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Il pensiero poetante, l’immaginario, 42 poeti a cura di Fabio Dainotti, Genesi, Torino, 2023, pp. 168 € 16,50 – Lettura di Giorgio Linguaglossa, Dove va la poesia? Mistero della fede.

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023

Il problema metodologico insito nella stesura di una antologia della poesia contemporanea è molto serio, non si può fare a meno di una idea-guida o di una tematizzazione, generazionale o di poetica o di un gruppo specifico, o di una tematizzazione stilistica. Bene ha fatto il curatore, Fabio Dainotti, ad includere nella sua antologia poeti  di tutte le generazioni a prescindere dalla datazione delle opere di esordio e a prescindere dai recinti generazionali. Possiamo dire che l’antologia abbraccia un arco temporale che va dalla fine degli anni settanta ad oggi.  L’età della rivoluzione operata dai Novissimi il 1961 e della susseguente neoavanguardia fornisce la linea di demarcazione ante-quem che si dà per scontata, dopo la quale la poesia italiana subisce il fenomeno della dilatazione a dismisura dei numero degli addetti ai lavori e delle opere di poesia. Dagli anni settanta si verifica in Italia e in Europa il fenomeno della caduta del tasso tendenziale di problematicità e dell’inflazione delle proposte poetiche che tendono sempre più a collimare con posizioni di poetica personalistiche, con posiziocentrismi e rivalità  tra i piccoli e piccolissimi gruppi di poesia. Accade così che le personalità più influenti, traggono vantaggio da questa gran confusione per consolidare la propria minuscola egemonia. Affiora nella poesia degli ultimi cinquanta anni una de-ideologizzazione delle proposte di poesia derubricate alle esigenze di auto promozione di gruppi o di singole autorialità; la storicizzazione delle proposte di poesia viene così a coincidere con l’auto storicizzazione di singoli autori.

Il criterio guida della antologia sembra essere la individuazione di una frattura radicale avvenuta nella lirica italiana verificatasi intorno agli anni ottanta e novanta del novecento. Verissimo e condivisibile. Una «frattura» dovuta a cambiamenti epocali e alle ripercussioni  nella struttura del testo poetico e delle sue stilizzazioni, con conseguente esaurimento del genere lirico e della sovrapposizione e ibridazione tra la lingua letteraria e la lingua di relazione, fenomeno che si è riflesso nella indistinzione tra la prosa e la poesia. Tutti gli autori sembrano scrivere in un linguaggio etero generico. Tutto ciò è verissimo ma ancora troppo generosamente generico. Vengono sì messi nel salvagente dell’oblio gli autori della generazione post-ermetica (Luzi, Caproni, Zanzotto, Giudici, Sereni) e viene fornita una ampia ricognizione tra i poeti non inclusi nelle alti attici della poesia ufficiale, tra i quali è incluso anche chi scrive, Edith Dzieduszycka, Luigi Fontanella, Paolo Ruffilli, Eugenio Lucrezi, Vincenzo Guarracino e altri e sarebbe improprio nominarli tutti. Possiamo però apprezzare il lavoro svolto dal curatore il quale si è trovato a dover rendere conto dell’esplosione di un genere indifferenziato e inflazionato come la poesia «post-lirica» degli ultimi cinque decenni con conseguente difficoltà a tracciare un quadro attendibile della situazione storica. Fabio Dainotti non mette le mani avanti con l’argomento posticcio secondo cui tutta la poesia contemporanea è «postuma», come ha scritto in tempi non recenti Giulio Ferroni, ma tenta di tracciare una cartografia, per quanto imperfetta, della situazione storica attuale, che è sempre preferibile piuttosto che lasciare il tentativo inevaso. Merito non secondario del curatore è aver scelto di non includere gli autori «ufficiali», vuoi per disaffezione, vuoi per discredito verso la poesia maggioritaria, e di essersi sporcato le mani, per così dire, pescando nel mare magnum dei poeti che hanno goduto in questi anni di minore visibilità.

Fabio Dainotti Il pensiero poetante cover

A quasi cinquanta anni dalla apparizione della antologia Il pubblico della poesia del 1975 a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, risulta ancora un mistero che cosa sia avvenuto nella poesia italiana degli ultimi cinque lustri; Dainotti si limita a prendere atto che le categorie del post-moderno, della «postumità» della poesia, della poesia «post-montaliana» e della poesia di matrice neosperimentale, sono questioni concluse e sembrano oggi argomenti su cui si potrebbe anche trovare un accordo, ma è che al quadro manca sempre qualcosa di essenziale, mancano i perimetri, le delimitazioni, le ragioni di fondo degli accadimenti; l’unico concetto chiaro e distinto è l’aver individuato il discrimine tra il genere lirico ormai esaurito e il sorgere di una poesia post-lirica. L’ipotesi che guida lo studioso è valida, ma ancora, purtroppo, ondivaga, non perseguita con la determinazione che sarebbe stata necessaria, però, a scriminante delle responsabilità del curatore dobbiamo confessare che ormai è già un miracolo aver delimitato la mappa dei poeti italiani a solo 42 nomi, per completare il quadro sarebbe occorso una gigantesca campionatura della poesia contemporanea e uno studio molto più articolato sugli attori della militanza poetica che nel lavoro di Dainotti non c’è e non ci poteva neanche essere a causa dell’enorme congerie di autori e di testi poetici che galleggiano nel mare esotico del villaggio poetico italiano. Ma Dainotti ci ha provato, a 360 gradi, come dice il nostro Presidente del Consiglio, e a lui va dato atto dell’impegno e delle forze profuse.

Il concetto di poesia che è stata scritta nel novecento come momento lineare ha promosso una forma-poesia nella quale lo spazio e il tempo erano il contenitore dell’io e delle sue vicende private. Oggi è lecito sollevare dubbi e eccezioni a questo concetto e a questa pratica della poiesis. La poesia italiana ha seguito il modello unilineare e cronologico della vita quotidiana, ed è finita dritta nella falsariga del «riconoscibile», nella «rappresentazione» mimetica. Il romanzo ha fruito di una uscita di sicurezza data dai suoi svariati generi e sotto generi: il giallo, il noir, il fantastico, il fantasy, il semi giallo, il quasi fantasy, il gotico, il gotico-fantasy, il giallo-fantasy, il fantasy e basta etc.; la poesia non ha avuto, per ragioni storiche, una altrettanta versatilità di forme e di generi, quindi era più vulnerabile, più esposta, e ne ha pagato le conseguenze.

La poesia del novecento si è trovata di fronte il problema di una «forma-poesia» «riconoscibile» con un linguaggio sempre meno «riconoscibile», con l’«io» posto in un luogo, immobile, e l’«oggetto» posto in un altro luogo, immobile anch’esso; di conseguenza, il discorso lirico si è ridotto ad uno schema, un confronto tra il qui e il là, tra l’io e il suo oggetto, tra l’io e il suo doppio, e il discorso lirico ha assunto una struttura cronologica e lineare. Senza considerare una possibilità che se l’oggetto si sposta, l’io vedrà un altro oggetto che non sarà più l’oggetto dell’attimo precedente; di più, se anche l’io si sposta di un centimetro, vedrà un oggetto nuovo. E così, il discorso lirico o post-lirico si è sviluppato tra queste due postazioni immobili. Un’altra via sarebbe stata in potenza percorribile, con le due posizioni che cambiano il loro luogo nello spazio e nel tempo, come avevano ben intuito Mandel’stam negli anni Dieci e Eliot con The Waste Land del 1922, ma dopo le avanguardie del primo Novecento la forma-poesia è ritornata all’ordine e si è assestata sul modello cronologico e lineare, trascurando il fatto che già Mallarmé aveva distrutto quel modello lineare dimostrando che era una convenzione e null’altro e, come tutte le convenzioni, sarebbe stato preferibile derubricarlo per sondare le possibilità di un’altra e diversa forma-poesia.

La poesia del novecento ha ripiegato su una forma-poesia che prevedeva la stazione immobile dell’io, con l’io al centro del mondo attorno al quale ruota la fenomenologia dell’intrapsichico. È stato il modello vincente che ha imposto i suoi binari: l’io di qua e gli oggetti di là, in un costante star-di-fronte. Questo tipo di impostazione ha condotto la poesia italiana inevitabilmente al pendio elegiaco e alla narrativizzazione privatistica, alla esondazione privatistica del privato. Il rapporto tra l’io ed il suo oggetto si è rivelato un dialogo posizionale, posizionato, convenzionato, da risultato sicuro.

(Giorgio Linguaglossa)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Paolo Valesio, Il Testimone e l’Idiota, La nave di Teseo, 2022 pp. 278 € 20  Lettura di Giorgio Linguaglossa, poeta kierkegaardiano che ha attraversato la storia contropelo, che, nell’epoca della fine della metafisica, si è creato una propria metafisica per poter investigare un mondo ormai dissacrato, privo di sacro, che ha relegato il sacro nelle discariche degli oggetti e delle parole a perdere. È di qui che prende inizio il discorso poetico valesiano. La parola diventa testimonianza di una verità che è ogni giorno di più indicibile, impronunciabile, innominabile

Paolo Valesio_Il-Testimone-e-lIdiota

Le democrazie parlamentari dell’Occidente sono affette da una sindrome che definirei della catastrofe permanente, una Todestrieb che ci sovrasta in quanto dentrificata nella psiche degli umani. Ci troviamo in un mondo sul quale incombe uno stato di catastrofe e di auto catastrofe, il mondo della minaccia nucleare sdoganata a fattore tattico di intimidazione dell’avversario è un mondo nel quale è sempre possibile una deflagrazione atomica, un conflitto senza leggi né regole combattuto per la liquidazione fisica e totale del «nemico».

Paolo Valesio è un intellettuale e poeta a cui deve essere riconosciuta una grande dignità e perseveranza nell’indirizzare la propria ricerca poetica in direzione di una poesia «forte», «autentica», «veritativa» dove la veritatività è la segnatura del suo discorso poetico; con le parole di Valesio, l’autore è colui «che Kierkegaard chiama un “apprendista in cristianesimo”»; questo corposo libro è a mio avviso una testimonianza della drammatica situazione di imminente pericolo nel quale l’Occidente è immerso, già nel titolo vengono richiamate le figure de il «Testimone» e dell’«Idiota» che instaurano un dialogo fitto e intenso, dove la colpa lastrica i «corridoi di occasioni perdute»:

Ogni luogo ogni marchio sul paesaggio
è una condanna per il testimone
corridoi di occasioni perdute
lacune di visite e viste che avrebbero potuto
divenire visioni
ma ogni luogo ogni marca di paesaggio
ogni scorcio (sghembo, angusto, tagliente)
di quello che lui osa sotto voce ancora
chiamare “bellezza”,
è una concessione gloriosa al suo tempo di vita.
Il ritmo inevitabile di questo su-e-giù del cuore
lo lascia stordito
più ancora che stupito.

Nella copertina del libro di Paolo Valesio compare, in un riquadro, l’immagine dell’Angelo della storia di Paul Klee. In proposito, vale la pena di rammentare che nella nona tesi Walter Benjamin richiama l’immagine dell’Angelus novus di Klee, che fissa lo sguardo assorto sulle rovine: «i suoi occhi […] spalancati, la bocca […] aperta, e le ali […] dispiegate»; il passato gli restituisce ciò che «davanti a noi  appare una catena di avvenimenti», anche se «egli  vede un’unica catastrofe» (Sul concetto di storia 36 e 37). L’Angelo rappresenta per Benjamin l’«angelo della storia» che è capace di scoprire la «segnatura della rovina nel presente». Trascinato verso il vortice del futuro dal progresso, l’angelo guarda con orrore le catastrofi accumulate dalla modernità, le marche da cui spira il disastro della contemporaneità. Per concettualizzare un tipo di «segnatura della rovina» (dizione di Agamben), può essere utile ripercorrere gli ultimi capitoli de L’Uomo senza contenuto, il primo libro di Agamben (1970), in cui, dopo aver considerato la crisi dell’estetica, il filosofo ritorna ad interrogarsi sul destino poetico dell’umanità e sulla possibilità dell’arte come sfera che si apre all’azione per mezzo della capacità di pro-durre e di auto prodursi. Nel finale del libro Agamben accosta due angeli: l’angelo della Melancholia di Albrecht Dürer e l’Angelus novus di Paul Klee, per il tramite dell’interpretazione di Benjamin. Queste due opere suggeriscono ad Agamben due modi di definire la relazione col passato in quanto funzionano come «segnatura» dell’enunciazione. L’angelo di Klee permette a Benjamin di mettere in azione la dimensione profetica: il suo avvertimento tragico pare annunciare Auschwitz e Hiroshima, le due più grandi catastrofi della storia umana, le due rovine più mostruose, conclusione di un’accumulazione di catastrofi che giunge fino al cielo. Agamben cerca di ri-pensare la proposta estetico-politica di Benjamin e scrive un saggio di traduzione vincolando quest’angelo con la stampa dureriana del 1514, che rappresenta una creatura alata seduta, in atto di meditare con lo sguardo assorto davanti a sé; accanto ad essa, giacciono abbandonati al suolo gli utensili della vita attiva: una mola, una pialla, dei chiodi, un martello, una squadra, una tenaglia e una sega. Il bel volto dell’angelo è immerso nell’ombra: solo riflettono la luce le sue lunghe vesti e una sfera immobile davanti ai suoi piedi. Alle spalle si scorgono una clessidra, la cui sabbia sta correndo, una campana e un quadrato magico, e, sul mare che appare sullo sfondo, una cometa che brilla senza splendore. Su tutta la scena è diffusa un’atmosfera crepuscolare, che sembra togliere ad ogni particolare la sua materialità. (L’uomo senza contenuto p. 164)

Luigi Fontanella, Paolo Valesio Adriano Spatola

Luigi Fontanella, Adriano Spatola e Paolo Valesio anni settanta

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Due personaggi del libro di Paolo Valesio, il «Testimone» e l’«Idiota» che parlano sono in realtà la manifestazione di una unica «Voce», quella della poesia intesa, modernisticamente, come discorso poetico di una individualità erratica ed erranea che si situa in un luogo atopico che si può immaginare come un quadrilatero ai cui vertici dimorano le quattro Entità: il Testimone, l’Idiota, la Fiamminga e la Voce. Davvero, una poesia che marca la propria dissomiglianza, quella di Valesio, rispetto alla poesia di oggi.

Plotino ricorre ad una analogia: come per l’occhio la materia di ogni cosa visibile è l’oscurità, così l’anima, una volta cancellate le qualità delle cose (che sono della stessa sostanza della luce), diventa capace di determinare ciò che rimane. L’anima si fa simile all’occhio quando ci si trova nel buio. L’anima vede veramente soltanto quando c’è l’oscurità.
In un certo senso poetare dell’impensato è qualcosa di analogo al vedere le cose nell’oscurità. Soltanto nell’oscurità si possono vedere le cose in un modo diverso.

Paolo Valesio è un poeta kierkegaardiano che ha attraversato la storia contropelo, che, nell’epoca della fine della metafisica, si è creato una propria metafisica per poter investigare un mondo ormai dissacrato, privo di sacro, che ha relegato il sacro nelle discariche degli oggetti e delle parole a perdere. È di qui che prende inizio il discorso poetico valesiano. La parola diventa testimonianza di una verità che è ogni giorno di più indicibile, impronunciabile, innominabile, ma è proprio questa cesura/censura quello che consente alla poesia valesiana di diventare discorso poetico, voce, parola, dialogo. Un dialogo serrato, metafisico, con un linguaggio posato sui registri alto e medio che prende luogo tra le quattro Entità, sempre sul punto di incalzare la parola «vera», la «verità», che però non può mai essere detta perché essa ha senso soltanto se non viene pronunciata da alcuna parola. In questo paradosso, in questo contrappasso il discorso poetico di Valesio si adempie e consuma le possibilità di costruire un ponte con il lettore, una lingua comune che diventa sempre più problematica e claudicante nella misura in cui l’epoca della scomparsa del sacro celebra i suoi trionfi.

Mentre l’angelo della storia dirige il suo sguardo al passato mentre viene inarrestabilmente trascinato verso il futuro, l’angelo malinconico guarda di fronte e rimane immobile, poiché «La tempesta del progresso che si è impigliata nelle ali dell’angelo della storia si èqui placata» (Benjamin). L’angelo dell’arte appare come se fosse fuori dal tempo, come se qualcosa «avesse fissato la realtà circostante in una sorta di arresto messianico» (Benjamin), al contrario, il passato appare all’angelo di Benjamin in forma di rovina. Anche l’angelo melanconico della poesia valesiana giace estraneo agli elementi della vita attiva che sono divenuti inutili, visto che il passato trova la verità a condizione di negarla e la conoscenza del nuovo è possibile solo nella non-verità del vecchio, ma proprio questo offre al poeta la redenzione citandolo a comparire fuori dal suo contesto reale nell’ultimo giorno del Giudizio estetico, rassegnandosi alla morte o all’impossibilità di morire. La «melanconia» della parola valesiana resta legata all’angelo che è cosciente di essersi rassegnato allo straniamento e di aver così convertito in mondo reale qualcosa che non può possedere. L’arte ha il potere e la missione di recuperare il passato tramite un esercizio negativo, convertendo la non trasmissibilità in una immagine estetica capace di attivare uno spazio fra il passato intrasmissibile ed il futuro impredittibile affinché l’uomo possa fondare la sua azione e la sua conoscenza. Questo spazio poetico si converte nel punto zero dell’azione dell’uomo melanconico moderno, che, annoiato e dissacrato si rende conto che nella verità è presente la negazione della verità. Nell’Angelus novus  benjaminiano l’arte si concentra sulla permanenza del passato nel presente ed obbliga a percepire le sue segnature. L’uomo dell’ipermoderno  minacciato dall’accumulazione senza senso di un passato estraneo e di cui non può dar di conto, trova nell’arte lo spazio in cui passato e presente si incrociano. In questo punto la dimensione poetica mette in gioco la sopravvivenza della cultura, che, peccaminosa ed estraniata, pare impossibilitata ad unire passato e presente se non grazie alla mediazione di un’altra sfera: Per Agamben, e in guisa personalissima per Valesio, solo l’opera d’arte consente una fantasmagorica sopravvivenza alla cultura accumulata e reificata. L’arte diventa il luogo della «segnatura» della redenzione possibile nell’ambito della storia umana. L’opera poetica è l’ambito in cui, fra il passato ed il futuro, l’umano deve situarsi nel presente. Così avviene  che «l’angelo della storia, le cui ali si sono impigliate nella tempesta del progresso, e l’angelo dell’estetica, che fissa in una dimensione atemporale le rovine del passato, sono inseparabili» (Benjamin). Il discorso poetico per Paolo Valesio diventa l’ultimo anello di congiunzione fra l’uomo e il suo passato, fra le rovine del passato e le rovine del presente, la «segnatura» del passaggio dell’uomo sulla terra. Nella misura in cui restano soltanto le rovine del passato, della storia e della tradizione, il luogo dell’opera poetica valesiana diventa lo spazio in cui l’umano può riappropriarsi della veritatività dei suoi enunciati e dei suoi propri presupposti storici in cui l’umano può convertirsi in artefice di azione attraverso cui ritrovare il «fondo», il fondamento di se stesso.

(Giorgio Linguaglossa)

Paolo Valesio

Il sogno del Testimone (Dream Poem)

per Antonio Porta e la sua famiglia

Il Testimone siede su una panchina in Central Park a Manhattan, guardando (vedendo e non vedendo) un piccolo gruppo di ragazzini e ragazzine che hanno improvvisato sul bordo del prato lì davanti una danza molto alla buona, accompagnata da tamburelli. Gli vengono in mente brandelli di una poesia letta chissà dove chissà quando:

A uno dei ragazzi si è slacciato
il nastro rosso, è volato
ai limiti del cerchio
e il ballerino non se n’è avveduto
non lo ha raccolto
perché era tutto raccolto
dentro il giro e il nodo di sé stesso.
Lui si è alzato
[…]
ha colto il fazzoletto lentamente
lo ha tenuto in mano
per tutta la durata della danza.
e quando il ragazzo sudato
si è toccato il polso nudo e, incerto,
si è guardato all’intorno,
gli è andato vicino e glielo ha porto
con la premura calma di una madre1

Quella stessa notte il Testimone ha fatto un sogno.

Improvvido,
il braccio nudo di Gesù improvviso. Punta dove? È un’indicazione
o una bene-male-dizione? Assorto dal bruno della pelle, dall’atletica scarnità
gli sembra vedere una fila di anelli di rame,
semplici cerchi spogli eppure magici – quella piccola
magia selvaggia che era nelle spoglie del Battista: pellli
e denti d’osso in asole di cuoio; e il legno polito,
fino alla traslucenza del suo bastone, e la ciotola
dove il miele è oramai tutto leccato.

Anelli che agganciano sottili in spire
anche i Samaritani, i Siro-Fenici, quelli delle frontiere, gli idolatri
i tantissimi che lasciano negli occhi altrui
la perplessità dello sguardo – anelli che abbracciano
con amore-corrosione
consumatrice di ogni distinzione fino alla non differenza.

Ma il braccio di Gesù rimane nudo, e quegli anelli debbono esser stati
illusione dell’aria: granulata e rutilante
cortina di perline tintinnabulante
in canti “clang” silenziosi
che si travedono come
gioiell8i-essudazioni del calore

(New Haven-New York) Continua a leggere

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Mario Gabriele, Poesie scelte da In viaggio con Godot (Progetto Cultura, 2017), con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

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Ci sono state calunnie su Donovan,/ ma il vento ha pulito le piazze

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. Ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014): L’erba di Stonehenge (2016), In viaggio con Godot (2017) è in corso di stampa Registro di bordo. Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento tra cui: Poeti nel Molise (1981), La poesia nel Molise (1981); Il segno e la metamorfosi (1987); Poeti molisani tra rinnovamento, tradizione e trasgressione (1998); Giose Rimanelli: da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues (1999); La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea (2000); Carlo Felice Colucci – Poesie – 1960/2001 (2001); La poesia di Gennaro Morra (2002); La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli (2004). È presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio (1983); Progetto di curva e di volo di Domenico Cara; Poeti in Campania di G.B. Nazzaro; Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci;  Psicoestetica di Carlo Di Lieto e in Poesia Italiana Contemporanea. Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, (2016). Si è interessata alla sua opera la critica più qualificata: Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Domenico Rea, Gaetano Salveti, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone, Steven Grieco Rathgeb, Antonio Sagredo, Giuseppe Talìa, Luigi Fontanella, Ugo Piscopo, Giorgio Agnisola, Stefano Lanuzza, Sebastiano Martelli, Francesco D’Episcopo, Pasquale Alberto De Lisio, Carlo Felice Colucci, Ciro Vitiello, G.B.Nazzaro, Carlo di Lieto. Altri interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier, Riscontri. Cura il Blog di poesia italiana e straniera Isoladeipoeti.blogspot.it

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la storia qui è ridotta a storialità, a cartoline, flash, lampeggiamenti, icone, patterns, involucri, simulacri, ready made, parole usa e getta, parole plastificate e di polistirolo

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Astorialità per eccesso di storia definirei questo ultimo lavoro di Mario Gabriele, al quale corrisponde un pluritematismo e un pluristilismo, in linea con i fondamenti della «nuova ontologia estetica». Ma la storia qui è ridotta a storialità, a cartoline, flash, lampeggiamenti, icone, patterns, involucri, simulacri, ready made, parole usa e getta, parole plastificate e di polistirolo, e parole monouso gettate nella discarica abusiva dell’epitelio semantico dove questa poesia soggiorna gratis con tanto di permesso di soggiorno e di tramonto.

Dire che nella poesia di Mario Gabriele c’è solo metalinguaggio equivale a dire che tutto è metalinguaggio, il nostro ordo idearum è fondato sul metalinguaggio, che lo stesso ordine significante è un metalinguaggio in azione, che non c’è una significazione «ultima» del linguaggio e non c’è mai stata neanche una significazione «prima», che non v’è parola né ultima né prima, la parola, e quella poetica in particolare, semmai si pone come «mancante», come non-presente. Così, genialmente, la poesia di Gabriele mostra come tutta la tradizione poetica è finita nel buco dell’ozono della propria disparizione. Al posto della parola che cercavamo troviamo altre parole, quelle usa e getta, e così via, l’una tira l’altra in un saliscendi senza fine, come al luna park. Non c’è alcun linguaggio perché tutto l’armamentario linguistico della poesia moderna è diventato metalinguaggio, cartapesta linguistica e iconica.

È il linguaggio in quanto metalinguaggio che apre nell’esistenza il vuoto entro cui la parola si dà come rifrazione di presenza-assenza, specchio duale che autoriflette il «vuoto» di cui essa è presenza. La poesia di Mario Gabriele può essere intesa alla stregua di una immensa e variegata superficie specchiante che riflette altri specchi, che vive in un gioco di rifrazioni e di rimandi semantici ed iconici. Ma si tratta di rimandi svuotati di qualsiasi simbolismo, sono specchi vuoti che riflettono il vuoto, come in una famosa poesia di Kikuo Takano. Il «viaggio», che l’autore richiama finanche nel titolo, nel nostro mondo telematico e globale è ormai diventato un viaggio turistico con tanto di accessori e di monitor, non è più possibile alcuna autenticità se non nel similoro e nel kitsch. Le poesie di oggidì che trattano con seriosità il tema del viaggio, fanno sorridere per la loro bontà perché periclitano agevolmente nel kitsch e nel piacevole, si adattano al piacevole e all’intrattenimento, sono un diversivo al gioco della canasta e della macumba.

Strilli GabrieleStrilli Gabriele Da quando daddy è andato viaMario Gabriele  intende il «viaggio», appunto, «con Godot», con questo misterioso ospite che è la nostra Ombra, il nostro irraggiungibile sosia. Siamo noi stessi Godot, per questo non potremo mai raggiungere la nostra interiorità perché essa è stata ampiamente colonizzata dall’Altro dell’Altro, non c’è più nemmeno un angolino, un ricettacolo di autenticità nel mondo disilluso e amministrato da un ordo rerum onnivoro e globale.

Non v’è più alcuna economia monetaria della dicibilità perché tutto è diventato dicibile, tutto è scambiabile in base al valore di scambio, e la parola non fa eccezione, anch’essa è finita nell’imbuto del valore di scambio, perché non può esservi una esteriorità che non sia inclusa anche nel linguaggio, ed il linguaggio è il luogo per eccellenza dell’ambiguità e del gioco semantico della significazione, di ciò che non rientra nel linguaggio: quel misterioso «di-fuori» che si chiama «mondo». È per questo che la nuova poesia di Mario Gabriele, così sofisticata da apparire ingenuamente fuori-moda, si presenta come un manufatto ultroneo, ammicca ossessivamente a questo nuovo ordine post-simbolico fitto di simulacri nel quale oggi siamo tutti immersi, dove non c’è dialogo che possa durare qualche minuto, «Il Dialogo fu di breve durata» scrive ironicamente Gabriele in una poesia della raccolta, perché non c’è più nulla di cui dialogare, le cose si capiscono benissimo nell’ambito di un’altra economia monetaria, quella dei titoli di borsa e del mondo ridotto a intrattenimento futile, un ottimo fertilizzante per le menti decorticate della società mediatica.

La tradizione metafisica, ci dice Derrida, vede nell’essere un assoluto, una sostanza impredicabile perché presente in ogni predicazione. Resta però aperta la questione che se l’essere è impredicabile, il linguaggio si trova a colmare una distanza impossibile. L’essere cioè diventa la condizione, il presupposto incluso tuttavia trascendens, il linguaggio. Dire che il «linguaggio è dimora dell’essere» (Heidegger) se da un lato esclude la possibilità che l’essere possa essere detto dal linguaggio come una referenza diretta, dall’altra tende a porre l’essere stesso in una prospettiva sfuggevole e indeterminata – l’essere si rivela come qualcosa di «pienamente indeterminato» afferma Heidegger – e, allo stesso tempo, fondativa, proprio in quanto si tratta di una indeterminazione inclusa nel linguaggio stesso.

In In viaggio con Godot, è il linguaggio stesso ad essere in «viaggio», in una traslocazione locomozione senza tregua… è il linguaggio che si sottrae a se stesso… il linguaggio cessa di essere fondazionale ma appare, si rivela, per il suo essere un rinvio continuo… il linguaggio in quanto potenza del rinvio, fame inappagata di senso per via della stessa logica differenziale che vede nel gioco dei rinvii la sua sola consistenza, si serializza in una molteplicità di sintagmi.

Nel volgere di pochi anni si è avverata la previsione di Marcuse: «è probabile che il secondo periodo di barbarie seguirà  ad un lungo periodo di civiltà». Il perdurare della povertà in presenza di una ricchezza sen­za precedenti è la più imparziale delle accuse contro lo stesso processo della civilizzazione capitalistica, l’arte e la cultura sono state ammorbidite e derubricate a sottoprodotto del prodotto, della merce. L’ideologia dello sviluppo è profondamente irrazionale, non c’è più nulla da sviluppare se non la nostra barbarie ininterrotta. In un mondo in cui dieci famiglie detengono la ricchezza di circa quattro miliardi di persone, non è più possibile fare poesia, almeno la poesia che abbiamo conosciuto. E Mario Gabriele si è regolato di conseguenza. Per questo la sua poesia spinge oggettivamente verso il «nuovo». Pur all’interno di un mare di ciarpame e di belletristica mediatica essa diventa, oggettivamente, «irriconoscibile», in quanto non-merce che assume l’apparenza di merce che Gabriele derubrica a sub-merce.

Mario Gabriele è un poeta troppo dotato per non aver tirato le conseguenze in sede estetica di questa situazione macro storica, la sua è una poesia che assume la presunta «ricchezza» delle merci e delle citazioni della cultura mondiale come specchi per le allodole, è una poesia che si assume l’onere di essere il garante e il guardasigilli della non-verità del mondo amministrato.

Strilli Gabriele2

Ogni felicità è frammento di tutta la felicità, che si nega agli uomini e che essi si negano.
(Th.W. Adorno)

[…]
«già l’arte è inutile per gli usi dell’autoconservazione- e la società borghese non glielo perdonerà mai del tutto – e allora deve rendersi utile mediante una specie di valore d’uso, modellato sul piacere dei sensi. Così si falsifica, allo stesso modo di come si falsifica l’arte (…) il piacere sensoriale conserva qualcosa di infantile quando si presenta nell’arte in maniera letterale, intatta. Solo nel ricordo e nella nostalgia, non come copiato e come effetto immediato, esso viene assorbito dall’arte (…)»
[…]
«All’ontologia della falsa coscienza appartengono anche quegli aspetti nei quali la borghesia, che tanto liberò lo spirito quanto lo prese alla cavezza, accetta e gode, dello spirito, proprio ciò in cui non riesce completamente a credere – maligna anche contro se stessa. Nei termini in cui corrisponde ad un bisogno socialmente presente, l’arte è divenuta in amplissima misura un’impresa guidata dal profitto: un’impresa che prosegue finché rende e con la sua perfezione aiuta a superare l’inconveniente di essere già morta».

«L’oscuramento del mondo rende razionale l’irrazionalità dell’arte: essa è la radicalmente oscurata»1].

«Nel mondo disincantato il fatto arte è… uno scandalo, riflesso dell’incanto che il mondo non tollera. Ma se l’arte accetta tutto ciò senza lasciarsi scuotere, se si pone ciecamente come incanto, allora, contro la propria pretesa di verità, si abbassa ad atto di illusione e allora veramente si scava la fossa. In mezzo al mondo disincantato anche la più remota parola di arte, spogliata di ogni edificante conforto, suona romantica».2]

1] T.W. Adorno Ästhetische Theorie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt, trad. it di Enrico De Angelis, Teoria estetica, Einaudi, 1975 pp. 21 e segg.

28

La sera ci sorprese
facendo del giorno un rapido declino.
Ti agiti, non sopporti il fumo del barbecue
della signora Polonskij.
Ti rivedo nei colori dell’arcobaleno:
rondine di altri cieli e di altri nidi!
-Qui dura ancora il turnover.
Vado all’estero, mi rifaccio una vita,
troverò un lavoro,
avrò una moglie e dei figli-, disse Simon.
Una stagione infausta si ferma
stretta dalle corde dell’autunno.
Nei vecchi bungalow si contano le ore.
La casa lungo il fiume
non ci appartiene più,
è attracco di pescatori di frodo e di conchiglie.
Max sta finendo Psicostasia politica.
Ti rivedo nel Bacio di Klimt.
Non c’é tavolozza senza il nero.
Quando Marisa tornerà da Dortmund
sarà come un lampo a ciel sereno,
chiederà le catenine di Istanbul,
prima di dire:-oh mamma, mamma,
perché sei rimasta così sola nel silenzio?

Strilli Gabriele

33

Da quale rovo sei venuta?
La stagione porta trappole.
Temi le Centurie, i mesi bisestili.
Un testamento è nel Caveau.
Aspettami quando il leone e l’agnello
si saranno fermati all’ombra delle oasi.
Noè ha attaversato il Topanga Canyon.
Il frutto dell’albero è maturo.
E’ diventata cieca la tua memoria.
Una tettoia d’anni è finita sul selciato.
L’anfora è rotta, Ubaldo!
L’anfora più bella è rotta.
Sono venuti giù acqua e neve.
A tratti si è fermato l’anticiclone.
Il vecchio Osborne non se ne è accorto.
Sta a guardare il sole che nasce e muore.
Preghiamo per i nostri gelsomini.
Il Signore solleva dalla polvere il misero,
innalza il povero dalle immondizie.
Scendiamo in una valle silente
nel giorno di tristezza di Makeda.
Il gran sacerdote,
lasciò messaggi nelle crepe del Muro,
senza piccioni viaggiatori
e pagaie, azzurro-mare.
Il pony express aspetta.Tace.
Augura: Feliz Navidad.
Il cammino si accorcia,
senza il miracolo da ponente.
A Daisy non diremo nulla
che possa scuotere i rami del suo bosco,
nulla di come è fatto il lazzaretto.

Strilli Gabriele Da quando daddy è andato viaStrilli Gabriele Ci sono anni che sembrano boschi

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Dialogo a più voci e Poesie in onore di Alfredo de Palchi – Donatella Costantina Giancaspero, Lucio Mayoor Tosi, Mario Gabriele, Mariella Colonna, Gino Rago, Fritz Hertz, Francesca Dono, Mauro Pierno, Mario De Rosa, Alejandra Alfaro Alfieri, Giorgio Linguaglossa, Sabino Caronia 

 

foto Christer Strömholm

foto Christer Strömholm

Donatella Costantina Giancaspero

29 settembre 2017 alle 18.09

Vorrei aggiungere una piccola annotazione, ovvero le parole che Alfredo de Palchi riporta nella sua nota a Sessioni con l’analista (1964 – 1966), in Paradigma, tutte le poesie: 1947 – 2005 (Mimesis, 2006).
Si tratta di un commento molto breve, ma non per questo meno significativo, poiché ribadisce la necessità di un approccio psicologico ai suoi testi – questi in particolare -, così come ho tentato di fare io nella mia analisi. Ed è stato indispensabile affrontare il discorso da una prospettiva lacaniana, in quanto l’impianto strutturalista della psicoanalisi di Jacques Lacan offre molti utili strumenti per l’indagine e l’interpretazione del testo poetico.

Queste le parole di Alfredo de Palchi:

Sessioni con l’analista (1964 – 1966)

Scritti di getto durante una esperienza malsana nell’estate del 1964 in Bucks County nello stato di Pennsylvania, i 23 testi formati nel presente storico, psicologicamente intercalano le esperienze personali del passato alle attuali. L’intravisto analista è un carattere emblematico e perché tale può essere un oggetto inanimato: la bottiglia, la tavola, la finestra, oppure animato: la mia gatta, la donna, il maiale. Per la cronaca, frequentai un analista dopo la pubblicazione del libro.

Insomma, qui sembra che proprio l’autore voglia indicarci la via per l’esatta comprensione dei suoi versi. Ci dice: io scrivo questo. E questo non puoi capirlo se sei ancora sottomesso alla struttura del linguaggio (per dirla con Lacan) in uso presso quella critica che tu sai, la critica miope e generica di derivazione accademica.

Donatella Costantina Giancaspero

30 settembre 2017 alle 12.46

Riprendendo il discorso…  vorrei nuovamente citare Alfredo de Palchi, riportando un’altra sua testimonianza molto interessante sul contesto in cui è nata la raccolta “Sessioni con l’analista”. Scrive de Palchi nell’aprile 2014:

«Nel lontano 1964, mi segregai nella bella campagna collinare dello stato di Pennsylvania (azione di sparire per un mese o due dalla città, in luoghi disabitati, e camminare per sentieri traversati da caprioli mucche conigli fagiani etc., oppure sulle spiagge del New Jersey con neve vento e migliaia di gabbiani).
Durante i mesi estivi del 1964, nella mia casa, accompagnato dalla mia gatta parigina Gigi, indisturbato compilai di getto, in pochissimi giorni, le 23 Sessioni con l’analista (lasciate in disparte poi fino al 1966 quando decisi di revisionarle). Non avendo esperienza alcuna del paziente, cominciai a conversare, o confessare, con l’immagine dell’analista che era la mia gatta, quasi sempre sulla scrivania; quando non c’era mi rivolgevo all’albero fuori dalla finestra, e di sera alla bottiglia di vino di fronte. Ovviamente l’analista, ovvero gatta albero e bottiglia, benché mi ascoltassero attentamente, non rispondevano. Ma io continuavo a interpellare il loro muto. . . “perché”, con il mio “perché” e con il “perché” dei vari personaggi sovrapposti, così creando un narrare frammentato da trascorse e attuali situazioni e nello stesso momento da quelle che crescevano attorno, per darne un senso direi complesso. . . senso?––incomunicabile dell’io e del resto. Sicuro, “l’atto della scrittura si è de-soggettivato”.

Dalla sua riflessione finale si deduce la parola chiave per la comprensione dei testi di “Sessioni”: incomunicabilità, o meglio «(incomunicazione)», così come inizia la seconda poesia della raccolta:

(incomunicazione)

frammenti secchi singhiozzi, turbinio
interno – mi ascolti
congelando alla parete una stampa
di olmi fiume e strada
– che ho perso –
mentre con sola immaginazione parlo
al compatto vuoto del soffitto
che dici, seccamente il tuo “perché”
frantuma il silenzio dell’ufficio
– la segretaria al telefono… –
oltre l’uscio lunedì all’una
risponde e a me sabato all’una
il dottore.. incredibile,
che ne so –
il “perché” è domanda stupida
– difficile –
impossibile estrarlo, rimane una cava
paleolitica,
impossibile cauterizzarlo e ancora il tuo “perché”
non ho colpe,
altri, i complessi
del paleolitico superiore –
“che fa la segretaria”
si tratta d’isolamento
incompiutezza –

(stesura del 1964)

foto Esistenzialismo in giallo Boileau-Narcejac, I diabolici

Ed ecco come commenta questo testo Giorgio Linguaglossa in un paragrafo della sua monografia dedicata alla poesia di Alfredo de Palchi, Quando la biografia diventa mito, (Progetto Cultura, 2016, pp. 150 € 12):

“La poesia inizia con il termine «(incomunicazione)» messo tra parentesi e finisce con la parola «incompiutezza», senza parentesi. C’è un dialogo, ma del tutto slogato, dissestato, de-territorializato, che non obbedisce più alla legislazione della sintassi. Qual è l’oggetto?, non si sa, ci sono «frammenti», «singhiozzi», compare un «mi ascolti», ma non sappiamo chi sia l’interlocutore che dovrebbe porsi in posizione di ascolto. Si progredisce nei tre quattro versi seguenti a tentoni, fino ad incontrare: «parlo al compatto vuoto del soffitto». Si cerca un «perché», si va alla ricerca di un «perché» come un commissario va alla ricerca delle tracce del delitto; nella composizione sono inseriti spezzoni di dialoghi, dialoghi espliciti e dialoghi impliciti, proposizioni implicite di un monologo pensato. C’è una «segretaria al telefono», ma non si capisce bene se sia lei ad inserirsi nel dialogo o se stia tentando di «cauterizzarlo», come si cauterizza una escrescenza. Il dialogo (o meglio il monologo) non va alla ricerca del senso, piuttosto lo fugge con tutte le sue forze, vuole divincolarsi dal legame col «senso», vuole liberarsi dalla soggezione del «senso», così come parimenti vuole liberarsi dalla «soggezione della sintassi», dal potere estraneo e impositivo della logica, suprema inerenza della sintassi”.

*

Alfredo de Palchi

2 ottobre, 2017 alle 3,33

Questa volta L’Ombra mi sorprende con una incursione analitica nel libro del 1967, Sessioni con l’analista. Cinquant’anni di silenzio critico, e di cretineria degli addetti ai lavori, si sono rivelati preziosi durante gli anni recenti con scritti di Luigi Fontanella, di Roberto Bertoldo, e Giorgio Linguaglossa a cui Roberto m’indicò. Mai dubitai dell’originalità dell’opera perché sapevo che il confessionale del prete sarebbe scaduto con la chiacchiera pseudo psicologica di P.P. Pasolini. In quell’epoca, la scelta ideologica in auge indusse la cretineria del premio Viareggio a premiare l’opera prima in combutta fino alla fine con “Sessioni con l’analista” inviata a mia insaputa da Vittorio Sereni. L’opera prima vincente era già defunta come poesia. Non per i cretini che anche al premio Prato bocciarono Sessioni con l’analista nonostante l’opera fosse sostenuta da Giorgio Caproni. In più lessi su La Nazione e La Fiera Letteraria, ridendo, una recensione che scannava il mio libro e quello vincente al Viareggio. Quando incontrai l’autore della recensione, Silvio Ramat, lo ringraziai perché era una recensione, non la presi come offesa, tanto che Ramat ed io siamo amici. Trent’anni dopo capì che la mia Grazie per il l’insolito Paganini, bellissimo. Poesia non era come l’aveva analizzata. Succede. Dunque, ora che vedo un interesse più adeguato per analizzare e sostenere il lavoro d’un poeta, ho la soddisfazione che mi mancava. Allora, come complimentare e ringraziare l’intelligente e sensitiva Donatella Costantina Giancaspero. Non so come a parole. Per l’insolito Paganini, bellissimo pezzo, ricambio con un dono pitocco ma ricchissimo di “effetti collaterali” che per anni mi hanno ispirato a scrivere tanta poesia. Per me è la migliore interpretazione del quinto concerto per pianoforte di Luigi Beethoven. E grazie a Giorgio Linguaglossa, e a coloro che commentano anche con entusiasmo. Grazie, ma sono stufo di ringraziare, meglio che vi abbracci dandovi un bacio sulla fronte, anche ad Anna Ventura, guai che menzioni il mio nome invano. . .

Giorgio Linguaglossa    

30 settembre 2017 alle 18.55

Una nota di stilistica, quanto mai opportuna per la comprensione della poesia di Alfredo de Palchi.

«Cito da La vita delle parole studiata nei loro significati di Arsène Darmester, 1886.

Così, nella formazione del nome che da oggettivo passa allo stato di sostantivo; nelle restrizioni di significato che assorbono il determinante nel determinato: nelle metonimie, che trasferiscono il nome da un oggetto a un oggetto vicino unito al precedente da un rapporto costante; nelle estensioni e nelle metafore che fanno sì che si dia il nome di un primo oggetto, ben presto perso di vista, a un secondo oggetto che può essere della stessa natura ma, più generalmente di natura diversa; ovunque, condizione del cambiamento è il fatto che la mente oblia un primo termine e non considera più che il secondo.

A questo oblio i grammatici hanno dato il nome di “catacresi”, vale a dire “abuso”…». Continua a leggere

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Luigi Fontanella estratti dal romanzo, Il Dio di New York (Passigli, 2017 pp.276 € 19) New York 1910: Pasquale D’Angelo, un giovane sedicenne di origine abruzzese, sbarca a Ellis Island

foto New York City

Ho scritto questo romanzo ispirandomi, in parte, alla struttura di La notte della cometa dell’amico Sebastiano Vassalli, e in parte all’autobiografia (Son of Italy) di Pascal D’Angelo, da lui scritta in inglese e pubblicata nel 1924 a New York.  Nato a Introdacqua (L’Aquila) nel 1894, Pascal emigrò in America nel 1910 e morì a Brooklyn, in estrema solitudine e indigenza, nel 1932.  I fatti narrati nella prima parte sono realmente avvenuti, come realmente esistiti sono alcuni personaggi di questa storia, compaesani di Pascal che condivisero la sua vicenda di emigrato. Vari altri episodi descritti nel romanzo sono puramente immaginati sulla base della documentazione biografica da me raccolta e sulla base della temperie socio-storica della New York degli anni Venti.

In Italia, tra i pochissimi che si sono occupati di D’Angelo, occorre, di fatto, menzionare proprio Vassalli, il quale richiamò l’attenzione su questo sventurato quanto visionario  “poeta italiano che volle essere americano” (paragonandolo a Dino Campana), in uno dei suoi Improvvisi sul “Corriere della Sera”  (21 novembre 2001), in occasione dell’uscita di Canti di luce, un libriccino di poesie di D’Angelo da me curato per un coraggioso editore salernitano (Ed. Il Grappolo), lo stesso che due anni prima aveva pubblicato, per la prima volta in Italia, Son of Italy.

La lettera di D’Angelo, riportata in italiano nel penultimo capitolo, è la traduzione letterale di quella che lui scrisse effettivamente il 2 gennaio 1922 a Carl Van Doren, l’allora direttore di The Nation, il cui archivio presso l’università di Princeto conserva i fogli originali che usò Pascal nel batterla a macchina.

(Luigi Fontanella)

Luigi Fontanella Il Dio di New York coverscheda del romanzo

New York 1910: Pasquale D’Angelo, un giovane sedicenne di origine abruzzese, sbarca a Ellis Island insieme con il padre e un gruppo di suoi compaesani in cerca di fortuna. L’impatto con il “nuovo mondo” è durissimo, fra i più traumatici tramandati dai nostri emigrati, e allo stesso tempo, per Pasquale – divenuto ben presto “Pascal” –,  magnetico ed elettrizzante.  A differenza dei suoi compagni, la cui principale aspirazione è di migliorare le proprie condizioni di vita e fornire un aiuto ai familiari rimasti in Italia, Pascal matura l’ideale di diventare scrittore e poeta americano. Per questo ideale  studierà accanitamente l’inglese notte e giorno, approfittando di ogni frammento di tempo libero che gli concede il suo massacrante lavoro di spaccapietre, di manovale, di pick and shovel man. Con perseveranza titanica, e una fede incrollabile nella poesia, Pascal percorrerà fino in fondo il tunnel del suo calvario. Il giovane si sentirà man mano investito come di una missione suprema, palingenetica, con il dovere di obbedire alla sua voce interna, a dispetto delle tremende difficoltà ambientali, degli innumerevoli sacrifici ai limiti dell’umano, di una lingua nova imparata con l’aiuto di un Webster sempre più sbrindellato, e l’insegnamento di maestri sublimi come Keats e Shelley; maestri che illuminano il suo cammino accidentato e gli danno la forza necessaria a resistere. Sarà una lotta prometeica, gravata da un’assediante indigenza, che porterà il giovane  spaccapietre ad abbandonare i suoi compagni dopo una logorante e lunga  esperienza di manovalanza, e a ritirarsi infine in una misera topaia di Brooklyn per lanciare da lì  la sua sfida alla città di New York e al Dio “spietato” che la governa.

Luigi Fontanella, saggista e poeta fra i più significativi della sua generazione, ha raccolto documenti e materiali di vario genere su questa vicenda vissuta cento anni fa da un nostro connazionale in America, traendone un romanzo “storico” avvincente e commovente, seguendone tutta la traiettoria, dal suo inizio sconvolgente fino al tragico e glorioso epilogo.

Luigi Fontanella vive tra New York e Firenze. Ordinario di Letteratura Italiana e direttore del Dipartimento di Lingue e Letterature Europee presso la State University di New York, ha pubblicato libri di poesia, narrativa e saggistica. Tra i titoli più recenti Pasolini rilegge Pasolini (Archinto, 2005, tradotto in più lingue); L’angelo della neve (Mondadori, 2009); Bertgang (Moretti & Vitali, 2012, Premio Prata, Premio I Murazzi); Migrating Words. Italian Writers in the United States (Bordighera Press, 2012); Disunita ombra (Archinto, 2013, Premio Frascati alla Carriera); L’adolescenza e la notte (Passigli, 2015, Premio Pascoli, Premio Giuria-Viareggio, uscito anche in francese: L’adolescence et la nuit,  tr. by P. Démeron, Éditions RAZ, 2017); Lo scialle rosso. Poemetti e racconti in versi (Moretti & Vitali, 2017) . Per la narrativa ha pubblicato i romanzi Hot Dog (Bulzoni, 1986, tradotto anche in inglese e pubblicato da Soleil nel 1998) e Controfigura (Marsilio, 2009). Dirige per la casa editrice Olschki la rivista internazionale di poesia e poetologia italiana “Gradiva”, ed è critico letterario di “America Oggi”.

  Prologo

 New York, 31 dicembre 1921

Un uomo sta dirigendosi verso Times Square dopo aver trascorso l’intera giornata nella sala di lettura della New York Public Library.

Arrivato al botteghino della metropolitana, infila meccanicamente una mano nella tasca del logoro cappotto ma non trova i pochi spiccioli che gli servono per il biglietto. Di colpo si rende conto che qualcuno glieli ha rubati in biblioteca approfittando di una sua momentanea assenza dalla sala di lettura.

C’è un momento d’imbarazzo da parte di quest’uomo (un giovanottone di quasi 28 anni, ma già segnato da una vita piena di stenti e ristrettezze) di fronte all’impassibile bigliettaia, la quale, di fronte al suo smarrimento, svogliatamente si limita a dirgli che la BRT (Brooklyn Rapid Transit) non fa opere di beneficenza. L’uomo accenna a un mezzo sorriso; senza dire una parola risale le scale e si riporta sulla strada. Sono le otto di sera. Dà un’occhiata al cielo senza stelle come a interrogarlo sul tempo. In fondo – pensa – che fretta c’è a rientrare a casa, in quel minuscolo, gelido tugurio dove vivo tutto solo?

Si raccoglie nel suo cappotto e si avvia verso la Quinta Avenue, improvvisamente schiaffeggiata da furiose folate di vento. È una rigida sera del 31 dicembre 1921.

Va avanti per più di un’ora, senza fermarsi, fino ad arrivare nei pressi di Union Square. Ancora poche traverse, ed eccolo immettersi su Broadway. Ma proprio qui si scatena il finimondo: un misto di neve, grandine e pioggia ghiacciata lo investono da tutte le parti, senza dargli scampo.

Indeciso sul da farsi, l’uomo ripara sotto il cornicione di un palazzo. Ma è solo per una manciata di secondi.  Riprende la sua marcia e arriva a Canal Street. Sa che, da Canal, potrà imboccare molto presto Forsyth Street e da lì c’è il Manhattan Bridge che collega la City a Brooklyn, dove si trova la sua abitazione.

Arrivato di fronte al ponte, violenti fiocchi di neve gli sferzano la faccia. In pochi istanti il soprabito si copre di un luccichio diffuso, ma l’uomo non si ferma anche perché oramai ha di fronte a sé soltanto questo ponte e non c’è un posto ove ripararsi dalla furia degli elementi.

Attraversa come un automa il Manhattan Bridge, lungo due chilometri, mentre neve e pioggia ghiacciata gli stanno inzuppando i vestiti fino alle ossa. Sbircia incurante sotto di sé l’East River, le cui acque scure schiumano impetuose.

Arrivato infine alla stazione di Flatbush, l’uomo sosta per un po’ dentro la saletta d’ingresso per riprendere fiato dopo oltre due ore di marcia. Dalla grande vetrata guarda, paralizzato dal freddo, stanco e affamato, la neve che continua a scendere implacabile. Socchiude gli occhi e come trasognato pensa al tozzo di pane raffermo che ha lasciato sotto il suo letto. In questo momento la sua fatiscente stanzetta, un tempo usata come sgabuzzino per la legna, gli sembra di gran lunga migliore di questo androne dove non c’è un’anima viva.

Si fa coraggio, e rasentando i muri di sporadiche costruzioni, palazzi fatiscenti, catapecchie e umili magazzini, prosegue il suo cammino lungo l’interminabile Flatbush Avenue, che agli inizi degli anni Venti era un semplice rettilineo della periferia newyorchese.

Eccolo arrivare finalmente alla quarta Avenue.  Un tempo era l’estremo sobborgo di Brooklyn.  Per lui, divenuto poco più di un’ombra, ci sono ancora da percorrere un paio di chilometri nel buio della notte.  Quindicesima strada, sedicesima strada, Prospect Avenue, diciassettesima, diciottesima, diciannovesima…, l’uomo arriva infine alla ventesima, dove al numero civico 210 è situata la sua abitazione.

È quasi mezzanotte.

Per entrare nella sua stanzetta deve passare attraverso un gabinetto, usato da altre  famiglie che vivono in quel caseggiato.  Da questa latrina in comune spesso ci sono perdite d’acqua sporca e lordure di ogni genere che s’infiltrano sotto la porta del suo  alloggio. Questa notte, per la pioggia e la neve, oltre che per le frequenti perdite d’acqua, si sono formate alcune chiazze semighiacciate.

L’uomo apre la porta del suo tugurio e, nel buio, affonda i piedi in una pozzanghera.  La finestra è spalancata e la neve è penetrata a folate, e continua a penetrarvi in un turbinio feroce.  Una parte del letto è bagnata e ugualmente allagato è il pavimento su cui sono impiastricciati fogli di carta, i suoi pochi libri, qualche umile suppellettile.  Tutto bagnato o inzaccherato.  Insudiciati anche un paio di pantaloni e alcuni panni di ricambio che lui generalmente tiene sotto la branda.  Il pane, intriso d’acqua e di sporco, emana un tale fetore che lo rende immangiabile.

Infreddolito, tremante, stanco morto per l’immane fatica, l’uomo chiude la finestra, si rannicchia nella parte del letto ancora asciutta e si avvoltola nel cappotto che gli fa anche da coperta. Chiude gli occhi e va col pensiero ai suoi anni infantili, quando abitava con la sua famiglia in uno sperduto paesino dell’Abruzzo.

Quest’uomo si chiama Pascal D’Angelo.  Mio nonno, finché visse, gli fu amico fraterno, e io oggi voglio raccontarne la storia, così come lui me la raccontò in modo tanto appassionato, e così come io ho potuto ricostruirla grazie alle mie ricerche.

 

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Luigi Fontanella da Lo scialle rosso (Moretti & Vitali, 2017) con una citazione della prefazione di Paolo Lagazzi e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Luigi Fontanella divide il suo tempo tra Firenze e Long Island, New York. Un’ampia scelta delle poesie composte fra il 1970 e il 2005 è stata raccolta nel volume riassuntivo L’azzurra memoria, a cura di Giancarlo Pontiggia (Moretti & Vitali, 2007, Premio Laurentum, Premio Città di Marineo), a cui hanno fatto seguito Oblivion (Archinto, 2008); L’angelo della neve. Poesie di viaggio (Mondadori, Almanacco dello Specchio, 2009); Bertgang (Moretti & Vitali, 2012, Pref. di Giancarlo Pontiggia, Postf. di Carla Stroppa, Premio Prata, Premio I Murazzi); Disunita ombra (Archinto, 2013, Premio Frascati Poesia alla Carriera); L’adolescenza e la notte (Passigli, 2015, Pref. di Paolo Lagazzi, Premio Pascoli, Premio Giuria-Viareggio); La morte rosa (Stampa, 2015, Pref. di Maurizio Cucchi). È anche autore di parecchi volumi di critica letteraria e dei romanzi Hot Dog (Bulzoni, 1986) e Controfigura (Marsilio, 2009). Dirige per Olschki la rivista internazionale “Gradiva”, ed è responsabile della redazione americana della rivista “Poesia”.
luigifontanella02@gmail.com

locandina antologia 3 JPEG

Ognuno di noi continua a parlare un linguaggio
che lui stesso non intende,
ma che ogni tanto, viene inteso.
Il che ci permette di esistere e di essere perciò quanto meno fraintesi.
Se esistesse un linguaggio in grado di essere inteso, disse Saurau,
non ci sarebbe bisogno di nient’altro.

(Thomas BernhardPerturbamento)

Scrive Paolo Lagazzi nella prefazione al volume:

«Da un lato la raccolta allinea, zigzagando fra USA, Europa e Italia, versi di taglio narrativo, poemetti tessuti con una voce piana, semplice, colloquiale e tuttavia sempre aperta alle irruzioni del bizzarro o del perturbante (un semaforo oscillante “come un aquilone / munito di un solo occhio” maligno, una via di Firenze percorsa dalle vertigini del déjà vu: “era / la mia strada / ma a me sembrava come se / ci fossi vissuto tanti anni prima / e ora vi ritornavo straniero”…). Da un altro lato, posti all’inizio e alla fine del libro come cornici stranianti, La veglia dell’ultimo soldato e Canto del distacco stendono attorno a quelle narrazioni una serie di figure oniriche o metaforiche (da ricordi “inverecondi” striscianti “lungo le pareti” del pensiero a un fiume capace di “bucare” le mani, da “una stradina pietrificata / sulla tua fronte” al “singhiozzo del tempo”) che, mentre riaffermano l’impossibilità della voce poetante di sfuggire ai richiami di un senso aleatorio, sottolineano che quel regno dei sogni che è la vita non è solo leggerezza surreale o balletto fantastico ma anche crudeltà, svenamento, strazio (il rosso del sangue).

Il riflettersi delle cose nelle ombre o delle ombre nelle cose, il sinuoso procedere dello sguardo fra le sponde opposte e complementari dell’esperienza e della rêverie, dell’incanto e del disincanto, del desiderio e della pena,  crea nel testo effetti di ripetizione, diffrazione o eco (“sempre più in fretta / sempre più in fretta”, “Tu sai quanto conta… Tu sai quanto conta…”, “Piega le tue ginocchia / d’aria… Piega le tue ginocchia d’aria”) che sono come le cadenze di una lingua rituale, tesa a esprimere e insieme a esorcizzare il mistero dell’essere…

Dove ci portano i passi del poeta viandante Luigi Fontanella mentre perlustra i territori della sua intermittente, appassionata e tenace memoria, mentre ci offre e sottrae figure, simboli, oggetti della sua parabola umana, a partire da quello scialle rosso che intitola questa nuova raccolta? Pochi autori sanno altrettanto bene che la poesia è movimento incessante poiché tale è la vita, che le cose sono se stesse e altro da sé, che il mondo muta secondo l’angolo ottico da cui lo osserviamo. Tutto brilla nella fuga del senso: uno scialle, rapito dal vento, vola via, si perde chissà dove: la stoffa del reale non è più consistente di una danza di fantasmi, eppure è vero anche il contrario: i fantasmi tra cui ci aggiriamo – echi di momenti, larve di desideri, riflessi dell’improbabile, revenants dell’incongruo – hanno la stessa evidenza dei più ruvidi aspetti della realtà. […] Eppure “non è tardi” per continuare a credere nella poesia, nella forza della parola di testimoniare la vita come contrappunto, battito cardiaco, respiro, ritmo alterno di povertà e bellezza. Se lo scialle è fuggito, strappato dalle mani del tempo, il rosso della sua scia resiste nello sguardo di chi crede ancora nella grazia, nella luce di ciò che non ha peso, nella forma senza forma dell’anima, nell’invito del vento a volare “fino ad un altro Sole”.»

»

 Scrive Luigi Fontanella in una nota in calce al libro:

«nella mia ricerca poetica ho sempre alternato momenti per così dire epifanici, nei quali la scrittura si coagula in brevi momenti circoscritti – veri e propri cortocircuiti mentali, accensioni improvvise o pure trascrizioni di lacerti onirici (sulla lunghezza d’onda di un mio antico amore per il surrealismo) -, ad altri che hanno bisogno di una distensione riflessiva di più largo respiro. Da qui, il carattere anche “narrativo” o “diaristico” di questi poemetti, beninteso una narrazione in versi assolutamente non lineare, con iati e sbalzi improvvisi o accentuazioni di carattere metalinguistico (per esempio il mio periodico interrogarmi sul senso dello scrivere, del fare poesia, dello stesso vivere)».

Luigi Fontanella Lo scialle rosso Cover

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Da quanto precede è chiaro che la poesia di Luigi Fontanella si può compendiare nella formula: diario + epifania, intensificazioni metaforiche, propaggini metonimiche e esposizione quasi didascalica, cronachistica degli eventi e dei paesaggi-personaggi.

Il tema dell’Altro o dell’Estraneo e del «familiare» adottato da Luigi Fontanella pone la necessità di dare una risposta all’interrogativo lacaniano se «il posto che occupo come soggetto del significante è, in rapporto a quello che occupo come soggetto del significato, concentrico o eccentrico».

La risposta di Fontanella è che i nostri «luoghi» sono sempre «altro», noi siamo sempre disseminati, dispersi nei luoghi della memoria, nei suoi paraggi, nelle sue contiguità e nelle sue ambiguità. «La meraviglia di tutte le meraviglie: che l’essente è (das Wunder aller Wunder: daß Seiendes ist2, la si esperisce nel mondo. È meraviglia, autentica meraviglia – meraviglia delle meraviglie –, ma il mondo con le sue sorprese viene da «fuori», dentro di noi siamo poveri e, in quanto poveri ci meravigliamo e ci angosciamo della meraviglia, non sappiamo tener testa alla meraviglia, e ci ritraiamo, sorpresi e sconfitti, nella nostra povertà. La sorpresa introdotta dal tempo è la «quarta» dimensione dello spazio che si spalanca non appena il tempo, l’estraneo fa ingresso nel teatro del mondo. È il tempo, infatti, che apre l’orizzonte chiuso dei luoghi, che spazializza lo spazio, moltiplica gli spazi e moltiplica le temporalità. Non per-sé, per sua forza interna, lo spazio si spazializza, ma per ciò che ad esso viene incontro da «fuori», dal tempo che squarcia letteralmente l’orizzonte dello spazio, lo rende significativo, dà un senso allo spazio vissuto. Venendo al mondo il tempo squarcia l’orizzonte del mondo. Lo spazio si apre, si spazializza fecondato dal tempo. Lo spazio si spazializza perché entra in gioco il tempo, l’estraneo che ci accompagna in ogni nostro atto o pensiero. Il tempo è la possibilità possibile dello spazio, l’incarnazione dell’Estraneo.

Ecco il quadro di apertura di Dittico praghese:

Città Strassenbahn_Praga

Strassenbahn_Praga

Dittico praghese

                            (per Emma)

Grande è ciò che è passato attraverso tempi inimmaginabilmente lunghi, che è passato attraverso passioni, slanci esistenziali e creativi, e si è ereditato e tramandato nella lotta e nello spasimo. Un frutto della nostalgia, ecco che cos’è la grandezza.

Johannes Urzidil

I
Non di sé Narciso s’innamorò
sporgendosi sul fiume… Questo
pensai, arrivati allo Smetanovo nábrezí,
dopo un intrico di grandi e minuscole námesti e
silnicní e poulicní e ulicky. La Moldava,
fiume del destino, scorreva
placida e luminosa davanti a noi.

Non di sé …
ma del suo riflesso, di un volto
che ondulava lieve sull’acqua.
Amore chiama Morte
e l’uno vuole l’altra sempre accanto. Continua a leggere

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Alcuni paradigmi dell’opera poetica di Alfredo de Palchi – saggio di Antonella Zagaroli – Per il novantesimo compleanno di Alfredo de Palchi, uno dei grandi poeti italiani di ieri e di oggi, nato il 13 dicembre 1926 a Legnago (Verona), la redazione de L’Ombra delle parole augura altri cento anni ricchi di creatività

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Per il novantesimo compleanno di Alfredo de Palchi, uno dei grandi poeti italiani di ieri e di oggi, nato il 13 dicembre 1926 a Legnago (Verona), la redazione de L’Ombra delle parole augura altri cento anni come questo riproponendo un saggio di Antonella Zagaroli sull’opera e la personalità del poeta italiano che vive a New York

 Alfredo De Palchi potrebbe definirsi un crogiuolo di esperienze umane e artistiche, la sua poesia un unicum delle une e delle altre nonché una tantum nel panorama letterario italiano. È a mio avviso cioè una singolarità italiana che precede il pensiero occidentale contemporaneo e anche futuro.

La vita e l’espressione artistica si fondono in lui in modo indissolubile come è sempre avvenuto per ogni autentico artista spesso dai suoi contemporanei isolato, tenuto da parte perché non integrabile nella generalità che li accomuna. Sonia Raiziss sua sublime traduttrice e compagna di vita per un lungo periodo ebbe a precisarlo in modo molto netto: “With Alfredo De Palchi the poet is the man. What he has known, what is has lived, is what he writes(…) The poet is the sufferer and the experience is the metaphor closest to itself.

Lo sottolinea bene Luigi Fontanella all’inizio di uno dei tanti saggi che il poeta e professore universitario (anch’egli diviso fra Italia e Stati Uniti) dedica a De Palchi: “credo che in pochissimi poeti della Modernità il nesso vita/poesia sia stato così stretto, così immediato, così fatalmente necessario, come in quella di De Palchi.1

E dopo aver letto attentamente la sua opera tutta io direi che i “paradigmi” tradizionali non solo della poesia ma anche del pensiero e del comportamento soprattutto di un uomo occidentale non si addicono a De Palchi. Daniela Gioseffi lo definisce “non conformista”2, Roberto Bertoldo parla del “suo piglio unico e dell’assoluta novità di linguaggio che si faceva sentire già nei tardi anni quaranta”3. La lettura evolutiva delle sue poesie ci introducono in un viaggio temporale che arriva oltre la contemporaneità sia nei temi sia nei registri stilistici utilizzati.

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De Palchi è nella vita e nell’opera un paradigma, non a caso è il titolo che lui stesso ha dato al libro che raccoglie quasi tutta la sua produzione poetica, eccetto gli scritti dal 2004 in poi. Paradigma è un titolo plurisemantico, è sì il paradigma, il modello, l’esempio che l’autore si riconosce desiderando altresì che da tale presupposto si rivolga l’attenzione alla sua poesia, contemporaneamente io lo intendo nel significato di enunciazione delle forme fondamentali del verbo (Verbo e anche forma verbale l’aspetto che dà alla scrittura il movimento), dei temi da cui derivano tutti i tempi. Non sono certa che De Palchi abbia volutamente attribuito un tal senso plurimo a tutta la sua opera poetica, sono però convinta che anche da questo punto di vista dovrebbe cominciare ad essere esaminato il suo lavoro. Dovrebbero cominciare a studiare i temi e i tempi dell’opera depalchiana quei critici seri e ascoltati che hanno la possibilità di far raggiungere la sua poesia al maggior numero di lettori possibili.

La poesia di De Palchi affonda profondamente nelle radici, nell’essenza di ogni essere umano, è una poesia terrestre per i temi e sublime per l’anelito, il gusto, il desiderio che lascia dentro chi la legge facendolo sentire accomunato al poeta e anche meno solo. Non è questo il sentire che stimola da sempre la grande poesia?

I tempi dell’evoluzione di pensiero, di scrittura e di esperienza personale li srotola lo stesso autore ponendo puntigliosamente, direi, ogni data precisa dopo ogni poesia.

De Palchi, che già dalla fine degli anni ‘40 ha coniato il neologismo “scentrato”, è proprio uno di quegli artisti che si nutre del punto focale di sé stesso e da questo fa scaturire la sua poesia. Come dirò in seguito il neologismo ha un significato tutt’altro che schizoide. In polemica con coloro che hanno parlato di eccessivo autobiografismo nella sua opera vorrei rilevare che ogni artista potente è stato ed è per forza di cose autobiografico. Coincidono cioè in lui/lei il movimento ideale e concreto che caratterizza il personale stile di vita, le sue scelte e quanto esprime tramite e nella propria arte. A questo proposito mi piace spesso citare una grande pittrice Frida Khalo, a cui sono molto legata. La Khalo a chi le chiedeva perché dipingeva essenzialmente autoritratti rispondeva che era spesso sola e se stessa era la cosa che conosceva meglio. Questo il punto, si scrive, si dipinge, si compone musica, si progettano sculture e architetture, si dirigono film partendo dalle cose che più si conosce. Che poi queste diventino patrimonio comune dipende dalla ricerca severa delle modalità che ogni creatore dovrebbe proporsi per raggiungere al meglio ciò che lo muove nell’azione espressiva.

Credo non esistano creatori autentici scissi da se stessi, possono essere separati, isolati dal contesto sociale perché troppo avanti (nella storia della cultura tutta quasi sempre è accaduto) ma non dal loro centro personale. L’arte e la cultura prodotte nell’ottica della scissione, cioè “cosa faccio di me è cosa diversa da quello che realizzo”, possono vivere il fuoco fatuo del successo, della fama in vita, delle vittorie, ma appartengono più al potere. La cultura è stratificazione di scoperta continua, di ricerca instancabile nella quale si intravede, si intuisce la visione dell’insieme. Un artista autentico non parte dall’idea di canonizzarsi e quindi segue il canone formatosi nei secoli, un artista autentico segue la spinta interna e cerca di realizzarla al meglio se poi ciò accadrà in vita o meno dipende anche dalla sua fortuna individuale (di solito legata al carattere), ma anche dalle difficoltà concrete (come accade per i tanti creatori perseguitati dal potere durante tutta la loro esistenza in passato come nel presente) e soprattutto dal coraggio di scavare senza remore ciò che vuole profondamente e di restituirlo senza ambiguità agli altri. Entra così nel canone, nel flusso ondulatorio, cioè, in cui gli esseri viventi sono immersi sapendo che “ è inutile pretendere, ognuno / è per se stesso / e sta in se stesso.” 4 come scrive De Palchi.

A questo proposito nell’intervista che Bertoldo pone come preliminare della raccolta di saggi dedicati a De Palchi l’autore dice espressamente: “La poesia è vera, non quando la si narra o la si descrive a vuoto, ma soltanto se c’è del vissuto che si svela in immagini saltellanti sulla pagina” Il senso paradigmatico del verbo cui facevo riferimento sta proprio in questo saltellare delle parole, è lì il loro movimento.

Ho saltellato anch’io lungo questa mia prima analisi della sua poesia così variegata.

Il criterio che ho seguito è quello tematico (seguendo soprattutto ciò che mi è affine e per esperienza e per poetica) e non cronologico. La buia danza di scorpione e Un ricordo del 1945 li ho trattati non con grande approfondimento, certo non per disinteresse o perché a me poco attinenti, tutt’altro, soltanto perché molti critici sono partiti o hanno centrato la loro analisi proprio su questi due testi, evidenziandone sia l’importanza poetica rispetto a scritti di altri poeti coevi, sia la matrice profonda da cui deriva tutta la poesia depalchiana e io volevo differenziarmi nel mio primo contributo critico a De Palchi.

Ho deciso di affrontare la complessità della sua poesia secondo un criterio personalissimo, soffermarmi o su testi che sono stati affrontati dalla critica in modo forse troppo tradizionale, anche se profondo, come Sessioni con l’analista, o su tematiche ricorrenti in molte raccolte che ho tentato di ricomporre in un puzzle unitario: la desolazione e l’alienazione dell’individuo in tutto il novecento fino ai primi anni del nuovo millennio, la vita resa sacra dalla “terraqueità” della donna, dal sesso, l’incontro-scontro con l’ultimo lembo dell’essere terragni, ciò che forse ossessiona di più la contemporaneità, il rapporto con la Morte.

La poesia di De Palchi è composta dal sangue suo e di quanti sono stati coinvolti nelle sue esperienze ma è il sangue, la materia, la mente che ha scoperto dentro di sé, materia complessa che poi lo lega, collega a tutto il resto.

Sono
—– questo il punto / idea connettivo.
l’unto dell’acqua l’insettivoro petrolio
sigillato da eruzioni
pozzi sotto il fondale, l’oceano grasso
di corpuscoli, plancton che funziona
con premura per i crostacei
per il pesce cui serve ad altro pesce
e avanti secondo l’inevitabile alimento
e grossezza ¬¬- coriaceo predatore, secco
rogo di pinne dorsali e pettorali
su peduncoli e trampoli
da suggerire tracce di membra
e la spina un tubo
di cartilagine: il coelacanth
non estinto.

Parto da questa poesia proprio perché è la chiave del rapporto dell’autore con tutto ciò che lo circonda, una raggiunta consapevolezza esistenziale che ha inizio dagli anni della detenzione e poi dell’espatrio dall’Italia rivissuti e ricostruiti  interiormente e artisticamente nel poemetto Sessioni con l’analista pubblicato in Italia con Mondadori nel 1967 e finalista al premio Viareggio dello stesso anno. È fondamentale ricordarsi questa data per capire il passo in avanti di De Palchi come autore rispetto al contesto letterario italiano e non.

In Sessioni con l’analista egli entra nel racconto poetico del percorso di scandaglio interiore proprio della psicoterapia quando la cultura italiana era ancora in gran parte digiuna dell’importanza della conoscenza e dell’approfondimento personale base della crescita interiore e artistica. Anzi questo percorso è stato molto spesso snobbato dalla cultura letteraria italiana non soltanto degli anni sessanta e settanta ma anche successivamente.

E cosa fa letterariamente De Palchi nella sua opera, anticipando qualsiasi successivo tentativo simile?

Il testo è una sorta di nuovo percorso dantesco, prende forma dalla necessità di un uomo di 40 anni “nel mezzo del cammin” della vita per gli uomini e le donne del XX e XXI secolo, che ripercorre l’inferno e il purgatorio delle esperienze esterne e più intime affrontate senza inibizioni dall’uomo e dall’artista De Palchi. Una delle prime indicazione della cifra di questo autore è proprio il coraggio, la non necessità personale di affidarsi a comode finalità editoriali che seguano la moda del tempo.

Le poesie di Sessioni con l’analista, anticipatorie e più compatte di tanto sperimentalismo italiano, appartengono, a mio avviso, allo stesso fiume creativo innovativo di The sound and the fury di  W. Faulkner, di alcuni momenti dello Ulysses di J. Joyce. Come in quelle operazioni narrative nel poemetto di De Palchi vengono proposti stilemi linguistici consoni alla struttura evolutiva di una comunicazione interiore stravolta dal disagio emotivo. De Palchi percepisce dentro di sé una situazione intrapsichica che si diffonderà sempre più consapevolmente nelle persone più sensibili dal secondo dopoguerra in poi. Sono gli anni in cui l’essere umano, ancora immerso in un contesto frantumato che propaga schegge continue, quasi in modo esponenziale si rende conto dell’isolamento, dell’alienazione a stesso e  agli altri, all’altro. Per inciso la realtà attuale è impregnata di questo sentire nonostante il new deal degli ultimi 50 anni essenzialmente tecnologico e di facciata.

Alfredo De Palchi -7

Alfredo De Palchi

Sessioni con l’analista per chi, come me, abbia avuto esperienze professionali e/o  personali di terapia (anche se De Palchi al momento della scrittura non ne aveva avute, come racconta in molte sue interviste) sa bene che l’accavallarsi di pensieri fra ricordi diversi e momenti presenti, la ricerca della parola che aiuti a dipanare i nodi che si aggrovigliano in colui/colei che si trova in uno stato di disagio esistenziale, di malessere continuo che lo blocca in ogni azione, è esattamente il momento in cui si arriva a chiedere un aiuto psicoterapeutico.

Così cominciano le Sessioni e De Palchi in 23 momenti riporta poeticamente tutta l’evoluzione linguistica propria del processo terapeutico.

La prima sessione comincia con “ – difficile – / dico ” e prosegue con una sorta di elenco di oggetti seguiti da un aggettivo “pietrificato / quanti milioni di anni? –”, questo è proprio lo stato d’animo iniziale di chi comincia un percorso di consapevolezza psicologica. Ogni paziente comincia con parole che esprimono lo stato di difficoltà in cui si trova. Ci si guarda intorno nella banalità quotidiana, ci si scopre rigidi, pietrificati. La volontà di chi è spinto a cercare un aiuto psicologico è proprio quella di muoversi dalla fissità, dallo stallo emotivo e fisico, dalla impossibilità di trovare modi di essere diversi da quelli che fanno star male. E la prima sessione continua con

“non so come, da quale mia geologica età
cominciare: estrarre il magma;
impossibile
cominciare il gergo inconcluso
attorcigliato…….”

Queste sono quasi esattamente le parole di chiunque comincia un iter di consapevolezza interiore. Fantastico l‘aggettivo “impossibile” voluto solitario nel bianco della pagina. Ogni paziente sente che ciò che vuole fare è difficile e va avanti si ferma e poi si dice e dice che è “impossibile” continuare. Il linguaggio dei pazienti in analisi si struttura in un andirivieni fra l’avere coraggio di proseguire per scoprire che si hanno altre possibilità per se stessi e che è proprio quel blocco “bianco….difficile….gelido” che non fa trasformare le parole in un “gergo udibile”.

La seconda sessione dispiega il paradosso dell’“ (incomunicazione) ” e del produrre “frammenti”, termina con un’altra parola preceduta dal prefisso inincompiutezza”. È tale parola la prima goccia dello scioglimento del “gelido” e compare qui anche un’altra chiave comunicativa di ogni paziente: “perché”. “Perché” torna più volte in tutte le 23 sessioni, come torna “la segretaria”, il personaggio pseudo interlocutore delle sessioni. “Perché” è indice del tormento, dell’ossessiva ricerca di una spiegazione che non viene data e che il paziente stesso non si dà.

Nella terza sessione il ghiaccio si è rotto e comincia la narrazione terapeutica dei fatti. Si parte dal passato più lontano, dall’infanzia: “ragazzo timido, chiuso” e poi, ad “esempio”, racconta un episodio chiave per la lettura della persona, l’uccisione non realizzata completamente di un coniglio. Analiticamente parlando il paziente comincia a svelare se stesso. “——- anni dopo il coniglio (dicembre 1944).

Nella ottava e nona sessione l’autore arriva al momento iniziale della consapevolezza: “oggi”, “—incomunicabile—-” entrambi isolati nella pagina bianca. È l’essere umano De Palchi che si svela e il poeta De Palchi evidenzia la significazione profonda col suo stile unico di parole isolate costituenti un unico verso e contenute da linee continue.

Nella nona il “che significa, devo sapere, poi…—–” all’ultimo verso crea la continuità dell’azione e il desiderio di sapere di più e in lui e nel lettore.

I frammenti degli episodi si collegano nella decima e undicesima sessione fino alla tredicesima con  “sesto senso” “attendo il sesto che unisce il tutto” “in unisono—–”,  il sesto senso dell’unicità in De Palchi fino alle opere successive è quello dell’incontro, della comunicazione, dell’unione con la donna.

Nella quindicesima i ripetuti “non capisco” e “non capisci” rivolti alla sua gatta analista ma anche a se stesso e poi “difficile capire” e “non capisci che una parte di me / è oltre la realtà (…)” indicano esattamente il momento terapeutico in cui il paziente inizia ad andare oltre le sue ossessioni e la propria immobilità. Sta finalmente accettandosi così com’è, nella difficoltà di comprendere tutto.

Da qui comincia a reinserirsi nel mondo anche se con “—–la testa ad uovo/ e il corpo a pesce—-

Nella diciottesima viene indicato quale può essere il legame fra i frammenti, “il libro” e arriva la dichiarazione: “la mia comunicazione è stabile—–”. La comunicazione stabile è dunque la scrittura e viene apertamente dichiarata anche al lettore.

La chiusura analitica inizia dalla diciannovesima sessione con i tre versi finali:

“non è ch’io voglia essere capito, nessuno
capisce nessuno: voglio me
in me stesso, il perché del tuo “perché”

Credo che ogni psicanalista o psicoterapeuta vorrebbe un tale consapevole paziente e ogni poeta vorrebbe far coincidere nelle parole scelte il sentire profondo suo che coincide con quello d’ogni essere umano, anche se De Palchi in molte sue interviste nega la volontà di partecipazione ai problemi degli altri esseri umani. Ma De Palchi nella sua esasperata autenticità conferma la chiave di ciò che lo lega agli altri e lo rende esemplare artista. Se si parte dal se stesso profondo, dal focus personale che crea il movimento in vita, non preoccupandosi mentalmente di voler arrivare agli altri, proprio allora ci si mette in comunicazione, anche nostro malgrado, con chi ci ha preceduto, ci seguirà o è a noi contemporaneo. De Palchi uomo non si proclama amante dell’umanità anche se la sua poesia propone situazioni, espressioni, sentimenti che coinvolgono l’umanità e non soltanto nelle poesie erotiche come più volte sottolineato da molti critici.

Dalla ventesima alla ventitreesima delle Sessioni con l’analista la consapevolezza entra anche nella storia di sé ricomposta:

(il barcone della ghiaia
nell’Adige: corpo
primordiale che mi narra:
lievita la scia in cui divento
una lisca
ex pesce——questo
paesaggio d’apocalisse
acqua
pietra
è crudezza essenziale
e il fiume / prima speranza/
non sente non
sa della mia naufraga esistenza
non sente
non sa dell’arcaico presente)——-

nella ventiduesima scrive:“non mi occorrono radici per sapermi / sentirmi esistere(…)”.

Nel corso dell’ultimo appuntamento con “l’analista” il lettore è indotto ad autoanalizzarsi  attraverso il poeta, i versi in essa contenuti, infatti, potrebbero costituire una lunga grande domanda-risposta per ognuno di noi davanti alla realtà interna ed esterna. E potremmo tutti dire alla fine del percorso “—-solo, incomunicato, incomunicabile—-”.

De Palchi non termina il suo inferno-purgatorio come Dante in una visione paradisiaca, ci riconduce nel mondo occidentale che dalla metà del novecento arriva fino al nuovo millennio. L’incomunicabilità, la solitudine, luoghi emotivi e fisici della poesia depalchiana, sono anche i paesaggi dell’attuale era globale, virtuale, in cui la comunicazione autentica e veritiera è ancora apparente anzi può spaventare se diventa trasparenza.

Trovo che l’atmosfera di molta parte della poesia di De Palchi è l’ideale proseguimento della The waste land di T. S. Eliot, a sua volta erede delle visioni di W. Blake e della concretezza marcia di A. Rimbaud. Con la rabbia di F. Villon, a lui molto caro e del quale si riconosce erede, De Palchi, non cercandolo fuori accademicamente ma esclusivamente attraverso l’esperienza personale entra nel mondo del “Thunder rolled by the rolling stars / Simulates triumphal cars/ Deployed costellated wars / Scorpion fights against Sun” eliottiano. Quasi presi a caso dalla rilettura di The waste land  in questi due versi ritroviamo due titoli delle opere di De Palchi, La buia danza di scorpione e Costellazione Anonima. Quest’ultima soprattutto e Reportage (New York 1957) riportano la mente alla prima parte di East Coker e alla seconda parte di Little Gidding dell’opera di Eliot. In Reportage De Palchi scrive:

“sul pietrificato fra macchine autocarri
autobus (sudaticcio afrore
di crematorio) fumo di benzina
nera polvere granulosa
osservo
la elettro-
esecuzione dei colombi che piovono dalle finestre
(…)
la desolazione piatta delle muraglie di vetro
tralicci impalcature
barboni con bottiglia all’ascella
stravaccati su carta di giornale”
(…)
si apre l’industria religiosa:
il mercato è saturo
non c’è spazio
troppa gente vi partecipa
per sociale prestigio
o paura di guerre:
prestigio
guerre
ottimi affari——e voci al megafono:”
In Costellazione Anonima torna quasi ossessiva tutta la polvere di Eliot:
“Polvere dovunque su tutto polvere su ciascuno
su me un cadavere continuo di polvere dal soffitto
sul letto tappeti bottiglie dalle pareti
che mi serrano nella morsa del mio futuro cadavere
già sepolto sotto il cumulo di polvere di questa
polvere che rassodata nello spazio gira su se stessa
e intorno il sistema termonucleare come me cadavere
che rigiro su me stesso e spostato di quel tanto
dal mio centro intorno me stesso:
costellazione anonima.”

La distruzione delle macerie del mondo creato dall’uomo ha già invaso e del tutto distrutto la natura:

“la sequenza di agitazioni distrugge
a catena le forme compatte:

la foglia arsa o verde
tarlata d’insetti sbilancia l’albero che oscilla
crostaceo o in torbo rigoglio all’aria”

(…)

scogli atolli continenti
in tumulto di uccelli e animali senza scampo
nelle nevi e siepi di orizzonti
dei gelidi groppi di abitati
arresi alla non-ragione”

In questi versi anche la musicalità è aspra, piena di suoni sonoramente duri usciti da una gola piena di dolore e rabbia. È una musicalità teutonica, ricorda la musica tedesca del settecento e del novecento ma che ha, altresì, alcune assonanze con la musica dodecafonia. Sì, gran parte della poesia di De Palchi non ha il ritmo delle sdolcinature linguistiche italiane, nonostante sia scritta in italiano. Anche questo rende singolare l’opera poetica di De Palchi.

La voce della desolazione, della rabbia, dell’impotenza nei confronti del potere che ha devastato l’uomo e la natura, assume a volte la forza di Urlo di Munch 5perché diventa l’urgenza di esistere comunque differenziandosi dal contesto o comunque tentando di rimanere appartato dallo sfacelo del mondo moderno. In che modo? Sempre “spostato di quel tanto” fino a descriversi con chiarezza dolente e non assuefatta nella poesia con l’esplicito riferimento al termine eliottiano:

Ho trovato questa analogia prima di aver letto quanto avevano magistralmente rilevato, anche se per momenti poetici diversi, sia Luigi Fontanella che Daniela Gioseffi. Riferendosi a La buia danza di scorpione Fontanella scrive: “Il “no/no/no” risuona come un Urlo (alla Munch) cosmico, rabbioso, che non vale solo per il poeta che ha avuto il coraggio di esprimerlo – ma è un Grido di rivolta per tutte quelle vittime della storia che ebbero a patire crudeli ingiustizie e disumane sofferenze(…) Un Urlo rivolto a tutti, “for all of us, swallowed by pragmatism or apathy, against man’s inhumanity to man- Gioseffi 1996

e più oltre,
vedo me, uomo

la sua agonia di animale
di sentore mortale
di mente s-centrata

che in una stretta si uncina e sulla sabbia
flotta il “Verbo” semplice,
gira sul proprio sangue e si inginocchia
a vedere la finale malevolenza
di sé, uomo sbilanciato dalla voragine
desolata della terra promessa”.

L’attributo “s-centrato” utilizzato per sé in tutta la sua opera sembra operare un tentativo di auto salvazione anche se ammette amaramente:

——-adottato dalla bruttura
e violenza ora
la collera della mia età è uno strappo
di vesti / è l’essenza
entro me lacerato.”

Ecco allora che l’opera nata con una Premessa scritta a Parigi nel 1953 posta ad invettiva e dichiarazione di visione del suo tempo 5] si trasforma in una galleria di visioni apocalittiche.

Altro punto cardine della poesia di Alfredo De Palchi è il rapporto col sacro e con l’idea cristica. La figura di Cristo per De Palchi è la matrice che si frammenta nella consistenza di un uomo. Cristo, vero e proprio perché umano, è nominato più e più volte nelle sua poesia fino al riconoscimento alla consacrazione di se stesso in lui.

Mi
immedesimo in te, Cristo,
spirito incolume della mia religione
carnalmente di bestia umana—- la mia comunione sacra
è la manifestazione di quanto esprimi spezzando il pane
“prendete, mangiate, questo è il mio corpo”
e porgendo vino
“bevete, questo è il mio sangue”.

Mi spezzo, come il pane della cena,
e dissanguo, come offerta di vino—simbolo del sangue
prezioso; sono il carnivoro
il cannibale che lingueggiando divora il suo corpo
e beve il sangue della ferita
perché si ricordi di me;

I versi di questa poesia stigmatizzano il senso dell’esistenza stessa di De Palchi come uomo e come artista. Qui si esprime compiutamente anche da un punto di vista filosofico. Questa poesia è una dichiarazione quasi lapidaria di consapevolezza. L’essere umano cristico, uomo o donna che sia, è isolato dai suoi simili, da lui troppo distanti soprattutto per sensibilità. Perché è indubbiamente complesso, faticoso, soprattutto in un momento storico in cui tutto è delegato alla egoistica visibilità che illude di elevarsi a onnipotenti, scendere dentro se stessi fino a comprendere l’essenza che  rende vivi.

E De Palchi può scrivere tali versi proprio perché è passato dall’esperienza personale e poetica del guardarsi dentro: La buia danza di scorpione, Un ricordo del 1945, Sessioni con l’analista e guardarsi intorno con occhio “s/centrato“ di Costellazione Anonima, Reportage.

Ma per il poeta il sacro non è nella religione, che in alcuni momenti anzi si arrischia a sfidare, al contrario di molti poeti che invecchiando si sono avvicinati alla consolazione di una fede. De Palchi fino agli ultimi scritti del 2009 rimane legato alla religione della natura, della materia, ma non nel senso politico del termine.

Nel Preliminare a Paradigma scritto nel 1950 si succedono fonemi e sintagmi da nascita del mondo:

la genesi—-materia
rivolgimenti indurimenti centrifughi di polvere
gas il fuoco liquefa glaciali rocce
e ancora rassodamenti vapori
una goccia la genesi lunga nella goccia
(…)
genesi senza punto evoluzione senza punto
solo materia—–la nemesi

Nella poesia da cui trae il titolo dell’opera singola Paradigma, De Palchi utilizza un linguaggio quasi filosofico, ci riporta all’uovo primordiale, al senso della conoscenza insito nella metafora del serpente ma anche, forse, dell’ourobus dell’Opera alchemica.

l’occhio della serpe è un qualsiasi dio—-
(….) e con la spirale centripeta spazza
il quotidiano lasciano al raso
il reale più fecondo”
(…)
testa piatta a triangolo a stemma
di religione—-(…)
Ogni uovo di serpe contiene compatto un uomo
qualsiasi, l’uragano è la realtà che fabbrica
il piede: la mano stupenda—–il paradigma

I suoi versi qui, scritti nel 1964, ricordano l’atmosfera di un testo di difficile interpretazione, Favola di W. Goethe.
Fin dall’inizio e poi negli ultimi scritti il sacro di De Palchi si concretizza nella terra, nella donna come origine del tutto. La sua religione si propaga dentro e fuori il corpo femminile. Il percorso linguistico di Essenza Carnale, ad esempio, è costellato di parole che raccontano gestualità tratte dalla religione, anche se il poeta sembra riscrivere questa religione rendendola umana.

aprimi la cerniera, infila la mano
e come all’altare in ginocchio immergi
il viso acceso di sangue nella cesura
adescando abilmente il pesce simbolico a guizzare
nella cognizione della tua bocca che si affida
alla mia profezia:

la messa continua della mensa.”

L’amplesso e la congiunzione religiosa sono emblematiche in tutte le poesie degli anni 2000:

nella tua esistenza di Maddalena in amore
del mio risveglio in un corpo di Cristo” ;
“sono il tuo sacrificio l’agnello”.

Le sue donne carnali e ideali, intuite in profondità oltreché amate per la loro reale presenza, sono, a mio avviso, il tramite che lo conchiude e lo riconduce alla nascita. In questo senso la sua religione personale, nonostante sia uomo vissuto appieno e nel centro del novecento occidentale, lo può far avvicinare a idee e filosofie tipiche dell’oriente, dell’India soprattutto.

“potessi scatenarti nella spiritualità del tuo corpo”;
“religione della tua fluttuazione,
sostenenza dell’ostia splendente sulla mia faccia”;
“avvolgi nell’ideare il mio calvario infiammato
vinto con la religione della tua essenza
carnale—-(…)
riempiti del tuo salvatore” ;
“uguale al serpe ti assorbo intera
e tu da madre terraquea
chiami alla nascita il mio ritorno nell’aurora
del grembo, la dimora
di ascendente devozione per lo spirito in frammenti.”

Qui la donna è sì concreta ma anche madre, forse la Grande Madre che contiene la natura e gli esseri umani e che lascia traccia di se stessa in modo più visibile nella femminilità.
Come non avere la sensazione dopo aver letto i versi precedenti che per De Palchi ogni donna reale, che può essere anche stata amata dal poeta, è poi trascesa proprio attraverso la sua carnalità? È trascesa ma non per essere angelicata, come avrebbe inteso un epigone della poesia petrarchesca di cui la poesia italiana ancor oggi rigurgita preferendo quello stile alla crudezza, a volte anche blasfema di Dante.
Con gli anni la visione della donna nella poesia di De Palchi è diventata l’ostia necessaria all’uomo per sentirsi più umano. Già nelle Viziose avversioni scritte fino al 1996 la sua idea della donna era chiara, “ogni oggetto inanimato o animato è donna,”, anche se spesso con immagini ambigue e negative. Successivamente la femminilità si amplifica diventa Essenza Carnale perché la compagna donna che De Palchi recita è il suo stesso femminile, la sua sensibilità stordita dalla morte del coniglio nel ricordo iniziale delle Sessioni con l’analista, poi da “il tonfo del gatto”, dal pudore che deflagra all’interno di se stesso “Spasimo scoppio / erompo sesso in aria / rimanendo zitto.”

La donna diventa l’anima sangue da ingurgitare, da lasciarsi ingurgitare per diventare più totale.
Questa è forse la chiave per comprendere i versi erotici depalchiani che non sono mai volgari nemmeno quando descrive amplessi e ricorre a parole vividamente comuni. Le sue costruzioni poetiche erotiche sono fiumi in piena di anima, sangue, cervello dell’uomo De Palchi.

Tremando entro la circonferenza dell’amplesso
esponi lo spirito acceso
a bocca che ansima; mi prendi nella sua cavità, vuoi
che la scopi e raggiunga
il profondo della sua gola; vuoi
che il tuo sesso sia scavato
quando dici “sfondami tutta, completami
—– il colloquio reciproco è il gioco
utile per invigorirti del tuo stesso assioma.

Mi piace citare a questo proposito quanto scrive il critico John Taylor, lettore e studioso acuto dell’opera di De Palchi: “De Palchi’s erotic vision nearly always goes beyond the corporal per se. Present in his erotic poems is a cosmic dimension, an experience of amorous union and the epiphanies of pleasure surely, but also a yearning for the primeval, the primordial, the ab-original.”7
Aspetto fondamentale per comprendere Foemina Tellus, l’ultima opera al momento pubblicata, è il rapporto di interscambiabilità fra donna e terra già presente in Essenza Carnale:

la luminescenza in evoluzione del sole scoperchia
e alimenta di energie le radici terragne
quanto la trasparenza coniugale della tua vena
con luminosità accecante mi contatta nutrendo la radice
concretamente buia——
séguita a custodire ogni
senso di sensualità che ci possiede insieme
nella derisione nella melma nella depurazione
ed infine nell’intimo sconvolgimento con la coscienza
di che si ha e di che si è;”.

Se ci si addentra nella lettura delle poesie di Essenza Carnale e poi di Foemina Tellus sembra di entrare in una galleria di quadri di Tiziano, di Courbet, anzi soprattutto di quest’ultimo. Come il corpo femminile indagato da Courbet possiede una componente erotica tanto marcata da scuotere la sensibilità della classe benpensante del suo tempo ma anche di ora (emblematico L’Origine du monde), così le poesie della passione amorosa depalchiana scuotono la morale ma anche l’abitudine dei critici perché mostrano l’essenza terrestre, lo scontro incontro sessuale non scissi ma integrati verso una ricercata spiritualità. Il sesso è rappresentato naturale, sublime e innocente, origine del desiderio della vita.

Averti come sei—-
lo straccio addosso con spigliatezza
e gioielli di avena
con il papavero che infuoca le spighe
attorno le forme collinari e le valli

qui oso fermarmi
sgolo di potenza
e tu mi raccogli nella ramaglia

o nel vorticare intorno
a quella vulva che ingoia
crescite e pianeti

e sprofonda il tremore terrestre
nell’ovulazione del tuo ventre.

In questa poesia ci sono i due passaggi concentrici della spiritualità di De Palchi: dalla terra, “i gioielli d’avena”, il papavero, le spighe, le colline e le valli, alla donna carnale che concentra su di sé il centro del mondo “o nel vorticare intorno / a quella vulva che ingoia / crescite e pianeti”,
e sprofonda il tremore terrestre / nell’ovulazione del tuo ventre.”
L’amplesso con la donna è la messa e la mensa e soltanto il maschio-uomo, consapevole della sua cristicità non fideistica, tramite questo rito può diventare parte di una religione tutta al femminile in cui continua a vivere la Grande Dea dal cui ventre nascono il mondo, le religioni.
In Foemina Tellus il poeta dispiega completamente il suo credo: “il leitmotiv mi accompagna al ventre / accogliente di Kundry: / vita terra spirito Cristo.”
Il verso “all’ape /del miele che sei”della poesia a pagina 49 sintetizza in modo unico una donna frutto essa stessa di quella terra espressa qui con la metafora dell’ape.
In questo libro le poesie più direttamente legate alle donne hanno anche un chiaro profilo di aspra ironia sempre presente in tutta l’opera di De Palchi.

Cane fedele

ti seguo con le infedeltà
mentali, corpo vivo
nel tuo sorretto dalla costola
che non ti ho dato

gif-video-di-citta

In più mi sembra di scorgere qui una sorta di rifiuto ad aderire completamente al loro potere che coinvolge il suo desiderio.
L’ironia e la rabbia, la crudezza, non certo la rozzezza caratterizza la poesia di De Palchi e assume, infine, una connotazione evidente nei testi in cui il poeta si permette di dialogare con l’ultima grande femmina che attende uomini e donne, la Morte.
E qui intendo parlare proprio di dialogo nel senso etimologico greco del termine -parlare restando separati – e non di colloquio – parlare per cercare un punto in comune – termine con cui il poeta stesso aveva espresso il suo rapporto con la donna.
Una delle poesie di Foemina Tellus in cui viene dichiaratamente espressa la singolare cristicità della sua religione tanto carnale ma oramai proprio per la carnalità, quasi rabbiosa, è quella di pagina 51, una sorta di iscrizione tombale del calvario dell’uomo Cristo. Qui il poeta diventa il commosso soccorritore dell’agonia di Cristo “con la scodella ti lenisco / la lingua tra il rottame nella bocca(…)” e il crudele osservatore di donne Maddalene, “capre nere che espiano la trasgressione / per avere la passione / profana di essere.

La rabbia ha il linguaggio tipico di tutta la poesia di De Palchi ma è una rabbia che include una volontà di purificazione. Il verbo spurgare ritorna più volta nel libro: “per spurgare il seme reietto / e il salivare schifoso” a pagina 38 e “bestia umana (…)/ storia che spurga in rantolo” a pagina 51.
La stessa rabbia si indirizza poi, definitivamente, ad un mondo oltre, l’inferno costruito da De Palchi per tutti i suoi persecutori contenuti nella sezione Le déluge, e alla morte a cui dedica due sezioni del libro, Contro la mia morte I e Contro la mia morte II.
Il poeta si lega alla morte in assoluta privazione di sé e con gli stessi sentimenti che l’avevano visto in giovinezza gridare contro il mondo anche se spesso qui utilizza un autorevole armonioso sarcasmo.
Si rivolge alla “passionaria” con: “il mio corpo, per te / mai abbastanza freddo da leccare”; “hai ossi sgangherati / l’odio indifferente della falce / alle mie gambe rapidissime”; la vulva diventa “chiavica”e lui arriva a dirle “ma ti corteggio con la promessa / che nel lontano futuro sarò tuo”.
La morte è “ospite non gradito”eppure verso la fine la rabbia contro di lei sembra placarsi:

sono tutti defunti
davanti alla tua tenace bruttura
che dalle quinte opera
la potente libidine,
una brezza che ondeggia il vestito
tra le cosce e traccia il rilievo
della tomba sacrilega
che attrae
e mi distrae verso….”

Uomo e donna in tutta la poesia di de Palchi pur incontrandosi mettendo a nudo ogni particella del loro essere natura umana e animale dispiegano le loro peculiarità concrete ma difficilmente i particolari hanno a che fare con la specificità, direi con l‘unicità di una donna se non per ragioni di scrittura. Ogni donna per De Palchi rinnova l’incontro col suo eterno foeminino e in Foemina Tellus egli esprime il femminile maturo all’interno di un uomo maschio. Qui lo scontro, la lotta, la volontà di combattimento fra natura maschile e natura femminile si tramuta poi del tutto all’indirizzo della Morte.

Ma qual è l’origine di questo complesso paradigma De Palchi?
Io ho avuto la fortuna di conoscerlo, di condividere corrispondenza, conversazioni a telefono, a qualche tavolo di ristorante, seduti in qualche salotto o passeggiando insieme e poi di diventarne amica. In queste occasioni Alfredo mi ha più volte ripetuto che “la poesia esce dalla realtà delle nostre prime intuizioni di famiglia”, che “occorre l‘immaginazione in poesia ma senza l‘esperienza delle varie vicissitudini la poesia è arida”. Io aggiungerei che l’artista autentico non si pone il problema di fare la storia della cultura, l’artista autentico sente profondamente ciò che fa, segue le proprie esperienze di vita non le predispone. È nel suo tempo ed è protagonista di se stesso. Più profondamente e intensamente sono avvertite le esperienze più la comunicazione verso gli altri non rientra nei limiti temporali della sua vita.
Per De Palchi, allora, non è possibile non ricordare e collegare la sua opera alla prigionia vissuta fra adolescenza e giovinezza, alla nascita da una donna nubile.
Le poesie dalla prigione contenute ne La buia danza di scorpione, sono poesie che toccano il nerbo vitale dell’esistenza umana.

Ogni donna abusata, stuprata fuori o all’interno della famiglia, ogni bambino lesionato da ferite fisiche e psichiche, ogni donna o uomo perseguitato per ragioni politiche, religiose o comunque di diversità all’interno dell’organizzazione sociale, non può non sentire suo il senso della ribellione e dell’impotenza con parole simili a quello scritte a vent‘anni da Alfredo De Palchi :

Mi condannate
mi spaccate le ossa ma non riuscite
a toccare quello che penso di voi:
gelosi dell’intelligenza e del neutro
coraggio aggredito dal cono infesto
delle cimici

——-io, ricco pasto per voi insetti,
oltre l’ispida luce
vi crollo addosso il pugno

Chiunque sia passato da una esperienza di segregazione causa l’abuso di potere degli altri o anche solo se l’avverte empaticamente in chi si trova in quella situazione, ha vivo il senso profondo di questi versi che definirei di nudità mente-corpo:

Fra le quattro ali di muro
circolo straniero a pugno
serrato—-non ho amicizie
non mischio occasionali smanie
con chi le persiste
e siccome ognuno impone
il proprio mondo a chi perde
non si chieda cosa avviene:
la parola è nella bocca dei forti

È questo sentire che gli permette di auto considerarsi Villon redivivo, utilizzato a epigrafe di ogni opera poetica, “solo c’è luogo / nel cranio di Villon”.
De Palchi prigioniero: “Arso dalle azioni di chiunque (…)” impara che la vita “disfa la vita fruga / interpreta le ragioni forma e scombina / codici irrazionali”.
È qui e così che comincia la scrittura poetica e sul muro:

Si decentra la notte sul muro si decentra
michelangiolesca
la lesione d’occhio

la cella costringe silenzio
si spacca il silenzio alle sbarre e il trauma
è combustione

——-io
groviglio di piedi e mani
prevenendomi
farnetico perfezione

urlo al muro il muro
assorbe da me l’eco risponde
alla sagoma straniera

alfredo-de-palchi-1

Cover della monografia di prossima pubblicazione sulla poesia e la personalità di Alfredo de Palchi a cura di Giorgio Linguaglossa

Mentre leggevo questi versi ho avvertito immediato il ricordo di altre parole di dolorosa impotenza, quelle del Nobel C. Kavafis nella poesia I muri “Senza riguardo senza pietà senza pudore / mi drizzarono contro grossi muri (…) / murato fuori dal mondo e non vi feci caso”8.
In cella l’isolamento, il sentirsi “s/centrato” rispetto alla comunità umana consente a De Palchi l’approfondimento interiore ed artistico.
I suoi scritti di prigionia parlano agli abusati ai violati di ogni epoca, il suo vocabolo s/centrarsi mi ricorda “lo sguardo estraneo” di cui ha parlato H. Muller la Nobel 2009. Anche quest’artista esule, violata di continuo nel privato attraverso i servizi segreti della sua nazione, accusata soltanto per la sua onestà di donna e artista, racconta di aver acquisito un modo di rivolgersi al mondo che sollecita a non considerare soltanto proprio degli artisti “una sorta di tecnica che distingue chi scrive da non scrive”9. Nello stesso poco più avanti precisa: “Col fatto di scrivere lo sguardo estraneo non c’entra niente, c’entra con la storia personale” “Per me estraneo non è il contrario di noto è il contrario di familiare”. Lo sguardo estraneo “è un atteggiamento provocatorio” acquisito dalle situazioni dolorose e che presuppone uno stato di difesa continua.

Questo atteggiamento di difesa e provocazione è proprio, a mio avviso, l’atteggiamento di De Palchi uomo e artista.
De Palchi ha attraversato tutto il secondo novecento sia storico che letterario e ha vissuto in prima persona tutte le sue assurdità, offese, deliri. Le ha poi superate attraverso il vivere fuori dal luogo d’origine, in un mondo da lui scelto ma dentro il quale si è continuato a sentire s/centrato. Il suo sguardo in poesia è uno sguardo lancinante, estremo, lucido, sensuale, potentemente tagliente. C’è la spada e a momenti anche l’ambrosia nella sua poesia.
La sua sensibilità gli ha fatto approfondire ogni aspetto della vita, foglie, pietre, acque. Nata dal dolore e nel dolore De Palchi già in cella attraverso ore e ore di lettura e poi di scrittura ha trasformato la sua vita di fuori in un grande muro su cui incidere se stesso.

Vagabondo notturno nelle vie di Parigi quando arriva a New York, sua residenza definitiva, anche se inframmezzata da anni in Spagna e dalle frequenti visite in Italia, De Palchi entra nel pieno brusio, formicolio della consolidata moderna civiltà occidentale captando l’essenza materiale che lo circonda, l’atmosfera di alienazione, di confusione “Brulica la spiaggia / si condensa di cicche, fumetti / carta velina unta, ossi succhiati di pollo / mezzi panini bottiglie lattine/ centinaia di canestri vuoti”; “come si può accettare la storia, la storia / quotidiana, assuefarsi ai grandi e piccoli / insulti”.
Nella vita e nella poetica egli ha ricostruito la propria seconda adolescenza murata viva e lo ha fatto attraverso l’aria, la terra, la donna. La sua poesia si è riempita degli incontri notturni con i clochard, con le bottiglie di plastica sulle spiagge, delle offese ai neri di New York, ma anche degli incontri con gli intellettuali milanesi degli anni ‘50 e ‘60.

De Palchi ha ricucito le cicatrici ancora oggi tipiche del mondo moderno, l’immigrazione, la detenzione, la difficoltà esistenziale di un mondo desolato e desolante sia personalmente che socialmente. È il mondo di un’umanità troppo maschilizzata nel suo modo di essere, maschilizzata come principio che purtroppo è diventato vivo anche in molte donne. Un’umanità che non dovrebbe più avere la necessità di violentare la donna e la terra ma di rientrare, immergersi in essa per ridestarsi rinnovata nel suo ventre. Esattamente il principio ispiratore della poesia di Essenza Carnale e in parte di Foemina Tellus. È l’acqua che comincia i suoi scritti, “l’Adige” che li accompagna in mille forme fino agli ultimi anni, è il pesce, i pesci, i molluschi nel quale si identifica, è l’acqua delle vagine femminili nella e con la quale gli sembra di poter rinascere.
De Palchi ha guardato e continua a guardare se stesso e il mondo tutto in disparte. Anche la scelta di utilizzare la lingua d’origine nonostante viva da più di cinquant’anni negli Stati Uniti è una scelta da eterno estraneo ovunque. In poesia continua a osservare, riflettere, elaborare da s/centrato rispetto al modus letterario italiano. Sì perché la nettezza naturale, il lindore scevro da intellettualismi, tipico di gran parte della poesia composta nell’Italia contemporanea concepita spesso con intenti autoreferenziali o peggio per logiche di potere culturale e politico, nascono anche dal vivere fuori da questi circoli. Il nostro “apolide anarchico” artista De Palchi ha vissuto così il destino comune di molti grandi poeti troppo a lungo dimenticati, evitati dalla diffusione editoriale come Dino Campana e Lorenzo Calogero, o famosi come Ungaretti, Quasimodo, Caproni, letti per anni e poi abbandonati senza amore preferendoli ai deserti poetici dei giorni nostri.

De Palchi ha una forza letteraria, un’etica e una poetica non espropriabile da nessuno. La forza artistica è intimamente connessa a quella che gli è derivata proprio da chi a lui ha dato la nascita e lo ha formato ai fili esistenziali fondamentali, alle radici della vita, sua madre.
Non può essere compreso appieno il suo rapporto col femminile, con la Donna, la terra, la religione di “un cristo” fra gli altri se non si risale come lui stesso ha detto “alle prime intuizioni in famiglia”.
La madre nubile di De Palchi (supportata da un nonno atipico per l’epoca) è colei che ha lottato contro la mentalità del tempo per tenerlo in vita fisicamente e che l’ha nutrito ad una scala di valori forse più appartenente al futuro che ai primi del novecento.

Vorrei concludere con le parole a me scritte da De Palchi in una delle prime lettere della nostra corrispondenza. Sono parole che confermano quella che chiamo la sua avanguardia mentale in tema femminile:

“La famiglia con il potere del capo famiglia si sta sgretolando per sparire. Rimarrà ancora per secoli in quelle nazioni primitive o medievali. Il capofamiglia, contadino, operaio, borghese o signorile si esprimeva, chiedeva il potere del comando, spesso con la frusta in mano; la donna con le chiavi degli armadi comandava in casa ma non poteva uscire, era considerata proprietà riservata, col trascorrere degli anni si trasformava in donna disamata, strega vecchia anzitempo e impotentemente cattiva verso i figli che tacitamente erano accusati di aver distrutto la sua giovinezza, la bellezza, il suo potere di donna. Le donne intelligenti amorose, capaci e con l’idea del potere femminile erano le cosiddette concubine, le mogli morganatiche, le bellezze dei salotti soprattutto letterari e quelle considerate puttane. Le donne oggi sono professioniste, hanno capacità professionali da farsi invidiare dagli uomini, hanno la bellezza folgorante ben in vista, non si nascondono, eppure, nonostante il progresso delle varie società, gli uomini le giudicano leggere se non puttane” .

(Gennaio, 2011)

1 Luigi Fontanella La parola transfuga 2003, 175
2 Alfredo De Palchi A Non Conformist Italian Poet in New York City (Contemporary Italian American Writing, 1999)
3 Alfredo De Palchi La potenza della poesia (Saggi a cura di Roberto Bertoldo Edizioni dell’Orso, 2008)
4 Le citazioni delle opere di De Palchi sono tratte da Paradigma (Mimesis-Ebenon 2006) e Foemina Tellus  (Edizioni Joker, maggio 2010).
5 Mi è piaciuta molto la citazione di Marina Cevtaeva che Gabriela Fantato pone all’inizio di un suo scritto sull’opera di De Palchi “la contemporaneità del poeta è in un certo numero di battiti del cuore al secondo, battiti che danno l’esatta pulsazione del secolo –fino alle sue malattie (…) nella consonanza – quasi fisica, fuori del significato –con il cuore dell’epoca” Per la poetessa russa il poeta non è “specchio” ma “scudo” del suo tempo, poiché è colui che dà “battaglia” agli anni, a meno che non sia mero “portavoce” di interessi particolari o di un gruppo politico (e non, aggiungerei io N.d.a), ma in questo caso non è un grande poeta. (Versi incisi nella pietra –Cfr. nota 3). 
“ATTRAVERSAMENTI” Progetto ideato e realizzato da Adam Vaccaro – Milanocosa, con la collaborazione di Gabriela Fantato – La Mosca di Milano

Antonella Zagaroli poetessa

Antonella Zagaroli

Antonella Zagaroli è nata a Roma nel 1955. Opere letterarie: La maschera della Gioconda plaquette (1986) e libro (prefazione di Walter Pedullà Crocetti, Milano, 1988) che rispetto alla plaquette include anche i poemi Pi greco quinto e Coiffeur distratto; Il Re dei danzatori poema teatrale con musiche originali presentato a Roma e Provincia (1992); Terre d’anima, (1996); Come filigrana scomposta – racconto d’amore tango e poesia andato in scena a Roma nel 2001 e dopo la sua pubblicazione (2008) di nuovo a Roma e provincia; La volpe blu, prose poetiche e racconti (2002); Serrata a ventaglio (Roma, 2004); Quadernetto Dalìt saggio e reportage sul lavoro di volontariato fra gli intoccabili indiani poi tradotto in inglese col titolo Dalit Notebook Thoughts and Poems- An experience in India-, prefazione Vincent Arackal, attuale vescovo di Calicut India (2007; Venere Minima romanzo in versi e prosa (2009; Mindskin A selection of poems 1985-2010 con nota di Alfredo De Palchi e introduzione e traduzione di Anamaria Crowe Serrano (Chelsea Editions New York, 2011). Con Alfredo De Palchi il duetto poetico intitolato Intuire come possedere – Corrispondenza in versi (Italian Poetry Review volume VI, 2011 pubblicato nel 2013). In collaborazione con la fotografa Mariangela Rasi le raccolte La nostra Jera (Roma, 2010) e Trasparenze in vista di forma (Verona, 2013) nonché col pittore De Luca le istallazioni poetiche della breve raccolta Al di là d’ogni luce in mostra da Settembre a Dicembre 2012 a Pienza, da poco giorni riproposte in rete gratuitamente, con la Onyxebook, insieme a Serrata a Ventaglio. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia italiana a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura,, 2016).

In qualità di traduttrice ha finora pubblicato alcune poesie da Suicide Point dell’indiano Kureepuzha Sreekumar (Hebenon aprile-novembre 2010), la plaquette One Columbus leap, (Il balzo di Colombo) della poetessa irlandese Anamaria Crowe Serrano (Roma, 2012) e Hosanna – Osanna raccolta di epigrammi di Louis Bourgeois, poeta e scrittore statunitense (Trento, 2014). Le sue poesie sono apparse su riviste italiane, francesi, inglesi, americane e ultimamente anche su diversi blog italiani e stranieri. Alcune sue opere sono presenti nelle biblioteche di Londra, Budapest, Dublino e nelle università americane di Yale, Standford, Columbia, Stony Brook.

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Archiviato in critica della poesia, Poesia italiana anni Sessanta, poesia italiana contemporanea, poesia italiana del novecento

Luigi Fontanella POESIE La morte rosa (2015) con una Premessa dell’Autore, uno stralcio della prefazione di Maurizio Cucchi, una recensione di Elio Grasso e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Per andare alla ricerca dell’autenticità

Luigi Fontanella vive tra New York e Firenze.  Ha pubblicato libri di poesia, narrativa e saggistica. Fra i titoli più recenti: L’angelo della neve. Poesie di viaggio (Mondadori, Almanacco dello Specchio, 2009), Controfigura (romanzo, Marsilio, 2009), Migrating Words (Bordighera Press, 2012),Bertgang (Moretti & Vitali, 2012, Premio Prata, Premio I Murazzi), Disunita ombra (Archinto, RCS, 2013), L’adolescenza e la notte Passigli, Firenze, 2015. Dirige, per la casa editrice Olschki , “Gradiva”, rivista internazionale di poesia italiana (Premio per la Traduzione, Ministero dei Beni Culturali, e Premio Catullo) e presiede la IPA (Italian Poetry in America). Nel 2014 gli è stato assegnato il Premio Nazionale di Frascati Poesia alla Carriera. luigi.fontanella@stonybrook.edu

PER ANDARE ALLA RICERCA DELL’AUTENTICITÀ

Premessa dell’Autore

Ho scritto questo poemetto nell’agosto del 2014 a Long Island, dove abito la maggior parte dell’anno. Ha avuto una stesura vertiginosa, con un’articolazione che, a rileggerla oggi, sento vagamente circolare. Le singole stanze che compongono questa “circolarità” sono state scritte per lo più di notte, in stati di dormiveglia, semionirici, o ipnagogici. In questo senso, si riallacciano all’humus delle poesie raccolte nella seconda parte del mio libro più recente (L’adolescenza e la notte, Passigli, 2015).

Il titolo di questo poemetto ricalca chiaramente quello, omonimo, di una poesia di André Breton del 1932, che da più di quattro decenni, cioè fin dalla prima volta che la lessi duranti i miei anni universitari, non ha mai smesso di contagiarmi, di infestarmi (uso il verbo hanter proprio nel senso che gli attribuisce Breton nelle prime righe di Nadja).

(L.F.)

Il mare, l’amore, la morte… Il libro, la vita, la piccola farfalla che va… Esserci per una volta, e dunque per sempre, iscritti per sempre nel tutto… Luigi Fontanella ci offre, tra questi e altri innumerevoli segni di presenza e confine, un canzoniere compatto e delicato, insieme trasparente e ambiguo, come è in fondo, quotidianamente, la nostra umana esperienza. Sceglie di descrivere, di narrarci qualcosa, una breve vicenda, un liquido racconto dove sensibilità e presagio si sovrappongono, dove il tessuto è una composizione fondata su contrasti e ossimori netti eppure attutiti dalla pronuncia, tra fisicità e sfumature oniriche, tra eros e sparizione, tra abbandono e volo. Questa morte rosa, nuovo e sorprendente capitolo della poesia di Luigi Fontanella, è un felice esempio di meditazione lirica, di pensiero vissuto nel molteplice corpo delle immagini.

(Maurizio Cucchi, dalla Prefazione a La morte rosa, Varese, Stampa 2009, 2015)

*

Dopo molti anni passati a esplorare i territori e le geografie dove la polarità della poesia si esprime fra gentilezze astuzie e beneficiari, con una lingua fra correnti e controcorrenti, Fontanella trova un mondo risorto di amori e romanticismi molto ben governati. C’erano fenditure e riflessioni voraci sul lungo corso del tempo, che sempre è mischiato ai viaggi in treno e in aereo. E dialoghi cercati pur nelle asimmetrie dei colleghi poeti (collegati attraverso riviste e libri transoceanici), in una grande macchina un po’ surrealista un po’ sistematica, molto riconoscibile per come sono stati i recenti decenni. La memoria comanda e gravita su tutto, e in quest’ultimo lavoro, messo in stampa nell’elegante plaquette curata da Maurizio Cucchi, la forma elegiaca arreda l’incontro/distacco con la donna bretoniana incontrata sulla spiaggia e poi perduta fra le stelle: discese come fossero l’unico bagaglio possibile durante il viaggio. Il pulviscolo terrestre e siderale delle 16 stanze de La morte rosa immerge in una nuvola spessa ma praticabile l’amata figura. Colei che cerca “l’oriente incontaminato” infine viene presa nell’appassionata esposizione del poeta. Vi trova ragioni corporee, da tempo latitanti, in un contagio ultra-terrestre a cui non manca proprio nulla dei tremori e fervori notturni di quel Luigi Fontanella, amante amato e disamorato, incontrato per quasi mezzo secolo nell’epica calda e stramba della poesia italiana. Dopo l’educazione sentimentale filtrata dalla Nadja di Breton, in questi versi il desiderio espande una potente conquista, con tattica metrica e sonora, lasciando al passato le tentazioni fonetiche di americana memoria. Ecco perché, in regime di bene necessario, la poesia arriva subito. Incontrastata. Come nella coraggiosa e sostanziale stanza di pag. 12: “… Parole ignote escono dal libro / dei tuoi passi, ogni pagina / un incanto a volute di serpente…” Si tratta di una vicenda notturna, al limite del sogno, o la traiettoria simile a quella di Gagarin che vede improvvisamente come i colori fondamentali della terra siano l’azzurro e il blu? Entrambe le ipotesi, per inciso, intuendo come il colore fondamentale del corpo amato sia il rosa, in vita e in morte. La grazia erotica ha questi fenomeni, rimpolpa con la scrittura l’assenza che colma le nostre dimore, a ogni ora e soprattutto nelle ore precedenti l’alba. Il dormiveglia di Fontanella, se crediamo a quanto confessa nelle note, è una generativa virtù costituente, anche gravida di languore o attesa di un corpo da fecondare. Nell’orbita che proviene dal fanciullo antico, l’intuizione riesce a dare un nome all’improvvisa presenza femminile. Il poeta sa prenderla, e sa di tenerla fino a quando il pugnale si muove come una frusta, fino al contro tempo inevitabile della parola “fine”. Basta pronunciarla, scriverla, tracciarne il cerchio, e tutto può ricominciare.

(Elio Grasso, in “Poesia”, n. 311, gennaio 2016)

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Per andare alla ricerca dell’autenticità

Ogni volta che mi accingo a leggere una poesia mi viene in mente il monito di Montale quando scrive che «resta sempre dubbioso in quali limiti e confini ci si muove parlando di poesia», dato che «molta poesia d’oggi si esprime in prosa. Molti versi d’oggi sono prosa e cattiva prosa». Dopo la lettura di questa plaquette di Luigi Fontanella io oserei dire che qui ci troviamo davanti ad un testo di poesia, il perché non saprei spiegarlo, non si tratta di una deduzione di tipo scientifico, ma di una «adesione», un lampo. Del resto, chi fa critica si trova ad essere una specie di rabdomante, tutti si aspettano che egli sappia dare dimostrazione esaustiva de il «perché» di un’opera di poesia, e «perché» proprio quella è un’opera di poesia. Ebbene, io dico semplicemente che non c’è un «perché» e se c’è io non sono in grado di spiegarlo con metodi di attendibilità scientifica, posso però fare un meta discorso sulla poesia. Del resto, non credo che interesserebbe a nessuno entrare in queste questioni fuori moda come il carattere estetico di un’opera di poesia, questioni che sono uscite fuori dall’orizzonte di attesa dei contemporanei. E passiamo ad altro.

I testi di questa plaquette si susseguono come una meditazione in chiave elegiaca sulla vita e la morte, sull’istante in cui c’è un «Libro aperto di chi ha tolto / il segnacolo a caso. Improvvisamente». L’autore dice che li ha scritti in stato di «dormiveglia»; in effetti, sono testi scritti in quello stato nel quale il controllo della coscienza vigile si assottiglia e le parole possono tranquillamente uscire dal sonno che le avvolge. Qualcosa è tolto. Allora, ciò che resta (il «resto» lacaniano derridiano) è quello che non volevamo riconoscere. Per andare alla ricerca dell’autenticità, bisogna togliere qualcosa, togliere e togliere. Il momento in cui qualcosa è tolto, è ciò che resta, e illustra molto bene, senza parole, ciò che se ne è andato. Soltanto ciò che è perduto può essere ritrovato, ma quando lo abbiamo tra le mani, ecco che ci accorgiamo che esso è un «resto», un residuo di ciò che non c’è più. Soltanto così possiamo riconoscere la «Cosa».

Questo di Fontanella è un discorso su ciò che «resta» senza parole nel momento in cui qualcuno o qualcosa ci viene tolto. Il «tolto» ha il segno (-) (meno), indica una sottrazione (e una sostituzione). Il paradosso della poesia è quel voler dire in parole ciò che dovrebbe essere detto con il silenzio. Ma le parole sono pur sempre un segno «meno» o «più» rispetto al silenzio. Appunto, «La morte rosa» è una metafora per alludere a quello stato di abbandono, di «sogno» «sott’acqua» che ci rivela molto di ciò che avviene in superficie, come è scritto nel finale dell’ultima poesia dove

Ogni cosa
è immobile e trasparente, in questo
istante ultimo, in questo
Tutto che pronuncia la parola FINE.

 

LA MORTE ROSA

                               Tu arriveras seule sur cette plage perdue
                               Où une étoile descendra sue tes bagages de sable.
                                  André Breton

(agli occhi di Emma)

*

Tu cerchi un oriente incontaminato
viaggiando su ali di ciglia,
ritmo azzurro
che lascia una scia spumosa!

Passeggeri si raccontano
le loro case, perdite e guadagni,
come fossero già disegni,
sinopie offerte in dono.

*

Le mani sono state abbandonate
e ogni allarme è un’eco
sigillata in bocche di stoppia.
Ho contagiato, forse, chi non volevo.
Mia l’illusione di una piccola
avventura con bambole,
bambole che aprono e chiudono gli occhi
automaticamente.

*

Ti ammiro come la sciarpa
muta che hai al collo.
Tu felice nella tua morte rosa
avanzi, riprendi la corsa. Tu viva
in questa danza, come nella maestria
d’un direttore d’orchestra che diriga
sulla cima d’una montagna
spaccata a metà. Tu adagiata,
come lieve carezza su un quadrifoglio,
sopra una mia lacrima,
sopra questo foglio arcobaleno,
qui
in questa sera vera e non vera.

*

Amata,
i tuoi seni sono come bandiere.
Parole ignote escono dal libro
dei tuoi passi, ogni pagina
un incanto a volute di serpente.
Sei infine qui, mia amata,
qui, dico, accanto a me. E ridi
a cavallo di un cono azzurro.
Un incanto le tue mani
che stanno per mutarsi in rondini.
Ogni istante sarà frantumato
nell’immobilià degli occhi.
Il nostro bacio è cascata
d’acqua che riscatta
il miracolo dei sopravvissuti.

*

Là in fondo a quel vortice
dove i presagi hanno il loro
compimento, dove il sigillo
dei compagni si arena sulle labbra di ognuno.
Ogni speranza è morta
su una farfalla priva di un’ala.

Ora il cuscino è solo un’onda
senza risacca, dove ogni suono
ha perso la sua ripetizione.
È allora che l’Eternità sposa il Silenzio
e la mano di una bambina
accenna un saluto di là dal vetro.

*

Avventura in una menzogna,
stirpe che si ripete. L’ago
segna la rotta
sulla tua fronte intatta.

Puro latte discende dal miracolo
ch’è nascita e caso, ignoto a tutti
tranne a te stesso che l’hai perpetuato.
Tu, umano, che lo perpetui ogni giorno.

*

Il corpo riceve la grazia
nel suo desiderio giornaliero.
Mima l’eroe, il battito
d’ali infinito. Sfida
la morte rosa, martire o uccello volato
via dalla sua gabbia. Tutto
in un limite reale
o in un’illusione.

*

Portami in riva al mare, poesia.
Assaggia il mio corpo
e dagli un’alba,
un’ebbrezza di confine.

Rinasce in bocca a un infante
la sua prima sillaba
la sua piccola mano abbandonata nella tua
rimpolpa l’oblio
come la spuma imperiale del mare
offre un docile abbandono,

sonno

sparizione

volo.
*

La bellezza e l’incoscienza serena
di un volto… come ad esempio
sotto un improvviso acquazzone estivo
e subito dopo il cielo che diventa nitido
sopra i tuoi denti. È distante
il mare insidioso. Riprendo
la tua mano nella mia, qui
sulla spiaggia svuotata.
Quest’immagine vista da lontano
è forse una promessa
o forse una preghiera.

*
Una volta ho incontrato il mio gemello.
Fra due traiettorie, adesso
si consuma il tuo andare:
foglia smarrita nella sua caduta
già morta. Abbiamo fratelli
da ripudiare o riedificare
qualcosa nascosto in un libro
o in angolo della vecchia casa
dove, bambino, andavo a nascondermi.

*

Ora che l’inchiostro subito sbiadisce
ogni cataclisma resta bloccato
allo schioccare d’una frusta.
Il pugnale s’arresta nell’aria.
Sempre, ognuno di noi,
è un potenziale assassino.

*

Sott’acqua sogno un’altra vita.
Il giudizio è un collante
che aspetta l’ultimo venuto.
Viaggiare trasformato in fiume
o farfalla sapiente e immemore.

Si ritrovano in una mèta mai
calpestata. Il libro è
quest’alternarsi dei giorni.
Libro aperto di chi ha tolto
il segnacolo a caso. Improvvisamente.

*

Amo quei viaggiatori
che dormono sull’acqua
o accasciati in treno, come Aghios,
occhi socchiusi in un sogno infinito.
Pesci volanti, bambole, murene, silos:
a voi consegno questi
viaggiatori assopiti nel futuro
esistente soltanto
nel palmo di una mano.
Io vi adoro, amatissimi viaggiatori
dell’ieri senza domani.

*

Che tutto avvenga per miracolo
e quel piede che schiaccia
diventi alato. Luci
che si accendono all’improvviso
come in una grande fiera
vicino a una spiaggia innominata.
Che tutto avvenga come dovrebbe.
Il tempo non continua.

*

Ora consola gli incompiuti
perché le labbra pronuncino lentamente
i nomi del confine, quell’orizzonte
in cui si accasciano gli occhi
per creare ancora i passi maldestri
e i destini avidi avventura.

Il tempo non continua.
Non voglio mani pronte a farmi da guida.
Non chiedo altro che una deità che sappia
sgrovigliare il filo che mi appartiene.
Mi bastano i tuoi passi
nel corridoio della memoria
e quella palpebra
che si acquieta respirando con me.

Che ogni storia
si adegui al ritmo alternato
del giorno e della note.
Così, solo per noi,
nudi al risparmio.
Che tutto avvenga come dovrebbe.

*

(Noi morivamo tutti i giorni)

Guizzando come una vipera
da dentro un cespuglio. Occhio nudo
fra le pietre, ignorando la morte rosa.
Secoli di vita
di fronte a rondini in occhi infantili.
Il cortile è rimasto intatto,
ma ora è vuoto, i balconi chiusi,
mute le voci. Ogni cosa
è immobile e trasparente, in questo
istante ultimo, in questo
Tutto che pronuncia la parola FINE.

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Timothy Houghton POESIE SCELTE da The internal distance Selected poems (1989-2012) Introduzione di Luigi Fontanella traduzione di Annalisa Macchia e Luigi Fontanella Mimesis, 2015 pp. 160 € 14

roy lichtenstein interior with Built in Bar

roy lichtenstein interior with Built in Bar

Timothy Houghton è nato a Dayton, Ohio, USA. I suoi precedenti libri sono High Bridges (Stride Press, England, 1939) e Below Two Skies (1993), Riding Untouched (1998), Drop Light (2005), The Height in Between (2012), tutti editi da Orchises Press. Ha pubblicato su numerose riviste internazionali. Insegna letteratura e scrittura alla Loyola University in Maryland dove vive con sua moglie e due bambini. Per trent’anni è stato un avido osservatore di uccelli e per la maggior parte di quel tempo ha condotto escursioni per Audubon e altre organizzazioni.

  da Introduzione al libro di Luigi Fontanella

Due parole per presentare Houghton, la cui conoscenza devo all’amico Alfredo de Palchi, forse e senza forse il maggior poeta italiano espatriato negli States, già fondatore (con Sonia Raiziss) della storica rivista Chelsea e attuale direttore della casa editrice Chelsea Editions di New York.

Nativo di Dayton (Ohio), Timothy Houghton si è formato culturalmente presso l’università di Denver, Colorado, ottenendo numerosi riconoscimenti e borse di studio tra cui la prestigiosa MacDowell. Timothy vive attualmente nel Maryland con sua moglie e due figli, e insegna “Creative Writing” presso la Loyola University.

La sua poesia si caratterizza immediatamente per un tono complessivamente riflessivo, con una straordinaria capacità osservativa, diciamo pure un’attenzione capillare verso la realtà (benché sia spesso “indecifrabile”), dalla quale trarre segni e indicazioni sul senso o sui sensi ad essa profondamente sottesi.

In questa storia di anamnesi, ch’è prima di tutto introspettiva, un ruolo fondamentale giocano gli affetti familiari (in primis la figura del padre, spesso ricorrente per lampi e improvvise epifanie) ri-percepiti o ri-evocati come presenze che hanno lasciato e ancora lasciano segni duraturi, indelebili, sui quali e con i quali confrontare i propri passi. Due versi fortemente suggestivi recitano così: «I morti che ho amato / Costruiscono la loro casa».

Dunque, la memoria: fonte attiva d’ispirazione; da un lato fonte d’indagine e di rivisitazione della quotidianità e, dall’altro, come dimensione autoanalitica. Ed è sempre questa memoria, spesso intrecciata con l’immaginazione, che permette a Houghton di scandagliare il coacervo della realtà in cui egli si muove, le sue contraddizioni, la sua storia, le sue insensatezze («È sempre tardi quando le cose accadono… / nuove tubature / strappano le radici, s’incrociano con i pozzi»).

L’innata capacità osservativa di Houghton si è andata arricchendo, nelle raccolte più recenti, di striature oniriche; forti squarci visionari che possono scaturire dal rimbalzo visivo di un oggetto o di una situazione che richiama subito un’altra (si legga, a tal proposito, la bella poesia Their Laughter). Squarci e segni che vanno oltre l’immediata percezione dei sensi. Significativamente, nella poesia Perseid, dirà: «I segni sono chiari stasera, decisamente, / non adducono pretesti – / possiamo andare oltre a ciò che siamo».

Da qui, infine, una certa dilatazione dello scrutare di Houghton fino a raggiungere, in certi componimenti, come degli straripamenti epici, benché esplorati sempre con una disposizione intimista, perfino vagamente crepuscolare, densa, tuttavia, di aperture, contaminazioni e oniriche meditazioni alla Sergio Leone, l’indimenticato regista di C’era una volta il Woest, del resto, puntualmente evocato da Houghton nella sua più recente raccolta (The Height in Between).

Timothy Houghton

Timothy Houghton

Poesie di

Timothy Houghton

 Sanctuary

Sometimes during visits
we see our mother pretending to bustle

in the quiet of her bedroom
that’s used for storage now –

where she’s kept the windows
swollen shut for over thirty years

for fear that loosening them
will break the glass. The unwashed panes

are giant laboratory slides
preserving a soup of grit and oils

from children’s fingertips:
a history of touches

between herself and the birches
which line our street. The whole warmth

of sunlight coming free of a cloud
and coming in – not here. Lately

my brothers and I discovered
one of our father’s coats

still hanging in the closet
and stood there trading memories

of seeing different aspects of him
in that herring-bone brown.

This means we’ve stopped teasing her
about the room. We keep quiet.

.
Santuario

A volte in occasione di visite
vediamo nostra madre trafficare con falsi pretesti

nella calma della sua vecchia camera da letto,
ora usata come ripostiglio-

dove lei tiene le finestre
ingrossate, chiuse da oltre trent’anni,

per paura che nell’aprirsi
si rompa il vetro. I vetri non lavati

sono vetrini giganti di laboratorio
che proteggono l’attaccaticcio di sporco e di unto

di ditate di bambini:
un passato di strusciate di mano

tra lei e le betulle
che fiancheggiano la nostra strada. Tutto il calore

della luce del sole sfuggito a una nuvola
entra – non qui. Ultimamente

i miei fratelli ed io abbiamo scoperto
uno dei cappotti di nostro padre

ancora appeso nell’armadio
e siamo rimasti lì davanti, scambiandoci ricordi

e ritrovando ogni lato del suo carattere
in quello spigato marrone.

Così abbiamo cessato di prenderla in giro
per quella stanza. Restiamo in silenzio.
timothy houghton_copTheir Laughter

When the hornet finally died
its blue wings –

                               translucent and sturdy
                               as mica –

crossed themselves and covered the body
as it lay on the sill,

and I was surprised
to find myself thinking of water,

how it comes up blue
                                 after wind blows away
                                 the floating seaweed –

when black-crowned terns
hover above fish –

                                 and remembered a story
                                 I heard from my father,

one of many troops swimming
at a Philippine beach
                                  as lobsters boil
                                  in a metal drum.

Planes come swooping low
from jungle canopy,
                              strafing the diving men
                              whose stomachs are filled

with white meat, and the miracle is no one
gets hit,
                              that it’s one

pass only. They surface with shouts,
with fists raised

but dissolved in spindrift – and laughter,
violent laughter
                                                       like glare
                                                         and white water on the blue.

.

La loro risata

Quando infine il calabrone morì
le sue ali blu –

translucide e resistenti
come mica –

s’incrociarono tra loro e coprirono il corpo
inerte sul davanzale,

e mi sono sorpreso a pensare all’acqua,

a come si ritorna al blu
                                        dopo che il vento ha soffiato via
                                        le alghe fluttuanti –

quando le rondini di mare
si librano sopra i pesci –

                                        e mi viene in mente un racconto
                                        di mio padre,

una delle tante truppe che nuotavano
in una spiaggia delle Filippine
                                                        mentre le aragoste bollivano
                                                        in un bidone di metallo.

Gli aerei arrivano in picchiata
dalla verde calotta della jungla,
                                                        a mitragliare gli uomini immersi,
                                                        dagli stomaci

sazi di polpa bianca, e il miracolo è che nessuno
viene colpito
                                        che si tratta

di un solo passaggio. Loro riemergono dal mare gridando
con i pugni alzati,
ma subito tutto si scioglie in spruzzo e risata,
una convulsa risata
                                     come un lampo
                                     e acqua bianca sul blu.

 

Roy Lichtenstein 1993 – LARGE INTERIOR WITH THREE REFLECTIONS – Tape, painted and pirnted paper on board (87 x 233 cm)

Roy Lichtenstein 1993 – LARGE INTERIOR WITH THREE REFLECTIONS – Tape, painted and pirnted paper on board (87 x 233 cm)

Classical vs. Quantum

Kids jump through each other and crowd the room
—giant quarks, a frenzied physics at play—
then stomp my belly below the lunch tray.
“Careful!” I shout. They exit my couch but soon

fly, arms locked, from coffee table to rug,
heads banging, tongues out. It’s tumult to tears,
so I click the volume up – my trick for years.
“Turn it off!” my boy yells. I’m the big slug,

glad my tray’s empty now – they pounce once more.
I melt into their heat and glue their limbs
into a popeyed machine, holding a gin
and tonic above it all. There’s the door…

but nails dig into me and keep me down.
Quantum faces laugh above my frown.

.
Classica contro Quantistica

– Giganteschi quark, pazza fisica in gioco
l’uno sull’altro i bimbi affollano la stanza
mi pestano lo stomaco sotto il vassoio del pranzo.
“Attenti!” grido. Scendono dal sofà ma da lì a poco

dal tavolo al tappeto volano giù in picchiata
e battono la testa, lingua fuori. È caos fino al pianto,
così alzo il volume – un trucco ormai da tanto.
“Spegni!” grida mio figlio. Son proprio una patata,

ora a vassoio vuoto, felici – saltano un’altra volta.
Mi sciolgo in quel calore e i loro corpi incollo
a un automa dagli occhi sgranati, ma controllo
soprattutto il mio gin & tonic. C’è la porta…

ma resto giù bloccato da unghie ad artiglio.
I volti della Quantistica ridono al mio cipiglio.

.
Ice Elf

Where a foot-high helper
spent the night
sleeping –

                            there’s compression and
                            voice of mine

                            partly buried in powder snow:

a quartz-like tower beside the wall
where pipe vents furnace.
                                                     One night my son
                                                     recreates it,

shaping air without precision
before the fireplace, but I see it,

the ice elf in his manic hands. He believes me
when I tell him
                              it doesn’t leave tracks
                                when the body runs away.

His small hands are God, his talk behind them is God.
This immortality will live two more years,

maybe three. Yet I believe, too, angry
with innocence and angry at it.

I live in a family tightly packed
within a living room of worn furniture.

We watch TV at night. We sit in the air of light bulbs
and enjoy our smiles.

The hippie Christ adds dimension above the fireplace
with His soft beige shirt.

.

Elfo di ghiaccio

Ecco dove un elfo alto un piede
ha trascorso la notte
dormendo –

                                 c’è una piccola depressione e
                                  la mia voce

                                  suona ovattata dalla neve fresca:

come una torre di quarzo accanto al muro
dove sono convogliati gli sfiati del bruciatore.
                                                        Una sera mio figlio
                                                         lo ricrea,

vagamente modellandolo in aria
davanti al caminetto, ma io, l’elfo di ghiaccio, lo vedo

tra le sue mani fantasiose. Mi crede
quando gli racconto
                         lui non lascia tracce
                          quando il corpo fugge via.

Le sue piccole mani sono Dio, le sue chiacchiere su di lui, sono Dio.
Questa fede assoluta durerà ancora due anni,

forse tre. Eppure io credo, anche con rabbia
con innocenza e rabbia a tutto ciò.

Vivo in una famiglia saldamente unita
dentro le mura d’un logoro salotto.

Alla sera guardiamo la TV. Ci sediamo alla luce di semplici lampadine
e ci godiamo i nostri sorrisi.

Il Cristo hippie sopra il caminetto completa l’atmosfera
con la Sua leggera tunica beige.

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Machine

autism

1. Hikari

An earthmover planes a muddy square
in the distance.

Riding his father’s shoulders, he watches and hears,

properties
of distribution
at work in his mind. Machines

settle him down,
but sometimes a voice
takes part
in design:

his father’s
bird tape, the monotone, the
parallel syntax:

this is, this is – and the bird
is named.

A song

jolts him,
matching the tape
exactly,

and he speaks
as the narrator had:

“This is a water rail”
—for himself
to hear,
that planar
symmetry.

2. His Father

Those words: a Doppler turnabout, red
to blue
coming toward him

from reaches of space
in the split second of disbelief.

The weight on his shoulders is real, like wings folding in
upon landing,
stunning him
with presence,

the appearance
of affect.

And then it sings again, the same bird
a shade
different

this time – off,
equivalent
to chaos
for the boy, who gives no response.

3.

The shade is a wall.
One head turns
followed by the other –

to the machine on the muddy square.

Ruspa

autismo

1. Hikari

Una ruspa spiana una piazza fangosa
in lontananza.

A cavalluccio del padre, vede e sente,

proprietà
distributive
in attività nella sua mente. Le macchine

lo calmano,
ma talvolta una voce
prende parte
al disegno:

il nastro registrato di suo padre
con canti di uccello, la ripetitività del suono,
la parallela sintassi:

questo è, questo è – e l’uccello
è identificato.

Un canto

lo riscuote
in perfetta corrispondenza
con la registrazione,

e lui parla
come fa il narratore aveva detto:

“Questo è il porciglione”
—Per se stesso
per sentire
questa parallela
simmetria.

2. Suo padre

Qulle parole: un Ecodoppler, dal rosso
al blu
attraverso il suo corpo

da remoti spazi
nell’incredula frazione di un secondo.

Il peso sulle sue spalle è reale, come ali che si ripiegano
all’atterraggio,
lo sbalordiscono
con la prontezza,

l’apparenza
di una partecipazione.

E poi canta di nuovo, lo stesso uccello
con tonalità
diversa

questa volta – alterata,
in sintonia
con il caos
del bambino, che non dà risposta.

3.

Questa tonalità è un muro.
Una testa si volta
seguita dall’altra –

verso la ruspa sulla piazza fangosa.

The Remaining Warmth

The twelve-foot fraction of tentacle
lay on the shore

like a thick whip – like a tool
used by dangerous, benthonic

orders. Children who touched it
studied their fingertips

before running from this proof
of giants, of still-living

never-seen monsters
of concealment and wonder.

At great depths
below the apprehension of light

there’s a remaining warmth
where unnerving work gets done –

and slowly the good fears rise up
to be with our days

like hail banging on windshields
of moving cars

with sheets of rain
waving at us from the road ahead.

.
Il residuo calore

I quattro metri di tentacolo
sono riversati sulla riva

come una massiccia frusta – un’arma
a disposizione di pericolose, abissali

specie marine. I bambini che lo toccavano
si osservavano la punta delle dita

prima di correre via da quella tangibile certezza
di giganti, di ancora-esistenti

mai -svelati mostri
di un mondo segreto e fantastico.

Nella profondità degli abissi
sotto ogni percezione di luce

resta un residuo calore
in cui si svolgono attività snervanti –

e lentamente affiorano sane paure
per tenerci compagnia

come grandine che picchia sui parabrezza
di vetture in corsa

scrosci di pioggia
che salutano dalla strada innanzi a noi.

Luigi Fontanella foto

Luigi Fontanella vive tra New York e Firenze. Ha pubblicato libri di poesia, narrativa e saggistica. Ha pubblicato libri di poesia, narrativa e saggistica. Fra i titoli più recenti: L’angelo della neve. Poesie di viaggio (Mondadori, Almanacco dello Specchio, 2009), Controfigura (romanzo, Marsilio, 2009), Migrating Words (Bordighera Press, 2012), Bertgang (Moretti & Vitali, 2012, Premio Prata, Premio I Murazzi), Disunita ombra (Archinto, RCS, 2013), L’adolescenza e la notte Passigli, Firenze, 2015. Dirige, per la casa editrice Olschki , “Gradiva”, rivista internazionale di poesia italiana (Premio per la Traduzione, Ministero dei Beni Culturali, e Premio Catullo) e presiede la IPA (Italian Poetry in America). Nel 2014 gli è stato assegnato il Premio Nazionale di Frascati Poesia alla Carriera. luigi.fontanella@stonybrook.edu

annalisa macchia

annalisa macchia

Annalisa Macchia è nata a Lucca nel 1950 e vive a Firenze  dove ha insegnato lingua e letteratura francese. Studiosa di letteratura per l’infanzia, poeta, narratrice e traduttrice, ha pubblicato vari libri, tra cui La luna di Cézanne (poesia, Kairos, 2008); A scuola di poesia (saggistica, Florence Art Ed. 2009); Il portone di via Ghibellina (prosa, puntoacapo Editrice, 2011); Interporto Est (poesia, Moretti &Vitali, 2014); Come si cucina un sonetto (poesia, Florence Art Ed., 2015). Ha tradotto poesie di John Ciardi, Timothy Houghton e Mark Strand. Collabora con alcune associazioni culturali e riviste  ed è nella redazione fiorentina della rivista internazionale Gradiva.

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Alfredo de Palchi POESIE INEDITE da  “NIHIL” sezione “Ombre II”  (2008) con uno scritto di Luigi Fontanella e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Alfredo De Palchi -7

Alfredo De Palchi

Da uno scritto di Luigi Fontanella:

«Alfredo si trova rinchiuso, già da qualche anno, nel penitenziario di Procida, vitti­ma di imputazioni infamanti. L’accusa è un omicidio avvenuto nel dicembre 1944 di un partigiano veronese, Aurelio Veronese, detto “il biondino”, a opera di tale Carella, fascista e capo della milizia ferroviaria. Pur essendo del tutto estraneo a quest’omicidio, De Palchi viene accusato e processato. Come ho già raccontato altrove (mi permetto rinviare di nuovo al mio volume La parola transfuga, pp. 178-183), a monte di questa infame calunnia c’era stata, dietro la spinta di altri affiliati, l’insipiente militanza giovanile di Alfre­do, allora diciassettenne, nelle file delle Brigate Nere, capitanate da Junio Valerio Borghese, uno dei leader più combattivi della Repubblica Sociale Italiana. […] Allo sbrigativo processo svoltosi a Verona nel giugno 1945, in pieno clima di caccia alle streghe, De Palchi, del tutto innocente, fu condannato all’ergastolo (il pubblico Ministero aveva chiesto la pena di morte!). Un processo-farsa che gli costò vari anni di prigione, prima al carcere di Venezia, poi al Regina Coeli di Roma, poi a Poggioreale a Napoli, poi al penitenziario di Procida ( 1946-1950), infine a quello di Civitavecchia (1950-1951). Un’esperienza durissima che dovette prostrare il nostro poeta e che avrebbe segnato per sempre anche la sua poesia, se è vero che quell’esperienza non solo è presente nella sua primissima pro­duzione (strazianti e taglienti i versi, oltre che di La buia danza di scorpione, anche del poemetto Un ricordo del 1945, che tanto avrebbe colpito Bartolo Cattafi che lo presentò subito a Sereni […]) ma ricompare con tanto di nomi e cognomi nel recentissimo nucleo Le déluge, posto a chiusura del suo ultimo, intensissimo libro Foemina Tellus. Un’esperienza atroce che l’avrebbe segnato profondamente ma che gli avrebbe anche fornito la stoica energia a resistere, a reagire, a crescere, a leggere, a studiare, e infine a scrivere la sua poesia di homme revolté. Credo che chiunque si accinga ad affron­tare la lettura delle poesie di De Palchi non debba mai prescindere da questa terribile vicenda biografica, tanto la poesia che da essa è scaturita ne è intrisa dalle prime prove fino alle ultime. Un’esperienza crudele che, a valutarla oggi dopo più di mezzo secolo, sembra perfino beffarda se si pensa che il nazifascista Junio Valerio Borghese, che pure era stato uno dei capi indiscussi della fronda repubblichina, al processo intentato contro di lui per crimini di guerra, sempre a Verona tra il ’46 e il ’47 (il processo si conclu­se esattamente il 17 febbraio 1947), riuscì a cavarsela con soli quattro anni di carcere, gli ultimi dei quali proprio a Procida, nello stesso penitenziario dove si trovava rinchiuso De Palchi. Sul qua­le, sia detto per sgombrare qualsiasi taccia posteriore di collabora­zionismo, venne in seguito sciolta ogni accusa e provata la più totale innocenza. Mi riferisco alla revisione definitiva del processo, che avvenne nel 1955, presso la Corte di Assise di Venezia, alla cui conclusione De Palchi, assistito dagli avvocati De Marsico e Arturo Sorgato, fu prosciolto da qualsiasi accusa e assolto con formula piena”». (n.d.r.)

.

alfredo de Palchi_1

Alfredo de Palchi

Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York, dove dirigeva la rivista Chelsea (chiusa nel 2007) e tuttora dirige la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto, e tuttora svolge, un’intensa attività editoriale.
Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; Il edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus (introduzione di Sandro Montalto, Novi Ligure(AL): Edizioni Joker, 2010).
Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a tradurre in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane.

alfredo de palchi italy 1953

alfredo de palchi in Italia, 1953

Commento di Giorgio Linguaglossa «Il problematico è l’indicibile dell’ordine assertorio»

 Il testo di Alfredo De Palchi è dichiarativo perché il locutore teme che esso possa essere equivocato dal lettore risponditore. Ecco perché il locutore De Palchi si esprime mediante una proposizionalità dichiarativa. Una frase dichiarativa è tale quando dichiara con la massima precisione il proprio oggetto. Al limite, anche una iperbole può essere dichiarativa, anche un insulto, perché riguardano immediatamente un oggetto. Quindi, dichiarativo nel senso di non interlocutorio, non ambiguo (nel senso di Empson dell’ambiguità connaturata al linguaggio poetico), anzi, dichiarativo nel senso di letterale, che evita il figurato per sfiducia nelle qualità denotative che il discorso figurato ha.

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L’ordine assertorio esclude l’indicibile dal logos. Lo stile dichiarativo sta all’ordine assertorio come due sorelle siamesi; ma c’è un terzo escluso: l’indicibile che ritorna con il ritorno dell’ombra mnestica e scompagina lo stile dichiarativo.

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Alfredo de Palchi opta per un discorso dichiarativo, dove il locutore tenta, attraverso una messa in ordine del discorso, di evitare il figurato mediante la pronuncia di una parola che non rimandi ad altro da sé, che non rimandi a nessun non-detto implicito. Ma è una pia illusione. Anche tra le maglie delle espressioni dichiarative, il non letterale, il figurato si insinua ripetutamente con il ritorno del rimosso. Il rimosso c’è fin quando vuole celare l’Altro, l’Estraneo. Come non c’è gerarchia tra il letterale e il figurato, così si dà una diversa problematicità a secondo della pressione che si fa sulla letteralizzazione o, al converso, sulla de-letteralizzazione. È la natura problematica del logos che sta a fondamento della ambiguità semantica, non quindi il significante sganciato da un soggetto, quanto il significante per un soggetto che, a sua volta, è in rapporto con un altro significante e con un altro significato.

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È il tema dell’Altro, o dell’Estraneo che pone la necessità di chiederci se «il posto che occupo come soggetto del significante è, in rapporto a quello che occupo come soggetto del significato, concentrico o eccentrico».1 La risposta di Lacan sarà che il luogo del soggetto è radicalmente eccentrico in quanto esso nasce come campo dell’Altro. Luogo della catena differenziale dei significanti, il soggetto nasce con il significante, nasce diviso. Il soggetto che si costituisce a partire dall’Altro, è sempre un soggetto alienato, separato. Una struttura analoga la si ritrova in Heidegger, dove l’Ereignis (l’evento appropriante) è insieme e indissociabilmente Enteignis (espropriazione). L’Altro di Lacan è innanzitutto l’Altro del linguaggio come catena significante, così come per Heidegger il linguaggio è la «casa dell’essere» e «il modo più proprio dell’Ereignen», dunque l’ambito stesso in cui accade l’appropriazione reciproca di uomo ed essere. Questo rapporto si sostiene sulla priorità e autonomia del linguaggio rispetto all’uomo: come Heidegger afferma che innanzitutto «il linguaggio parla» e non l’uomo e che l’uomo è uomo in quanto è all’ascolto e corrisponde a questo linguaggio che sfugge al suo potere; così per Lacan «è il mondo delle parole a creare il mondo delle cose […] L’uomo parla dunque, ma è perché il simbolo lo ha fatto uomo».1

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Il testo dichiarativo per eccellenza è un testo testamentario, là dove il locutore deve attenersi con il massimo scrupolo alle esigenze della letteralizzazione proprio per evitare le ambiguità del discorso fonosimbolico. Il paradosso è che in questi testi della raccolta inedita Nihil di De Palchi, il locutore si esprime con un linguaggio apodittico, testamentario, nel senso di testamentum, di dichiarazione ultimativa delle volontà ultime del locutore.

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E qui de Palchi pronuncia le sue volontà definitive, si esprime senza curarsi del risponditore, il quale non dovrà fare altro che accettare il legato testamentario di una parola tellurica e tellurizzata da una ferita inferta ab origine. De Palchi ritorna all’engramma, alla ferita primordiale, a quando fu accusato dalla giustizia italiana di omicidio, subendo sei anni di carcere preventivo per poi essere prosciolto per non aver commesso il fatto. Il poeta in questi cinquanta e più anni è rimasto fermo a quella sconvolgente esperienza, a quel trauma. È il ritorno del rimosso che qui ha luogo. Una pulsione desiderante guida il discorso poetico di de Palchi per un riscatto che nessun risarcimento potrà mai acquietare. Un engramma profondo che ritorna alla coscienza e richiede una elaborazione secondaria del rappresentante ideativo. Appunto, è questa la funzione del discorso poetico di de Palchi, il suo essere un sostituto necessitato dell’engramma originario, il travestimento del rappresentante ideativo.

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La declinazione dei verbi al presente di tutta la raccolta poetica depalchiana, riflette questo ritorno dell’engramma, questa modalità di ripresentazione dell’Estraneo in ogni attimo della temporalità.
E la violenza effrattiva del lessico depalchiano è una spia dell’investimento psichico intervenuto a far luogo da quei lontani anni di ingiusta prigionia. Il soggetto depalchiano è un soggetto scisso, diviso, originariamente appartenente al campo dell’Altro. Proprio perciò il soggetto depalchiano è un soggetto desiderante in quanto «il desiderio è la metonimia della mancanza ad essere».2 Il desiderio, nel suo carattere eccentrico, è l’espressione di questa mancanza-a-essere, di questa negatività che attraversa il soggetto e gli impedisce di essere fondante e fondato. Ritengo questa problematica importante perché getta luce sul modo di procedere della poesia depalchiana e sulla sua natura effrattiva, frizionale, vulcanica. Non pacificata, insomma.
1 Lacan  Le séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychalalyse (1964) Seuil, Paris
2Ibidem

Alfredo De Palchi con Gerard Malanga New York 2014

Alfredo De Palchi con Gerard Malanga New York 2014

Poesie di Alfredo De Palchi da Nihil (2008–2013)

Idi di marzo
dalle fogne con coltelli
nel grembiule di macellai
da pugnalare la mia schiena di Giulio
che da oltreoceano conquisto arte
e Calpurnia ancora nel mistero della sua casa

non stringo mani insanguinate per macchiarti appena

ti raggiungo per rotolare insieme lungo la via
imperiale di archi musicali

poi non “si muore”
perché dalla gola smercio lo sputo definitivo.

*

Trema la terra della pagnotta e la mia si scuote
di bifolchi

si riconoscono nel sangue barbaro che insozza
e in chi sciacqua il coltello nell’Adige
tra la dissoluzione dei ponti l’eroica
viltà degli sfuggenti dal cranio sfuggente

prima del vagito segui gli eventi di amata alla deriva
nella corrente fluviale butti i fiori e struggente
corri tra la casa e la tomba di giulietta

le costole diventano pietre di procida
la volontà della mente frantuma la muraglia
ed è mediterraneo che diluvia sale

europa delenda est
non per tua causa di amata che tra dissidi
e onori errati eviti l’amato
invano lo disconosci come aberrazione girovaga
del tuo longineo corpo tellurico

delenda est per te oppure
rinascita après le déluge d’avril nelle Venezie.

*

pellerossa quanto la terracotta
s-centrato dal dottor calligaris

con olio di serpe unge e avvelena i funghi cosmetici
che cucini per cibarmi di orizzonti
a rasoterra dove l’humus cresce di vomiti
e predatori in camicia bianca
nell’antico otre di terracotta si raggruma
acqua piovana polvere del deserto
semenza arida che svuoti all’alba––
con mani di penelope
mi sfili attorno filo di lana per giacere
nella barca di fiume stretti dalla nostra ombra

l’onda veloce dopo onda ci srotola
sulla riva frastagliata due statue d’argilla
con la conchiglia falsa all’orecchio.

*

Ottobre di pomeriggio freddo di pioggia
di foglie che spiccano voli
da raffiche di vento sotto alberi
che passano accanto tra panche deserte . . .
in simili giorni abito il parco di Union Square dove

la folla indegna del bel tempo
mangia beve vomita e abbandona all’erba e piante
cartocci plastica giornali sputi
da disgustare i piccioni . . . e canestri vuoti di rifiuti

a nord sul piedestallo Lincoln
è il turista slavato che porge
grani a uccelli invisibili––
lo ringrazio con un cenno di mano

a sud Washington a cavallo rifiuta l’entrata
alla marmaglia nello sguazzo
strappando le ombrelle––
lo ringrazio con un cenno di mano

a est il desolato Lafayette mano destra al cuore
con la sinistra indica al suolo la saving bank
di fronte in greek revival fallita––
lo ringrazio con un cenno di mano

a ovest Miriam con Jesus in braccio gorgoglia
dallo spicchio d’acqua
“preparati per la scalata”…
io che capisco se mi interessa di capire mormoro
“su per il tuo fianco a voragine
per annunciare il mio discorso dalla montagna”.
Il lavoro nobilita la belva alla vita
trascorsa a grattare il salario della paura
in una giungla di lapidi

si legge, qui giace dio il mediocre costruttore
e qui Cleopatra con una serpe in mano––giglio
offerto a Marcantonio

più in là giace un raccolto di ossi
attribuito al farabutto amico François
accanto a quello di Francesco impazzito di cristo
e della sua Chiara che per boschi giunge a Todi
da Jacopone, il più folle

e laggiù sotto quel rettangolo di letame
l’altro mio amico Arthur
giace con un abbraccio di zanne invendute

amata amica figlia madre sorella
prontamente perfetta per il mio arrivo
allatta al tuo ombelico il mio spartito di terra.

 

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POESIE di Alfredo De Palchi da Sessioni con l’analista (1948-1966) e da Paradigm, (Chelsea Editions, 2013) con uno scritto di Luigi Fontanella un Dialogo tra Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa e un Commento finale di Giorgio Linguaglossa

hopkins Autoritratto

hopkins Autoritratto

 Da uno scritto di Luigi Fontanella:

«Alfredo si trova rinchiuso, già da qualche anno, nel penitenziario di Procida, vitti­ma di imputazioni infamanti. L’accusa è un omicidio avvenuto nel dicembre 1944 di un partigiano veronese, Aurelio Veronese, detto “il biondino”, a opera di tale Carella, fascista e capo della milizia ferroviaria. Pur essendo del tutto estraneo a quest’omicidio, De Palchi viene accusato e processato. Come ho già raccontato altrove (mi permetto rinviare di nuovo al mio volume La parola transfuga, pp. 178-183), a monte di questa infame calunnia c’era stata, dietro la spinta di altri affiliati, l’insipiente militanza giovanile di Alfre­do, allora diciassettenne, nelle file delle Brigate Nere, capitanate da Junio Valerio Borghese, uno dei leader più combattivi della Repubblica Sociale Italiana. […] Allo sbrigativo processo svoltosi a Verona nel giugno 1945, in pieno clima di caccia alle streghe, De Palchi, del tutto innocente, fu condannato all’ergastolo (il pubblico Ministero aveva chiesto la pena di morte!). Un processo-farsa che gli costò vari anni di prigione, prima al carcere di Venezia, poi al Regina Coeli di Roma, poi a Poggioreale a Napoli, poi al penitenziario di Procida ( 1946-1950), infine a quello di Civitavecchia (1950-1951). Un’esperienza durissima che dovette prostrare il nostro poeta e che avrebbe segnato per sempre anche la sua poesia, se è vero che quell’esperienza non solo è presente nella sua primissima pro­duzione (strazianti e taglienti i versi, oltre che di La buia danza di scorpione, anche del poemetto Un ricordo del 1945, che tanto avrebbe colpito Bartolo Cattafi che lo presentò subito a Sereni […]) ma ricompare con tanto di nomi e cognomi nel recentissimo nucleo Le déluge, posto a chiusura del suo ultimo, intensissimo libro Foemina Tellus. Un’esperienza atroce che l’avrebbe segnato profondamente ma che gli avrebbe anche fornito la stoica energia a resistere, a reagire, a crescere, a leggere, a studiare, e infine a scrivere la sua poesia di homme revolté. Credo che chiunque si accinga ad affron­tare la lettura delle poesie di De Palchi non debba mai prescindere da questa terribile vicenda biografica, tanto la poesia che da essa è scaturita ne è intrisa dalle prime prove fino alle ultime. Un’esperienza crudele che, a valutarla oggi dopo più di mezzo secolo, sembra perfino beffarda se si pensa che il nazifascista Junio Valerio Borghese, che pure era stato uno dei capi indiscussi della fronda repubblichina, al processo intentato contro di lui per crimini di guerra, sempre a Verona tra il ’46 e il ’47 (il processo si conclu­se esattamente il 17 febbraio 1947), riuscì a cavarsela con soli quattro anni di carcere, gli ultimi dei quali proprio a Procida, nello stesso penitenziario dove si trovava rinchiuso De Palchi. Sul qua­le, sia detto per sgombrare qualsiasi taccia posteriore di collabora­zionismo, venne in seguito sciolta ogni accusa e provata la più totale innocenza. Mi riferisco alla revisione definitiva del processo, che avvenne nel 1955, presso la Corte di Assise di Venezia, alla cui conclusione De Palchi, assistito dagli avvocati De Marsico e Arturo Sorgato, fu prosciolto da qualsiasi accusa e assolto con formula piena”». (n.d.r.)

Alfredo de Palchi

Alfredo de Palchi

 Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York, dove dirigeva la rivista Chelsea (chiusa nel 2007) e tuttora dirige la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto, e tuttora svolge, un’intensa attività editoriale.

Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; II edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus (introduzione di Sandro Montalto, Novi Ligure(AL): Edizioni Joker, 2010). Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a tradurre in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane.

alfredo de palchi in Italia, 1953

alfredo de palchi in Italia, 1953

Nessuna certezza
dalla spiritualità arcaica del mare––
gesticolo le braccia al cielo che affonda
sbilanciato nei verdi avvallamenti
mutazione cosciente
vescica rovesciata metamorfosi
per un abisso d’alghe e pesci,
non mi differenzio––sono
l’escrescenza che si lavora in questa
epoca
e dovunque bocche di pesci
aguzze su altri pesci
il mare un vasto cratere
e fissi al remoto I pesci graffiti
non guizzano dove sradicato
il gabbiano è l’unica dimensione
conscia
dell’inarrivabile bagliore.

(primi anni del 1960)

Alfredo De Palchi 2011

Alfredo De Palchi 2011 foto di Mariangela Rasi

da Sessioni con l’analista (1948 – 1966)
da Bag of flies

6

dicono
— i comandamenti — ma quali,
se gutturale la fiamma che ammonisce
aggrava i litigiosi che li smentiscono, se maligna
s’incarna in un’altra voce
che istruisce dalla montagna.
Conosco io, non te meritevole, quei comandamenti —
solo veri.
Dimentico la pena lacerante, non l’odio
di cui la ragione mi svergogna per voi tutti.
Io neppure so più amare,
solo so bruciarvi con i miei anni
di punizione e questa
domenica del patire parolaio / ancora i vostri rami
d’ulivo sono l’infetta infiammazione, torce di numerosi
Getzemani dove popolazioni sono triturate
dagli Eichmann e da milioni che si lavano le mani.

Non una parola
(la si sente tardi)
solo mani rapaci che usurpano quelle
mani inchiodate all’avvento mistificatore,
mistificato, torpore,
fiaba della resurrezione.
È domenica delle palme —

da Sessioni con l’analista

4

strumenti: ben
disegnati precisi numerati
non occorre contarli: hanno già l’osseo colore;
nella cava il paleontologo
scoprirà la scatola blindata di lettere
che dissertano l’uomo, alcuni ossi
su cui sono visibili tracce
delle malefatte — e nel libro
spiegherà che gli strumenti automatici
erano (sono) necessari ai robots primitivi

“spiega”
lo so, il mio dire
non mi esamina o spiega, eppure . ..
(la segretaria incrocia le gambe sotto il tavolo
e vedendomi in occhiali neri
“interessante”
commenta “ma ti nascondi”)
è chiaro
— sono ancora nascosto —
non più per paura benché questa sia . . . per
autopreservazione
“perché” paura, accetta i risultati,
affronta . . . difficile
l’autopreservazione,

capisci? se tu mi avessi visto allora
nel fosso, dopo che il camion…
(il camion traversa il paese
infila una strada di campagna seminata
di buche / ai lati fossi filari di olmi /
addosso alla cabina metallicamente
riparato pure dai compagni che al niente
puntano fucili e mitra)
— capisci che si tratta di strumenti —
(ho il ’91 tra le gambe)

di colpo spari e io
— già nel fosso —
alla mia prima azione guerriera non riuscii. . .
me la feci nei pantaloni kaki
l’acqua mi toccava i ginocchi. Sparai quando
“leva la sicurezza bastardo” urlò il sergente Luigi
— fu l’ultimo sparo in ritardo —
dal fosso al cielo di pece
strizzando gli occhi
la faccia altrove — risero:

“sono scappati
hai bucato il culo bucato dei ribelli”

— capisci? se la ridevano —
mentre io non pensavo
no, alla preservazione.
La intuivo nel fosso —

10

freddo — la neve blocca il poco traffico
a Vercelli
e si esce la notte (1951)

— non vuole farsi vedere con me —
temendo il giudizio del paese
“la reputazione, sai. . . “

— a me non importa —
la mia reputazione fa il giro
e la curiosità . . . le spiego l’entomologia
l’amore degli insetti
“gli insetti maschi
acchiappano le femmine riluttanti
mettendo in moto speciali furbizie”
— la curiosità —
s’informa mentre si cammina nella neve
dei viali della stazione:
“grilli e cavallette sono inclini alla musica
le farfalle s’appoggiano
ai profumi e le mosche di maggio
aromatizzano la seduzione con la danza”

succede . . .
andiamo al cavalcavia, oltre i giardini:
ora, d’accordo,
amo la ragazza ma
“la sanno meglio i maschi delle malacchidi
(minuscoli scarafaggi dei tropici)

— non ch’io sia scarafaggio, però . . . —
che adescano le femmine con un nettare
piccante / per allentare poi le loro inibizioni
le iniettano di frode un afrodisiaco”

— succede qualcosa di simile —

in piedi, sotto il cavalcavia:
“perché l’hai fatto”
piange pulendosi con la neve.
La pulisco
— d’accordo, non ho complessi di colpa —
ma non più m’interessano le vergini
“perché”
quel sangue pulito infiamma la neve — e lei piange
“perché l’hai fatto, la mamma . . . “

(pensi che la segretaria
cosce lunghe incrociate sotto il tavolo,
da .. . finché)… la mamma —

16

(dopo) — che mi porta —
l’inquietudine neurotica
incastonata nell’incertezza
è uno stormo implacabile, un cancro: ora
(fuggire)

alla frontiera
“documenti” chiede il finanziere
“non sei in regola,”
sono “guarda bene,
ne hai un pacco” timbrati dalla questura

libertà che persegue
(sul treno, terza classe, di notte
una coppia mi persegue

con occhi glutinosi)
glutine umana

sfoglia, legge “ah”
e timbra documenti passaporto
“comportati bene” chiude il pacco
“fai presto carogna” penso
— il gatto mi piange sulle spalle —
ma è bello fuggire
con una valigia di poeti scorpioni
le loro menzogne in buona cera
sotto il sedile
— me li porto dovunque —
per rassicurarmi delle menzogne abbaglianti:
astrazione
eccetto i miei anni: il contatto
la glutine umana —

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011foto di Mariangela Rasi

Appunto di Giorgio Linguaglossa (da lombradelleparole.wordpress.com)

13 dicembre 2014 alle 9:59 Modifica

caro Alfredo De Palchi,

il fatto che […] è la riprova che la sua poesia segue il filo del significante, è una poesia dipendente dal “gioco” dei significanti. Un concetto di poiesis che abbiamo conosciuto nel corso del tardo Novecento, e che forse (mi permetto) ha nuociuto alquanto alla poesia italiana perché ha introdotto l’equivoco pensiero che non si potesse fabbricare in Italia poesia adulta che non fosse stata sperimentale. Cosa voglio dire? Dico semplicemente che la poesia di […] è confezionata in consonanza con le concezioni tardo novecentesche post-sperimentali basate sull’autonomia della catena del significante il cui capostipite più evoluto, abile e influente è stato indubbiamente Andrea Zanzotto con La Beltà del 1968. Questa la genealogia. E andava detto. Anzi, va ogni giorno ripetuto.

Una cosa appare chiara a chi abbia orecchie per intendere: che la poesia del presente e del futuro non passa più (se mai c’è passata) attraverso l’autonomizzazione della catena del significante e che bisogna andarsela a cercare altrove. E qualcosa c’è stato nella poesia italiana degli ultimi tre quattro decenni che si è mosso in questa direzione, ci sono state delle opposizioni, non è vero che il pensiero maggioritario (nelle Accademie e nelle Università) non sia stato contrastato, sono tanti i poeti di valore che hanno posto un alt e un altolà a questa deriva concettuale (e in tal senso anche la poesia di Magrelli ha avuto un lato positivo, non lo nego, anche se poi ha introdotto un elemento di deterioramento ancora forse più grave: una scrittura poetica fatta di secondarietà; ma questo è già un altro discorso). Quello che volevo sottolineare è che è finita da lunghi lustri in Italia la poesia del significante (per fortuna) e che attardarsi su quella impostazione di fondo comporta restare periferici, marginali, e comporta continuare a fare una poesia di stanca derivazione epigonica.

E veniamo al testo che hai postato datato anni ’60. È un testo, come può vedere chiunque sappia leggere una poesia, che non si basa sulla catena del significante ma che va per altra strada: va per intensificazione e slittamento di immagini e di parole immagini. Voglio dire questo: che la tua poesia già allora (Anni Sessanta) era già fuori moda, non si accodava alla concezione maggioritaria basata sui giochi del significante e sulla autonomizzazione del significante ma deviava, in modo consapevole, verso una poesia fitta di intensificazioni e di accelerazioni tra le parole e le immagini. Non mi meraviglia quindi che la tua poesia sia stata non compresa in Italia. Il fatto è che non poteva essere compresa per via di quella griglia concettuale (e anche di altro, ma qui soprassediamo) che tendeva a rivalutare altre impostazioni, da quella tardo sperimentale a quella che prediligeva una poesia degli oggetti, alla poesia presuntivamente vista come impegno o civile…

alfredo de palchi

alfredo de palchi

  Risposta di Alfredo De Palchi (da lombradelleparole.wordpress.com)

 Alfredo de Palchi

15 dicembre 2014 alle 4:35 Modifica

 Caro Giorgio Linguaglossa,

benché esca dalla camera da letto alle sei del mattino ed rientri verso la mezzanotte, il mio tempo di fare tante cose è rallentato, eppure trascorre molto in fretta. Così arrivo ormai sempre in ritardo anche a commentare.

Apprezzo il tuo intervento esplicativo. Le varietà poetiche, pseudo avanguardiste, del secondo Novecento, neanche le classificai nel mio mondo personale. Le avanguardiette le precedetti nel 1948 con Il poemetto Un ricordo del 1945, e pubblicato da Vittorio Sereni nel 1961 nel primo numero della nuova rivista “Questo e altro”; precedette di almeno dieci–quindici anni “I Novissimi” e le avanguardiette seguenti. Quel mondo finse di non averlo letto, e confermò il mio l’amico Leonardo Sinisgalli a New York durante le nostre camminate quotidiane per oltre un mese. Il poemetto menzionato, in uno stile psicologico nuovo per me, finì nel silenzio per non dare voce allo sconosciuto scrittore. Vivevo fuori d’Italia. Non avevo possibilità di farmi sentire, in più mi rifiutavo di chiedere qualcosa a qualcuno. Però ora dico che le menate dei “Novissimi”, avanguardiette, e cosiddette teorie o ricerche poetiche che descrivi, entrarono in un orecchio per uscire dall’altro. E perché, durante gli anni 1950 e 1960, la mania della scelta ideologica fece suicidare un poeta che conobbi, apprezzai , e pubblicai; si uccise perché il partito comunista gli rifiutò la tessera. Tutti gli scribacchini di quel periodo capirono che per fare carriera bisognava avere la tessera “fascista” della sinistra. Immagina se io, tipo disintegrato dovunque, mi sforzo a firmare una tessera politico-sociale quando non ho mai pensato di appartenere a gruppi letterari, clubs, nemmeno al Pen Club (chiarisco: non quello italiano) di New York che più volte mi invitò.

La mia poesia non ha un unico stile, in essa si trovano scritture diverse tra le quali c’è l’unica d’avvero avanguardia Sessioni con l’analista, 1964–1966 (1967), e altri lavori. Le mie intuizioni e scoperte le praticavo scrivendole, non da chiacchierone alla P.P. Pasolini e compagni che di psicologia ne davano notizia di loro stessi senza creare nulla. Chiacchiere. Sessioni con l’analista non si impose perché gli addetti ai lavori non intendevano riconoscere sopra la loro la mia importanza; e in maggioranza i recensori, che non capirono il linguaggio, su vari giornali beffeggiarono quella importanza. Silvio Ramat, onesto ma confuso sullo stile e sulla materia, pubblicò su La Nazione e su La Fiera Letteraria recensioni non positive. Con Ramat che non conoscevo di persona ed io diventammo amici, e si convertì alla mia poesia circa quarant’anni dopo; con Marco Forti, positivo, c’era stima reciproca; voglio dire che nonostante i sberleffi idioti di recensori chiusi nello scatolame accademico più declassato, io non perdetti sonno e voce, non disperai, mi comportai con indifferenza.
Voglio ricordare che alcuni mesi fa su “L’ombra della parola” un tuo magnifico articolo che illustrava uno o due testi delle Sessioni con l’analista. Nessuno ci fece caso, i principali motivi sono: 1) non piace stile forma e soggetto a chi apprezza testi, e poetizza allo stesso modo, che io definisco invecchiati alla nascita; 2) non piace a chi non comprende nulla di stile forma e soggetto.

Non ho problemi con le poetiche, apprezzo ogni stile forma e soggetto se l’insieme è poesia, non scialba preziosa costruzione. I problemi attuali sono ancora quelli di coloro che invasero buona parte desertica della seconda metà del Novecento e oltre, proseguendo ad ammalare la scrittura delle recenti generazioni di imitatori. Ovviamente ci sarà nel sottobosco affollato un migliore, un nuovo, un poeta-artista. Un pittore, si dice anche dell’imbianchino, ma un creatore si dice dell’artista-pittore. Artiste-peintre. Vive la différance!

Grattacieli di New York

Grattacieli di New York

Commento di Giorgio Linguaglossa

Brodskij ha scritto: «dal modo con cui mette un aggettivo si possono capire molte cose intorno all’autore»; ma è vero anche il contrario, potrei parafrasare così: «dal modo con cui mette un sostantivo si possono capire molte cose intorno all’autore». Alfredo De Palchi ha un suo modo di porre in scacco sia gli aggettivi che i sostantivi: o al termine del verso, in espulsione, in esilio, o in mezzo al verso, in stato di costrizione coscrizione, subito seguiti dal loro complemento grammaticale. Che la poesia di De Palchi sia pre-sintattica, credo non ci sia ombra di dubbio: è pre-sintattica in quanto pre-grammaticale. C’è in lui un bisogno assiduo di cauterizzare il tessuto significazionista del discorso poetico introducendo, appunto, delle ustioni, delle ulcerazioni, e ciò per ordire un agguato perenne alla perenne perdita dello status significante delle parole. Ragione per cui la sua poesia è pre-sperimentale nella misura in cui è pre-storica. Ecco perché la poesia di De Palchi è sia pre che post-sperimentale, nel senso che si sottrae alla storica biforcazione cui invece supinamente si è accodata gran parte della poesia italiana del secondo Novecento. Ed è estranea anche alla topicalità del minimalismo europeo, c’è in lui il bisogno incontenibile di sottrarsi dal discorso poetico maggioritario e di sottrarlo ai luoghi, alla loro riconoscibilità (forse c’è qui la traccia dell’auto esilio cui si è sottoposto il poeta in età giovanile). Nella sua poesia non c’è mai un «luogo», semmai ci possono essere «scorci», veloci e rabbiosi su un panorama di detriti. Non è un poeta raziocinante De Palchi, vuole ghermire, strappare il velo di Maja, spezzare il vaso di Pandora.

Così la sua poesia procede a zig zag, a salti e a strappi, a scuciture, a fotogrammi psichici smagliati e smaglianti, sfalsati, sfasati, saltando spesso la copula, passando da omissioni a strappi, da soppressioni ad interdizioni.

*

Potessi rivivere l’esperienza
dell’inferno terrestre entro
la fisicità della “materia oscura” che frana
in un buco di vuoto
per ritrovarsi “energia oscura” in un altro
universo di un altro vuoto
dove
la sequenza della vita ripeterebbe
le piccolezze umane
gli errori subordinati agli orrori
le bellezze alle brutture
da uno spazio dopo spazio
incolume e trasparente da osservarla io solo
rivivere senza sonni le audacie
e le storpiature
persino le finestre divelte
i mobili il violino il baule
dei miei segreti
tutti gli oggetti asportati da figuri plebei
miseri femori.

(21 giugno 2009, da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

*

Le domeniche tristi a Porto di Legnago
da leccare un gelato
o da suicidio
in chiusura totale
soltanto un paio di leoni con le ali
incastrati nella muraglia che sale al ponte
sull’Adige maestoso o subdolo di piene
con la pioggia di stagione sulle tegole
di “Via dietro mura” che da dietro la chiesa
e il muro di cinta nella memoria
si approssima ai fossi
al calpestio tombale di zoccoli e capre
nessuna musica da quel luogo
soltanto il tonfo sordo della campana a morto.

(22 giugno 2009, da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

alfredo de palchi new york di notte

New York di notte

Pretendi di essere il falco
che sale in volo
sussurrando storielle infertili
e vertiginosamente precipiti sulla preda
che corre alla tana del campo
mentre ti senti potente con il rasoio
alla mia gola
Guerrino Manzani

non è così che accade
sei troppo tonto e bugiardo nel tuo fagotto di stracci
a brandelli dalla tua preda
io
che ti gioca le infinite porte del cielo
ti eutanasia nella vanità
di barbiere da sottosuolo dove
a bocca colma della tua schiuma
ti strozzi finalmente sgraziato

non puoi vedere lo spirito malvagio che sai di possedere
gli specchi del vuoto fanno finzione
volando a pipistrello sei dannato
a rasoiarti la gola
a cercare il tuo nulla dentro il nulla

(27 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

*

Che tu sia sotto
in mucillagine di vermi
o sopra
a vorticare nel vuoto
rimani il bifolco delle due versioni
nell’oscurità totale

finalità troppo benigna per te
Nerone Cella seviziatore
rapinatore violentatore

le visioni di troppa madre di cristo
nella tua cella
non ti salvano con i tuoi compagni di tortura
subito spersi nell’Adige
il mio augurio di qualsiasi morte a voi
che vi dànno tra la terra e il primo spazio
mentre mi cinghiate mi bruciate le ascelle
mi spellate

la tua vergogna è alla luce dove
ti conto l’eternità di tempeste drammi nuvole
dove qui sta l’inferno
e tu flagellato alla gogna
designato a seviziare rapinare
e violentare carnalmente i tuoi compagni
di tortura e di malaffare.

(28 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013 )

*

Di poca intelligenza per la commedia dell’arte
Fabrizio Rinaldi
sei la maschera che sa di sapere
solo per sentito dire da chi
ha sentito dire

e scrivi sul giornale dei piccoli L’Arena
le lettere di presunti crimini
avvenuti prima della tua nascita geniale
tra bovari con mani di sputi
nella Legnago
riserva d’ignoranza e bassure

da pagliaccio di paese
ti arroghi di soffiare menzogne
ed io rispondo che ho sentito dire
da chi ha sentito dire che sei
culatina finocchio frocio orecchione pederasta pedofilo
e non ti diffondo sul giornale
ma in questo lascito

per te i beni augurabili da San Vito
sono i cancelli aperti alla notte
per cercare sulle strade deserte
e tra gli alberi della “pista”
l’invano.

(29 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

*

E voi bifolchi
eroici del ritorno
sul barcone dell’Adige
mostratevi sleali
e vili quali siete
con il numero ai polsi di soldati
prigionieri
non di civili dai campi di sterminio

siete sleali per tradimento
vili per la fuga verso
battaglie di mulini a vento
spacciandovi liberatori al culo dei vittoriosi
che vi scorreggiano in faccia

ora non scapate
da San Vito dov’è obbligo
narrarvi le stesse menzogne
tra compagni
rifare gli eccidi dei Pertini e dei Longo
criminali comuni all’infinito
e finalmente
spiegare la verità dei ponti antichi
lasciati saltare nell’Adige di Verona

forse anche i defunti avrebbero orecchie.

(30 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

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