GIORGIO LINGUAGLOSSA DUE POESIE –  IL RINNOVAMENTO POETICO “Cogito è in viaggio su un treno blindato”, “Giocavano a dadi con i meteci”, con un Commento di Mario M. Gabriele a proposito della rifondazione della “forma-poesia”

Foto Vopos Verso la libertà a bordo della BMW Isetta, Una storia vera

Il Signor Cogito alla guida della Lada di proprietà

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due poesie di Giorgio Linguaglossa a cura di Mario M. Gabriele

Se è vero che la filosofia secondo Hegel è:“Il proprio tempo compreso con il concetto”, dal quale poi si forma una connessione di elementi che rientrano nella cosiddetta “Fenomenologia” dove si chiarisce il percorso che ogni individuo deve realizzare, partendo dalla sua coscienza; allora tale definizione può anche essere trasferita, pur con le dovute variazioni, alla poesia, al di là di tutte le interpretazioni che sono state elaborate nel corso della Storia. Barthes, ne “ Il piacere del testo”, perviene ad un progetto di ricerca seguendo le sedimentazioni temporali della scrittura che si allarga ad ogni sapere fino a incontrare il lettore, autentico interprete di ogni opera.

Un interrogativo però si pone ed è questo: è il lettore in grado di interpretare il “Profilo Sommerso” legato alle figure retoriche, che costituiscono la “Maschera” con cui si cela l’altro di sé del poeta, il quale agisce su “Espressione” e “Contenuti”, raggiungendo la Forma estetica del verso fasciato di “Allegoria” e “Allusione”,”Metafora”e Metonomia” ecc.? In questa indagine Barthes coinvolge anche la “Simbolica”  attraverso la quale agisce la scrittura polisemantica. Un altro interprete della poesia è stato Saussure il cui nome è legato allo Strutturalimo, contribuendo con le sue ricerche  a fissare i punti di orientamento della Linguistica, come Scienza, attraverso alcune nozioni tra le quali si annoverano la “Sincronia” e la “Diacronia”, la“Struttura”, e la “Commutazione” che, una volta assemblate, includono la lingua  in  un “sistema in cui tutti i termini  sono solidali tra loro e il valore dell’uno risulta soltanto dalla presenza simultanea degli altri”. L’immagine di una poesia immutabile nel tempo diventa mero astrattismo perché la “Critica del gusto”, verso modelli legati  alla fitta rete-semantica, si è sempre indirizzata verso nuove catalogazioni.  Da molto tempo però  l’industria editoriale ha chiuse le porte a molti Autori di ottimo profilo poetico, immettendo nel mercato prodotti secondari,  camuffandoli come  innovazione, tanto è vero che la critica ha rinunciato al suo ruolo di analisi e di valutazione, creando un vuoto culturale fra letteratura e società.

”Osservando il panorama editoriale contemporaneo ci troviamo di fronte alla situazione paradossale di poeti ottimi pubblicati da case editrici minori, o addirittura invisibili, e autori di scarso interesse che escono in Case Editrici molto accreditate, con una precedente tradizione, come Einaudi, Mondadori o Garzanti. Ne deriva una situazione di profondo sconcerto che coincide con l’eclisse della critica della poesia.” (Alfonso Berardinelli).

Con questo scempio editoriale la poesia di frontiera è rimasta ai margini di se stessa e della invisibilità. L’impegno e il rinnovamento non sono stati abbastanza sufficienti a determinare il rovesciamento dei gusti e delle proporzioni poetiche. E’ stato un prezzo altissimo che hanno pagato i poeti di diverse generazioni.

Cosa si può fare allora per contrastare  la letteratura del consenso e dello spettacolo? Rimanere onesti con se stessi, a costo di morire nelle catacombe e accettare il motto delle Giubbe Rosse: marciare per non morire. La tradizione e la ricerca devono avere una funzione interagente nel procedimento linguistico, ciò che non si trova  nell’area avanguardistica ricca di segni iconici provenienti dall’informatica e dall’area multimediale. In quest’ambito il vero coup d’aile avviene con il disordine linguistico dei vari Baino, Viviani, Voce, Ottonieri, Bilotta ecc. che invece di formare una valida alternativa alla lingua, si sono smarriti in un universo senza luce e sbocchi. Per fondare nuove alternative, l’uomo deve riscoprire la dimensione del linguaggio. E’ l’unica risposta che si possa dare al necrologio di Baldacci, che ne “Il male nell’ordine: Scritti leopardiani,” Milano, 1988, ha affermato:” l’Avanguardia non è più proponibile”, confessando nella Introduzione ai testi di Patrizia Valduga: Medicamenta ed altri medicamenti  (Torino Einaudi, 1989), “che le parole nella poesia sono state tutte adoperate”. Su questo tema si è espresso anche Sanguineti,  in una intervista di Pietro M. Trivelli, su La Repubblica del 16 luglio 2003, pag.19, quando afferma  che:” non ci sono fronti culturali che si contendano una spinta al cambiamento. Non esistono “Gruppi” di poeti. Tuttavia come negli anni 50 c’era più impulso di ricerca tra pittori, musicisti, registi, rispetto alla letteratura, anche oggi è più viva l’inquietudine nelle arti figurative ma prevale il mercato sul dibattito culturale”.

Onto Gabriele

[Mario Gabriele nella grafica di Lucio Mayoor Tosi]

Su un altro versante ha operato Arnold Schönberg sostenendo che dopo la dodecafonia non è più possibile inventare nuovi moduli compositivi se non reinterpretando la musica. Quando “l’oltre” non è più praticabile nelle arti, l’impoverimento espressivo diventa un deserto morfologico, senza il riscatto formale del significante. Hand Freyer in “Società e cultura” rileva che se un autore vuole sopravvivere all’afasia deve necessariamente “attingere a tutte le fonti, raccogliere parole ed espressioni in tutti i vicoli, ma anche nelle miniere più antiche, purché abbia il coraggio di penetrare nelle gallerie in rovina”. Si tratta della medesima concezione di Eliot sulla poesia, vista come una  unità vivente di tutte le poesie che sono state scritte: ossia la voce dei morti in quella dei vivi. Contro l’omologazione della poesia koinè, è necessario contrapporre il dissenso e l’antagonismo, cercando di agire con la qualità e la ricerca, senza fossilizzarsi in forme e contenuti  di dubbia consistenza, cambiando un poco le regole del gioco  e i luoghi culturali, fino alla contrapposizione di un progetto duraturo e credibile, potenzialmente rivoluzionario.

È un percorso difficile da realizzare, ma percorribile nelle diverse esperienze acquisite,  Tra i vari modi di scrivere versi, la poesia racconto, (ma anche quella di impronta ideologica, così attiva negli anni Sessanta, con Fortini, Pasolini ed altri), ha offerto uno spazio dilatato  e rispettabile di fronte alla fumisteria e all’apnea poetica. E’ stato un genere letterario che ha avuto nel passato illustri nomi da Mallarmè con “Il pomeriggio di un fauno”, a Pascoli dei “Poemi Conviviali”, da Pavese di “Lavorare stanca”, alla poesia straniera con Lee Masters di “Spoon River”, a Withman, Pound, Garcia Lorca, Neruda, Majakovskij e Ginsberg di Kaddish. In effetti l’ampio registro verbale ha legato il lettore ad una struttura linguistica più impegnata. Se poi la poesia racconto è riuscita ad essere anche un contenitore di tematiche esistenziali, meditative, e socio-politiche, in relazione alle cosiddette figure grammaticali individuate da Kopkins, allora”l’universo del discorso” che, ha caratterizzato questa poesia, ha una sua valenza nel variegato panorama dei “Modelli”. Qui non si possono non citare anche gli esiti della poesia visiva, attraverso la rappresentazione eterogenea dei segni iconici e tipografici, simboli del consumismo, slogans e figure geometriche. Il rischio maggiore legato alla poesia visiva è stato l’autolesionismo che ha sublimato e ideologizzato, nella sostanza e nella forma, l’esclusività dei suoi caratteri nell’era del postmoderno, nel momento in cui era necessaria la sua collocazione in un contesto più vasto e progettuale, fuori  dalle maglie troppo strette di uno status propagandistico, per entrare con altri linguaggi e culture, all’interno di un “villaggio globale”.

Secondo Stelio Maria Martini l’elemento visivo, a parità di diritto con quello verbale, va considerato complementare di questo, perché rappresenta meglio di quanto non farebbe con la parola, da sola, il sostrato fantastico e sentimentale che sottende uno schema verbale (e viceversa, naturalmente) per non lasciare nelle mani dei mercanti d’arte o dei fotografi dell’immagine, la mistificazione del prodotto  e il ribaltamento della realtà”, fuori da quell’aura propria di cui parlava Benjamin “Dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità  tecnica”.

Per quanto si possa parlare in questi tempi di un nuovo ordine linguistico, non si può non riconoscere lo sforzo ricostruttivo compiuto da Giorgio Linguaglossa nei confronti della Forma poetica, sempre attento a non offrire ai lettori del circuito italiano ed extranazionale, paraventi linguistici falsamente comunicativi, da ciò la sua preferenza a riformulare la langue su tutte le ceneri linguistiche. Le figure di pensiero sono così veicolate da una coscienza del dire, che è molto spesso una concatenazione di idee e di recupero di volti e nomi all’interno della Metafora, utilizzata per lo sviluppo di  trame che coinvolgono  più soggetti. Ma si dà anche il caso che, a volte, affiorino gradazioni psicologiche, come incremento del significante da cui partono le fratture del tempo storico e contemporaneo. Ne sono testimonianza le opere pubblicate attraverso le varie sigle editoriali, a cominciare dal 1992 con “Uccelli”, seguito da “Paradiso” nel 2000, da “La Belligeranza del Tramonto” e nel 2013 da “Blumenbilder. Natura morta con fiori”, mentre  in “Tre fotogrammi dentro la cornice” Selected Poems (Chelsea Editions, 2015) il lettore entra  in una antologia poetica fatta di  connessioni metaforiche volte  a rappresentare un continuum di tematiche aperte a tutto campo.

Ho conosciuto l’Autore attraverso la lettura di queste due poesie inedite, da me pubblicate su: isoladeipoeti.blogspot.it e da cui poi sono nati “punti di vista”  sul fare poesia di oggi:

Giorgio Linguaglossa

Cogito è in viaggio su un treno blindato

Stanza n. 73

Cogito è in viaggio su un treno blindato

Il gioco dell’ombra tra gli hangar. Fasci di luci dai riflettori
posti sulla sommità delle torrette blindate.

Sulla terra battuta il passo dell’oca dei soldati.
I gendarmi giocano al gioco delle tre carte.

Gli ufficiali puntano alla roulette: sul rosso, sul nero,
sul numero 33.

Giocano con le bambole, giocano con le murene.
Accompagnano al pianoforte la bella Marlene

Che canta il Lied della nostalgia e della morte.
In alto, le sette stelle dell’Orsa maggiore.

Beltegeuse è una stella nana, Enceladon è lontana.
Firmamento stellato.
Cogito è in viaggio su un treno blindato,

Sta scrivendo una cartolina ad Enceladon:
«Mia amata, il mio posto è qui».

[…]

Un pittore fiammingo dipinge la luna e una natura morta.
Un Signore salta dalla bandella del polittico nella stanza del pittore.

Cammina per la stanza, dice che vuole prendere un po’ di aria fresca.
Non vuole più dipingere Annunciazioni, pastorelli, re Magi, Madonne col bambino.

Un gendarme col berretto a visiera tra gli hangar, agita il frustino
Un nugolo di cani lupo. Abbaiano furiosi, intuiscono
gli ordini dell’aguzzino dal movimento del suo polso.

[…]

Interno di una locanda: dei balordi giocano a carte.
La luce della finestra non li raggiunge.

Li sfiora e va altrove e la luna non c’è.
Benozzo alla corte degli Estensi.

Un cardellino sul ramo di corbezzolo,
Non c’è più tempo, deve affrettarsi,
il Beato Angelico lo ha chiamato a Roma presso il papa.

«Per fare cosa?», si chiede Benozzo, «ancora affreschi,
polittici da altare, annunciazioni?».

Il treno carico di morti viventi è in corsa nella notte.
Inverno. È arrivato il grande freddo.

Berlino. Il lampionista spegne i lampioni lungo la Marketstrasse n. 7.
La polizia segreta bussa alla porta del Signor Cogito.

«Gutentag Herr Cogito».

(da Le Risposte del Signor Cogito inedito)

 

Giocavano a dadi con i meteci

Un angelo zoppo ci venne incontro
e disse, senza guardarci: «Malediciamo il nome di Dio.»

Eravamo incomprensibili. Stavano tutti al bar
a bere caffè, quando, a mia insaputa, cominciai a zoppicare.

Erano tutti zoppi gli avventori del bar e gobbi.
Avevamo la gotta e la gobba ci spuntava dalle spalle.

A quel tempo dall’Albero vennero i bastardi
con le risposte pronte e gonfiarono le vele

E gettarono le ancore.
Io fissavo il loro occhio di vetro …

Giocavano a dadi con i meteci e a morra con gli iloti,
se la spassavano con le troiane,

Ma anche quelle presero a zoppicare oscenamente.
A quel tempo facevo l’infiltrato e la spia,

Passavo informazioni ai persiani in cambio di talleri d’oro
e poi riferivo ai bastardi le notizie sottratte

ai carovanieri di spezie e di porpora che attraversavano il deserto.

Io a quel tempo me la spassavo nella Suburra,
tiravo con l’arco al bersaglio e giocavo a morra con i bastardi.

Un angelo gobbo ci venne incontro
e disse, senza guardarci: “Dimenticatevi il nome di Dio.”

(da La Belligeranza del tramonto, 2006)

Trattasi di un fluire poetico di  autentico “humus psicoestetico, all’interno del quale si può benissimo parlare di poesia perché Linguaglossa ha introdotto un vero e proprio linguaggio ellittico e risolutivo, cancellando l’Expo del linguaggio tradizionale e afasico, rimuovendo il lirismo del dopoguerra, e le fantasie verbali dei poeti pulp, e post-avanguardisti. Da qui il rifacimento di una realtà, con un mutamento linguistico che non è soltanto frattura con la Tradizione, ma  rimozione di un mondo risemantizzato con nuovi “strumenti umani”.  Su queste due poesie l’Autore precisa che «la loro stesura ha riguardato una distanza temporale di 10 anni l’una dall’altra, la prima l’ho scritta nel 2014 mentre la seconda nel 2005. Questo, per dire che c’è stata una continuità tra il primo lavoro e l’ultimo ancora inedito su carta. Poi, in questi anni c’è stato l’aggravamento della Crisi del Paese e la Crisi della Ragione Narrante che mi ha motivato a spingere sull’acceleratore di una forma-poesia che riorientasse la poesia italiana del secondo Novecento. Ho dovuto prendere le distanze perciò dalla poesia di “Satura” (1971) di Montale, il maggior poeta italiano del Novecento, per sterzare in un’altra direzione. Ho dovuto apprestare perciò uno strumento linguistico e stilistico e una metafisica, insomma, ho dovuto munirmi di una  nuova ontologia estetica. È stata una ricerca che è durata 30 anni, perché sono dovuto partire da zero. O quasi. Ho dovuto inventare di sana pianta uno stile modernistico e riallacciarmi alle sorgenti del Modernismo europeo, un lavoro gigantesco che dovrebbe essere visibile nella raccolta di prossima pubblicazione “Il tedio di Dio” che dovrebbe uscire con Progetto Cultura di Roma.»

Nella mia replica, ricordo, sempre tramite post, di aver usato per me, nella ricerca sulla poesia, il termine “speleologo”, che molto si addice al Linguaglossa nel suo lavoro di rifondazione linguistica, formale e lessicale, di contenuti, opzioni salutistiche sulla lingua e al progetto psicoideografico della realtà, asfissiando così l’area poetica venutasi a saturare con il Gruppo ’93, e della terza ondata, e approdando con coraggio a una “rifondazione” della lingua in diversi capitoli estetici, che hanno aperto la lettura a nuovi canoni utili a giustificare “l’assedio” alla poesia, durato 30 anni di ricerca e di impegno ricostruttivo. La novità che intravedo, leggendo le sue poesie, è correlata ad un  umanesimo culturale che affonda le radici in più territori. Ciò viene a determinare un “manifesto poetico” indicativo nel fare poesia.

Fayyum ritratto di Donna romana

Fayyum ritratto di Donna romana

Sul concetto di Arte, con riferimenti anche alla musica e alla poesia, Linguaglossa  centralizza il suo pensiero affermando che: ”Nell’arte degli Anni Cinquanta avviene una”catastrofe”, ovvero l’incrocio tra diversi codici artistici che sfocerà in una libertà fino ad allora impensata. Un artista la cui opera è altamente significativa e densa di conseguenze per chi voglia intendere, è stata la musica e le riflessioni di John Cage  il quale scrive che

“l’arte è un modo di vita, come prendere l’autobus, cogliere fiori”, affermazione che comporta l’abbandono del regno tradizionale dell’estetica e una visione della vita come il regno del non-intenzionale. Nell’opera di Cage vengono recisi i legami con il linguaggio e la teoria musicale tradizionale: i suoni non sono più considerati un veicolo di significati tratti altrove, ad esempio da un testo poetico, e non sono più ordinati secondo un sistema prestabilito (armonico, tonale, atonale, dodecafonico) in cui incasellarli in una gerarchia di suoni. Tale pratica di non-intenzionalità rispetto al suono sollecita un gesto di sospensione autoriale. Il che comporta che i suoni accadano in quanto suoni al di fuori di qualsiasi pentagramma prestabilito.

“Direi che questo assunto,” continua  Linguaglossa, “è utilissimo anche per quel che riguarda la procedura compositiva di una forma poetica. Cage ci ha dimostrato che in musica è possibile trattare i suoni in questo modo. Analogamente, con le parole è possibile operare secondo un procedimento dinamico interno che si spinga fino alla impossibilità di giungere all’opera conchiusa; insomma, mediante una procedura che consenta di creare allo stesso modo con cui si crea l’universo in continua espansione. L’autore quindi si deve limitare a creare una struttura-cornice o un progetto-partitura entro i quali lasciare che gli eventi accadano. Le parole quindi vengono trattate come eventi. Le immagini e le metafore sono nient’altro che eventi. In tal senso la mia poesia può essere letta come una grande scacchiera dove avvengono eventi molteplici i quali creano a loro volta nuovi spazi interni entro i quali si inseriscono altri eventi che accadono in uno spazio-tempo in continua espansione. Con questa procedura si possono ottenere una miriade di spazi che si aprono all’interno di altri spazi, talché avviene che la distanza tra due o più spazi viene ad essere misurata dal tempo (dal tempo vissuto), quale categoria ontologica di seconda istanza. È una procedura di nuovo conio, ma non lontana dalle procedure compositive di Mandel’stam che teorizzava e praticava una poesia basata sulla metafora tridimensionale; una procedura imparentata con la teoria degli equivalenti oggettivi di Eliot e con la teoria dell’imagismo di Pound. Per non parlare delle immagini in movimento di Tomas Tranströmer. Si tratta di uno sviluppo ulteriore degli assunti della poesia modernistica europea”

acconciatura muliebre periodo del principato

acconciatura muliebre periodo del principato

Il 4 settembre.2015 10:29,  così rispondo al Linguaglossa:

“Il pensiero di Cage annulla la funzione statica della musica: una specie di “armonium” che ci ha accompagnato anche in poesia per lungo tempo, quintessenziando il pre e postermetismo (Soffici, Marinetti Sbarbaro, Onofri, Cardarelli e, perché no, lo stesso Montale di “Le occasioni”, per cui di fronte alla impossibilità di creare nuovi stilemi e, andando su un altro versante, quello della musica dodecafonica, anche Arnold Schönberg, ha ripudiato il principio tradizionale di una tonalità non riformabile,  mettendo i dodici suoni della scala cromatica su un piano di assoluta eguaglianza, e ritenendone ognuno parimenti atto ad essere centro armonico e generatore di accordi. Qui sorge lo stesso tuo problema di fronte ad una poesia da rigenerare ex novo. Su questo passaggio la domanda è se dopo la dodecafonia è possibile andare oltre approdando a una nuova musica, ossia, inventare altri moduli compositivi? Su questo tema, a suo tempo, rispose il Maestro Carlo Maria Giulini, il quale alla base della sua esperienza negò altre soluzioni, asserendo che la musica può essere solo reinventata e reinterpretata così come avviene per le metafore che in poesia costituiscono “eventi”, illuminazioni”, “dinamismo iperculturale” come fai tu.”

Il 4 settembre 2015 12:36:

Linguaglossa chiude gli interventi, precisando che “In analogia con gli assunti della musica dodecafonica possiamo ammettere che le parole siano tutte eguali, che partano da uno statuto di eguaglianza per cui ciascuna parola può essere, assumere, il ruolo di centro di gravità (sonora e/o insonora) della composizione poetica. Il centro armonico generatore di accordi quindi può essere rivestito da qualsiasi parola, immagine, metafora, tutte su un piano di parità. Certo, questo assunto implica che l’autore si ritiri nell’ombra, che si situi in una zona fuori dal cono di luce della composizione, fuori visione. Concetto correlato con quello della impersonalità dell’arte moderna e dello svuotamento anche semantico che attinge le parole di oggi nella lingua di relazione e nei linguaggi poetici. Quello che non capiscono i poeti di modesta levatura è proprio questo punto. Impersonalità e disumanizzazione dell’arte implicano l’accettazione di una estetica del vuoto quale quadratura del cerchio (mi si passi l’ossimoro), come unica condizione possibile da cui partire e a cui ritornare.”

Quando Franco Fortini scrisse Traducendo Brecht, aveva già metabolizzato il fallimento della sua idea marxista della società soffermandosi sulla inutilità della poesia come nella chiusa del testo e cioè: “La poesia non muta nulla / nulla è sicuro ma scrivi”; un invito che si adatta molto bene al lavoro di Linguaglossa e alla sua ferrea volontà  di rifondare la poesia partendo da zero. E’ una lezione che ascolteremo fino in fondo, con immutata attenzione e curiosità.

Formalizzati così i “punti di vista”,  rimane ora  indicare l’area dove collocare la poesia  di Linguaglossa. che certamente va agganciata alla poesia modernista ed europea, quest’ultima caratterizzata dallo“stile che nasce dal dialogo cosmopolita alla ricerca di un nuovo linguaggio della poesia. La caratteristica principale del nuovo stile è quella di mirare alla costruzione di testi polifonici, leggibili a più livelli e giustapposti su un unico piano senza distinzione, consentendo così di accostare registri linguistici appartenenti a strati sociali, e culturali diversi” (griseldaonline) E’ una strada, o meglio un obiettivo che si può raggiungere solo con una cultura alle spalle e tanta esperienza da rimuovere la poesia dal suo stato letargico e afasico.

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura” e pubblicato diversi volumi di poesia tra cui il recente Ritratto di Signora 2014. Ha curato monografie e saggi di poeti del Secondo Novecento. Ha ottenuto il Premio Chiaravalle 1982 con il volume Carte della città segreta, con prefazione di Domenico Rea. E’ presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poetidi Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzario, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia contemporanea a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) Si sono interessati alla sua opera: G.B.Vicari, Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Luigi Fontanella, Giose Rimanelli, Francesco d’Episcopo, Giuliano Ladolfi,e Sebastiano Martelli. Altri Interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier. Cura il blog di poesia italiana e straniera L’isola dei poeti.

31 commenti

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31 risposte a “ GIORGIO LINGUAGLOSSA DUE POESIE –  IL RINNOVAMENTO POETICO “Cogito è in viaggio su un treno blindato”, “Giocavano a dadi con i meteci”, con un Commento di Mario M. Gabriele a proposito della rifondazione della “forma-poesia”

  1. Caro Mario Gabriele,
    tu scrivi: “Cosa si può fare allora per contrastare la letteratura del consenso e dello spettacolo?” – io dico semplicemente che dobbiamo continuare a scrivere poesia, noi non possiamo in alcun modo, non ne abbiamo i mezzi, contrastare la letteratura del consenso. La poesia è uno strumento troppo debole; sui tempi brevi e medi, la letteratura del consenso trionferà sempre. La poesia del consenso avrà sempre la vittoria nei confronti della poesia del dissenso. Oggi io credo che dobbiamo fare una “Poesia del dissenso”, dobbiamo riappropriarci dello strumento del dissenso. La massa della post-massa del post-contemporaneo andrà sempre dietro il carro del vincitore, dietro i facili allori della letteratura del successo e della vetrina. Lasciamoli fare, il tempo sommergerà tutto e tutto dimenticherà. Noi con il nostro lavoro abbiamo una sola arma, fare le cose per bene, non deflettere da ciò che riteniamo giusto, non operare mediante favoritismi e opportunismi. Certo, dobbiamo a tutto ciò affiancare una critica, una nuova critica, un nuovo modo di intendere l’istituto della critica della poesia e della letteratura. Dobbiamo Essere persone attendibili in mezzo a una folla davvero inattendibile.

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    • Caro Giorgio,
      qualsiasi mutamento di carattere filosofico, scientifico e letterario, comporta adattamenti di difficile accettazione. Basti pensare al “pensiero debole” di Gianni Vattimo, che al tempo della sua proposizione filosofica, liberalizzava l’uomo dalle catene, fuori da tutti i tipi di dipendenza provenienti dalle varie etiche tradizionali. Stessa cosa può dirsi nella poesia e in chi è impegnato nel difficile compito della riprogettazione. Non a caso Riegl, si portò verso una propria teoria, sostenendo che tutta la storia dell’Arte è segnata da periodi che si caratterizzano per una determinata intenzionalità artistica che si rivela nei diversi stili e nelle diverse espressioni artistiche. Anche il filosofo Giulio Giorello è del parere che ”la scelta di uno stile, di una realtà, di una forma di verità, compresi criteri di realtà e di razionalità, è la scelta di un operare umano”. Sta a te e ad altri poeti che condividono questo progetto in poesia, rimanere fedeli a se stessi, tracimando le alghe che chiudono il passaggio verso il rinnovamento.

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    • Michele

      Vi è da dire, che attaccarsi a ciò che “tira di più” come delle remore, far finta (ma anche con sé stessi!, cioè credendoci) di essere d’accordo con ogni cosa con cui la maggioranza (o le minoranze più potenti…) fa finta (credendoci più o meno) di essere d’accordo, sono istinti radicati nella mente umana al livello più profondo, quello degli istinti di sopravvivenza.

      Non è difficile immaginare che per chi sa quanti millenni e migliaia (di migliaia?) di volte la scena di due gruppi di homo che si incontravano, con inevitabile scontro fisico e morte dei maschi appartenenti al gruppo meno forte (che in epoca pre-tecnologica equivaleva a: meno numeroso) sia… avvenuta, con le emozioni, e reazioni più convenienti ai fini della sopravvivenza, ad essa associate che ogni volta si imprimevano un pochino di più nelle menti, alcune delle quali sopravvivevano, tramandando parte delle impressioni ricevute col loro codice genetico alla prole.

      L’istinto di schierarsi all’interno del gruppo con più potere/più numeroso determina fin pure il successo, o il fallimento, di questa azienda di abbigliamento e di quella di smartphone o di automobili o di penne o di sia cosa sia. È omnipervasivo.
      I comportamenti degli umani normali, molti dei quali si credono, e sono creduti dalla società, artisti, pensatori, e simili, sono uniformi ad un punto che dovrebbe scoraggiare chi si ostina a ritenerli, i normali, individui veri e propri, e seguono le vie della minima resistenza incontrata, della massima ricompensa prospettabile, e simili.

      Ciò riguarda, evidentemente, ciò che si crede ed è creduto letteratura, storia, poesia, … deve essere tutto piuttosto falso ed opportunista, perché non può non essere che un rispecchiamento degli attributi della maggioranza degli umani, i quali come dicevo sono vincolati ai comportamenti che, non importa se si concordi o meno con Darwin e l’evoluzionismo e la selezione naturale, paiono comunque indiscutibilmente formati dalla natura e dai millenni.
      E tanto più dominanti sono certi istinti nella mente, tanto più inconsci e destinati a rimanere ignoti ai dominati, cioè a coloro che invariabilmente agiscono seguendoli, credendo di farlo per tutt’altri motivi e “di loro volontà”.

      Però nulla di tutto questo è consapevole, o una scelta. E non ha neppure costrutto proporsi di combattere la storia, o la filosofia, o la poesia, dominanti in un certo momento perché “false”; nelle loro posizioni di autorità potrebbero essere sostiuite solo da altre falsità, non certo da qualcosa di meno opportunistico, superficiale, contradditorio.

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  2. ubaldo de robertis

    Giorgio Linguaglossa è solito precisare che il suo modo di comporre è frutto di oltre trent’anni di ricerca. Critico verso la tradizione italiana del secondo novecento ha cercato una forma più ampia per significare un nuovo modo di percepire il reale. Questo è lo stesso atteggiamento conoscitivo dello scienziato che cerca le risposte a domande per la quali non ritiene di possederne di già attendibili. L’uomo di scienza rende problematico ciò che appare ovvio, scontato, e trasforma le cose in altro. Volontà di trasformazione considerata come un dovere da compiere.
    Ma non basta una grande voglia di fare, accrescere le proprie capacità meditative e logiche, ampliare la conoscenza in un definito campo,non è sufficiente il continuo esplorare, anche il proprio inconscio, come nel caso della poesia, per ottenere i buoni risultati.
    Se Giorgio Linguaglossa è capace di elaborare un linguaggio avvincente, segreto, pur nella complessità della propria opera poetica, è perché in lui è innato il talento del poeta.
    A questo punto per me il percorso di studio che ha compiuto deve passare in secondo ordine. Conta la sua capacità di creare versi con immagini nuove che riescono, grazie alla sua particolare sensibilità, ad emozionare a far riflettere, su tematiche che chiamano in causa il senso, il mistero dell’esistenza e dell’universo in cui viviamo più o meno consapevolmente.

    “Interno di una locanda: dei balordi giocano a carte
    ma la luce della finestra non li raggiunge.
    Li sfiora e va altrove e la luna non c’è. “

    Ubaldo de Robertis

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  3. Caro Mario Gabriele,
    Nel mio libro “Dalla lirica al discorso poetico. La poesia italiana 1945-2010“, ho formulato la tesi secondo cui la poesia di Vittorio Sereni ha costituito una “Riforma moderata” del linguaggio poetico degli anni sessanta e settanta. In quel giudizio c’era un mio convincimento che quel tipo di riforma, pur plausibile e valida entro certi limiti, peccava di una ristrettezza di visione, di un campo visivo insufficiente. Volevo dire che entro il cono di luce della riforma moderata di Sereni era sicuramente possibile operare, ma che quella strada, a lungo andare, sarebbe inevitabilmente finita a sbattere contro il muro della nuova società mediatica che già si profilava all’orizzonte. Intendevo dire che la società mediatica avrebbe spazzato via con grande energia i piccoli congegni di orologeria linguistica e di ingegneria linguistica sia della linea post-lombarda sia di quella delle poetiche del post-sperimentalismo. Intendevo dire che quella via si sarebbe rivelata essere una via sempre più ristretta e, alla lunga, anche epigonica. È stato Berardinelli che ha scritto che la poesia, il romanzo e in genere l’arte della seconda metà del Novecento, sono da considerarsi episodi, anelli di una linea epigonica. Era già stato tutto detto e fatto nella prima metà del Novecento. Tutto quello che verrà nella seconda metà sarebbe stata arte epigonica. Aggiungo io: intimamente decorativa, da salotto, culinaria nel peggiore dei casi, da intrattenimento nel migliore dei casi, giornalistica nei casi di mezzo: cioè una pseudo arte leggera, affabile, effabile, ironica, gnomica, che ammicca alla subcultura di massa del lettore mediatico. Ma tutto ciò non mi stupisce né mi stupiva. Più leggevo poesia e romanzi del nostro tempo epigonico più mi accorgevo che eravamo (e siamo) tutti nipotini di un lunghissimo periodo di epigonismo, di un’arte democratica, che tenta disperatamente di dilettare e di épater les bourgeois, un concetto ormai davvero da salotto piccolo borghese. Montale (il più grande poeta del Novecento, il più acuto) si avvede da subito dell’andazzo dei nuovi tempi e si accostuma di conseguenza: con “Satura” (1971) e da “Satura” in poi la sua poesia si democraticizza, diventa post-poesia, poesia-commento, di occasione, poesia-diario con ironico svelamento delle suppellettili di casa, poesia da voyeur. Insomma, Montale smobilita, licenzia la sua grande poesia del primo periodo e inizia un nuovo ciclo della poesia italiana, la poesia della privacy, dei rapporti di coppia, delle delusioni esistenziali, degli intrattenimenti intellettuali, dell’interludio, dei cammei pseudo lirici etc.
    Caro Mario Gabriele, questa è la situazione. Vogliamo ancora proseguire con un’arte democratica? Con una poesia che vada bene per tutti i palati? Con una poesia che piaccia ai professori universitari? (come scaltramente ha fatto Zanzotto), con le Post-post-avanguardie desultorie e sussultorie come il gruppo 93? e con i ritorni della poesia della Bellezza?

    Ecco, io mi limito a porre degli interrogativi e vorrei ascoltare i pareri dei lettori del blog.

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  4. Perdonerete il linguaggio poco specialistico, non da critico.
    Provo a modo mio.

    Il gioco dell’ombra tra gli hangar. Balenano fasci di luci dai riflettori
    posti sulla sommità delle torrette blindate.
    Sulla terra battuta risuona il passo dell’oca dei soldati.
    I gendarmi giocano al gioco delle tre carte.

    L’immagine si blocca al quarto verso, dove viene ‘ congelata’ e posta nella cornice atemporale di un dipinto. A mio modo di vedere, il quarto verso è poesia. La quartina è chiusa e potrebbe bastarsi. Mettere la pausa di uno spazio?
    Ma prosegue:

    I gendarmi giocano al gioco delle tre carte.
    Gli ufficiali puntano alla roulette: sul rosso, sul nero,
    sul numero 33.
    Giocano con le bambole, giocano con le murene,
    accompagnano al pianoforte la bella Marlene
    che canta il Lied della nostalgia e della morte.
    In alto, le sette stelle dell’Orsa maggiore.
    Beltegeuse è una stella nana e Enceladon è lontana
    nel firmamento stellato.

    Altra pausa? No, Linguaglossa sembra voler dettare i tempi della lettura; forse sa di avere a che fare con un lettore ancora affezionato a vecchie modalità; ma qui si tenta l’azzeramento, che deve essere per tutti.
    Come per Sagredo, vedo un fiume in piena che vorrebbe travolgere il lettore, invece di accompagnarlo. D’altra parte si sa che il lettore medio è affezionato all’armonia, il suo orecchio è decisamente votato al melodico. In Italia impera il figurativo, forse non si tratta nemmeno di oltrepassare la dodecafonia ma, più semplicemente ( si fa per dire), per quel che attiene le immagini, di uscire definitivamente dal Rinascimento? Infatti:

    Un Signore salta dalla bandella di un polittico nella stanza del pittore.
    Gira per la stanza, vuole prendere un po’ di aria fresca.
    Non vuole più dipingere Annunciazioni o Madonne col bambino.

    L’intento modernista qui non potrebbe essere meglio descritto.
    Ma dove volgersi altrimenti?

    Anteprima: Un uomo in nero è accanto al letto di morte del poeta.
    «Ospite sgradito! La tua fama da tempo s’è sparsa»,
    scrive il poeta sul letto di morte.
    Un gendarme cammina tra gli hangar, agita il frustino
    in mezzo ad un nugolo di cani lupo. Abbaiano furiosi,
    intuiscono gli ordini dell’aguzzino dal movimento del suo polso.

    Alla sceneggiatura. Per questo rimando a scritti di William Burroughs; e, più che alla dodecafonia, alla musica di Frank Zappa che, non fosse per le ritmiche, ha certamente rotto con tutti gli schemi dell’armonia musicale. Tant’è che infatti è rimasto un caso isolato nel panorama della musica rock.
    ( Da ex pubblicitario vi dico che questo sarebbe, per Linguaglossa, un posizionamento di prim’ordine).

    ( segue, se torna il momento)

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  5. Gino Rago

    Bravo Lucio…Due i temi fondamentali della poetica linguaglossiana:1) la impossibilità di considerare l’uomo staccato dal tempo e dallo spazio, dalla storia e dalla geografia, dalla memoria e dal paesaggio; 2) il poeta (T.S.Eliot)
    non comunica “direttamente” con il lettore, ma creando degli objective correlatives, da più parti e in più occasioni già diffusamente rivisitati su L’Ombra. Anche per il Montale “dopo Satura”, Giorgio si è manifestato in ogni momento e in ogni sede, ponendosi e ponendo questioni decisive
    sulla poesia contemporanea come “non hanno più peso le parole all’interno della linearità liberata del verso libero?…(Dopo il Novecento, Soc. Ed. Fiorentina, 2013). E sta elaborando una personalissima, inimitabile poesia
    proprio per evitare definitivamente che le parole vibrino nelle vibrazioni dell’Io…

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  6. Caro Lucio Mayoor Tosi,
    condivido le tue osservazioni circa i punti delle pause tra una strofe e l’altra, è vero, seguendo il consiglio delle tue indicazioni avrei sicuramente creato una maggiore leggibilità, ma il mio intendimento non era quello di offrire una più agevole leggibilità quanto indicare un diverso sviluppo della forma-poesia come dice bene Gino Rago, mettere in luce i correlativi oggettivi che nella prima poesia in specie abbondano.
    Il problema che mi sono posto 30 anni fa è stato quello non di circumnavigare Satura di Montale quanto quello di rottamare Montale e aprire alla poesia italiana una nuova epoca di sviluppo. Ci sono poeti che possono essere paragonati ai grandi statisti, poeti che aprono una nuova epoca e poeti che chiudono una vecchia epoca. Entrambi utili. Come ci sono statisti che aprono una nuova stagione politica e di riforme e statisti che invece chiudono la vecchia stagione. Ecco, io credo che Montale con Satura abbia aperto una nuova epoca alla poesia italiana, ma in discesa, una discesa che avrebbe condotto la poesia italiana al minimalismo di oggi e al banalismo di massa dei poeti maggioritari pubblicati da Einaudi e Mondadori. Ecco, io constato che oggi diversi poeti contemporanei (alcuni di essi ruotano attorno all’Ombra delle Parole) abbiano trovato nuova linfa e abbiano inaugurato un nuovo periodo per la poesia italiana, e questo risultato è stato reso possibile quando è diventato evidente che ormai erano caduti in disuso come vecchie suppellettili i mini canoni nati già morti, i mini canoni già epigonici, e che era necessario individuare una nuova modalità di fare poesia. In questa direzione di ricerca sono ormai 30 anni che mi sono mosso e mi muovo, e poeti come Sagredo o Gino Rago, tanto per citare gli intervenuti a questa discussione, o come Steven Grieco e altri che non nomino, sono tutti impegnati ad uscire dalle secche foci di un fiume ormai inariditosi, il fiume del Novecento epigonico.

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    • Michele

      Per me la storia delle epoche estetiche attiene a faccende di lotte e commerci, cioè, come si diceva prima, a chi deve avere più successo o meno, imporsi o no, in frangenti determinati.

      L’arte, come il suoi gemelli, il sogno e la vita, è prima del tempo, sta nella dimensione dove non è stato nemmeno inventato il tempo; e anche le forme sono cose successive.
      Certo, in qualche modo agli altri si deve comunicare, e i mezzi e modi di questa comunicazione in qualche misura delle circostanze, di spazio e tempo e cultura in cui si trova, devono risentirne. Ma sono cose successive, tecniche, tattiche, del mestiere.

      Così come le idee di “smaltire” ciò che è “superato”, e simili, sono volontà di potenza (non a caso costituiscono quasi l’intero interesse della critica di professione, in tutte le arti).

      Se io leggo o guardo arte o pensiero serii degli ultimi 3 millenni, vedo tutti gli autori migliori dire, mostrare, in fondo, le medesime poche cose.

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  7. Scrive Mark Strand (oggi, su Il sole 24 ore):

    La poesia sembra perpetuamente in crisi, eppure senza meravigliare nessuno, riesce sempre a sopravvivere. (…)

    Tuttavia, se vogliamo dare un giudizio sul valore della poesia contemporanea, non dobbiamo basarci sui suoi esempi più deboli, così come non lo facciamo per quella del passato. Dovremmo tenere a mente che ogni epoca ha criticato la propria poesia, dicendo che non reggeva il confronto con le grandi opere dei secoli precedenti; chi si lamenta della poesia di oggi, quindi, non fa altro che portare avanti questo stesso rituale di accuse.

    Non c’è ragione di credere che la poesia odierna sia in declino, che sia arrivata al capolinea e che sia ormai condannata al l’irrilevanza. Non so in Italia, ma negli Stati Uniti il numero di persone che scrivono poesie è più alto che mai, e questo nonostante il fatto che le distrazioni che ci allontanano da noi stessi siano oggi molto più numerose e potenti che non in passato. Ma forse è proprio questa la ragione della crescente popolarità della poesia: gli uomini vogliono ricordarsi chi sono, vogliono fare esperienza della loro umanità, ossia della loro capacità di provare sentimenti. La poesia rappresenta quindi una difesa contro la dipendenza anestetizzante dagli slogan e dai cliché che contraddistingue la società, contro la povertà di linguaggio dei nostri politici e dei nostri telegiornali. In ogni epoca, essa offre nuovi modi per dire ciò che ha sempre detto e per ricordarci che, ieri come oggi, siamo sempre esseri umani.

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  8. Gino Rago

    Caro Giorgio, le sento come meditazioni degni di attenzione; ma il problema, in Italia come negli USA, rimane sempre quello che stai ponendo a tutti quasi ossessivamente: il patto di autenticità con il lettore. Il quale tira in ballo sia la questione del rischio che la poesia diventi sub componente gergale dei linguaggi mediatici,( come tu stesso avverti in Dopo il Novecento, già citato), sia quella della “forma” da intendere come stile e come composizione testuale…

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  9. II

    “Il gioco dell’ombra tra gli hangar. Balenano fasci di luci dai riflettori
    posti sulla sommità delle torrette blindate.
    Sulla terra battuta risuona il passo dell’oca dei soldati.”

    La descrizione pare dolce e suadente, ma l’autore si tira indietro; non così se avesse scritto, che so: Fasci di luci nell’ombra degli hangar / tra terra e torrette il passo dell’oca ribatte / la terra battuta”. Ripensando a Cogito… il salto è notevole, ma è forse lo stesso salto che si avrebbe tra poesia e prosa? No: per un romanziere, i tre versi di Linguaglossa, sarebbero poco meno che appunti. Ma è prosa perché spiega con cura e diligenza dove sono gli oggetti e come sono fatti; ed è poesia perché non dice. L’autore è muto, si fa da parte. Forse è l’universo che vede il cielo stellato.
    Se tutto questo è premeditato m’inchino mi taccio. Non si tratterebbe tanto di un vago richiamo al noto verseggiare della poesia ( gli a-capo e la sintetica brevità dei versi), ma la messa in pratica dell’azzeramento di cui si sta parlando. Un gradino sotto, un militare traccerebbe dei punti che poi unirebbe con linee. E non scriverebbe parole perché le direbbe a voce. Il livello dell’azzeramento è questo.
    Ci vuole un grande coraggio per arrivare a questo punto, e da qui sfidare il mondo intero. Bellezza e squallore, pieno e vuoto che si ritrovano in un solo punto. Per l’estetica un atto di eroismo, ma per la poesia un grande gesto di rappacificazione, quasi il volo di una colomba che prenda il volo per altri luoghi.
    Forse per posarsi qui:
    Un pittore fiammingo dipinge la luna e una natura morta.
    poi qui:
    Li sfiora e va altrove e la luna non c’è.

    Il treno carico di morti viventi è in corsa nella notte.

    Proseguendo mi rendo conto che devo rallentare la velocità della mia lettura, che non devo lasciarmi assoggettare dall’incalzante susseguirsi delle immagini; ma soprattutto capisco che posso rilassarmi, che devo solo stare a guardare.

    Mi sa che rileggerò Blumenbilder.

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  10. Caro Lucio Mayoor Tosi,
    ancora una volta credo che hai messo l’indice sul punto preciso del problema. Mark Strand scrive «che la poesia è una difesa contro la dipendenza anestetizzante dagli slogan e dai cliché che contraddistingue la società». Io non so se è una «difesa» ma certo è un composto omeopatico. Voglio dire che la poesia di un poeta non può non usare le parole che ogni epoca gli mette a disposizione. Il poeta non ha altre parole che quelle che la propria epoca gli mette a disposizione, ed egli ha solo l’obbligo di saperle utilizzare, saperle connettere in un mosaico, in un sistema che dia loro la massima significatività. In tal senso è vera l’asserzione di Mark Strand secondo cui il poeta utilizza «le parole anestetizzate» della propria epoca, e non potrebbe fare altrimenti. I poeti autentici non possono che usare quelle parole, anche se sanno che le parole si sono anestetizzate, sanno anche che non è data loro altra scelta che usare QUELLE parole. Ecco perché lo sperimentalismo novecentesco si è dissolto come una bolla di sapone: perché teorizzava il libero intervento del poeta tra le parole e consentiva al poeta di modificare finanche le parole, gli consentiva la manipolazione dei composti verbali, infatti lo sperimentalismo parlava (e parla ancora) di “materia linguistica”, come se le parole e la lingua fossero davvero “materia” e non altro. Ma lasciamo perdere.

    Giustamente Gino Rago parla «del patto di autenticità che deve legare il poeta alle parole». Ecco, è proprio questo il punto: il poeta autentico stipula con il lettore UN PATTO DI AUTENTICITA’, egli non può intervenire sulle parole ma solo sul mosaico, è come il mosaicista, il mosaicista che compone il mosaico, è un artefice dell’arte musiva.

    E veniamo al secondo punto evidenziato da Lucio Mayoor Tosi :

    “Il gioco dell’ombra tra gli hangar. Balenano fasci di luci dai riflettori
    posti sulla sommità delle torrette blindate.
    Sulla terra battuta risuona il passo dell’oca dei soldati.”

    La descrizione pare dolce e suadente, ma l’autore si tira indietro; non così se avesse scritto, che so: Fasci di luci nell’ombra degli hangar / tra terra e torrette il passo dell’oca ribatte / la terra battuta”. Ripensando a Cogito… il salto è notevole, ma è forse lo stesso salto che si avrebbe tra poesia e prosa? No: per un romanziere, i tre versi di Linguaglossa, sarebbero poco meno che appunti. Ma è prosa perché spiega con cura e diligenza dove sono gli oggetti e come sono fatti; ed è poesia perché non dice. L’autore è muto, si fa da parte. (Fin qui Tosi).

    Infatti, il mio punto di partenza è che tra prosa e poesia non esiste una differenza ontologica, per cui io tratto l’assemblaggio delle parole allo stesso modo con cui un narratore le assemblerebbe, infatti le righe (pardon i versi) riportati da Lucio Mayoor Tosisono prettamente narrative, sono delle inserzioni di narratività nel tessuto di un testo poetico. Ma, allora, che cos’è che fa la differenza tra la prosa e la poesia? – Lo dice poco dopo Lucio Mayoor quando scrive che «è poesia perché non dice». È il silenzio tra una frase e l’altra che distingue la poesia dalla prosa. Anzi, più precisamente: è il silenzio delle parole non dette, non dette perché in poesia bisogna puntare all’essenziale, è un discorso verticale, mentre la prosa è un discorso orizzontale. Mediante la verticale, ossia il VUOTO tra le frasi, la significazione si fa più complessa e polisemantica. Infatti, nelle mie poesie, come nelle poesie per esempio di Sagredo o di Steven Grieco, sono i VUOTI che rendono significativi i PIENI fatti di parole. In un testo narrativo questo non avviene, tranne che in casi rarissimi dove la narrazione sfocia in discorso lirico.

    Volevo dire che qui ritorniamo al problema dei problemi, al centro del problema per chi voglia fare oggi poesia di alto livello. I maggiori poeti del modernismo europeo e americano si muovono da tempo in questa direzione. È questa la linea di ricerca della più alta e significativa poesia occidentale: l’estetica del vuoto, la poetica del vuoto.

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    • Mi piacerebbe conoscere il tuo parere su vuoto e azione di azzeramento: c’è collegamento, vedi qualche differenza?

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    • Michele

      secondo cui il poeta utilizza «le parole anestetizzate» della propria epoca, e non potrebbe fare altrimenti. I poeti autentici non possono che usare quelle parole, anche se sanno che le parole si sono anestetizzate, sanno anche che non è data loro altra scelta che usare QUELLE parole.

      Io tendo ad usare quelle che mi viene, che mi piacciono.
      E fatico un po’ a trovare in ciò mancanza di autenticità, o di poesia.

      In un testo narrativo questo non avviene, tranne che in casi rarissimi dove la narrazione sfocia in discorso lirico.

      Secondo me avviene, se l’autore vuole, proprio come nei testi in versi.

      Mi scuso per non essere d’accordo su questi punti, e porgo un rispettoso saluto.

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  11. Sto seguendo con molto interesse il colloquio fra critici-poeti e lettori molto preparati nell’interpretare le poesie di Linguaglossa, con osservazioni individuali, particolarmente approfondite, attraverso le quali i due testi si spogliano del velo di Maya, per apparire nella loro realtà.

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  12. Dimenticavo di dire che il titolo della poesia è: “Cogito è in viaggio su un treno blindato“. Cogito è l’intellettuale, il poeta che osserva da lontano lo svolgimento delle guerre dell’imperialismo europeo nel momento del loro massimo dispiegamento distruttivo. Come ha ben intuito Lucio Mayoor Tosi, l’io del poeta, Cogito, si ritira di lato, si assottiglia e scompare. Compare soltanto per scrivere una cartolina alla sua amata Enceladon:

    «Mia amata, il mio posto è qui»

    E Cogito subito dopo scompare, nella poesia si parla d’altro. Ricomparirà soltanto all’ultimo verso (viene in un certo senso convocato in existentia con un atto magico) dalla polizia segreta :

    La polizia segreta bussa alla porta del Signor Cogito.
    «Gutentag Herr Cogito».

    La polizia segreta richiama l’imputato Cogito e la partita ricomincia. Si apre un’epoca nuova ma gli attori sono i medesimi. Cambiano soltanto la «maschere».

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  13. caro Lucio,
    tu mi chiedi il mio parere circa la differenza tra il VUOTO e L’AZIONE DI AZZERAMENTO. Bene, a mio avviso oggi un poeta consapevole di quello che va facendo deve partire da un assunto incontrovertibile: Siamo arrivati al punto zero del linguaggio poetico, ed è da qui che bisogna ripartire. Altrimenti si fanno altre cose, legittime, come scrivere le storielle di un Franco Buffoni o i mottetti ironici di un Magrelli. Cose rispettabilissime, ciascuno fa quello che può e che vuole, ma così si continua a fare degli interludi, dei giochi verbali (rispettabilissimi, ma a mio avviso noiosissimi).
    È la società mediatica che ha fatto i conti. La società mediatica ha fatto sì che tutto si è azzerato, e i linguaggi mediatici sono sprizzati in alto come fuochi d’artificio e hanno polverizzato le piccole barchette verbali dei poeti epigonici. A mio avviso, il poeta non può che prendere atto che LE PAROLE SI SONO ANESTETIZZATE, che esse non significano più niente, e che l’unica cosa che il poeta può fare (che gli è consentito dalle regole del gioco) è quella di usare QUELLE parole anestetizzate. E qui l’osservazione di Mark Strand coglie nel segno, credo.

    Altra cosa è il VUOTO e l’estetica del vuoto, qui il problema si fa lungo e complesso, ma, insieme a Steven Grieco in altri precedenti post abbiamo tentato di indagare le problematiche che si aprono in questo nuovo campo di investigazione poetica. Dirò, in questa sede, solo una cosa, come John Cage ha fatto musica negli anni Trenta semplicemente mettendo il rumore sullo stesso livello della nota musicale e ponendo la nota musicale al di fuori del pentagramma sonoro, credo che sia venuto il momento che anche la poesia italiana si preoccupi di mettere la PAROLA sullo stesso livello del RUMORE e di porre la PAROLA al di fuori del pentagramma sonoro della poesia del Novecento così come l’abbiamo conosciuta.

    Da questo punto di vista, una sola opera ritengo significativa in questo processo epocale che ha investito la forma-poesia della tradizione italiana, ed è Il disperso (1974) di Maurizio Cucchi che è stato il momento culminante del processo di de-fondamentalizzazione della poesia del secondo Novecento. Ma poi, per ragioni che sarebbero da indagare, quella via non è stata più percorsa da alcuno, e neanche dallo stesso Cucchi il quale ha preferito virare ad “U” e ritornare ad un dettato prosodico tradizionale, insomma, a rientrare tra i ranghi del pentagramma timbrico e tonale della tradizione novecentesca, per fermarsi allo sperimentalismo sporcato, alla polverizzazione del verso, alla destabilizzazione del metro con introduzione di fratture interne al verso e a microfratture. Il tutto ancora nel quadro concettuale della de-strutturazione della forma-poesia ereditata dalla tradizione novecentesca.

    Ovviamente, osservando il quadro generale della poesia di questi ultimi decenni, dobbiamo prendere atto che nessun poeta italiano ha mosso un passo OLTRE la forma-poesia ereditata dalla tradizione. È questo l’obiettivo della «nuova poesia» e della Nuova Ontologia Estetica: ripensare e riformulare nell’ambito di un nuovo quadro concettuale la forma-poesia ereditata dalla tradizione secondo un «nuovo paradigma»

    Io credo che i poeti autentici sappiano di che cosa io stia parlando.

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  14. Ho dimenticato anch’io di dire che ho apprezzato il titolo: perfettamente in linea con quel che segue. Una particolare estetica balza agli occhi, può essere che tu stia aprendo nuove possibilità espressive. Anzi, ne sono certo. Tanto di guadagnato per la libertà… eppure si creerebbe una sponda, difficile restare nel mezzo.

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  15. Un altro aspetto che vorrei evidenziare è l’eleganza capace nello scrivere di Linguaglossa, eleganza mai vuota mai fine a essa stessa: questo talento rende credibili e forti le sue posizioni sul versante della critica.

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  16. Mi scrive l’amico poeta Ubaldo De Robertis:

    Caro Giorgio,

    dunque l’autore si deve limitare a creare una struttura-cornice entro la quale registrare gli eventi,(immagini metafore ecc.) e lasciare che accadano, che vengano in evidenza. La creazione circoscrive il significante. Fare il vuoto del soggetto è la condizione per una più libera riflessione estetica. Ciò impone all’autore di situarsi in una zona fuori visione. Occorre stabilire una distanza sostanziale tra la creazione artistica e il vuoto che essa progetta e delimita. Una eccessiva prossimità finisce per compromettere ogni consapevolezza estetica. E’ cosi?

    Staccarsi per diventare capaci di sentire, di capire, di interpretare il mondo.
    Ma non è ciò che fa l’uomo di Scienza?

    Ciao, Ubaldo de Robertis

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  17. caro Ubaldo,
    la poesia è un’arte difficile, richiede lunghi studi e lunghissima e tenace applicazione. Tenacia e pazienza, e senso autocritico, occorre capire quando ciò che facciamo è riuscito e quando invece si tratta di un lavoro preparatorio di qualcosa che deve ancora avvenire. Per favorire che l’evento accada occorre innanzitutto prendere le distanze dall’io, dall’ego e dalla soggettività e, soprattutto, dalla ridicola pretesa di aver scritto cose straordinarie, noi non facciamo mai cose straordinarie, nulla è straordinario ma tutto è ordinario. Gli eventi che accadono, dopo un attimo, rientrano nella sfera dell’ordinario. Occorre mettere in discussione e in dubbio ciò che ieri credevamo fuori discussione e fuori di dubbio. È un esercizio faticosissimo, feroce, pericoloso perché ti costringe a una continua instabilità e incertezza. Ma questo è il prezzo che bisogna pagare per poter raggiungere una situazione di completo distacco dalla propria arte, bisogna riuscire a mettersi da parte e a non inserire nulla di biografico nella propria creazione, tutto, ogni cosa, ogni esperienza deve essere sottoposta al correlativo soggettivo e oggettivo, alla metafora e alla similitudine perché Tutto è collegato con il Tutto, e il Tutto è collegato con il Niente. C’è chi ci arriva con la filosofia Zen, chi con la mistica, chi con la ginnastica o altro, non so, ma è obbligatorio prendere le distanze dall’ego e da tutte le forme di egocentrismo e di narcisismo, quando vedi un aspirante poeta pieno di narcisismo, credimi, quello è un povero mediocre… solo così possiamo ritenerci pronti ad accettare l’evento. Però occorrono anche anni ed anni di studio.È un esercizio di terribile durezza. Molti soccombono. Pochi resistono fino alla fine. La strada della poesia è lastricata di cadaveri, non è una boutade.

    Sono convinto che oggi si possa scrivere poesia di livello soltanto se si adotta il cd. verso libero, almeno per la tradizione italiana (dimmi come vai a capo e ti dirò chi sei). L’a capo è terribilmente problematico, è una delle massime responsabilità per un poeta, occorre aver compreso che la forma-concerto della poesia italiana del dopo Satura (1971) di Montale è da gettare alle ortiche, che bisogna creare una nuova forma-concerto o forma-poesia, bisogna riformulare e rifondare il linguaggio poetico. La forma-concerto che prevedeva un posto fisso per lo spettatore in platea è stato obliterato per sempre. Nella nuova forma-poesia, intendo quella che alcuni poeti contemporanei adottano (e qui faccio solo tre nomi: Gino Rago, Steven Grieco Rathgeb e Mario M. Gabriele), il posto dello spettatore è, contemporaneamente, dentro la scena e fuori della scena, in mezzo ai versi e fuori dei versi. Lui sta lì in mezzo e non lo sa. A volte ne viene respinto (come accade nella poesia di Antonio Sagredo), a volte, anzi, quasi sempre, viene chiamato in causa (come avviene nella mia poesia), altre volte viene convocato a passeggiare tra i fiori di loto della poesia di Steven Grieco Rathgeb. Ogni poeta ha una propria strategia di disparizione. Anche nella poesia di un Sagredo, pur così infestata ed ossessionata dall’io, di fatto, la persona dell’autore scompare, viene sommersa da un mare rutilante di lessicalità, di similitudini; nella poesia di Steven Grieco Rathgeb c’è la delicatezza di certa pittura zen e l’incompiutezza di certa pittura zen. Lo spettatore (il lettore) deve poter passeggiare in lungo e in largo nella scena, nel testo, deve sentirsi protagonista della poesia, deve porsi degli interrogativi, deve cercare delle risposte. Insomma, è finita per sempre la posizione contemplativa di chi sta fuori della scena alla ricerca del Bello e di versi eufonici…

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  18. HA SCRITTO DI RECENTE UNA FILOSOFA, CLAUDIA LANDOLFI (N. 30 RIVISTA “APERTURE” IN QUESTO BLOG):

    La rinuncia al controllo è uno dei temi principali che attraversano il lavoro compositivo di Cage (…) L’arte e il pensiero di Cage sono stati una risposta alla crescente complessità del mondo attraverso una pratica e una riflessione che verte intorno al concetto di Vuoto, inteso come tecnica di decentramento dell’autore e della struttura musicale, dell’individuo e della stessa individuazione dei suoni (…) Non è più possibile supporre l’esistenza di un soggetto ultimo per la cui saggezza tutto assume senso. Non c’è più alcun autore. Gli eventi accadono casualmente

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  19. GiuseppeC

    Credo ci sia un eccesso di intenzione nel voler fare della poesia una pratica che puo’ essere allenata con lo studio o con la saggezza dell’eta’. Nel grande schema delle cose, una specie senziente abita una pallina rocciosa fra miliardi e miliardi di altre palle rocciose o gassose nel buio nero spaziale, scaldata da una palla un po’ piu’ grande posta a distanza chissa’ come abilitante. Questa specie ha bisogno non della poesia ma del poetico, cioe’ dell’astrazione e della metaforizzazione del proprio esserci probabilmente senza senso. La poesia e’ una forma dell’intrattenimento relazionale e nemmeno delle migliori, non il senso. Saluti.

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  23. Per favorire che l’Evento accada, occorre fare SPAZIO. Ma che cos’è lo spazio?. Possiamo desumerlo, se non dalla sua definizione, dalla sua funzione, e allora diremo, con Heidegger che lo spazio è ciò che fa sì che ci possa essere un corpo che viene avvolto, circondato, dallo spazio. E allora, che cos’è il VUOTO? – Per tentare di afferrare questo concetto dobbiamo ipotizzare la presenza del VUOTO come ciò che consente allo spazio di diventare spazio. Il vuoto sta prima dell’evento, e sta prima dello spazio, è la condizione di possibilità che lo spazio si formi e che un evento accada.

    «Cosa dà allo spazio -si chiedeva Martin Heidegger- la possibilità d’essere un qualcosa che riceve, avvolge e trattiene?». La risposta è nel suo esprimersi come nulla in sé, nulla di misurabile e calcolabile. «(…) lo spazio fa spazio. Fare spazio significa sfoltire, render libero, liberare un che di libero, un che di aperto. Solo quando lo spazio fa spazio e rende libero un che di libero, lo spazio accorda, grazie a questo libero, la possibilità di contrade, di vicinanze e lontananze, di direzioni e limiti, le possibilità di distanze e grandezze».10 Per il filosofo tedesco corpo e spazio sono congiunti in una medesima realtà. L’uno si dà in virtù dell’altro e viceversa. Sarà dunque possibile immaginare l’oggettualità di una creazione solo considerandone il campo di espressione.
    Di qui l’importanza del “negativo” dell’opera. «In senso greco – scrive – lo spazio viene considerato a partire dal corpo, come suo luogo e come contenitore di luoghi». “TOPOS” indica il luogo che si materializza attraverso l’occupazione da parte di un corpo, “KORA” è invece l’invaso ospitante, «lo spazio in quanto può accogliere (…)». Nonostante l’interdipendenza tra i due termini, lo spazio va tuttavia inteso anche semplicemente “in quanto tale”.
    Grazie a questa propria dimensione, esso cessa di essere solamente vuoto da occupare, acquista una dimensione attiva all’interno della quale anche il corpo, a sua volta, cessa di essere un semplice riempimento. L’uomo, in particolare, di questo “vuoto attivo”, diviene soggetto formante. Dalla libertà di uno spazio vuoto, che si
    offre al pensiero “in quanto tale,” discende la possibilità per l’uomo di poter intervenire al suo interno. «(…) l’uomo dispone dello spazio, concede ciò che dona libertà e a questo si affida, orienta in esso sé e le cose (…)» al tempo stesso «(…) lo spazio, per fare spazio come spazio, necessita dell’uomo».

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  24. Scrive Giacomo Marramao in minima temporalia (Luca Sossella editore, 2005): «Il venire-ad-esistenza del nostro universo, in quanto differenza originaria tra “universo materiale” e “universo vuoto”, in quanto instabilità tale da dar luogo a una freccia temporale irreversibile, può essere compreso soltanto a partire dall’assunto di una creazione simultanea della materia e dell’entropia. Occorre allora fissarsi su questa origine, per afferrare il vero volto del “divenire” di cui Prigogine ci parla spesso e volentieri con tonalità euforiche. Questo divenire fa, certo, irruzione proprio là dove il sogno di Einstein aveva trovato la sua “espressione più grandiosa”, producendo una “lacerazione del tessuto uniforme dello spazio-tempo”. Ma il suo tratto originario e differenziante non è dato dall’energia, bensì dall’entropia. L’universo puramente geometrico, spazio-temporale vuoto, corrisponde a uno “stato coerente che viene distrutto dalla creazione entropica della materia”. Di qui il “terribile” apoftegma: la “morte termicasi colloca all’origine – non al temine – del cammino indicato dalla freccia temporale».

    È interessante questo concetto di rottura della simmetria come alterazione di uno “stato coerente” costituito dallo spazio-tempo omogeneo e vuoto. E qui si porrebbe l’altra domanda del rapporto che si istituisce tra tempo ed eternità. Ma fermiamoci un momento su questo concetto di “spazio tempo omogeneo e vuoto” che sarebbe inficiato dalla rottura della simmetria dello “stato coerente”. Il «vuoto» sarebbe quindi uno “stato coerente” cui sarebbe possibile accedere soltanto mediante un salto ontologico.
    La dimensione artistica, l’opera d’arte è appunto ciò che ci permette di operare questo «salto ontologico», di operare una «rottura» della freccia del tempo e dell’universo spazio-temporale. La dimensione artistica è quella che consente di attingere quello «stato coerente» prodotto dallo spazio-tempo «vuoto»; si è sempre parlato della atemporalità dell’arte, della sua qualità di oltrepassare le delimitazioni spazio-temporali, ed io penso che appunto questo salto nello «stato coerente» del «vuoto» sia la chiave di volta per impostare un discorso filosoficamente corretto e che tenga conto delle più accreditate ipotesi scientifiche sulla origine del nostro universo. Il «vuoto» sarebbe, dunque, uno «stato coerente» perché ignora lo spazio e il tempo, la dimensione spazio-temporale. Ma il «vuoto» è altra cosa rispetto al concetto teologico di «eternità» secondo la definizione che ne ha dato Ireneo come «aeternitas est merum hodie, est immediata et lucida fruitio rerum infinitarum», nella cui definizione si coglie una visione antropocentrica del mondo. Nel concetto di «vuoto» sarebbe in opera il paradosso plotiniano di «potenza senza durata», con il che siamo ancora una volta all’interno di una visione antropomorfizzante del mondo se intendiamo la «durata» (concetto temporale) connessa con il concetto di «potenza» (concetto anch’esso che può valere all’interno di una visione antropomorfizzante del mondo). Sarebbe più conveniente pensare il «vuoto» al di fuori di concetti come «potenza» e «durata» (concetti ancora antropomorfizzanti), come ciò che non-è-potenza e che non-ha-durata.
    Poniamoci la domanda: perché esiste il vuoto e perché esiste la materia? Ecco, ritengo che dalla risposta a questa domanda noi potremo capire qualcosa di più circa la costituzione ontologica dell’uomo, sulla necessarietà e sulla superfluità della sua presenza nell’universo.
    La domanda, ripresa nel 1953 da Heidegger, nella Einfuhrung in die Metaphysik: «Perché in generale l’ente piuttosto che il nulla?», ripropone al centro del pensiero filosofico la questione delle questioni. Essa, per il suo rango, è la domanda oprincipe della emtafisica. Essa «è la domanda – insieme – più vasta, più profonda e più originaria: i) la più vasta poiché la sua estensione non riconosce alcun limite al di fuori del nulla (in questo senso essa è inoltrepassabile); ii) la più profonda: in quanto chiedersi «perché” vuol dire interrogarsi sulla ragione ultima, sul “fondamento” (Grund) dell’ente; iii) la più originaria: in quanto non investe questo o quell’ente singolo ma “l’essente nella sua totalità, senza alcuna preferenza particolare».

    Il problema posto da Luigi Celi in questi Haiku occidentali è il medesimo problema che si pone oggi a quelle poetiche che speculano intorno al concetto di «vuoto» e all’estetica del «vuoto». La «sospensione della temporalità» che queste poetiche perseguono e reclamizzano, è una condizione preliminare della praxis poetica. In tal senso la poesia occidentale può, e deve, far propri alcuni assunti di posizione poetica presente negli haiku giapponesi e, conseguentemente, nei tentativi di scrivere haiku occidentali. La sospensione della temporalità è un modo per introdurre una «rottura» della stabilità temporale e introdurci in una condizione di instabilità. Una condizione di disequilibrio che apre un varco nella memoria profonda e consente di riallacciarci alla condizione primaria della nostra psiche, agli «oggetti profondi» (le «posate d’argento» di Tomas Tranströmer) che giacciono e si depositano nel fondo della condizione stabile della nostra coscienza, caratterizzata da quella illusoria credenza nella stabilità e nella continuità spazio temporale della nostra vita quotidiana.

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