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Carlo Livia – Sognare Dio – con poesie di Emily Dickinson, Paul Celan, Rafael Alberti, Andrè Breton, Federico Garcia Lorca, Amelia Rosselli

Foto uomo verde sulla strada

«Fu allora che incontrai Dio alle porte di Persepolis» (Giorgio Linguaglossa)

Ah, ci sono tante cose fra cielo e terra, di cui solo i poeti hanno sognato…
E soprattutto al di là del cielo: perché tutti gli dèi sono simboli di poeti,
sottratti con l’inganno dai poeti.

(Friedrich Wilhelm Nietzsche)

Nessuno c’impasta più, da terra e fango,
Nessuno soffia la vita alla nostra polvere.
Nessuno.
Che tu sia lodato, Nessuno…

(Paul Celan)

Cantare in verità è un altro respiro.
Un respiro sul nulla. Un soffiare nel Dio. Un vento.

(Rainer Maria Rilke)

Per secoli e millenni gli uomini hanno meditato, speculato e sognato, scritto e creato immagini e opere d’arte d’ogni genere, ma anche combattuto, condannato, perseguitato e sterminato solo per il controverso valore e significato d’una parola: Dio.

Solo negli ultimi secoli, nella cultura cristiana, l’atmosfera è mutata e si è placata, anche per merito di un piccolo, placido, metodico ma tenacissimo studioso e insegnante di filosofia e scienza, Immanuel  Kant, che dalla remota Königsberg  dimostrò in modo inconfutabile all’Europa e al mondo che scienza e religione, dimostrazione empirica e speculazione metafisica non potranno mai coincidere, appartenendo a due dimensioni linguistiche e noetiche eteronome, inconciliabili, per cui ogni dogma teologico fondato su elementi razionali è illegittimo, intrinsecamente aporetico, investigare con procedure analitico-concettuali l’esistenza  e la natura del  divino è insensata hibris e mistificante violenza ideologica, perché si pretende di usare il linguaggio razionale in una dimensione trascendente in cui ogni referenza è illusoria, come un uccello che pretende di volare nel vuoto, senza l’aria che faccia attrito e sostenga le ali.

Ma: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente, fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza.”

L’illuminista Kant, tutt’altro che ateo o irreligioso, fonda la sua fede non su elementi intellettuali, ma sul sentimento di meraviglia e stupore suscitato dalla infinita bellezza e profondità della natura e dall’ineludibile cogenza della dimensione morale.

È questo che definisco atteggiamento mistico: accettare ed esprimere la natura meta-razionale dello scenario da cui è circondata la nostra esistenza, senza di cui non solo la teologia, ma anche l’arte e la poesia sarebbero impossibili. Occorre una completa metanoia, per cui la verità non è più norma e dogma di comprensione e dominio, ma energia e luce che trasfigura e sublima affettivamente, emotivamente, mutando la configurazione relazionale di linguaggio, pensiero, soggetto, esistenza.

Ogni volta che il logos si divide dal  pathos, tentando una formalizzazione puramente speculativa, concettuale, la teologia, sottratta alla poesia, diviene ineludibilmente pregna di errori gnoseologici, falsità e violenze,  ideologiche e politiche.  

Poeti sono i mortali che seguono le tracce degli Dei fuggiti.
L’Etere, nel quale soltanto gli Dei sono Dei, è la loro divinità.
L’elemento dell’Etere per il ritorno degli Dei, il Sacro, è la traccia degli Dei fuggiti.
Ecco perché, nel tempo della notte del mondo, il poeta canta il Sacro.

Martin Heidegger

Martin Heidegger in campagna, nella sua baita

 Il valore euristico-epistemologico che Martin Heidegger in questo passo di Sentieri interrotti “riserva alla poesia”, in cui solo è possibile la rivelazione dell’Essere, non sancisce nuove gerarchie assiologiche, ma propone una mutazione di habitus conoscitivo, la fondazione di un’abitazione nuova per il pensiero, in cui accogliere il Dire originario ( divino ). Continua a leggere

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DUE POESIE di Mario M. Gabriele (da L’erba di Stonehenge, Progetto Cultura, 2016) con un Commento Giorgio Linguaglossa – Ho un libro sotto mano di Salman Rushdie Imaginary homeland (1999) – Una vecchia fotografia in una cornice a buon mercato pende dal muro di una stanza – Digressioni sulla poesia di Mario M. Gabriele, Aldo Nove, Valerio Magrelli – La pseudo-poesia, la non-poesia, la contro-poesia e la finta-poesia – La poesia dei riflettori mediatici

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Stonehenge

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa 

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Cito dal retro di copertina del libro di Mario Gabriele L’erba di Stonehenge appena pubblicato nella collana da me diretta delle Edizioni Progetto Cultura:

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«L’elemento di distinguibilità della poesia di Mario Gabriele, sta nella rottura con i canoni dello sperimentalismo e con l’eredità della poesia post-montaliana del dopo Satura (1971), vista come la poesia da circumnavigare, magari riprendendo da essa la scialuppa di salvataggio dell’elegia per introdurvi delle dissonanze, delle rotture e tentare di prendere il largo in direzione di una poesia completamente narrativizzata, oggettiva, anestetizzata, cloroformizzata. Di qui le numerose citazioni illustri o meno (Mister Prufrock, Ken Follet, Katiuscia, Rotary Club, Goethe, busterbook, kelloggs al ketchup, etc.), involucri vuoti, parole prive di risonanza semantica o simbolica, figure segnaletiche raffreddate che stanno lì a indicare il «vuoto». Il tragitto, iniziato da Arsura del 1972, e compiuto con quest’ultimo lavoro, è stato lungo e periglioso, ma Gabriele lo ha iniziato per tempo e con piena consapevolezza già all’indomani della pubblicazione del libro di Montale [Satura, 1971 n.d.r.] che, in Italia, ha dato la stura ad una poesia in diminuendo».

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È evidente che nella poesia di Gabriele l’elemento sonoro, fonetico svolga una funzione accessoria: è la continuità ininterrotta delle immagini, dei luoghi nominati, dei toponimi, della nomenclatura ciò che fa una sequenza poetica, non la continuità dei suoni. La tridimensionalità acustica della poesia di Gabriele si comporta come una sorta di megafono della tridimensionalità delle immagini, con raffinati effetti, diciamo, di stereofonia; ma la loro funzione rimane quella servente, quella di accompagnare la tridimensionalità delle immagini in rapida successione. Il loro compito è quello di accompagnare l’immagine, non di suscitarla nella mente del lettore, come accade invece in una semplice poesia performativa orale di tipo narrativo o lirico o anche mimico-teatrale.
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mario gabriele
da  Mario Gabriele da L’erba di Stonehenge 2016 Edizioni Progetto Cultura

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(2)

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Una fila di caravan al centro della piazza
con gente venuta da Trescore e da Milano
ad ascoltare Licinio.-Questa è Yasmina da Madhia
che nella vita ha tradito e amato,
per questo la lasceremo ai lupi e ai cani,
getteremo le ceneri nel Paranà
dove abbondano i piranha,
risaliremo la collina delle croci
a lenire i giorni penduli come melograni,
perché sia fatta la nostra volontà.-
Un gobbo si chinò davanti al centurione
dicendo:- Questo è l’uomo che ha macchiato
le tavole di Krsna, distrutto il carro di Rukmi,
non ha avuto pietà per Kamadeva,
rubato gioielli e incenso dagli altari di Nuova Delhi.
-Allora lasciatelo alla frusta di Clara e di Francesca,
alla Miseria e alla Misericordia.
Domani le vigne saranno rosse
anche se non è ancora autunno
e spunta il ruscus in mezzo ai rovi.
Un profumo di rauwolfia veniva dal fondo dei sepolcri.
Carlino guardava le donne di Cracovia,
da dietro i vetri Palmira ci salutava
per chissà quale esilio o viaggio.
Nonna Eliodora da giugno era scomparsa.
Stranamente oggi non ho visto Randall.
Mia amata, qui scorrono i giorni
come fossero fiumi e la speranza è così lontana.

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Dimmi solo se a Boston ci sarai,
se si accendono le luci a Newbury Street.
Era triste Bobby quando lesse il Day By Day.
Oh il tuo cadeau, Patsy, nel giorno di Natale!

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(3)

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La notte celò i morsi delle murene.
Tornarono le metafore e gli epistemi
e una folla “che mai avremmo creduto
che morte tanta ne avesse disfatta”:
Wolfgang, borgomastro di Dusseldorf,
Erich, falegname in Hamburg,
Ruth, vedova e madre di Ehud e di Sael,
Lothar e Hans, liutai.
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Questa è la casa: -Guten Morgen, Mein Herr,
Guten Morgen-, disse Albert.
Qui curiamo le piante e le orchidee,
offriamo sandali e narghilè ai pellegrini
in cammino verso Santiago di Compostela.
Sui gradini dell’Iperfamila,
tra stampe di Kandinskij e barattoli di Warhol,
Moko Kainda sognava l’Africa di Mandela.
-“Doveva essere migliore degli altri
il nostro XX secolo”- scriveva Szymborska,
tanto che neppure Mss. Dorothy,
chiromante e astrologa,
riuscì a svelare le carte del futuro,
né Daisy si dolse del sole africano,
ma dei muri che chiudevano
le terre di Samuele e di Giuseppe.
E non era passato molto tempo
da quando Margaret e Jennifer
(che pure in vita dovevano essere
due anime perfette e pie),
volarono in cielo.
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L’alba illuminava gli angoli bui, gli slums.
Era ottobre di canti e heineken
con la foto della Dietrich sul Der Spiegel.
Riapparve la luce,
ed era tuo il lampo sulle colline
bruciate dall’autunno.
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Ma è malinconia, mammy,
quella che ha preso posto nella casa
dove neanche le preghiere ci danno più speranza.
Fuori ci sono il drugstore e il giardino degli anziani,
l’eucaliptus e il parco delle rimembranze,
la guardia medica per il tuo tremore Alzheimer.
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Fra poco la neve coprirà il poggetto.
Ci sarà poco da raccontare
a chi rimane nella veglia,
dove c’è sempre qualcuno
che parla della lunga barba di Dio
come una cometa
nella notte più silente dell’anno,
quando il gufo da sopra il ramo
sbircia il futuro e vola via.
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Salman Rushdie and Actress Olivia Wilde

Salman Rushdie and Actress Olivia Wilde

Ho un libro sotto mano di Salman RushdieImaginary homeland‘ (1999), una raccolta di saggi sulla letteratura dello scrittore indiano. C’è anche un saggio su Italo Calvino. Il libro comincia così:

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“Una vecchia fotografia in una cornice a buon mercato pende dal muro di una stanza dove io lavoro. E’ la foto del 1946 di una casa nella quale, al tempo in cui fu scattata, io non ero ancora nato. La casa è piuttosto particolare – una casa a tre piani con un tetto tegolato e agli angoli due torri ciascuna con un cappello di tegole. ‘Il passato è un paese straniero‘ dice la famosa frase che apre il romanzo di L.P. HartleyThe God-Between?, ‘essi fanno altre cose là’. Ma la foto mi dice di capovolgere questa idea; essa mi ricorda che è il mio presente che è straniero, e che il passato è la casa, una casa perduta nella nebbia di un tempo perduto”.

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Ecco, nella poesia di Rafael Alberti, come anche nella poesia dei poeti modernisti di inizio secolo (poeti s’intende di valore), c’è questa concezione del tempo passato che la poesia può, magicamente, riaccendere come una scintilla accende un fuoco quasi spento; c’è l’idea di una continuità che la memoria può annodare tra il presente e il passato e la mente può riprendere a cantare, cantare spensieratamente. Ma, il canto spensierato è molto pericoloso, lo abbiamo esperito nel corso della seconda guerra mondiale quando sono emerse le incongruenze e gli irrazionalismi di una intera cultura: l’olocausto, gli eccidi di massa, le deportazioni, la terza guerra mondiale, quella fredda, e la quarta, appena cominciata. ecco, io penso che non c’è più spazio per la poesia che canta, come non c’è più spazio per la poesia della sproblematizzazione, per cui non c’è più metafisica, non ci resta altro che consumare il quotidiano tra un tic e una nevrosi come fa la poesia e la narrativa del minimalismo.

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Io non ho nulla incontrario verso la poesia della «nuova» «non-poesia», e qui penso alla «contro-poesia» di un Aldo Nove; eccepisco un a-priori: l’autore milanese fa, consapevolmente, una pseudo poesia, opera una verificazione del messaggio poetico attraverso la falsificazione. Così quando scrive le «anti poesie» di Maria (Einaudi 2012), la sua «anti poesia» scollima con la «pseudo poesia»; voglio dire che fa poesia laterale, da banda larga, dirige i propri strali contro la vituperata «poesia-poesia», opino avverso la poesia lirica. Ma non coglie il bersaglio. E lo manca perché il bersaglio non c’è, e non c’è perché la poesia lirica ormai la fanno le decine di migliaia di aspiranti al podio della poesia; di fatto, essa è scomparsa dopo La camera da letto (1984 e 1988) e La capanna indiana (1973) di Bertolucci. Semplicemente, non è più possibile fare poesia lirica oggi neanche se un redivivo Attilio Bertolucci scrivesse una nuova Camera da letto. In realtà, Aldo Nove e Valerio Magrelli fanno una poesia della sproblematizzazione, interrogano derisoriamente le tematiche e le icone pubblicitarie della civiltà mediatica e della civiltà umanistica; il primo con gli strumenti culturali del capovolgimento antifrastico, strumento retorico tipicamente novecentesco; il secondo con il gioco ironico che oscilla tra accettazione, manipolazione e intellettualizzazione dei temi e degli idoli della civiltà mediatica. Ma siamo ancora all’interno di una cultura della sproblematizzazione.

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salman 10

salman rushdie

Torniamo alla stanza dove pende una vecchia fotografia. Nel romanzo di Rushdie ‘Midnight’s Children‘(1981), c’è la vecchia casa dei genitori. In una mia poesia (Tre fotogrammi dentro la cornice), riprendo il tema da una foto scattata anch’essa nel 1946: ci sono i miei genitori giovani, appena sposati, che camminano in una strada di Roma nel dopo guerra. Mio padre, calzolaio, tornato dalla guerra come soldato semplice, ha perduto il negozio di scarpe che aveva in viale Libia a Roma, ed è disoccupato, e mia madre è in cinta di mio fratello, io non sono ancora nato.

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Giorgio Linguaglossa Three Stills In the Frame 2015
Neanche Rushdie era ancora nato nel 1946. Entrambi (lui nel romanzo, io nella mia poesia) manifestiamo la nostra contentezza per non essere ancora tra i viventi, ed entrambe le foto sono in bianco e nero. E il mondo che sta attorno alla foto, sia io che Rushdie lo immaginiamo in bianco e nero, monocromatico. Ma la realtà non è mai stata monocromatica, è un difetto delle foto che la rappresentano in bianco e nero.
E qui sorge il problema sollevato da Rushdie citando la sentenza di Hartley: ‘Il passato è un paese straniero‘. Ma è un falso ci dice il narratore indiano, è il presente il vero paese straniero, noi non conosciamo il presente, e il passato possiamo conoscerlo solo attraverso la discontinuità e la disorganizzazione dei ricordi. Il rammemorare non è una azione di continuità tra il passato e il presente, ma è una azione di collegamento tra due frammentazioni, e la poesia e il romanzo di oggi non possono che ripresentare in essi queste duplici frammentazioni. Il poeta moderno cerca di dare al passato una rappresentazione immaginativamente vera mediante una iniezione di memoria; ma è un falso, la memoria non è una linea rettilinea ma un insieme di frammenti disorganizzati e casuali dove si può prendere di tutto e si può perdere di tutto.

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Noi, dico noi per indicare noi gli esiliati del mondo moderno, non possiamo prendere dal serbatoio della memoria nient’altro che frammenti e lacerti irregolari, frantumi di quell’antico specchio che è stata la vita. E saranno proprio questi frantumi che ci possono condurre più da vicino al mondo delle simbolizzazioni. I frantumi sono già dei simboli, afferma Rushdie. Ecco perché oggi non c’è più alcun bisogno di alcun simbolismo. Il simbolo è morto ed è stato sostituito dai frantumi. Oggi, un narratore o un poeta non può più porre mano ad un romanzo alla maniera di Proust per ritrovare il tempo perduto; oggi il mondo si è frantumato e non ci sarà nessun Proust che ci potrà restituire quel mondo nella sua compiutezza. Restano i frantumi, ed è da essi che dobbiamo riprendere a tessere le nostre poesie e i nostri romanzi.
Rafael Alberti appartiene a quel genere di poeti e romanzieri alla Proust che cantano per restituire il mondo del passato nella sua interezza. Ma è un falso, come poi ci ha mostrato Eliot ne ‘La terra desolata‘ (1925).

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Quanto all’Ombra delle Parole, caro Steven Grieco, io penso molto semplicemente che una poesia fatta per la luce dei riflettori mediatici, come la «pseudo poesia» di Magrelli sulle gambe di Nicol Minetti (tratta da Sangue amaro, Einaudi, 2015) che abbiamo ripubblicato su questo Rivista, sia di una estrema banalità, punta tutto sulla luce dei riflettori mediatici, è una pseudo poesia di superfici riflettenti che riflettono tanta luce quanta ne ricevono. In questo genere di poesia non c’è ombra, c’è solo luce. Tutto è stato detto. E tutto può essere dimenticato.

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Per ricollegarmi alla questione dianzi sorta se cioè la poesia contemporanea (la migliore intendo, cioè, per essere chiari, quella di Mario Gabriele) debba o no suscitare emozioni, debba emozionare, bene, io penso che con la categoria del «pensiero emotivo» desunto da Hilman non si vada da nessuna parte. La poesia di Mario Gabriele, come quella di Antonio Sagredo, (penso a Roberto Bertoldo e a Luigi Manzi e altri), non va letta con quella categoria (che io ritengo fuorviante e irrazionalistica). Non c’è nulla nella poesia di Gabriele che abbia un contenuto emotivo, e quindi, da questo punto di vista non può destare emozioni, anzi, penso che non deve suscitare alcuna emozione. Teniamoci alla larga, quindi, da questa categoria spuria, a metà tra psicologia del profondo e estetica della buon’ora. La migliore poesia contemporanea è, di fatto, un manufatto “raffreddato”. Che cosa significa? Voglio dire che il poeta contemporaneo reduce da tre guerre mondiali e spettatore impotente della quarta in corso, non ha più intenzione di iniettare nel proprio DNA poetico alcun pensiero estetico emotivo. Il linguaggio di tutti i giorni si è raffreddato, si è surgelato, è diventato una gelatina, e il poeta dei nostri tempi non può che prenderne atto, deve astenersi dall’intervenire sul piano di una psico linguistica (come si diceva una volta con una terminologia abnorme). Non c’è alcuna psicolinguistica da fare, la Lingua maggiore si è de-psicologizzata (e io direi, per fortuna!). Ecco una ragione in più per considerare superata la poesia lirica, superata in quanto è stata circumnavigata dalla Storia. Il poeta contemporaneo ha a che fare con una cosa nuova: il raffreddamento delle parole; le parole non hanno risonanza, le parole del linguaggio poetico tradizionale hanno perso risonanza, e allora al poeta dei nostri giorni non resta altro da fare che costruire dei manufatti a partire dai luoghi, dai toponimi, dai nomi, diventa nominalistica, diventa assemblaggio di icone, assemblaggio di frammenti (Salman Rushdie afferma che i frammenti sono già in sé dei simboli!). La fragmentation è diventata la norma nel nostro mondo contemporaneo; ovunque ci volgiamo vediamo frammenti, noi stessi siamo frammenti, le particelle subatomiche sono frammenti infinitesimali di altri frammenti di nuclei andati in frantumi in quel GRANDE CIRCUITO che è il CERN di Ginevra, là dove si fanno collidere i protoni tra di loro in attesa di studiare i residui, i frammenti di quelle collisioni. Tutto il mondo è diventato una miriade di frammenti, e chi non se ne è accorto, resta ancorato all’utopia del bel tempo che fu quando c’erano gli aedi che cantavano e scrivevano in quartine di endecasillabi e via cantando….
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valerio magrelli 4

valerio magrelli

Valerio Magrelli

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L’igienista mentale:
divertimento alla maniera di Orlan
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La Minetti platonica avanza sulla scena
composto di carbonio, rossetto, silicone.
Ne guardo il passo attonito, la sua foia, la lena,
io sublunare, arreso alla dominazione
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di un astro irresistibile, centro di gravità
che mi attira, me vittima, come vittima arresa
alla straziante presa della cattività,
perché il tuo passo oscilla come l’ascia che pesa
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fra le mani del boia prima della caduta,
ed io vorrei morirti, creatura artificiale,
tra le zanne, gli artigli, la tua pelle-valuta,
irreale invenzione di chirurgia, ideale
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sogno di forma pura, angelico complesso
di sesso sesso sesso sesso sesso.
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Dobbiamo fare un passo indietro.
Per quanto riguarda un poeta che esemplifica bene la mutazione della forma-poesia dagli anni Ottanta ai giorni nostri, devo fare riferimento a Valerio Magrelli. La sua opera d’esordio, Ora serrata retinae, è del 1980, seguita da Nature e venature (1990) a cui fanno seguito Esercizi di tiptologia(Mondadori, 1992) e Didascalie per la lettura di un giornale (Einaudi, 1999), fino al libro del 2014 Sangue amaro (Einaudi).
Bene, è sufficiente leggere i primi due libri per accorgersi che in essi c’era ancora, ed era visibile, una ricerca esistenziale e stilistica. In sostanza, era visibile la crisi dell’«io» nella lettura e decifrazione del mondo. A questo sipario della Crisi avrebbe dovuto fare seguito un ulteriore approfondimento della indagine sulla fenomenologia della Crisi, ma sarebbe occorsa una nuova fenomenologia di indagine e un rinnovamento dello stile. Magrelli, invece, già alla fine degli anni Ottanta intuisce l’esaurirsi di quella miniera stilistica, che il filone aurifero si è disseccato, e invece di proseguire il lavoro di indagine e di scandaglio, pensa bene di ricorrere ad uno stratagemma: d’ora in avanti prende atto dell’esaurimento di un certo punto di vista, diciamo diagnostico e di ricerca della forma-poesia, e abbandona il primo stile di una poesia breve e compatta che rivela un singolo aspetto del reale, per dedicarsi a quella che io ho definito più volte «poesia commento». Il terzo e quarto libro sono infatti eloquenti finanche nel titolo, si tratta di operazioni di «tiptologia», di «didascalie» alla lettura, di «glosse» in margine al «giornale».
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Insomma, si tratta di «finta-poesia». Magrelli con un abilissimo trucco da prestidigitatore, trasforma la «poesia» in «finta-poesia», va incontro alla richiesta del pubblico colto che vuole una poesia poco impegnativa e poco impegnata, una poesia leggera, da intrattenimento ludico-ironico. È tutta la società italiana che dagli anni Ottanta si muove in questa direzione con il debito pubblico che avanza progressivamente a livelli astronomici. È insomma una poesia da debito pubblico alle stelle.
Si intenda, io non esprimo qui una diagnosi di carattere morale, esprimo una diagnosi di carattere estetico: la forma-poesia che si imporrà negli anni Ottanta e Novanta sarà quella del disimpegno (nella punta più intellettualmente arrendevole ci sono Vivian Lamarque e Jolanda Insana, nelle punte di vertice si trova, senza dubbio, Valerio Magrelli).
E qui il cerchio si chiude.
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Quello che molti autori di poesia scrivono e pubblicano dagli anni Ottanta ai giorni nostri sono opere di «finta-poesia», «quasi poesia», «pseudo poesia», «ultra poesia», insomma, sono operazioni che hanno a che fare con la sociologia della poesia e niente con la «poesia». In questo mi sento di dare ragione a Salvatore Martino, ma solo per questo aspetto. Se si va ad indagare che cosa avviene fuori della poesia pubblicata dagli editori maggiori ci sono stati e ci sono poeti che hanno continuato ad esplorare la forma-poesia, ed uno di questi è senz’altro, Mario Gabriele.
Che poi dei critici come Romano Luperini abbiano salutato l’ultimo libro di Magrelli Sangue amaro (2014) come un’opera «rivoluzionaria», è una tesi che illumina piuttosto l’assenza di pensiero critico del critico che non il libro.

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Mario Gabriele volto 1.
Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. In poesia ha pubblicato Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); la tetralogia: Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014). Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento. Si è interessata alla sua opera la critica più qualificata: Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Domenico Rea, Giorgio Linguaglossa, Luigi Fontanella, Ugo Piscopo, Giorgio Agnisola, Mariella Bettarini, Stefano Lanuzza, Sebastiano Martelli, Pasquale Alberto De Lisio, Carlo Felice Colucci,  Ciro Vitiello, G.B.Nazzaro, Carlo di Lieto. Cura il Blog di poesia italiana e straniera Isoladeipoeti.blogspot.it.

 

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Rafael Alberti (1902-1999) – POESIE SCELTE. Un poeta tra amore e politica. Una vita segnata dall’impegno e dall’esilio. “Non mi pento, non sarò mai un ex comunista”. Traduzione di Paolo Statuti

 

rafael-alberti1

Dal sito La Repubblica.it – “Cultura & Scienze”, nel giorno della morte di Rafael Alberti:

Cadix (Spagna). Un arresto cardiaco ha fermato per sempre “quel sagittario irrequieto e vagabondo”, come lui stesso amava definirsi, nella sua casa del sud della Spagna a El Puerto De Santa Maria. Rafael Alberti, poeta, scrittore, pittore esiliato dal regime franchista, aveva 96 anni ed era l’ultimo rappresentante della “Generazione 27”, il movimento cui appartenevano Garcia Lorca e Vicente Aleixandre. Nato il 16 dicembre 1902, lascia giovane l’Andalusia per Madrid, ma rimane attaccatissimo alla sua patria. Si fa strada presto nel mondo dei versi e del surrealismo. Sono del 1929 le dolorose liriche “Sugli angeli” (“Sobre los angeles”). Quegli anni li passa con Federico Garcia Lorca, Salvator Dalì, Pablo Picasso, amici e compagni di strada. Il primo premio importante lo riceve nel 1925 con la raccolta “Marinero en tierra”, un canto d’amore per il mare con cui riceve il premio nazionale della letteratura. Degli anni ’60 sono i suoi “Poemi d’amore”, i versi per “Roma, pericolo per i viandanti”, “Gli otto nomi di Picasso”. Le più recenti rime “Amore in bilico” sono dedicate all’erotismo e alla donna, alla sua nuova e giovane compagna. Ma è l’impegno politico a prendere il sopravvento e a stravolgere tutta la sua vita. Fin dai primi anni Trenta diventa un militante del Partito comunista spagnolo. Studia teatro nell’Unione Sovietica e dirige con la moglie Maria Teresa Leon – scomparsa nell’88 – la rivista rivoluzionaria Octubre. Dal ‘36 al ’39 partecipa alla guerra civile nelle file repubblicane. Dopo la vittoria di Francisco Franco, viene costretto all’esilio prima in Francia, poi in Messico, Argentina e Italia. E ogni volta che qualcuno parla di sofferenza risponde: “Non mi pento di niente. Non sarò mai un ex comunista”. In Spagna torna soltanto nel 1977, nella sua città, dove nel 1990 si era risposato con Maria Asuncion Mateo, 44 anni più giovane di lui, e dove oggi il suo cuore si è fermato. Le sue ceneri saranno sparse nella baia di El Puerto De Santa Maria.

(28 ottobre 1999)

Alcune poesie di Rafael Alberti nella versione di Paolo Statuti

Ballata di ciò che disse il vento

L’eternità potrebbe essere benissimo
solamente un fiume
essere un cavallo dimenticato
e il tubare
di una colomba smarrita.

Quando l’uomo si allontana
dagli uomini, viene il vento
che subito gli dice altre cose,
aprendogli le orecchie
e gli occhi ad altre cose.

Oggi mi sono allontanato dagli uomini,
e solo, in questo baratro,
a lungo guardavo il fiume
e ho visto soltanto un cavallo
e ho udito solamente
il tubare
di una colomba smarrita.

E il vento allora si è avvicinato,
come di sfuggita,
e mi ha detto:

L’eternità potrebbe essere benissimo
solamente un fiume,
essere un cavallo dimenticato
e il tubare
di una colomba smarrita.

Ritorno dell’amore recentemente apparso

Quando tu sei apparsa, io soffrivo nell’interno più fondo
di una caverna senza aria e senza uscita.
Mi agitavo nell’oscurità, agonizzando,
udendo un rantolo come battito di ali
di un uccello invisibile.
Hai sparso su di me i tuoi capelli
e io mi sollevai fino al sole e vidi che erano l’aurora
che sul mare aperto a primavera si distende.
Fu come se fossi giunto nel più bel
porto di mezzogiorno. Annegavano in te
i paesaggi più splendenti:
chiare, aguzze vette con rosate
corone di neve, fonti nascoste
nelle ricciute ombre dei boschi.
Ho imparato a riposare sui crinali
e a scendere lungo fiumi e pendii,
a intrecciarmi nei rami tesi
e a fare del sonno la mia morte più dolce.
Mi hai aperto il bosco e i miei floridi anni
di recente venuti alla luce, giacevano
sotto la carezza della tua spessa ombra,
lasciando il cuore al libero vento
e accordandolo al verde suono del tuo.
Già andavo a dormire, e a svegliarmi sapendo
che non penavo in una caverna oscura,
agitandomi senza aria e senza uscita.
Perché tu finalmente sei apparsa.

Ritorno dell’amore nei vividi paesaggi

Crediamo, amore mio, che quei paesaggi
si sono addormentati o sono morti con noi
nel tempo, nel giorno in cui vi abitavamo;
che gli alberi perdono la memoria
e le notti se ne vanno, lasciando all’oblio
ciò che le hanno rese belle e forse immortali.

Ma basta il più lieve palpito di una foglia,
una stella cancellata che respira all’improvviso,
per vederci ugualmente lieti di occupare
i luoghi che ci tennero uniti.
Ed ecco ti svegli oggi, amore mio, al mio fianco,
tra i frutici di ribes e le fragole nascoste
al riparo del forte cuore dei boschi.
Là c’è l’umida carezza della rugiada,
le polveri delicate che rinfrescano il tuo giaciglio,
gli elfi felici di ornare le tue lunghe chiome
e i misteriosi alti scoiattoli che versano
sul tuo sonno il minuto verde dei rami.

Sii felice, foglia, sempre: che tu non abbia mai l’autunno,
foglia che mi hai portato
col tuo lieve tremito
l’aroma di tanta cieca età luminosa.
E tu, stellina smarrita, che mi apri
le intime finestre delle mie notti più giovani,
non cessare mai la tua luce
sopra le tante alcove che all’alba ci addormentavano,
e su quella biblioteca con la luna
e quei libri dolcemente caduti,
e sui vigili boschi che destati cantavano per noi.

Tra il garofano e la spada

(Guerra alla guerra per la guerra.) Vieni qui.
Volgi le spalle. Il mare. Apri la bocca.
Una sirena urta contro una mina
e un arcangelo annega, indifferente.

Tempo di fuoco. Addio. Urgentemente.
Chiudi gli occhi. E’ il monte. Tocca.
Saltano le cime frantumando la roccia
e si uccide un bosco, inutilmente.

C’è anche sulla luna la dinamite? Andiamo.
Morte alla morte per la morte: guerra.
In verità, pensa il toro, il mondo è bello.

Già i rami bruciano.
Apri la bocca. (Il mare. Il monte.) Chiudi
gli occhi e sciogliti i capelli.

La colomba

Si sbagliò la colomba,
si sbagliava.
Per andare al nord, si trovò al sud,
pensò che il grano fosse l’acqua,
si sbagliava.

Pensò che il mare fosse il cielo,
che la notte fosse l’alba,
si sbagliava,
si sbagliava.

Che le stelle – la rugiada,
che il calore – la neve,
si sbagliava,
si sbagliava.

Che la tua gonna fosse la tua blusa,
che il tuo cuore – la sua casa,
si sbagliava,
si sbagliava.

Lei si addormentò sulla riva,
tu sulla cima di un ramo.

Pensò che il mare fosse il cielo,
che la notte fosse l’alba,
si sbagliava,
si sbagliava.

Che le stelle – la rugiada,
che il calore – la neve,
si sbagliava,
si sbagliava.

Che la tua gonna fosse la tua blusa,
che il tuo cuore – la sua casa,
si sbagliava,
si sbagliava.

Ritorni di Chopin attraverso le mani già andate

A mia madre che tutti noi univa
nella musica del suo vecchio piano.

Dapprima era nella sala da pranzo, era nella dolce
sala da pranzo dei sei: Agustin e Maria,
Milagritos, Vicente, Rafael e Josefa.
Da lì mi vengono ora, d’inverno, distanti,
già quasi persi, cancellati dalla memoria i miei,
i fratelli che non sapevo elevare alla mia altezza;
da lì adesso mi giunge questo accordo di acqua,
da lì anche, adesso,
questo notturno ramo di bosco con moto,
questa riva di mare, questo amore, questa pena
che oggi, con un velo di lacrime, mi uniscono a voi,
attraverso le mani felici che furono.

Poi nell’angolo in penombra di una stanza,
lontano dalla sala da pranzo dei sei,
quando di nuovo vicino a voi, perduto,
quasi infinitamente perduto mi sentivo,
molto tardi, già molto tardi,
quando di nuovo arrivava il sonno,
un accordo di acqua, un ramo notturno,
una riva, un amore, una pena a voi
dolcemente mi univano,
attraverso le mani stanche che furono.

E adesso, distante,
più infinitamente di allora, espulso prima
dalla sala da pranzo, più tardi dall’angolo
in penombra della stanza,
tremante,

con il cuore trafitto dall’inverno, Maria,
Vicente, Milagritos, Agustin e Josefa,
uno, il sesto, Rafael, di nuovo si unisce a voi,
con il ramo, l’amore, con il mare e la pena,
attraverso le mani rimpiante che furono.

Ritorno dell’amore sulle sabbie

Stamane, amore, abbiamo vent’anni.
Vanno volutamente piano, intrecciandosi,
le nostre ombre scalze per la strada tra i giardini,
che oppongono agli azzurri del mare i loro verdi.
Tu sei sempre un’apparizione,
sei la luce giunta una buia sera,
quando il giovane senza meta dalla città ritarda,
pensoso, di proposito il suo ritorno a casa.
Tu sei sempre quella che al mio fianco
va cercando il segreto declivio delle dune,
il recondito pendio della sabbia, il celato
canneto che crea
cortine agli occhi marini del vento.
Là sei, là sono davanti a te, controllando
l’alta temperatura delle onde felici,
il cuore del mare ciecamente sorto,
morendo in frammenti di dolce sale e di spume.
Poi, tutto ci guarda allegro, sulle rive.
I castelli in rovina sollevano i loro merli,
le alghe ci offrono corone e le vele,
preso il volo, vogliono cantare al di sopra delle torri.

Stamane, amore, abbiamo vent’anni.

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