’erranza degli anni attraverso altri luoghi (Roma in primis), così il tempo può fungere da trincea arcaica dell’essere in forma di itinerarium verso il trascendente (Il pozzo il suo sublime) e di descriptio di vicende biografiche individuali e collettive (E Giulia ha il collo vergine e stupendo dell’umiltà dei fiori, Il brulicare i tulipani d’oro). Sempre Giulia Perroni alimenta il pathos con il suo ritmo incantatorio, arabescando una peregrinatio animae, un’agnizione, un riconoscimento delle pulsioni più profonde attorno a cui si muove uno sciame di pensieri dolenti e naufraganti.

Se l’opera del Tempo deve essere analizzata a dovere, allora il viaggio terreno non può che essere retrogrado: nulla torna e se torna è solo leggenda, favola, filastrocca. Il tempo è sempre altro: impassibile, ridicolo, tragico, farsesco. Il tempo non torna indietro anche se tornare è indispensabile, e per questo occorre rivolgersi alla poesia, l’unica in grado di farlo, l’unica capace di riaprire porte, di salire e scendere gradini, di accarezzare con lo sguardo luoghi perduti, battaglie combattute contro la malattia e la morte, contro i blocchi inseparabili di ingiustizia e solitudine.

Proprio perché il reale si disarticola, se ne cerca il filo, secondo la spinta unitiva a configurare il proprio microcosmo mitico nel macrocosmo storico, perciò si delinea la conciliazione tragica degli eventi tra l’infinitamente spirituale e il finitamente materiale:

Giuseppe Pedota Panorama di pianeta spento, anni Novanta

Giuseppe Pedota Panorama di pianeta spento, anni Novanta

Il fato oscuro che accompagnava i reprobi

L’angoscia millenaria dei popoli

Ed io vidi che tutto era silenzio

(…)

E quell’incendio mite che occhieggiava
Portando le radici oltre lo stento
Portando in giro i morti (p. 87)

Giulia Perroni abbandona le forme chiuse  e slarga la scrittura con l’ardore più vivo e più tenue, a seconda che l’espressione tocchi la visceralità o la riflessione. Vinta la forza di gravità il  flusso poematico può cadere in alto e in basso, in uno spazio isotopo dove è possibile porre ogni singolo evento al posto giusto, vale a dire nella totalità che tutto regge e legittima. Senza un intelletto assennato e organizzato e una volontà altrettanto dissennata non esiste perfezione espressiva, non esiste la poesia.

L’essere tautologico si apre alle infinite antinomie, ciascuna segnata da un’occasione  esistenziale e resa con una straordinaria catena analogica che tocca ogni genere letterario (il reperto realistico, la cronaca quotidiana, l’empito lirico, l’eccesso espressionistico, il resoconto sociologico): in  sostanza una scrittura minimale che si accende di visionarietà e oltranza metafisica.

In certe pagine più silenziose il ductus poetico si libera dalle sue finzioni abituali, diventa più perspicace e d’improvviso appare la vita in se stessa, diversa da quella che percepiamo normalmente, oltre lo possibilità dello sguardo, al di là delle forme consuete  e rassicuranti della ragione.

La scrittura fa il vuoto e il vuoto si allarga, non senza crudezza e paura, allora le immagini si scindono e frantumano, sprofondano in un loro abisso e con esse le cose, riconnesse tra loro e riallacciate al soggetto che scrive.

Giulia Perroni non teme di affacciarsi su questo paesaggio interiore: ne distingue gli attimi, ciascuno dilatato fino all’eterno. Vertigine  e stabilità si succedono in modo rocambolesco, all’apparenza casuale e incomprensibile (la forma poematica del libro). Le parole-idee si distendono agostinianamente fra ambizione e miseria: la vita torna a essere grande, insolita, una fantasmagoria di ricordi e fantasie, cronache  e riflessioni. È questa la certezza della vittoria sull’oblio, il miracolo di un passato ripetuto per fotogrammi a sostenere e a legittimare il presente:

Una neve cadeva da alti rami, una svelta clessidra ne induceva
voci di rabbia unite a quei vulcani che inneggiano alla vita
era l’Immenso la chiocciola in disuso la fontana il dubbio
adamantino di certezze, era il pastrano delle nuvole buie

(…)

L’estate come un pioppo o una vernice di smisurato crederci

O un enigma affacciato sul brivido (pp.142-143)

Giuseppe Pedota L'universo acronico, anni Novanta

Giuseppe Pedota L’universo acronico, anni Novanta

Giulia Perroni esce fuori dalla finzione che è divenuta la poesia del fare poesia, di più frammenta e critica la poesia autoreferenziale, riuscendo a comporre un inusitato poema incentrato sul concetto di poematicità, vale a dire scrittura lacerata, molteplice presenza di voci divaricate, impiego voluto di materiali poveri, enunciati da un nuovo soggetto lirico, spossessato, decentrato come se fosse una terza persona, o meglio una quarta persona singolare.

Il lettore potrà notare una scrittura più libera, più plastica, inclusiva dell’extraletterario, problematica, incompiuta, al pari dell’incompiutezza dell’epoca contemporanea. Non si lasci ingannare dalla struttura frammentaria, perché il poematico possiede la sua propria narratività e la sua evidente discorsività che ovviamente non possono essere quelle della prosa stricto sensu.

Risaltano, si contrappongono e si amalgamano classicità  e tradizione in una ridda di archetipi, stratificazioni, generi multipli e canoni extra-ordinari, nei quali non è difficile imbattersi in erotismi, epigrammi funebri, sentenze, cronache di case regnanti (gli Stuart scozzesi p.es.), tutto pur di restituire l’uomo all’umano.

La tribù dell’eclisse  va letto come un tutto, esso si mostra prototipo di complessità e unicità. Parlare di complessità tocca il substrato di una scrittura plurale, polisemica, sentimento della maggiore profondità possibile. Parlare di unicità allude al salto dal nulla al qualcosa, dal mutismo catatonico della massa omologata alla voce dispiegata e originale dello scrittore, in questo caso particolare di una scrittrice fra le più caparbie e più autenticamente in cerca di una forma veramente moderna di poesia.  

Nereidi, nottetempo, appena dopo l’equinozio d’autunno

Giulia Perroni La tribù dell'eclisse copGiulia Perroni da La tribù dell’eclisse (Passigli, 2015)
(…)
Io bevevo la pioggia sacrosanta come le zolle in cielo
e mi stupivo che la bellezza fosse nelle strade
oscura nella forza

Mi stupivo che fossi io la bellezza

La vittoria di serpi di corallo

Voi date onore ai morti, cavalieri

Cavalieri che nelle lance mai perdete il giorno

Giulia era bella nel soffitto d’oro

Malinconia d’un tempo

Cavalieri che forse veleggiate
alla ricerca della vita bionda
del calice che imprime la sua fine
non uccidete gli uomini già morti

Ci fu un tempo ora l’anima è stravolta
la gran virtù s’è fatta titubanza
pepita d’oro e attimo violento
nella stanza degli echi

La ferocia è la paga dei vigliacchi
l’estirpare rinfocola la notte
e il grigio buio aliena le sorgenti

Non ci sarà speranza

Immagino quell’anima pesante che chiede a tutti un grido

E il corpo che non muore

(La tristezza)

Lapidato come un’estasi tranquilla nella pace dei sogni

Squartato come un sacco

E Giulia ha il collo vergine e stupendo dell’umiltà dei fiori

Il suo giardino ha sette stelle e spade

Il pozzo il suo sublime

L’orologio la quintessenza d’arca

Il brulicare i tulipani d’oro

E questo è tutto

Il nostro sogno è il sogno

L’ossessione che naviga nel cielo

E questo è tutto

Origine del vero

C’è silenzio quando origlia la notte

Era tabù la stanza di orologi
di fucili di lame di fanfare
brillava solo il mondo solo il mare
e l’abbraccio magnifico e stupendo
con la vita del tutto

Solo il mare

L’immensità che canta

Il mare azzurro denso d’amore e quieto

Penzolava una rosa dal giardino
dalla soglia si nutre la speranza
anche oggi un fiore rosa
penzola all’aria fuori dal cancello

Anche oggi è la vita
mescolata ai colchici dell’ombra

Ezra rimane duro e battagliero
solitario e profondo
ed anche chi non seppe dire il mantra
che popolava i secoli

Dorme con me la vita

Gli sconfitti hanno una giara che riabbaglia il senso
la pregnanza che illude le chimere

Abbiate pace tutti quelli che vissero

Ogni cosa serve per essere

Venne la pietra a contrastare l’acqua, il fuoco la vertigine
il riparo fu nel sole bellissimo la vita quando l’arte ci avvolse
e in quei momenti come dentro l’amore si discinse
il giorno con la pioggia

E in quei momenti di mezzo sole l’arte fu fulgore

Per la vita strapperò le catene

Anche mia figlia è sogno

Per la vita datemi un nodo per i lestofanti
forse ne avrò pietà
ma non c’è forza che oscuri in me l’Amore
che possa dire smetti di sognare

Io non potrò lasciarle nella casa il sandalo dei lumi o l’impreciso
bianco sconforto delle tele bianche nelle attese ghiottissime
dei nembi non potrò con sveltissimi riguardi tambureggiare
varchi e gelsomini né capriole di nubi oltre lo sguardo ma dirle
che l’eccelso può apparire e darle pace e un’ottima carezza

I lestofanti sono indistinguibili
ma tu per me rimani
accetta il sole sopra ai mandarini
è un disegno di vita

Per favore rimani

Dal deserto sorgono fiabe dentro visi scuri

Rimani, ogni cosa avrà corso

I lestofanti fuggiranno più svelti della luna
quando i cervi camminano e singhiozzano
sulle radure d’api e cinghialini
faranno d’aria i monti

Fuggiranno e tu sarai regina

Te lo prometto

Anche se il male grida
vivrà sempre nel mondo la speranza

I pacifisti hanno nel raggio amaro ribattezzato il fascino
la luna in sette spade c’è silenzio un messaggio cifrato
per chi ascolta

La bellezza verrà te lo prometto

Lo promette lo Spirito alla folla

Nel discorso che viene da montagne

E resiste l’immagine dipinta
sotto cui ero solita mangiare
la fiamma con la luna la fierezza
i cavalieri usciti da quel mare

Tutto così sognante

Poi la vita

La guardo in occhi di ferocia e argento
e ho paura del buio
così come nessuno potrà mai riempire
il mio essere donna

C’era bellezza intorno
nonostante lo stridere dei ferri

C’era un’asse e una luce

La giustizia

Lontana e indispensabile

L’aurora

Necessaria ferocia del linguaggio
ora che tutto è aperto

L’albero incauto a cui mancò una foglia

Altezza del coraggio

Il suo nome fu quello

Quello solo

Coraggio

Come se i sogni nutrano
e passeggino
in un sogno deciso

Olga e Giulia a braccetto
ed io tremante come un nudo fagiano

Giulia Perroni la scommessa dell'infinito cop

La bellezza

Io piccolina

Olga e Giulia e la donna
che sputava in faccia ai suoi carnefici la vita

C’era un giardino un giorno
una volta sì c’era

C’era una volta

Un principe e una luce

Un guardiano di faggi

Un promontorio

Una lucciola spersa tra le foglie

Una eresia

Un incanto

Una carrozza che possedeva i suoi lingotti d’oro

Sono perduta e ascolto: così assurdo il linguaggio

Così acceso il cantare e il mormorio che fa di sale la cintura d’oro

Ho cento rapimenti

Lincoln ucciso, ucciso Petrosino ed ucciso Giuliano

E tanti ancora moriranno nel dubbio

Chi colora i rami della pioggia?

La bellezza fuori dal mondo viva

(…)

Una neve cadeva da alti rami, una svelta clessidra ne induceva
voci di rabbia unita a quei vulcani che inneggiano alla vita
era l’Immenso la chiocciola in disuso la fontana il dubbio
adamantino di certezza, era il pastrano delle nuvole buie

Qualcosa andava come preghiera al laccio
o all’evidenza del rosa delle origini
un pasticcio dentro quel me d’osceno
e tante immagini o persone che escono dal mare
in disincanto come fossero gemiti riflessi del colore del buio

Come poteva dirsi ancora sole quell’estate indolente
e il suo confine nel corallo di fiaba?

La maestria franosa del Vedente, l’onore primordiale delle piazze

L’estate come un pioppo o una vernice di smisurato crederci

O un enigma affacciato sul brivido

(…)

Chiedo a Babington una luce come fossi Maria Stuarda
e lo pregai una volta (occhialino aggiustato sul naso)
che inoltrasse le gambe o il fango delle strade
nel rubinetto d’oro della folla e rimanessi intatta
nel mio collo di splendida figura

Fu la terra un segnale di bimbo
fu la terra pestata e illuminata in fondo a un cuore
da vessazioni inutili

Mi accodo a tutto questo

Tutto quel mare sussiegoso e tranquillo
in ogni specchio delle favole antiche

E mia cugina in visconti di numeri
affannati nei quattro salti della torre
affida a un quaderno tutti i suoi ricordi

Le notizie del padre di suo nonno

Del tempo birichino e incriminato

Lasciato come spegnere

Anche questi morirono in un giorno e tutto fu silenzio

Anche la vita macchiata dal suo sangue

Se potessi fuggire la mannaia!

La sua suocera era addimandata
da tempesta di grilli e si scusava
d’essere così astuta
così grata al dio delle farfalle

Si scusava della follia incipiente
e donava misura e fiori d’oro
al buco stretto di un linguaggio

E chiamava la terra a testimone della vicenda avita

Ora è finita ogni tenue riscossa

Sì, la terra

Innocente e sublime in un androne di foglie rosse
quanto più il cammino è vergine veggente
e sdilinquito in rabbie musicali
con l’accento donato ai puri

La terra connestabile e astrale

Il mio giardino nel fumo di scintille

E Euridice sussulta

Sono morti anche quelli che uccisero

L’ingaggio fece bum bum tra i rami

E si accasciarono venti fanciulli nella neve

La ducea degli Inglesi

E mia cugina che sventaglia la luna

E quella villa nel cuore del silenzio

C’è luna piena ancora

Giulia Perroni

Giulia Perroni

La ricordo

Uno Stuart sposò quell’antenata
( signora della villa e del silenzio)
nel nostro sangue si è incarnato lo scettro
siamo pari all’albagia dei numeri
sempre arditi quando soffia una musica
immortali perduti in un viaggio
e stupiti per il male nel mondo

Sempre adusi alle Veneri scialbe
nella luce della bellezza urgente

Potessi ancora vivere!

Se nel castello inciampa l’arma bassa delle nevi del giglio

In primavera
quando ancora non ci sono spifferi
cento tazze di succo della mela
nell’inverno appena sbocciato

Fui regina di Francia lo sapete?
liquidata da Caterina come una domestica
per una grave mancanza
e la mancanza era il giovane sposo

Scelsi di traghettare come tutti verso le radici
anche se era il cuore del freddo

Ho un broccato di foglie
chiedo unita al dio che mi perseguita
il mio canto di folle dicitura era scritto come un diadema
sulla fronte che su di me nascessero le voglie prone
all’armi incredibili più regina di fastosi miraggi, di convivi
fatti sulla mia pelle

Sono fuori
non mi si lascerà morire tanto spesso lungo viali di magnolie
avranno necessità di nuvole albeggianti sulla stanca corona
del cervello e le sciancate sopravvivono per arrendersi
con tutti i fiumi del passato lungo i porti dell’Everest o le fronde
del deserto dei Tartari in quella nube della trascendenza
che tanto mi fastidia

Fate come non fossi né riguardo per il collare né per l’ignominia
la disapprovazione dei regnanti lo sconcerto dei popoli
il bruciore sotto le ascelle

L’ Inghilterra avrà altri maneggi altre pecore al pascolo
Dio non voglia
caricarsi dell’unico arboscello che tanti giochi ha fatto

Altri miracoli sono pronti sugli alberi

Altre sere dove bevuta luna orchestra un ballo
nella villa che si trasforma

Altre serate bevono

Altri tomi brilleranno ruggendo dentro sale
che non hanno ricordi

La prigione scuoterà i suoi diari
e altre mani faranno doni ai bimbi

Altri dolori cresceranno immancabili

Siate seri io non voglio rimorsi

(…)

Giulia Perroni

Giulia Perroni

Giulia Perroni, nata a Milazzo (Me), vive a Roma stabilmente dal 1972. Unisce alla sua attività poetica un impegno di organizzatrice culturale e di attrice. Sue raccolte: La libertà negata prefata da Attilio Bertolucci, ediz. Il Ventaglio,1986; Il grido e il canto, prefazione di Paolo Lagazzi, 1993; La musica e il nulla, prefazione di Maria Luisa Spaziani, 1996, Neve sui tetti, 1999, La cognizione del sublime, 2001, Stelle in giardino, 2002, Dall’immobile tempo, 2004 (tutti testi pubblicati da Campanotto di Udine); Lo scoiattolo e l’ermellino Edizioni del Leone, 2009, con postfazione di Donato Di Stasi e Quarta di copertina di Renato Minore. Nel gennaio 2012, quasi contemporaneamente, vengono pubblicati una “Antologia di percorso”, La scommessa dell’Infinito, introdotta da un commento critico di Plinio Perilli, per le edizioni Passigli, e il poema Tre Vulcani e la Neve, prefato da Marcello Carlino, Manni editori. L’ultimo libro, La tribù dell’eclisse, edizioni Passigli, marzo 2015, ha la prefazione di Marcello Carlino.

Presente in antologie e riviste in Italia, U.S.A, Giappone e Francia, numerose recensioni le sono state dedicate su importanti riviste nazionali – anche on-line, come le Reti di Dedalus – e internazionali: Gradiva, a New York, Il Fuoco della Conchiglia, in Giappone, Les Citadelles, a Parigi. Di lei si è interessato anche il grande poeta giapponese Kikuo Takano, che le ha dedicato il suo ultimo libro, Per Incontrare. Suoi testi sono stati musicati e portati in tournée in diverse università canadesi da Paola Pistono dell’Accademia Santa Cecilia di Roma. Vincitrice di molti premi, tra cui il Montale, il San Domenichino, il Contini Bonaccossi, R. Nobili al Campidoglio, Omaggio a Baudelaire, il premio Cordici  per la poesia mistica e religiosa, il premio Europa Piediluco 2014. È stata invitata nel 2012 per La scommessa dell’Infinito al Festival Internazionale della Letteratura di Mantova. Giorgio Linguaglossa ha scritto, in “Appunti critici” (Roma 2002), per lei un saggio e ancora in “Poiesis” (n. 23-24) scrive su La cognizione del sublime. Dante Maffia, le dedica a sua volta un saggio su «Poeti italiani verso il nuovo millennio», Roma 2002. Rosalma Salina Borrello, in «La maschera e il vuoto», Aracne 2005  e in «Tra esotismo ed esoterismo», Armando Curcio editore, 2007. Luca Benassi su «La Mosca» di Milano nel 2009. Paolo Lagazzi su «La Gazzetta di Parma».

I suoi libri sono stati presentati in Campidoglio e in altri luoghi prestigiosi di Roma e del territorio nazionale; ultimamente a Villa Piccolo, centro mitico della cultura siciliana.

Ha gestito l’attività letteraria al Teatro al Borgo, al Café Notegen, al Teatro Cavalieri. Con il poeta Luigi Celi organizza dal 2000 presentazione di libri, incontri di arte, letteratura e teatro al Circolo culturale Aleph nel cuore di Trastevere.

Donato Di StasiDonato di Stasi è nato a Genzano di Lucania, ha viaggiato a lungo in Europa Orientale e in America Latina prima di stabilirsi a Roma dove è Dirigente Scolastico del Liceo Scientifico “Vincenzo Pallotti” dal 1999. Ha studiato Filosofia a Firenze, interessandosi in seguito di letteratura, antropologia e teologia. Giornalista diplomato presso l’Istituto Europeo del Design nel 1986, svolge un’intensa attività di critico letterario, organizzando e presiedendo convegni e conferenze a livello nazionale e internazionale.

Ha pubblicato articoli per il Dipartimento di Filologia dell’Università di Bari, per l’Università del Sacro Cuore di Milano e per l’Università Normale di Pisa. In ambito accademico ha insegnato “Storia della Chiesa” presso la Pontificia Università Lateranense. Attualmente collabora con la cattedra di Didattica Generale presso l’Università della Tuscia di Viterbo.

È Consigliere d’Amministrazione della Fondazione Piazzolla, è stato eletto nel Direttivo Nazionale del Sindacato Scrittori. Per la casa editrice Fermenti dirige la collana di scritture sperimentali Minima Verba.

Ha pubblicato «L’oscuro chiarore. Tre percorsi nella poesia di Amelia Rosselli», «II Teatro di Caino. Saggio sulla scrittura barocca di Dario Bellezza» (1996, Fermenti) e la raccolta di poesie «Nel monumento della fine» (1996, Fermenti)

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HAIKU di Luigi Celi CON UNA MISSIVA a Giorgio Linguaglossa: “Osservazioni sull’haiku”, “Sospensione della temporalità”, “La mia scelta iconica della danzatrice”, “Essere contemporanei”, “Sul concetto di ‘impermanenza’”, “Essere contemporanei, scegliere il proprio tempo”

Toshinobu Yamazaki (1866 - 1903) La festa di fiori di ciliegio di Hideyoshi, a Daigo

Toshinobu Yamazaki (1866 – 1903) La festa di fiori di ciliegio di Hideyoshi, a Daigo

Caro Giorgio,

ho letto, sul tuo blog, interessanti commenti ai miei haiku. Ringrazio tutti, a prescindere. Un grazie particolare a Gino Rago, lo stimo molto anche come poeta!, e  complimenti a chi si ispira ai miei haiku per comporre un suo testo; si fa ermeneutica in tanti modi, anche con le risonanze. Poi ci sono la tue preziose Note. Che dire? La poesia dovrebbe poter esistere per sé, come tu scrivi, non comunicare altro “messaggio” che se stessa, il mezzo nelle società mediatiche diventa il fine, e dovrebbe valere sia che rispetti i canoni sia che li insidi e destabilizzi. Nel caso, è proprio del Satori Zen – come scrive Barthes, l’intento “di prosciugare il chiacchiericcio irrefrenabile dell’anima” e produrre anche una sorta di “sospensione panica del linguaggio”, quel “bianco che cancella in noi il regno dei Codici”. Se dopo aver studiato l’haiku non ho rispettato del tutto certi criteri tradizionali è perché sono convinto della natura in certo modo eversiva della poesia. Anche se so che chi non può sopportare gli eretici, li manderà al rogo. Zanzotto e Giuliano Manacorda scrivevano, a proposito dell’haiku in occidente, che “bisogna stare in guardia” da ogni “iperortodossia, che potrebbe rischiare i pericoli dell’isterilimento”. Ma quelli erano poeti e critici fatti di una pasta del tutto particolare.

Quello che tu chiami “sospensione della temporalità” nel suo nesso con il Satori (citando Barthes) si verifica nell’ “istante” in cui l’haiku stesso icasticamente si produce quasi a voler fissare il “divenire”; e come se l’haiku dicesse all’ “attimo” – con Goethe – “fermati sei bello!”. Tuttavia la prospettiva di fondo dell’haiku, e dei miei haiku occidentali o orientali che siano (io vorrei proporre di considerare la poesia territorio di dialogo) resta quella del “Mondo fluttuante” (Ukiyo-e), della “impermanenza” di tutte le cose, come ci ricorda un’esperta di letterature comparate, Rosalma Salina Borello. La studiosa cita tra l’altro un libro di Carlo Calza “Stile Giappone” (Einaudi Torino 2002) per sostenere una tesi che mi corrisponde. Scrive che è proprio il “femminile” ad attrarre e significare quanto vi sia di “illusorio e lieve e impermanente” nel vivere: “l’iki di cui sarebbe custode e depositaria, al massimo grado, l’oiran, la cortigiana d’alto rango (l’unica figura femminile (…) cui fosse consentito possedere caratteri di visibilità e un qualche margine di ben contenuta e ritualizzata autonomia)”.

giapponese 5La mia scelta iconica della danzatrice, può essere compresa meglio se collocata al posto dell’oiran: ne vuol essere il corrispettivo moderno occidentale. Solo in questo senso accetto che ci possa essere una qualche nascosta valenza simbolica nei miei haiku, ma l’haiku rimane ancorato alla semplicità realistica dell’esperienza. A questo proposito vorrei usare una citazione del prof. Emerico Giachery tratta da una sua preziosa disamina del canto V dell’Inferno, in cui discute della speranza di un critico di poter leggere Dante, “senza commenti, solo ascoltando l’ebbrezza del suo linguaggio, il suono delle sue rime…”. Giachery dopo avere obiettato che non è detto “che quella sognata freschezza e immediatezza debba rimanere guastata senza rimedio dal lavoro paziente e fedele di filologi e interpreti…”, fa una concessione a quella che rimane un’ingenua aspirazione; “Dovrebbe poter accadere ciò di cui parla un aforisma taoista. Prima che cominci il cammino del Tao, i monti sono  monti, i fiumi sono fiumi; durante il cammino tutto appare problematico, e i monti non sembrano più monti né i fiumi sembrano fiumi. Ma alla fine, raggiunta la meta, ecco che i monti diventano ancora monti, i fiumi ancora più fiumi”.

Ho composto i miei haiku di getto durante uno spettacolo all’Accademia Nazionale di Danza di Roma, spettacolo di danza e poesia o di haiku tradotti in danza e posizioni mimiche; spettacolo poi replicato nello spazio gestito da me e da Giulia Perroni, nell’Ass. culturale Aleph in Trastevere il 04-03-2011, sotto la regia di Sandra Fuciarelli e per iniziativa e su testi letti e tradotti da Yasuko Matsumoto. Questa mia scelta di mettere al centro dei miei haiku le danzatrici ebbe in apparenza un’origine occasionale, ma fu come se una forza inconscia mi guidasse. Nel suo possibile accostamento a un femminile che emerge sulla scena e fissa la propria visibilità in movimenti, forme e posizioni di bellezza, la ballerina, in armonia con la Natura, nella sua valenza epifanica, fa della scena un campo non solo di rappresentazione ma di vita. Direi pure che la fascinazione del bello, nelle sue implicazioni anche erotiche, nel turbamento che si collega al sesso e alla vita, fa tuttuno con l’arte, la musica, la poesia; questa esperienza ha forse qualcosa a che fare anche con il Tantra. Non intendo approfondire. Non tocca all’autore farlo. Su questo punto non dirò più nulla. L’irrompere del corpo femminile con i suoi umori, la morbidezza flessuosa e omnipervasiva del suo proporsi e imporsi fa dell’occhio che guarda e della mano che traduce in parole e in versi un evento (Erlebnis). Voglio evitare che questo mio intervento possa essere equivocato come interpretazione dell’haiku. L’haiku non vuole essere interpretato ma colto nella sua immediatezza sensibile. Fare entrare con l’effrazione l’interpretazione (il senso) – scriveva Lacan – non può che sciuparlo.

giapponese 2Tuttavia dirò che lo stesso concetto di “impermanenza”, con cui si misura la luce oscura, mi si perdoni l’ossimoro, dell’haiku, ha subito nella storia, nell’etica e nel gusto delle radicali modificazioni: si è andati infatti dal significare “l’impermanenza buddhista di derivazione induista a ciò che l’impermanenza diviene in una dimensione più laica, alta o degradata… Penso a come poi lo intese Asai Ryöi, nei suoi “Racconti del mondo fluttuante (Ukiyo monogatari) del 1661: ‘Vivere momento per momento, volgersi interamente alla luna, alla neve, ai fiori di ciliegio e alle foglie rosse degli aceri, cantare canzoni, bere sake, consolarsi dimenticando la realtà, non preoccuparsi della miseria che ci sta di fronte, non farsi scoraggiare, essere come una zucca vuota che galleggia sulla corrente dell’acqua, questo io chiamo ukiyo’.

L’illuminante testo, che ho appena citato si trova in Se una notte una farfalla sogna di essere Zhuang-zi (nota 111, di p. 91) di Rosalma Salina Borello; esso è tratto e collegato al libro di Gian Carlo Calza citato, dove si precisa che anche la società nipponica ha modificato, direi in senso laico, il concetto di “impermanenza”, quando si andava elaborando l’estetica dell’ukiyo: “Era in questa società che si riflettevano i nuovi gusti e comportamenti e le nuove aspirazioni sviluppati intorno ai teatri del kabuki e alle città senza notte dove le grandi cortigiane creavano nuovi gesti e comportamenti… Dove le case di piacere si trasformavano in veri e propri salotti, in cui, oltre ai grandi mercanti, si incontravano attori, letterati, artisti, editori, ma anche aristocratici in incognito”. Secondo Salina Borello la cultura occidentale contemporanea non può non sentirsi attratta da quest’immagine del mondo fluttuante, proprio per l’ideologia del postmoderno come “apologia della deriva, sulla scorta dell’esaltato dérèglement delle avanguardie storiche, ma anche, non dimentichiamolo, dell’immaginario metamorfico della grande stagione barocca europea”. Seppure è così, l’haiku storicamente e filosoficamente è connotato da antinomie; esso continua a nascondere complesse valenze etico-religiose, naturalistiche, esistenziali, filosofiche.

Gyoshu Hayami ( 1894 – 1935)

Gyoshu Hayami ( 1894 – 1935)

La penetrazione del buddhismo e del taoismo aveva già determinato un mutamento di gusto, una evoluzione del pensiero e delle modalità espressive in arte, in poesia (…in Giappone, perlomeno a partire dal XII – XIII secolo). Quando poi l’haiku nasce, nel XVII sec., dal tanka, con la sottrazione di due versi, si formò la sua struttura di due quinari e un settenario, l’hokku, chiamato haikai o haiku. Questa struttura poetica divenne per così dire a se stante. Rese l’haiku poeticamente dignitoso Jinshiro Munefusa Matsuo, detto Bashō. Siamo nel 1600. Dopo di lui, un secolo dopo, tra i grandi, abbiamo Buson Josa e nel XIX secolo Issa Kobayashi, autore di ventimila haiku. La modernizzazione e l’occidentalizzazione – caro Giorgio – non la fa Luigi Celi, ha inizio con Shiki Masaoka (1867-1902) e Takahama Kyoshi della Scuola Hotoghisu’; costoro subiscono l’influsso del realismo occidentale. Hekigodo diede vita al ‘nuovo haiku’, egli non rispetterà le diciassette sillabe entrate nel canone, né il kigo. L’eretico per eccellenza fu Seisensui, mentre Shuoshi sempre su influsso occidentale liricizza l’haiku. Le scuole di haiku pullulano in Giappone e in Occidente, se ne potrebbero nominare a centinaia. Volendoci richiamare alla tradizione, nell’haiku dei grandi c’è un intrinseco richiamo al modo di vivere e di percepire l’impermanenza e il koan zen. Chi vuole approfondire questi temi può procurarsi il mio recente saggio (mi scuso se mi autopromuovo) di più di settanta pagine in Fior di Loto, sulla poetica di Kikuo Takano; testo sul rapporto musica-poesia, oltre che tra poesia e filosofia (di cui mi occupo). Fior di Loto è opera di Sergio Allegrini, Yasuko Matsumoto e del sottoscritto, per l’Istituto bibliografico italiano di musicologia (Ibimus) – Roma 2014 – saggio per il quale sono invitato a maggio in Giappone. Volendo solo accennare ai rapporti tra l’haiku e il koan, dirò che il poeta cerca di vuotarsi dell’io, come il meditante zen. Dunque coesistono due anime nel Waka, nella poesia nipponica, una ascetica – se è vero che il grande Bashō , per l’haiku, ha fatto una scelta di vita monastica, e l’altra che in qualche modo si riconnette alle sue origini più laiche: così era nei poeti di corte e nella poesia canonizzata per editti imperiali.

Essere contemporanei, scegliere il proprio tempo, riconoscere il luogo esteriore/interiore del proprio operare in un mare di configurazioni e metamorfismi stilistici, concettuali, emotivi, anche nella contraddizione, è sapersi al proprio posto, per quanto nani sulle spalle dei giganti. Dichiarare che i propri haiku sono “occidentali” è una necessità di campo, un atto di verità. Se si volesse continuare a parlare dei massimi sistemi non sarebbero da trascurare le questioni linguistiche, che non affronto in questa sede. Dico solo che senza una consapevolezza della lingua e del come i giapponesi disponevano le loro poesie non si va da nessuna parte. Per altro non basta lo studio dei sincronismi, delle strutture formali, non basta contare le sillabe, occorre indagare la diacronia di ogni struttura. Senso/non-senso dei processi linguistici…, sapere perché si opera anche la deformazione, si produca il degrado della lingua. Se poi senso e non-senso sono uniti, come in un ossimoro, questa è un’altra questione. Senso e non senso, come essere, nulla e divenire, finiscono con il coinnestarsi in un amalgama di mistero. Il silenzio contemplativo della natura, l’osservazione senza giudizio si trasferiscono in poesia, si fanno poesia perché lo sono già in natura (quanta poesia nella natura nipponica!).

Bairei Kouno (1844 - 1895)

Bairei Kouno (1844 – 1895)

L’asimmetria tra le parti dell’haiku, l’antinomia tra i due ku, che non si sopporta in un haiku scritto in occidente, nasconde l’antinomia di fondo di ogni esistenza, fino all’esperienza vuota del nulla, alla sua epifania priva di rivelazione. Ciò è certo qualcosa di più che una questione metrica. Siamo nel cuore dell’haiku, della sua possibile assimilazione al koan zen, esperienza di vita meditante. Rimasticare senza possibile via d’uscita un motto, un enigma, un problema posto dal maestro al discepolo, posto e riproposto senza che – scrive R. Barthes – ci sia possibile soluzione… Stiamo sostenendo l’esistenza di una linea di nascosta confluenza tra la consapevolezza meditante zen (zazen), il riposo meditante (Samadhi) e l’icasticità dell’haiku, che concentra in un attimo, in lampi d’immagini, in pochi versi, caratteri inconciliati della realtà, fino a mostrare la prossimità al nulla, al vuoto.

Il problema dell’esistenza, della verità e del senso, per noi occidentali, segue altri percorsi.

La via del Tao non è propriamente la nostra via. Ecco perché si possono scrivere degli haiku occidentali; haiku tali che non possono mai essere totalmente haiku. Ma forse nessun haiku è stato mai veramente perfetto, come nessuna poesia è la Poesia tout court. L’haiku – più di altri generi – nasce come dal “Divenire” eracliteo, o dalla impermanenza, come meglio si dice. “Noi esistiamo grazie all’Assenza”, scriveva Takano. L’haiku fa del Nulla e di ogni kenotico sottrarsi lo sfondo del suo misterioso riproporsi nel tempo.

Un’ultima cosa: i punti di contatto tra occidente e oriente sono molteplici. È auspicabile ricercarli. Può la poesia farsi voce di dialogo e di ciò che la cultura e la filosofia contemporanee, dominate dalla tecnica, dal mercato soprattutto finanziario e dalla mercificazione post-umana sono incapaci perfino di nominare in modo convincente e dignitoso? Il problema che pongo non è solo di linguaggio. Il linguaggio è la “casa dell’essere” o del nulla? Come viene concepito il nulla in Oriente, nella filosofia cinese e nipponica? Come è stato concepito ed è concepito in Occidente? Tutto ciò ha molto a che fare con l’haiku, con la poesia, con la filosofia. Noi, gli haiku – se li apprezziamo – li vogliamo gustare però nella loro offerta di realtà, sperando che qualcuno non cerchi di sostituire questo piccolo dono con la testa dell’autore su un piatto d’argento, convinto dalle sue stesse Salomè danzanti. È il rischio che corro presentando le mie oiran in versi, forse troppo sensuali e apparentemente dissacranti. Tuttavia mi domando, ora un po’ stranito, come si possa sostenere che nei miei haiku non ci sia pensiero e sfondo filosofico, quello (e leggo con ancora maggiore sorpresa) da cui l’haiku dovrebbe essere generato? Vorrei pure rassicurare chi si pone il problema di sapere di quanto debba abbassarsi per rassomigliarmi. Mi auguro che nessuno scriva come me, sarei felice che ognuno ritrovasse la propria cifra linguistica, per essere poeta senza dovere abbassare gli altri per esistere.

Ti lascio con questo motto, che mi invento per te e per gli affettuosi amici del tuo blog: – La poesia sia la tua, la nostra Arianna, in questo labirinto; dopo Babele ci sia una Pentecoste! –

(Luigi Celi)

Japanese Priest

Japanese Priest

Luigi Celi
In anfore cave

la spina punge
soltanto il corpo vivo
non disperare
*
uccello morto
volato sulla stella
canta il passato
*
magnolia bianca
l’occhio che la contempla
diventa fiore
*
è noche oscura
pregando nel profondo
la luce affiora
*
è notte scura
la rosa nel giardino
la rende chiara
*
prugna vermiglia
la colgo coi miei occhi
senza sfiorarla
*
ho spalle d’alba
rivolte contro il buio
d’ogni passato
*
Morfeo ha il filo
spalanca labirinti
al mio sognare
*
anfore cave
liquide le parole
canto disperse
*
barca stagliata
sul ciglio d’orizzonte
ferma anche il sole
*
tra i ciclamini
profumano danzando
fanciulle in fiore
*
danzano lievi
nell’aria ricamando
fili di luce
*
più sensuale
la danza nella notte
l’occhio s’accende
*
varcano in danze
i margini più cupi
non è più notte
*
d’edera tirso
vessillo di baccanti
e rosso vino
*
se disamata
divora la sua carne
una baccante
*
è di mirtillo
il nido della sera
sanguina il cuore
*
occhi e lapilli
l’anima è nel vulcano
lava ribolle
*
l’occhio interiore
sanato nella pace
vola più in alto
*
le ballerine
annodano le chiome
foglie nel vento
*
non c’è pienezza
se il tempo non rivela
il suo mistero
*
cade dall’alto
la mela newtoniana
non sa il motivo
*
ha la bellezza
un’anima nascosta
seppure esposta
*
amo del miele
il dolce che rivela
lavoro d’api
*
piccole cose
e grandi risonanze
contrasti e segni
*
danza una bimba
al canto della pioggia
là nell’aiola
*
svuota l’inferno
d’un bimbo il puro pianto
il suo dolore
*
i raggi d’oro
nel grembo degli ulivi
orme del sole
*
sul lago verde
non canta certo il cigno
la quiete canta
*
un re impazzito
ci veste e poi ci sveste
funesto il tempo
*
malanni e cure
innalzano sul corpo
duplice scanno
*
l’ultima storia
un po’ come la prima
Genesi eterna
*

l'opera migliore allievo Kiitsu Suzuki (1796-1858)

l’opera del migliore allievo Kiitsu Suzuki (1796-1858)

corpo d’infante
crescendo nutre il segno
di verde gemma
*
mente sapiente
ama le cose belle
ma sa temerle
*
un giglio puro
t’abbaglia il suo candore
pure di notte
*
è l’informale
il segno d’un passaggio
crepuscolare
*
incubi e sogni
liquidi persistenti
e fluttuanti
*
vecchio gabbiano
franato di celeste
dentro il suo volo
*
piange un bambino
e questo rende chiaro
il suo destino
*
pure nell’alba
lo sguardo si prepara
alla sua sera
*
non c’è mattino
che non nasconda in seno
altro destino
*
segno il dormire
anticipa la sorte
d’ogni mortale
*
si ferma il tempo
se di silenzio nutro
la mia preghiera
*
lume di luna
straluna nella sera
apre la notte
*
un doppio sguardo
radica la visione
nell’occhio interno
*
tra siepi e rovi
brillano tra le spine
succose more
*
fermate il tempo
nel carcere del tempo
senso è non senso
*
cruna di fede
s’oscura la mia stella
estasi cruda
*
Dio del mio niente
non cerco fondamento
d’ogni mio abisso
*
occhi e farfalle
in libertà d’azzurro
ridono d’ali
*
danzano lievi
intorno a un punto fisso
è perno un mimo
*
uomo e caprone
il satiro danzante
salta leggiadro
*
satiro il mimo
si veste sulla scena
del vello d’oro
*
germina il mimo
pluralità di senso
in un sol gesto
*
sul volto il mimo
ha maschera che parla
senza parlare
*
un mimo ombroso
disteso sotto un pino
sogna la luce
*
angelo il mimo
di marmo il suo mantello
di carne il cuore
*
danzano tutte
piantato il mimo è fermo
petroso il gesto
*
le danzatrici
le gambe sollevate
a volo d’ali
*
un capro il mimo
distrugge le viole
crudo in amore
*
satiro il mimo
le corna in controvento
uomo e caprone
*
un mimo orrendo
coperto dal suo manto
titilla un seno
*
bevendo vino
danzano tre baccanti
nude tra i veli
*
olio d’amore
scivola giù dal seno
nel grembo d’oro
*
non dirmi nulla
dei mandorli fioriti
se inverno è sempre
*
più vero il sogno
se in sonno si connette
alla sua fonte
*
lo scarabeo
pure d’estate è nero
anche di giorno
*
le foglie morte
autunno insanguinato
da mane a sera
*
nuvola bianca
sul nero della valle
quasi farfalla
*
il pettirosso
all’albero si stringe
fermo nel canto
*
cerchi nell’acqua
il sasso l’ha prodotti
anche nell’occhio
*
soffia già il vento
l’anima è devastata
come la rosa
*
lievi danzanti
nei vortici dell’aria
foglie farfalle
*
bambole vive
tra fiori di mimosa
festa in giardino
*
glicini azzurri
bagnati dal suo pianto
sulle mie mani
*
bianca rugiada
riposa sopra il verde
e sui capelli
*
fiocchi di neve
perlacei son caduti
conchiglia il mare
*
ritorna al cielo
del mare la condensa
il mare in cielo
*
sogno nell’arte
si compia nel mio sogno
il mio destino
*

luigi celi

luigi celi

Luigi Celi è nato in Sicilia, in provincia di Messina, ha insegnato per trent’anni nelle scuole superiori di Roma. Esordisce con un romanzo in prosa poetica L’Uno e il suo doppio, e un breve saggio filosofico/letterario, La Poetica Notte, per le edizioni Bulzoni (Roma, 1997). Pubblica diversi libri di poesia: Il Centro della Rosa, Scettro del Re, Roma, 2000; I versi dell’Azzurro Scavato Campanotto, Udine, 2003; Il Doppio Sguardo Lepisma, Roma, 2007; Haiku a Passi di Danza (Universitalia, 2007, Roma); Poetic Dialogue with T. S. Eliot’s Four Quartets, con traduzione inglese di Anamaria Crowe Serrano (Gradiva Publications, Stony Brook, New York, 2012). Quest’ultimo testo, già tradotto in francese da Philippe Demeron, è in pubblicazione a Parigi. Per la sua opera poetica ha avuto riconoscimenti, premi e menzioni.

Sue poesie edite e inedite e suoi testi di critica si trovano su Poiesis, Polimnia, Studium, Gradiva, Hebenon, Capoverso, I Fiori del Male, Pagine di Zone, Regione oggi, Le reti di Dedalus ( rivista on line). Nel 2014 pubblica un saggio filosofico-letterario su Kikuo Takano per l’Istituto Bibliografico Italiano di Musicologia.

Presente in numerose antologie, tra gli studi critici a lui dedicati ricordiamo: Cesare Milanese su Il Centro della Rosa, nel 2000; Sandro Montalto, su Hebenon, nel 2000; Giorgio Linguaglossa, su Appunti Critici, La poesia italiana del Tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte Scettro del Re, 2002; La nuova poesia modernista italiana Edilet, 2010; Dante Maffia in Poeti italiani verso il nuovo millennio, Scettro del Re, 2002; Donato Di Stasi su Il Doppio Sguardo, nel 2007; Plinio Perilli, per Poetic Dialogue. Hanno scritto di lui tra gli altri: Domenico Alvino, Lea Canducci, Antonio Coppola, Philippe Démeron, Luigi Fontanella, Piera Mattei, Roberto Pagan, Gino Rago, Arnaldo Zambardi. Con Giulia Perroni ha creato il Circolo Culturale Aleph, in Trastevere, dove svolge attività di organizzatore e di relatore dal 2000 in incontri letterari, dibattiti, conferenze, mostre di pittura, esposizioni fotografiche, attività teatrali. Ha organizzato incontri culturali al Campidoglio, un Convegno su Moravia, e alla Biblioteca Vallicelliana di Roma.

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Archiviato in haiku occidentali

Giulia Perroni –  testi tratti dal POEMA La tribù dell’Eclisse (2015) con un Commento di Giorgio Linguaglossa e una Lettera di Luigi Celi

 saturno EclisseGiulia Perroni, nata a Milazzo (Me), vive a Roma stabilmente dal 1972. Unisce alla sua attività poetica un impegno di organizzatrice culturale e di attrice. Sue raccolte: La libertà negata prefata da Attilio Bertolucci, ediz. Il Ventaglio,1986; Il grido e il canto, prefazione di Paolo Lagazzi, 1993; La musica e il nulla, prefazione di Maria Luisa Spaziani, 1996, Neve sui tetti, 1999, La cognizione del sublime, 2001, Stelle in giardino, 2002, Dall’immobile tempo, 2004 (tutti testi pubblicati da Campanotto di Udine); Lo scoiattolo e l’ermellino edizioni del Leone, 2009, con postfazione di Donato Di Stasi e Quarta di copertina di Renato Minore. Nel gennaio 2012, quasi contemporaneamente, vengono pubblicati una “Antologia di percorso”, La scommessa dell’Infinito, introdotta da un commento critico di Plinio Perilli, per le edizioni Passigli, e il poema Tre Vulcani e la Neve, prefato da Marcello Carlino, Manni editori. L’ultimo libro, La tribù dell’eclisse, edizioni Passigli, marzo 2015, ha la prefazione di Marcello Carlino.

Presente in antologie e riviste in Italia, U.S.A, Giappone e Francia, numerose recensioni le sono state dedicate su importanti riviste nazionali – anche on-line, come le Reti di Dedalus – e internazionali: Gradiva, a New York, Il Fuoco della Conchiglia, in Giappone, Les Citadelles, a Parigi. Di lei si è interessato anche il grande poeta giapponese Kikuo Takano, che le ha dedicato il suo ultimo libro, Per Incontrare. Suoi testi sono stati musicati e portati in tournée in diverse università canadesi da Paola Pistono dell’Accademia Santa Cecilia di Roma. Vincitrice di molti premi, tra cui il Montale, il San Domenichino, il Contini Bonaccossi, R. Nobili al Campidoglio, Omaggio a Baudelaire, il premio Cordici  per la poesia mistica e religiosa, il premio Europa Piediluco 2014. È stata invitata nel 2012 per La scommessa dell’Infinito al Festival Internazionale della Letteratura di Mantova. Giorgio Linguaglossa ha scritto, in “ Appunti critici”Roma 2002, per lei un saggio e ancora in “Poiesis (n. 23-24) scrive su “ La cognizione del sublime”. Dante Maffia, le dedica a sua volta un saggio su Poeti italiani verso il nuovo millennio, Roma 2002. Rosalma Salina Borrello, in La maschera e il vuoto, Aracne 2005  e in Tra esotismo ed esoterismo, Armando Curcio editore, 2007. Luca Benassi su La Mosca di Milano nel 2009. Paolo Lagazzi su La Gazzetta di Parma. I suoi libri sono stati presentati in Campidoglio e in altri luoghi prestigiosi di Roma e del territorio nazionale; ultimamente a Villa Piccolo, centro mitico della cultura siciliana. Ha gestito l’attività letteraria al Teatro al Borgo, al Café Notegen, al Teatro Cavalieri. Con il poeta Luigi Celi organizza dal 2000 presentazione di libri, incontri di arte, letteratura e teatro al Circolo culturale Aleph nel cuore di Trastevere.

cinese drago Si racconta che nei tempi antichi, in Cina, quando arrivava un'eclissi di sole, si usasse battere i tamburi per cacciar via il dragone che si stava ...

cinese drago Si racconta che nei tempi antichi, in Cina, quando arrivava un’eclissi di sole, si usasse battere i tamburi per cacciar via il dragone che si stava …

 Commento di Giorgio Linguaglossa

 Siamo ancora dentro una Civiltà di tipo 0, secondo la tipologia indicata dal fisico teorico Michio Kaku, una civiltà che trae energia da elementi che trova già pronti in natura (il carbone, il petrolio, l’uranio etc.). È quello che ci vuole dire Giulia Perroni con questo bizzarro titolo, apparteniamo ancora alla «tribù dell’eclisse», siamo simili a quegli arcaici che assistevano con spavento alla eclisse come ad un evento taumaturgico e divino. Tutta la variegata «sostanza» del discorso poetico di Giulia Perroni ha qualcosa di arcaico e di moderno insieme, è costituita da immagini e substrati di immagini, di metafore e di substrati di metafora, di schegge di immagini, di voli spericolati tra le immagini, di capovolgimenti di tempi e di spazi. Poema che si estende per 170 pagine senza un attimo di tregua, con un ritmo percussivo ed avvolgente che vuole irretire il lettore nelle proprie spire. Come sappiamo dagli studi di un sinologo come Ernest Fenollosa, le parole astratte, incalzate dall’indagine etimologica, ci svelano le loro antiche radici affondate nell’azione; e forse il dinamismo della poesia della Perroni è un lontano parente del dinamismo universale che un tempo animava le lingue primitive; della lingua primordiale l’autrice eredita la capacità di creare universi paralleli e «mondità». Come sappiamo, non è da un arbitrario intento soggettivo che nacquero le  primitive metafore, esse seguono la matrice delle relazioni che accadono in natura, la natura ci fornisce le sue chiavi, e il linguaggio recepisce questa matrice che si trova in natura. Giulia Perroni è convinta che il mondo sia pieno di omologie, simpatie, identità, affinità e che sia compito della poesia catturare i segreti di queste relazioni interne tra le «cose». La metafora è la vera sostanza della poesia, l’universo è un orizzonte di miti sedimentatisi; la bellezza del mondo visibile è impregnata di arte, è quest’ultima che crea la bellezza della vita; la poesia fa coscientemente ciò che i primitivi fecero inconsciamente, e la poesia di Giulia Perroni non fa altro che riesplorare e rielaborare i miti e le imagery della civiltà del Mediterraneo, getta ponti che si estendono tra il visibile e l’invisibile, attraverso il tempo e lo spazio, il lessico prosaico e quello ricercato. È questa la poetica di Giulia Perroni, leggere la sua poesia significa accettare questa impostazione di vita e del modo di concepire l’arte poetica; ma nella sua poesia c’è anche il gusto del gioco, l’allegria degli spazi, la gioia del ritrovarsi nell’universo, l’ironisme, l’istrionisme. C’è altro, c’è la «mondità», un riepilogo e una accelerazione del mondo di fuori e del mondo di dentro.

Giulia Perroni e Yasuko Matsumoto

Giulia Perroni e Yasuko Matsumoto

 Caro Giorgio,

ti faccio i complimenti per la tua interpretazione della poesia di Giulia, una poesia non facile da accogliere, fuori, com’è, dai parametri stantii e prosastici di buona parte dei linguaggi poetici contemporanei. La poesia di Giulia è un’esplosione di metafore. Per il grande poeta giapponese Kikuo Takano – che Giulia ed io abbiamo fatto conoscere in Italia, lavorando sinergicamente con Yasuko Matsumoto -: “Nella nostra anima esiste una innegabile sete che può essere soddisfatta soltanto dalla metafora”, La “metafora – scriveva – è ciò che trasporta”… Essa trasporta il “Risveglio”… “più di una volta e lo fa più volte fino al punto in cui le cose si risvegliano”; e tuttavia: “scrivere poesie vuol dire anzitutto soffermarmi con uno stupore profondamente fresco di fronte a ciò che esiste, accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri, fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia era per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri, legami che più fissavo e più perdevo (ma tutto intanto diventava limpido)”. Certo, la poesia di Giulia si svolge, si avvolge, si dipana obbedendo al ritmo di una musicalità che mira a connettere e ad amplificare consonanze e dissonanze della Natura e della Storia.

Giulia Perroni

Giulia Perroni

Proprio come tu dici, caro Giorgio, sviluppando un pensiero di Ernest Fenollosa: “Le parole astratte, incalzate dall’indagine etimologica, ci svelano le loro antiche radici affondate nell’azione; e il dinamismo della poesia della Perroni è un lontano parente del dinamismo universale”… E la metafora – che Giulia utilizza moltissimo – è colta da te nel rapporto ancestrale, genetico, “con le relazioni che esistono in natura”. È come se Giulia volesse riconquistare “omologie, simpatie, identità, affinità … i segreti delle relazioni interne tra le ‘cose’, riesplorando anche i miti e le imagery della civiltà del Mediterraneo, gettando ponti tra il visibile e l’invisibile”. Non si potevano cogliere più profondamente le caratteristiche di questo misterioso poema, che avvolge e trascina nei suoi incalzanti ritmi e nel camaleontico iconismo del suo narrato. Non trascurerei i continui rimandi storici che costituiscono un filone sotterraneo, per certi versi un filo d’Arianna di questa labirintica scrittura, che procede generalmente in maniera eccentrica rispetto a qualsiasi significato logicamente predeterminato e unificando senso e non senso. L’istinto poetico della Perroni privilegia, certo, le possibilità innovative della sua neo-lingua; un linguaggio a volte destrutturato, intessuto da stilemi desueti, ma altre volte più collegabile alla tradizione per l’uso dell’endecasillabo e delle sottostrutture metriche dello stesso, per le assonanze, le allitterazioni, le rime. L’istinto musicale, a mio avviso, affinato nel tempo e nella lunga pratica della versificazione, è sicuro e consapevole anche delle possibilità inesplorate della sua lingua poetica e, filosoficamente, sembra ricostituirsi in una cifra ontologica e metafisica, nei suoi analogici rimandi alla trascendenza; tutto ciò in contrasto con il tempo della povertà, in cui il linguaggio ha cessato di essere “casa dell’essere”, per l’avvenuto rovesciamento dell’ontologia nel nihilismo. Se si collegasse la poesia di Giulia all’anomalismo dei linguaggi sperimentali sarebbe facile apprezzare la pratica del contrappasso ad ogni significato, e ancora potrebbe essere ritrovato in questa poesia una qualche ascendenza surrealista. In realtà Giulia si esprime – come ha notato Marcello Carlino – per ossimori. Questa poesia, nel suo anomalismo strutturale opera una riconsacrazione ludica e insieme metafilosofica del significato; se si guarda oltre gli aspetti di dettaglio, essa fa ciò mentre coniuga per contrasto – ripeto – senso e non senso. Questa poesia è nel continuum un aneddoto, simile al Kōan zen di cui Moreno Montanari – ne Il Tao di Nietzsche – scriveva che viene proposto all’apprendista o al lettore, perché dopo essersi sbarazzato da ogni volontà di razionalizzazione, giunga attraverso un suo personale interrogare e peregrinare nelle domande ad una nuova non-logica chiarezza, che “trasformerà il suo modo di essere e di concepire la vita”. R. Barthes, vedeva nel Kōan zen “un aneddoto che viene proposto dal maestro: non di risolverlo, come se avesse un senso, e nemmeno di afferrare la sua assurdità (che sarebbe ancora un senso) , ma di rimasticarlo ‘sino a che casca il dente’ “. Questi versi collegano le contraddizioni e li fanno coesistere senza superarli; gli audaci e a volte anche improbabili accostamenti di parole e di iconismi, svelano e nascondono le lacerazioni dolorosissime della storia e della vita, senza però mai cedere al nihilismo e alla disperazione. La caleidoscopica accensione dei versi, nella pratica ossimorica di oscurità formali e di luminose trasparenze, mira alla gioia, al godimento della bellezza. Anche un barocchismo dei versi che fa pensare a Lucio Piccolo si coniuga all’esperienza della ferace natura siciliana, alle primaverili esplosioni sinestesiche di colori, odori, sapori, al sensuale rifiorire del mondo dopo ogni inverno di violenza e sopraffazione. Tutto ha risonanza anche come Memoria ancestrale, primigenia. Qui ci troviamo d’accordo con ciò che tu scrivi sui miti mediterranei sedimentati.

Tribù di eclissi è verso della Dickinson… Qui l’eclisse, però, è forse mancanza di memoria mitica e storica; il mito serve a conoscere l’inconscio, la storia è funzionale alla coscienza. In ogni caso si raggiunge un’inedita consapevolezza attraverso l’arte, la poesia, che non danno risposte razionali. Pochi sanno dire qualcosa negando l’immediatamente traducibile in senso del significante, come fa Giulia… Tuttavia, i rimandi storici fanno di questa poesia un calembour di notizie e di particolarità non da tutti conosciute per quel che attiene la storia d’Italia, del Meridione e della Sicilia. Giulia opera ancora con una scaltrita capacità d’individuare in maniera sguincia questioni sociali anche contemporanee. C’è inoltre una filosofica consapevolezza della natura conflittuale delle relazioni umane, dei tradimenti delle attese e di aspettative antropologiche e sociali rimaste inevase.

 Luigi Celi, Roma 28 aprile 2015

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

Giulia Perroni da La tribù dell’Eclisse Passigli, Firenze, 2015 pp. 170 € 20

Timido viene il canto
il cappio ha un contatto preciso
il raggio riporta il sereno
dove è fuggita l’anima

Peraltro si fa titubante
il passo che unisce la trave
a forma di antichi narrati
lì dove gridano i morti

Tuppete qua tuppete là
gira la foglia la verità
tenta la vita un giro a mezzo
il mare sogna la sua cavezza
un alto monte seduce il mare
non ha la spuma per navigare
sotto le chiome sta Carolina
ma fugge il vento dalla collina
e tutto quanto già s’addormenta
il bene e il male nessuno sente
solo la pioggia sta sui limoni
come l’avviso dei lucumoni
tante certezze un solo inciso
rimane l’oro sulle camicie
rimane tutto nel suo silenzio
nel tempo d’ocra di Sua Eccellenza
non tuona il mare né più il sovrano
anche le teste nessun ricorda
rimane il mare rimane il monte
una dolcezza una ansietà.
Tuppete qua tuppete là

E nel giardino scoiattola il bimbo
tessera franca sono i guardiani
di là si stinge persino il mare
di un suo bisogno di verità

Tuppete qua tuppete là

Trallallallero trallallallà

Incustodita la luna fugge
non c’è guardiano sopra il mistero
né sulla guglia di mezzanotte
la luce bianca o il fuoco nero

Giulia Perroni La tribù dell'eclisse cop

Trallallallero trallallallà
fuori chi parla senno se no
bruca l’ampolla
ghirighigò

Non c’è parola per il silenzio

Incrociano i gigli la fresca notte
la rosa è come una margherita
bianca nel volto ma sulle dita
come un rossore di vanità

Bianca e sognante: m’ama non m’ama
urge al tramonto la sua campana
è tutto un gioco come la vita
la folle foglia di margherita

Interessante senno sennò
bruca la foglia
ghirighigò

Questa è la vita che altro vuoi
la guglia ha fretta di rami d’oro
ha fretta il sangue delle mattine
per dove passa la birichina

Senno di luce senno sennò
bruca la terra
ghirighigò.

Giulia Perroni

Giulia Perroni

Bellissimo barone fastoso
anche tu hai parlato di danaro
sotto lo squallido scalone
risuscitato dallo sfarzo

Sono tornate in su le torrette
e i lillà infuocati di giglio
come fu che l’ardente cipiglio
bisticciò con le lodi?

La guerra fece cucù dai rami
e il sogno si ritirò dal cancello
in una tana di pioggia serrata
per lasciare fuggire la stella

Saffo non voglio sapere
né di tuo fratello, né della prigione
mi basta il fascino delle viole
che hai lasciato quaggiù sulla terra

Barone Wolff non so nulla di te
ma il ritratto è di un grande bell’uomo
non distruggere la visione onorata
che lascia trapelare i canti

Saffo e il barone
l’ammucchiata delle folli corse
nelle macchine al gran premio di Rally
che vanno per funghi e per boschi

Fecero man bassa i delitti
sulle stuoie di languidi araldi
un arco lontano e difficile
preparò la festa agli intrugli

Ma se da dietro a un cappello
un giardino fa capolino
io tendo alla rapida gogna
il profumo che mi fa secca

Erano alberi alti
e la villa non aveva finestre
un sogno masticato di giallo
nella vendetta sicura

Ed anche chi rovistava le stelle
aveva fama di gattopardo
macellaio di spade pesanti
in un paradiso che perdeva le braghe

Lungo la Senna con alberi lunghi
e ombrellini di rame a passeggio

Ed anche in Lettonia o in Ispagna

Fecero rami pazzi martiri e santi
che urlavano come contralti
quando la vita aveva ancora altro da aggiungere

E per favore niente bocche storte

Non mi parlate di angeli scarabocchiati
che con tenaci lanterne rasentano
lungo muri scrostati i pisciatoi delle stelle

I padri a volte seviziano le virtù delle fanciulle
e la santità delle terre
che non appartengono a nessuno

Solo il tempo agita con armi di corallo
la primavera che ha baciato in bocca
la chiesa-madre affollata

Giulia Perroni con Luigi Celi

Giulia Perroni con Luigi Celi

Ed era vera la grandiosa licenza del guardare la sponda liberata
il granellino del contrasto dei semi, il terribile amico sonnecchiava
tra i rami della pioggia verso d’oro che si faceva bianco gelsomino
quando spuntava l’alba

Chiedo a Babington una luce come fossi Maria Stuarda
e lo pregai una volta (occhialino aggiustato sul naso)
che inoltrasse le gambe o il fango delle strade
nel rubinetto d’oro della folla e rimanessi intatta
nel mio collo di splendida figura

Fu la terra un segnale di bimbo
fu la terra pestata e illuminata in fondo a un cuore
da vessazioni inutili

Mi accodo a tutto questo

Tutto quel mare sussiegoso e tranquillo
in ogni specchio delle favole antiche

E mia cugina in visconti di numeri
affannati nei quattro salti della torre
affida ad un quaderno tutti i suoi ricordi

Le notizie del padre di suo nonno

Del tempo birichino e incriminato

Lasciato come spegnere

Anche questi morirono in un giorno e tutto fu silenzio

Anche la vita macchiata dal suo sangue

Se potessi fuggire la mannaia!

La sua suocera era addimandata
da tempesta di grilli e si scusava
d’essere così astuta
così grata al dio delle farfalle

Si scusava della follia incipiente
e donava misura e fiori d’oro
al buco stretto di un linguaggio

E chiamava la terra a testimone della vicenda avita

Ora è finita ogni tenue riscossa

Si, la terra

Innocente e sublime in un androne di foglie rosse
quanto più il cammino è vergine veggente
e sdilinquito in rabbie musicali
con l’accento donato ai puri

La terra, connestabile e astrale

Il mio giardino nel fumo di scintille

E Euridice sussulta

Sono morti anche quelli che uccisero

L’ingaggio fece bum bum tra i rami

E si accasciarono venti fanciulli nella neve

La ducea degli inglesi

E mia cugina che sventaglia la luna

E quella villa nel cuore della notte

Quando nessuno può ascoltarne il silenzio

C’è luna piena ancora?

La ricordo

Uno Stuart sposò quella antenata
(signora della villa e del silenzio)
nel nostro sangue si è incarnato lo scettro
siamo pari all’albagia dei numeri
sempre arditi quando soffia una musica
immortali perduti in un viaggio
e stupiti per il male nel mondo

Sempre adusi alle veneri scialbe
nella luce della bellezza urgente

Potessi ancora vivere!

Se nel castello inciampa l’arma bassa delle nevi del giglio

In primavera
quando ancora non ci sono spifferi
cento tazze di succo della mela
nell’inverno appena sbocciato

Fui regina di Francia lo sapete?
liquidata da Caterina come una domestica
per una grave mancanza
e la mancanza era il giovane sposo

Scelsi di traghettare come tutti verso le radici
anche se era il cuore del freddo

Ho un broccato di foglie chiedo unita al dio che mi perseguita
il mio canto di folle dicitura era scritto come un diadema
sulla fronte che su di me nascessero le voglie prone all’armi incredibili
più regina di fastosi miraggi, di convivi
fatti sulla mia pelle

Sono fuori
non mi si lascerà morire tanto spesso lungo viali di magnolie
avranno necessità di nuvole albeggianti sulla stanca corona
del cervello e le sciancate sopravvivono per arrendersi con tutti
i fiumi del passato lungo i porti dell’Everest o le fronde
del deserto dei Tartari in quella nube della trascendenza
che tanto mi fastidia

Fate come non fossi né riguardo per il collare né per l’ignominia
la disapprovazione dei regnanti lo sconcerto dei popoli
il bruciore sotto le ascelle

L’Inghilterra avrà altri maneggi altre pecore al pascolo
Dio non voglia
caricarsi dell’unico arboscello che tanti giochi ha fatto

Altri miracoli sono pronti sugli alberi

Altre sere dove bevuta luna orchestra un ballo
nella villa che si trasforma

Altre serate bevono

Altri tomi brilleranno ruggendo dentro sale
che non hanno ricordi

La prigione scuoterà i suoi diari
e altre mani faranno doni ai bimbi

Altri dolori cresceranno immancabili

Siate seri io non voglio rimorsi

Uscite piano senza fare rumore

Benedico tanti spiragli …

Giulia Perroni la scommessa dell'infinito cop

Omero avrà una tomba sotto la melodia degli uccelli
anche quando Venezia turberà la sua musica
e quando la formella non dipingerà più il suo impeto
l’istinto sa che ci si incontrerà nella vibrazione della frivolezza
nell’occhio dato di sbieco al foglio che rovina il mandato
per una buccia esausta di desiderio

Io ricordo un viale
e un fiacre fermo nel viale
e mia zia morta giovane in quella carrozza
eternamente immobile nel silenzio dell’ora
e quasi pioggia nel cielo

Nell’acronia si incontrano le forme i personaggi il sole
la nebbia iridescente in cui si ignora anche quelli che vissero

Come sei alto e candido e in quanto inconoscibile
come amico del vento e del mio cuore!

Venivi ed eri tutto eri le specie che sussurravi
quando nel mio letto sentivo nel silenzio la campagna
eri tutto per me e sempre sei l’azzurro nell’ordito
del pensiero al di là di ogni cosa e di parole.

Sei alto e inconoscibile e per questo alto mio Dio sei Tutto
il greto il fiume la rugiada d’oro che nel sole si spegne

Io sono una bambina in ordine sparso
Dio come è profondo l’abisso!

Lotto tra le pupille per dire che ci sei
raso di mille lune abbarbicato alle gomène

Un’altra civiltà appoggerà la schiena
nel piccolo sonno delle finzioni
la nostalgia ripara l’eccesso
la buia cornice le ruote

E per tutto l’ingresso dell’inverno
e tutte le visioni addormentate
fuoco rovina l’alba
e il suo dolore
fuoco per rami inventa

Talismani di tenebra

Consiglio
Vergine muta

Attanagliata al verde

Contessina degli esuli affannata
nei quattro solchi d’ebano

Tendo le mani al tuo cavallo d’aria
criniera inaccessibile e superba
Le navi inglesi erano di fronte al golfo…
Oh città nello spettrale della luce!

Il parlamento inorridì per le notizie
ma quanta strada aveva fatto insieme!

E fu il Britannia a venire dentro al porto
come a Palermo nella notte buia
il vascello ha un destino silenzioso
nel correre a un agguato
Ora la finestra lascia sbalordire gli uragani
chi non vorrebbe partire ha sempre un albero che si contorce
ci prepariamo alla guerra con una mano sulle valige
nella murata memoria di ogni apprendista stregone

Alto è il cammeo nel brivido

Raccolgo le mie cose è tempo di partire

La pace ha ordito i suoi merletti
nel punto più alto della cattedrale
nel quasi irraggiungibile
della notte che si dissolve

L’importante è che il cerchio si chiuda
nella perfezione assoluta della sua ruota

Anche i calessini si macchiano.

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Archiviato in antologia di poesia contemporanea, Antologia Poesia italiana, critica della poesia

Per una Carta Poetica del Sud, Manifesto del Post-meridionalismo Il 16 aprile, a Roma la presentazione della Antologia “Il rumore delle parole.  Poeti del Sud” (EdiLet, 2015) interventi di Letizia Leone e Giorgio Linguaglossa

Antologia Il rumore delle parole (2)La Federazione Unitaria Italiana Scrittori (FUIS), nel quadro della attivita’ di promozione oltre a quella di rappresentanza e consulenziale, ha ospitato lo scorso 16 aprile la presentazione, presso la sede romana di piazza Augusto Imperatore, della Antologia «Il rumore delle parole. Poeti del Sud» (2015), per i tipi di EdiLet, a cura di Giorgio Linguaglossa.

Sono intervenuti il curatore della Antologia e la poetessa romana Letizia Leone. Linguaglossa ha illustrato l’opera precisando che l’Antologia non può ritenersi ultimata ed esaustiva in questa prima edizione. La particolarità, secondo Linguaglossa, dei Poeti del Sud, rispetto, per esempio, alla cosiddetta Scuola lombarda o ad altri indirizzi, risiede nella varietà degli stili. Nel delineare i lineamenti geostorici della poesia italiana e nel tracciare i vari periodi di «egemonia letteraria» fra Milano, Firenze, Roma che nel corso del Novecento si sono succeduti, il curatore dell’antologia ha notato come nel Sud operino poeti vitali che si muovono secondo modalità non concordate, libere da interessi editoriali o di uffici stampa. È una poesia che non si rende immediatamente «riconoscibile» e dove ciascun poeta ha una sua precisa «identità stilistica». Il critico ha proseguito accennando alla attuale «stagnazione del panorama editoriale»  per via delle cointeressenze che attraversano il mondo dell’editoria le cui coordinate editoriali sono dettate dagli Uffici stampa. Cesare Pavese o Vittorio Sereni si muovevano in un diverso assetto editoriale e culturale, non avrebbero mai accettato una situazione come quella odierna. I criteri di selezione dell’Antologia sono stati altri, si sono individuati gli autori in base a  criteri meramente estetici.
Sia Letizia Leone che Giorgio Linguaglossa hanno poi inquadrato la poesia del Sud, come anche quella del Nord nell’ambito della crisi dell’ontologia che è avvenuta nel tardo Novecento.

Altra categoria entrata in crisi, a detta dei presentatori, è la categoria del «nuovo». La poesia è piuttosto da considerarsi come un evento (Ereignis) che capita nel tempo e nello spazio e che si situa nell’intersezione tra due coordinate, che abita un preciso punto dello spazio, del tempo e della storia; una volta avvenuto, l’evento cambia la dimensione, si aprono nuove e inedite prospettive. I critici si sono soffermati su un punto in particolare che contraddistingue la poesia del nostro tempo: gli autori dell’Antologia non si pongono più come seguaci di una ideologia, di un canone, di un modo di scrittura ma aderiscono ad una visione centrifuga e periferica assieme, assumono punti di vista assai distanti gli uni dagli altri e stili di scrittura assai differenti.
Altro elemento invariante rilevato dai critici è  che nessuno degli Autori presenti nella Antologia può esser considerato un epigono del minimalismo italiano così come si è configurato negli ultimi decenni del Novecento. In tale accezione gli stilemi del minimalismo sono stati assunti e fusi insieme ad esperienze stilistiche e culturali le più diverse. Sia Linguaglossa che Letizia Leone hanno sottolineato gli sforzi degli Autori di procedere verso un diverso modo di convocare le cose e gli oggetti in poesia, insomma, di chiamare le cose col proprio nome anche se in poesia non è poi così scontato che i risultati estetici seguano meccanicisticamente alle premesse, il nodo centrale è che le parole vanno messe dentro una qualche tradizione linguistica e stilistica, hanno vita soltanto in una tradizione ma laddove questa manca o accusa un periodo di «latenza», anche la poesia che si tenterà di fare accuserà il colpo; ma se la poesia diventa consapevole di questo nesso storico-estetico, allora la poesia del Sud potrà assumere in tale orizzonte culturale un ruolo significativo e propulsivo.

Letizia Leone ha infine definito interessante e valido il discorso sul rapporto poesia filosofia riportato nell’introduzione al volume in questione, ed ha accennato alla connessione interna tra i due poli. In tal senso Linguaglossa, ha detto la Leone, conferma la sua vocazione militante, una sorta di rabdomante alla ricerca delle falde poetiche (del Sud).
La Leone ha poi accennato alla lucidità ermeneutica e di diagnosi indispensabile per mettersi sulle tracce di quel sentiero della Linea meridionale di poesia individuata negli anni Cinquanta da Contini, Quasimodo, Gatto… da una terra appenninica da cui si va in esilio, una terra di emigrati e sradicati, da Scotellaro a Calogero.
Quasimodo auspicava una Carta poetica del sud nel 1953, cosa interessante per testare la distanza da una situazione odierna che vede autori meridionali del Novecento come Bufalino Sciascia Ortese Serao spesso dimenticati dai programmi scolastici, con danni inestimabili verso un ingente patrimonio spirituale e artistico del nostro paese.
L’articolazione  geodetica e geopoetica,  sia la latitudine che la longitudine, “colloca” il linguaggio poetico (Brodskij) nell’ambito della storia e contribuisce a cambiare la Lingua e il linguaggio poetico.
Oggi il Sud si è smarcato dal periferico, evidenza il dinamismo fra centro e periferia anche se questo movimento tellurico era stato già intravisto con chiarezza da Pasolini per il quale la periferia romana sfociava nel terzo mondo.

Nello stesso tempo, ha continuato Letizia Leone, ci sono autori come Albino Pierro che non vogliono centralizzarsi, altri fanno, anche a Nord, del dialetto la propria isola nel rifondare la propria stilistica.
Se siamo nella post-storia, nell’epoca dello svuotamento ideologico, forse è lecito  parlare di post-meridionalismo, per questi poeti, lontani dalle poetiche del vissuto, dal mito di una poesia che abita il mito o di quella che ricerca una impossibile innocenza perduta.
In questo contesto storico che dista anni luce dalla linea meridionale degli anni Cinquanta, sia Letizia Leone che  Linguaglossa si sono soffermati sul rapporto tra scrittura e il territorio, individuando la forza di questi Autori nell’aver digerito lo scandalo della storia, quello dell’essere poeta oggi, di non sapere più a chi si rivolga la scrittura poetica. Così, la figura del poeta è ragguagliabile a quella di un esiliato, il poeta è un de-territorializzato, de-istituisce più che istituire qualcosa, s-fonda più che fondare quella cosa che chiamiamo la Lingua poetica; gli Autori accomunati nell’Antologia sembrano voler quantomeno invertire questa tendenza, vogliono recuperare l’esercizio del pensiero, sentono di abitare un senso della storia dove la parola poetica è dolore della mancanza della parola; a tal proposito la Leone ricorda Quasimodo il quale ricordava che la nascita di un poeta è sempre un atto di disordine.
Al termine della presentazione critica è seguito il reading degli Autori presenti in sala: Gino Rago, Daniele Santoro, Silvana Palazzo,  Marisa Papa Ruggiero, Michele Arcangelo Firinu, Marco Onofrio, Raffaello Utzeri, Giulia Perroni.

A.F.

Fuis 16 aprile Silvana Palazzo

Fuis 16 aprile Silvana Palazzo

Fuis 16 aprile Michele Firinu

Fuis 16 aprile Michele Firinu

Fuis 16 aprile Marco Onofrio

Fuis 16 aprile Marco Onofrio

Fuis 16 aprile Daniele Santoro

Fuis 16 aprile Daniele Santoro

Fuis 16 aprile Raffaello Utzeri

Fuis 16 aprile Raffaello Utzeri

Fuis 16 aprile giorgio Linguaglossa Letizia Leone

Fuis 16 aprile giorgio Linguaglossa Letizia Leone

Fuis 16 aprile Gino Rago

Fuis 16 aprile Gino Rago

fuis 16 aprile  Giulia Perroni

fuis 16 aprile Giulia Perroni

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