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Con la Krisis del Covid è finito il Postmoderno, Frammenti di Lucio Mayoor Tosi, Negli anni sessanta, nel giro di pochi anni escono otto raccolte poetiche di otto autori diversi: Giovanni Raboni, Vittorio Sereni, Giorgio Caproni, Mario Luzi, Amelia Rosselli, Alfredo de Palchi, Edoardo Sanguineti, Pier Paolo Pasolini, Wassily Kandinsky, Schwarzes Dreieck, Dalla poesia comica di Ennio Flaiano Anni Cinquanta alla poetry kitchen di Francesco Paolo Intini

Lucio Mayoor Tosi frammento con rosso 2021
Lucio Mayoor Tosi frammento con nero
Lucio Mayoor Tosi frammento a strisce 2021Lucio Mayoor Tosi, frammento, 2021 – «Acrilico su legno e altri materiali (polistirene e tarlatana) 35×35 cm, Pop e modernità consunta. Su una navicella spaziale, in assenza di gravità. Ai frammenti ho aggiunto un “rumore di fondo”, diverso per ognuno. Il rumore (colore) porta tracce di quel che è stato. Un po’ come nei sacchi di Alberto Burri, ma le colorazioni sono odierne… ho tratto ispirazione dai muri esterni delle case, o comunque da superfici vissute, logore, che serbano un qualche valore affettivo» (l.m.tosi)

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Giorgio Linguaglossa

Con la Krisis del Covid è finito il Postmoderno

Non c’è altro da fare che voltare pagina, la antiquitas della forma-poesia del secondo novecento va abbandonata, dis-messa, lasciata cadere; però va riparametrata e riconfigurata la mappa della poesia del tardo novecento. E ripartire dall’opera poetica fortemente innovativa di Alfredo de Palchi è assolutamente indispensabile.

Negli anni sessanta, nel giro di pochi anni escono otto raccolte poetiche pubblicate a distanza di pochi mesi l’una dall’altra: Le case della Vetra (1966), Poesia in forma di rosa di Pier Paolo Pasolini e di Giovanni Raboni, Gli strumenti umani di Sereni, La vita in versi di Giudici (1965), Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee di Caproni (1965), Nel magma di Luzi (1966), una prima edizione, con un numero minore di testi, era uscita già nel 1963; Variazioni belliche di Amelia Rosselli è del 1964 e Sessioni con l’analista di Alfredo de Palchi del 1967 che però raccoglie poesie scritte dal 1946 in poi. Nel 1956 Sanguineti aveva pubblicato la sua prima raccolta, Laborintus, che rappresenta la rottura più energica della tradizione lirica della poesia italiana: il soggetto lirico viene colpito in maniera, in apparenza, mortale. E invece la poesia con soggetto lirico riprenderà quota a metà degli anni settanta e durerà fino ai giorni nostri. Quella che sembrava una Canne del soggetto lirico, si è dimostrata invece una vittoria di Pirro.
In questi libri si possono rilevare diverse posture dell’io: Luzi, Sereni, Giudici, Caproni, Rosselli, Raboni, de Palchi, Sanguineti sono autori di generazioni e poetiche diverse che danno ciascuno un contributo alla deflazione del soggetto lirico.
Ma si possono annoverare, ovviamente, altre opere significative: Ecloghe (1962) di Zanzotto, Una volta per sempre di Fortini (1963), Il seme del piangere (1959) di Caproni, negli anni cinquanta le poesie di Ennio Flaiano contenute ne Una e una notte (1959) e in La donna nell’armadio (1957) oltre che ne “L’Almanacco del pesce d’oro” (1960); ma ci sono anche altri titoli del 1957 come Vocativo di Zanzotto, Le ceneri di Gramsci (1957) di Pasolini e La ragazza Carla di Pagliarani (1957), opere tutte che rappresentano delle interpretazioni personali alla «deflazione del soggetto» di cui ha parlato la storiografia letteraria. Resta il fatto indiscutibile che dalla metà degli anni settanta si verifica un passo indietro: la messa in ombra della crisi della forma-poesia con la crisi dell’io lirico tradizionale che si era inequivocabilmente manifestata già all’inizio del Novecento con i poeti neocrepuscolari.

Oggi, a distanza di settanta anni dagli anni sessanta, quali libri di poesia dovremmo prendere in considerazione per individuare la crisi della soggettività lirica, ovvero, il cambiamento del paradigma lirico e la sua sostituzione con un «nuovo paradigma»?, ma, mi chiedo, c’è mai stato un «Cambio di paradigma» del soggetto lirico nella poesia italiana del tardo novecento? E, se non c’è stato, chiedo: quali sono le ragioni storico-stilistiche che hanno ostacolato e/o impedito il «Cambio di paradigma»?

Faccio un passo indietro e riepilogo qui quanto ho già scritto a proposito della poesia di Ennio Flaiano:

«Il poeta che compendia e riflette le contraddizioni, le inquietudini degli anni Cinquanta è Ennio Flaiano: un non-poeta, uno sceneggiatore, uno scrittore di epigrammi, di pseudo poesie, uno scrittore di non-romanzi, o meglio, di romanzi mancati, «ridanciano, drammatico, gaglioffo, plebeo e aristocratico» come egli ebbe a definire Il Morgante di Luigi Pulci. «Perché io scrivo? Confesso di non saperlo, di non averne la minima idea e anche la domanda è insieme buffa e sconvolgente», scrive Flaiano, poeta lunatico, irriverente, un arcimbolodo antidemagogico, antiprogressista, anti marxista e anti borghese, personalità assolutamente originale che non può essere archiviata in nessuna area e in nessuna appartenenza letteraria. Personaggio tipico della nuova civiltà borghese dei caffè, che folleggia tra l’erotismo, l’alienazione, la noia dell’improvviso benessere. Con le sue parole: «In questi ultimi tempi Roma si è dilatata, distorta, arricchita. Gli scandali vi scoppiano con la violenza dei temporali d’estate, la gente vive all’aperto, si annusa, si studia, invade le trattorie, i cinema, le strade…». Finita la ricostruzione, ecco che il benessere del boom economico è già alle porte. Flaiano decide che è tempo di mandare in sordina la poesia degli anni Cinquanta, rifà il verso alla lirica che oscilla tra Sandro Penna e Montale. Prova allergia e revulsione verso ogni avanguardismo e verso la poesia adulta, impegnata, seriosa, elitaria. Ne La donna nell’armadio (1957) si trovano composizioni di straordinaria sensibilità e gusto epigrammatico con un quantum costante di intento derisorio verso la poesia da paesaggio e i quadretti posticci alla Sandro Penna, le punture di spillo alla poesia di Libero De Libero:

Quando la luna varca la città
Da levante a ponente
Io la guardo e mi piace
La sua pallida puntualità.

*

Su carta gialla un inchiostro viola
su giallo, odio una sola speranza
sulla speranza un sole giallo splende
sulla speranza che rimane sola.

*

L’orto dei frati era l’orto del lupo mannaro
Dietro la siepe trovarono disteso il morto.
La luna si specchiava nel pozzo dell’orto.
Il freddo era quello dei bambini.
E la campagna, quella che io ricordo.

Lucio Mayoor Tosi frammento con giallo 2021

Lucio Mayoor Tosi, frammento con giallo, 2021 – «Pop e modernità consunta. Su una navicella spaziale, in assenza di gravità»

È paradossale che sia proprio Flaiano l’autore della poesia più moderna e sofisticata dell’Italia degli anni Cinquanta che inizia la sua corsa al Moderno; colui che aveva in orrore la trivialità dell’Italia degli scandali, delle speculazioni e della società di massa vista come volgarità di massa, è costretto a invertire la rotta della sua intelligenza e a occuparsi dei ritagli, degli accidenti della visibilità, dei dettagli, delle fraseologie da ricettario, ad assumere un tono assertorio-derisorio, interrogativo-irrisorio e blasé da intellettuale sorpassato, antiquato, non à la page; nel suo stile fa ingresso, per la prima volta nella poesia italiana, lo stile delle pubblicità, delle didascalie da autobus, delle fraseologie da sussidiario, da bugiardino e da educazione civica.
Leggiamo da L’almanacco del pesce d’oro (1960):

Chi apre il periodo, lo chiuda.
È pericoloso sporgersi dal capitolo.
Cedete il condizionale alle persone anziane, alle donne e agli invalidi.
Lasciate l’avverbio dove vorreste trovarlo.
Chi tocca l’apostrofo muore.
Abolito l’articolo, non si accettano reclami.
La persona educata non sputa sul componimento.
Non usare l’esclamativo dopo le 22.
Non si risponde degli aggettivi incustoditi.
Per gli anacoluti, servirsi del cestino.
Tenere i soggetti a guinzaglio.
Non calpestare le metafore.
I punti di sospensione si pagano a parte.
Non usare le sdrucciole se la strada è bagnata.
Per le rime rivolgersi al portiere.
L’uso del dialetto è vietato ai minori dei 16 anni.
È vietato aprire le parentesi durante la corsa.
Nulla è dovuto al poeta per il recapito.

Per un caso davvero singolare, la migliore e più evoluta poesia degli anni Cinquanta la si ritrova nell’autore che con più circospezione e tenacia ha esperito ogni tentativo per allontanare da sé il pericolo di presentarsi con l’etichetta di «poeta». In sostanza, Flaiano mette in scena la sua personale avanguardia: una sorta di retroguardia sistematizzata, in giacca e cravatta, dandystica, contro tutto ciò che il Moderno propina con le sue mode, la rivoluzione televisiva, i suoi abiti firmati, con i suoi miti letterari (Arbasino, Bertolucci, Penna, Moravia etc.), ed i suoi riti apotropaici».*

* da Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010) Roma, Edilet, 2011 p. 40 € 16.

da La donna nell’armadio (1957)

Quante cose guardiamo in realtà
Che non valgono il tempo d’esser viste.
questo si chiama: l’infelicità.

*

Una parola, un’altra parola,
Un’altra parola.
Come il pensiero vola avanti
E uccide la parola al passaggio!

*

Il poeta dice no alla verità.
Egli ne ha un’altra più rara – ma solo metà.

L’altra metà,
Che il poeta non ha,
La sanno soltanto i morti –
Nell’Aldilà.
Ma non la possono dire.
Qui tutto il loro morire.

da Una e una notte (1959)

La funzione è finita
L’organo suona Bach,
E il Cardinale, ossequiato,
Riparte in Cadillac.

*

Chi disprezza sarà sempre ammirato,
Compra e rivende, spesso viene comprato,
Batte le mani il pubblico a chi sputa
Per aria. Ma aiuta il Cielo chi da sé s’aiuta.

da L’Almanacco del pesce d’oro 1960

Sublime attesa
Canzone-fox di Anonimo Flaiano

Ho letto con ritardo
Lolita e il Gattopardo.
Così passai l’estate
tra speranze infondate.

Perché non scrivi più?
Mi abbandoni anche tu?

L’inverno si fa avaro
e il ricordo più amaro.
Tempo ne ho d’avanzo:
sto scrivendo un romanzo.

Io t’aspetto quassù.
Vieni quando vuoi tu.

Penso alla primavera
e a una vita più vera.
faccio pittura astrale.
verrai alla «personale»?

Se mi lasci anche tu,
Io non resisto più.

Leggo e scrivo poesie,
appunti, cose mie.
il suicidio ho tentato.
Niente. M’hanno salvato.

Io non t’aspetto più.
Fa’ quello che vuoi tu.

*

Il gatto di Moravia sta facendo le fusa,
arriva e se lo mangia il Gattopardo di Lampedusa.

Autunno romano

Ritornano i giorni puntuali
col loro accento sul’ì.
Ritornano i mesi, i secoli uguali.
telefoniamoci, vuoi! Lunedì.

Scambio di persona

Il poeta Arbasino, gentile e documentato
Dormiva nella biblioteca del Senato.
Passò il presidente e disse: Questo è Arpino.
– No, replicò il poeta, sono proprio Arbasino.

I male informati

Quest’anno è andata male al poeta Bertolucci,
Gli hanno tolto il premio Nobel per darlo a Carducci.

Cronaca di Roma

Il dramma dello scrittore realista:
i suoi personaggi perde di vista.
Uno è in galera. Un altro frega il socio
e scompare. Il terzo si mette con un frocio.

Ragguagli manzoniani

Sai chi ho incontrato a Ponza?
La monaca di Monza.
Stava con il suo amico,
il Cardinale Federico.

Tutto da rifare

Sale sul palco Sua Eccellenza,
Esalta i valori della Resistenza,
S’inchina a Sua Eminenza.

da Inediti di noto anonimo abruzzese (1959)
“Souvenir”

Mino, ricordi la Marcia su Roma?
Io avevo dodici anni, tu ventuno.
Io in collegio tornavo e tu a Roma
guidavi la squadraccia dei Trentuno.
Mino, ricordi? Alle porte di Roma
ci salutammo. Avevi il gagliardetto,
il teschio bianco, il pugnale tra i denti.
Io m’ero tolto entusiasta il berretto
e salutavo tra un gruppo di studenti.
Mino, ricordi? Tu eri perfetto
nella divisa di bel capitano.
Io salutavo agitando il berretto.
Tu andavi a Roma, io andavo a Milano.

Lettera del commesso viaggiatore

Un tempo commettevo l’errore
di partire con la macchina per scrivere.
Oggi non credo al mio rancore,
porto il necessario per vivere.

*

Lunga la noia che mi sostiene
nei paesaggi visti dal treno!
Bieca la noia della notte che viene
nelle strade, a stomaco pieno.

*

Colme di ipotesi restano le città,
i desideri hanno un prezzo infamante.
È intollerabile, la verità –
se ti scopre da casa distante.

A proposito del «Marziale» di Cesare Vivaldi

Lettera a Bilbili

Non ritornare, Marziale, resta nella tua Bilbili.
Roma è rimasta sempre quella palude d’un tempo,
ma una realtà senza luce offusca il riso alla satira
e l’impotente epigramma affonda nella brodaglia.
Un mondo ha finito di vivere quando il poeta va via.

Risposta di Bilbili

Tutta la sana provincia è già una fogna ulteriore:
il puzzo della metropoli vi arriva fresco di stampa.

Lamento della luna e dintorni

Rimane sempre alta sull’orizzonte, poveraccia,
bella a vedersi così, senza impegno.
Ma non andarci, figliolo, evita la delusione.
Erbacce, un vento di desolazione, barattoli.
Bella,sì, nella sua putrefazione.
All’alba, larve di filosofi in fila
e cani che vanno frettolosi
verso un destino da intellettuali.

Epigrammi, anni ’40

Disse un ermetico – triste e splenetico
– M’ami, o pio Bo?
Rispose pratico – quel problematico
– Sì. Ma. Però.

*

Pastonchi annunzia un’opera di mole
La lingua batte dove il Dante duole.

*

Fa Matacotta
Poesia scotta?
Non vi capisco,
A luci spente
Vi garantisco
Ch’è proprio al dente.

*

Guardare la radio spenta
Chiudere la televisione
dormire un poco al cinema
questa è la mia passione.

(1950)

La posizione di un poeta oggi, qualsiasi sia la sua poetica, non può che essere questa. Simile a quella di un acrobata che cammina sul filo o di un trapezista che volteggia tra le piattaforme sospese sul vuoto. È una posizione instabile, molto precaria, ma è da qui che può nascere la nuova poesia.

(Marie Laure Colasson)

Astronomia tolemaica, con un’appendice di astrologia caldaica.
Medicina ippocratea, con approfondimenti sulla teoria dei quattro umori.
Fisica aristotelica, contro le recenti innovazioni galileiane.

(Guido Galdini)

Francesco Paolo Intini

LA FARFALLA JONAS CHE SOFFRIVA LA GUERRA DEL PELOPONNESO

Disse che avrebbe buttato via la carta
Perché era martedì

Prendere e lasciare suonò lo spartito
Liberare il vento e gracidare rane

A far serena l’Orsa il Nulla suggeriva
Gobbo.

Maldivivere all’uno orizzontale
completo in verticale.

Finita la raccolta del fanciullino?
A Blek E Blanc I Joker

E dunque Fantozzi a centro tavolo
più Soldino per elettrone Genova per noi,
Akim e Super Pippo sui bordi della via lattea

L’eredità si riprese il malloppo
Malmenando nonna Abelarda.

Tutti staccati gli indicatori, sigilli sulla luce.
Dal mascara riconosci il pianeta Terra.

Galeotto fu il COVID?
La strega disse di voltarsi
Ma Antonius non vide nulla

Il circo della Luna montato dai crateri
cubisti il Sole e le altre stelle.

Partita a golf con meteorite.
Beep…Beep… Willy in buca.

Una pallottola brilla in ciel:
Da quando colpisci le capanne?

Vincenzo Petronelli
19 novembre 2021 alle 15:06

Carissimo Giorgio, ti ringrazio infinitamente per la tua risposta al mio commento e per i tuoi spunti di riflessione, come sempre puntuali e stimolanti. Trovo convincente la panoramica di nomi della storia della nostra poesia da te riportati e che, almeno in determinati capitoli della loro produzione, rimangono comunque dei punti di riferimento anche per un progetto di “riforma” (uso questo termine nel senso positivo originario ovviamente, ben sapendo che la storia ci abbia insegnato come possa essere anche un concetto scivoloso) degli schemi poetici, qual’è il nostro.
Le rivoluzioni sono spesso fallite per la frenesia, il furore orgiastico di disfarsi semplicisticamente di tutto quanto fosse “passato”, nell’ignoranza di come invece gli esempi positivi del passato contenessero già in nuce i germi del cambiamento. E’ ciò che scorgo nel tuo intervento e che, ripeto, riflette perfettamente il mio pensiero, accrescendo ulteriormente il mio entusiasmo per aver elencato alcuni nomi che mi sono cari, primo fra tutti proprio quello di Flaiano, anti-poeta per eccellenza e grande esempio di come anche in poesia, la giocosità, l’ironia, la deformazione del comico risultino estremamente efficaci per trasporre artisticamente in termini critici la realtà, come nella narrativa ed ancor di più nel teatro e nel cinema, di cui proprio egli stesso è stato un grande artefice come uno dei maggiori scenggiatori della tradizione della nostra commedia.

Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  Natomaledue è in preparazione.

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Gino Rago, L’indebolimento della coscienza storica letta attraverso l’esperienza poetica di Vittorio Sereni (1913-1983), Poesie e prose, Mondadori Editore, Commenti di Alfonso Berardinelli, Giorgio Linguaglossa, La frattura storica delle generazioni nate dopo il 1950

Vittorio Sereni

Gino Rago

 Dopo Palazzeschi e Rebora, saltiamo a piè pari le esperienze vociane, rondiste, ermetiche, post-ermetiche e anche l’esperienza della vocazione realistica nella quale si chiese al poeta e alla sua parola lo sguardo della comprensione, (lo sguardo della pietà, per catturare l’eco di miserie di guerra in un mondo sconvolto), attraverso l’assioma rivelatore di Pasolini: «Non la poesia è in crisi ma la crisi è in poesia», e approdiamo insieme alla poetica di Vittorio Sereni ben impigliata in

I versi

Se ne scrivono ancora.
Si pensa ad essi mentendo
ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri
l’ultima sera dell’anno.
Se ne scrivono solo in negativo
dentro un nero di anni
come pagando un fastidioso debito
che era vecchio di anni.
No, non era più felice l’esercizio.
Ridono alcuni: tu scrivevi per l’arte.
Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro.
Si fanno versi per scrollare un peso
e passare al seguente. Ma c’è sempre
qualche peso di troppo, non c’è mai
alcun verso che basti
se domani tu stesso te ne scordi.

(da Gli strumenti umani, 1965)

Vittorio Sereni, dopo i frammenti di memoria degli anni della prigionia, dopo i paesaggi calcinati dal vento e dal sole, paesaggi quasi lunari nei quali sono possibili (Diario di Algeria) incontri fra gli spiriti di una tragedia, che quelli di una certa generazione tutti erano costretti a ricordare, fra compagni morti e spine senza rose di reticolati, approda allo sguardo sul mondo del lavoro industriale e si sofferma sulla fabbrica che emana sentori di fatica e di sangue, in una ideologia (anni fra il 1952 e il 1958) anticapitalistica che, animata da un trattenuto rancore ma pronto in ogni momento anche a farsi a furore, induce nei lettori dei suoi versi una ferma coscienza civile, fra quartieri di tribolazioni, sirene che chiamano al dovere, risentimenti della classe operaia con paghe ancora da fame.

Nel caso de ” I versi ”, poesia nella quale si interroga sull’ars poetica, diremmo che si tratta di un componimento nel quale Sereni adotta una scrittura breve, secca, essenziale che però si confronta con una ricchezza di contenuto ad alta tensione poetica nella quale il lirismo non nasce né dall’aggettivo, né dalla metafora ardita, o dalla retorica, bensì da ciò che sentiamo come mitezza di un tono frammisto all’ironia (amara?) di parole proposte in una loro (apparente) nuda semplicità. Il tema non è nuovo: l’idea della innata incompiutezza o inadeguatezza della scrittura del poeta attraversa la letteratura di tutti i tempi; Vittorio Sereni sceglie un taglio diremmo quotidiano, “domestico” per dire di un uomo che scrive poesie quasi vergognandosene, un uomo che saluta gli amici, l’ultima sera dell’anno, amici che al contrario del poeta conducono una vita segnata dalla fatica e dalla concretezza, vigili sempre a non smarrire se stessi nei grovigli e nelle tentazioni della metropoli industriale. Ma scrivere poesie, perché scrivere poesie e per chi scriverle. Non si sceglie di farlo né si decide per capriccio di scriverne.

Si scrivono poesie perché il poeta si fa aggredire dalla necessità di farlo; ma Sereni ce lo dice quasi adottando quella “teologia negativa” secondo la quale per sapere cosa è poesia bisogna ben sapere cosa poesia non è.

Sullo sfondo si avvertono sia Montale, sia Eliot, più precisamente il T. S. Eliot dei Quattro Quartetti.
Al centro del suo componimento, I versi, Sereni scrive:

«Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro[…]».

La esclamazione quasi sgrammaticata che il poeta fa al centro del componimento, segnandone una specie di cesura fra i primi versi e gli ultimi, arriva ai lettori come una sorta di pentimento per avere scritto e per continuare a scrivere poesie; ma in questa cesura al centro della poesia Sereni non ci dice cosa avrebbe “altro” voluto fare.

«Chi legge Sereni, chi impara oggi da un poeta come lui?» si chiedeva Alfonso Berardinelli in una meditazione sull’autore de Gli strumenti umani (1965). Di Vittorio Sereni si parla poco, benché possa costituire un modello più mediamente praticabile anche in via sperimentale per colui/colei che intenda pronunciare una sua parola in quel genere letterario particolare detto poesia. Lo è per una sua scrittura poetica, per dirla sempre con Berardinelli, «in sordina, a basso regime lirico, con qualche improvvisa accensione quasi inconsulta e con molta semi-prosa appena versificata».

Nel suo particolare linguaggio poetico, (assenza totale di virtuosismi, un minimo di parole con mai niente di più del necessario), e nella sua poesia, Vittorio Sereni non gioca mai, pur monologando, raccontando, ragionando e a volte descrivendo. Ma monologhi e racconti, descrizioni e ragionamenti si accompagnano sempre a proposte di dubbi e di perplessità soprattutto su sé stesso proprio in quanto poeta. Ne è esemplare l’apertura de I versi : “Se ne scrivono ancora” che suona a Sereni come desolata presa di coscienza, come perplessa constatazione del poeta alle prese con il gesto improvviso del fare poesia.

Anche per questo, nelle sue acute meditazioni sull’autore di Diario d’Algeria 81947) e de Gli strumenti umani (1965), Alfonso Berardinelli ci lascia quasi una epigrafe illuminante, destinata a durare intatta nel tempo dei poeti e nella storia della poesia:

« Sereni non ha mai vestito l’abito del poeta. Non si è comportato né ha scritto come chi abbia ricevuto doni, investiture e privilegi speciali dalla poesia… Non era un poeta volitivo, non vestiva la divisa del poeta e non viveva da poeta[…]».

Lo stesso Berardinelli dedicandogli un suo personalissimo ricordo scrive ancora:

«In questo 2013 cade il centenario della nascita di Vittorio Sereni, ma è anche il trentennale della sua morte, avvenuta l’11 febbraio 1983. L’avevo conosciuto a Milano otto anni prima, nel corso di una di quelle strane riunioni-colazioni della rivista culturale più politicamente compromessa di quegli anni, “Quaderni piacentini”. Una rivista fatta di conversazioni e di vere amicizie prima che di ideologia e di politica. Leggo sull’ultimo numero dello “Straniero” un saggio di Alberto Rollo, La cultura dei sentimenti, uno dei migliori saggi che io abbia letto su Sereni, che pure ne aveva ispirati altri memorabili: a Mengaldo, Garboli, Fortini, Grazia Cherchi. […] Sereni veniva dalla guerra, una guerra vergognosa e perduta. Lavorò a lungo come funzionario editoriale. Con Luzi, Bertolucci e Caproni inaugurò una nuova fase della poesia italiana in cui si incontravano i maestri del primo Novecento: Ungaretti, Saba, Montale. Vittorio Sereni nasce poeta ermetico o non ermetico? La questione resta in bilico, irrisolta, come irrisolta e in bilico è la situazione da cui nasce tutta la sua poesia.

Si è molte volte ripetuto che il titolo del primo libro di Sereni, Frontiera (1941), individua immediatamente tema e tono di questo poeta. In Sereni si sente subito un’estraneità che può essere chiamata culturale o di poetica rispetto all’ermetismo fiorentino […]. Sereni è un poeta poco interessato a una ideologia o fede poetica».

Difatti Sereni stesso dichiarò: «Il nome di poeta appare sempre più una qualifica socialmente difficile da portare e da sostenere persino nel suo normale ambito letterario…».
E’ da condividere in pieno il pensiero berardinelliano secondo il quale Vittorio Sereni è tutto nel suo verso più famoso, una iterazione martellante sui temi della perdita e e dell’assenza. Un verso da pronunciare a voce bassa, quasi fra sé e sé:

«nulla-nessuno-in-nessun-luogo-mai».

Vittorio Sereni (1913 – 1983)


POESIE

da Frontiera (1941, Ed. definitiva 1966)

Le mani

Queste tue mani a difesa di te:
mi fanno sera sul viso.
Quando lente le schiudi, là davanti
la città è quell’arco di fuoco.
Sul sonno futuro
saranno persiane rigate di sole
e avrò perso per sempre
quel sapore di terra e di vento
quando le riprenderai.

Terrazza

Improvvisa ci coglie la sera.
Più non sai
dove il lago finisca;
un murmure soltanto
sfiora la nostra vita
sotto una pensile terrazza.
Siamo tutti sospesi
a un tacito evento questa sera
entro quel raggio di torpediniera
che ci scruta poi gira se ne va.

In me il tuo ricordo

In me il tuo ricordo è un fruscio
solo di velocipedi che vanno
quietamente là dove l’altezza
del meriggio discende
al più fiammante vespero
tra cancelli e case
e sospirosi declivi
di finestre riaperte sull’estate.
Solo, di me, distante
dura un lamento di treni,
d’anime che se ne vanno.
E là leggera te ne vai sul vento,
ti perdi nella sera.

*
da Diario d’Algeria (1947, Ed. accresciuta 1966)

Dimitrios

Alla tenda s’accosta
il piccolo nemico
Dimitrios e mi sorprende,
d’uccello tenue strido
sul vetro del meriggio.
Non torce la bocca pura
la grazia che chiede pane,
non si vela di pianto
lo sguardo che fame e paura
stempera nel cielo d’infanzia.
È già lontano,
arguto mulinello
che s’annulla nell’afa,
Dimitrios, su lande avare
appena credibile, appena
vivo sussulto
di me, della mia vita
esitante sul mare.
*
da Gli strumenti umani (1965)

Fissità

Da me a quell’ombra in bilico tra fiume e mare
solo una striscia di esistenza
in controluce dalla foce.
Quell’uomo.
Rammenda reti, ritinteggia uno scafo.
Cose che io non so fare. Nominarle appena.
Da me a lui nient’altro: una fissità.
Ogni eccedenza andata altrove. O spenta.

*

da Stella variabile (1979)

Autostrada della Cisa

Tempo dieci anni, nemmeno
prima che rimuoia in me mio padre
(con malagrazia fu calato giù
e un banco di nebbia ci divise per sempre).
Oggi a un chilometro dal passo
una capelluta scarmigliata erinni
agita un cencio già spento, e addio.
Sappi -disse ieri lasciandomi qualcuno-
sappilo che non finisce qui,
di momento in momento credici a quell’altra vita,
di costa in costa aspettala e verrà
come di là dal valico un ritorno d’estate.
Parla così la recidiva speranza, morde
in un’anguria la polpa dell’estate,
vede laggiù quegli alberi perpetuare
ognuno in sé la sua ninfa
e dietro la raggera degli echi e dei miraggi
nella piana assetata il palpito di un lago
fare di Mantova una Tenochititlàn
Di tunnel in tunnel di abbagliamento in cecità
tendo una mano. Mi ritorna vuota.
Allungo un braccio. Stringo una spalla d’aria.
Ancora non lo sai
-sibila nel frastuono delle volte
la sibilla, quella
che sempre più ha voglia di morire-
non lo sospetti ancora
che di tutti i colori il più forte
il più indelebile
è il colore del vuoto?

Strilli Giorgio Sopravvivere a un attacco di radioonde e di scafandri

Conclusioni (parziali)

Quali domande impone al nostro gusto estetico e al nostro tempo l’esperienza poetica di Vittorio Sereni alla luce dei paradigmi ontologico-estetici verso i quali stiamo come NOE tentando di spostare il baricentro del nostro fare poesia il quale nella forma-poesia-polittico-in-distici sta trovando la formulazione poetica più avanzata dei nostri giorni?

Almeno tre sono ineludibili:

1- Il problema della durata, della durata di una poesia nel tempo, almeno secondo l’idea di Andrej Silkin mutuata da T. S. Eliot e nitidamente lanciata e affrontata nella sua postfazione a Giorgio Linguaglossa, Il tedio di Dio (viaggio nel paese delle ombre), Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018, pp.142, 12 Euro;

2- Il ruolo e l’influsso esercitati da Sereni sulla poesia soprattutto dei lombardi sarebbero stati tanto forti se, come si apprende dalle sue notizie bio-bibliografiche, Vittorio Sereni per lunghissimo tempo non fosse stato a capo della direzione editoriale della Mondadori?

3- Come situare l’esperienza poetica di Vittorio Sereni nel grande problema della poesia italiana fra il 1970 e il 1980, da un lato, e in quello non meno impegnativo da Giorgio Linguaglossa segnalato come «L’indebolimento della autocoscienza storica dei poeti e dei narratori nati dopo il 1950»?
Su questo terzo quesito Linguaglossa scrive:

«Di recente sono solito ritornare su un punto che mi sta a cuore, ed è inutile girarci attorno in cerca di eufemismi o di correttezza istituzionale: il fatto che gli scrittori, i poeti, gli artisti di oggi sono privi di autocoscienza storica, almeno nella misura in cui i poeti e gli scrittori delle generazioni di coloro che sono nati prima della seconda guerra mondiale e fino al 1950, o giù di lì. I poeti e gli scrittori nati dopo quella data posseggono una minore autocoscienza storica dei problemi politici, estetici e stilistici che si traduce in poesie e in romanzi di livello decisamente inferiori rispetto a quelli delle generazioni precedenti.
Il problema è che c’è stata nella storia d’Italia e della poesia italiana una frattura storica corrispondente, grosso modo, al decennio degli anni cinquanta, le generazioni degli scrittori e dei poeti nati dopo quella data hanno una relazione con la propria epoca storica un rapporto, diciamo così, indebolito, il rapporto con gli istituti stilistici ne è risultato inficiato. Con ciò non voglio dare una patente dimidiata alla produzione poetica e narrativa venuta dopo quegli anni, ma senz’altro la proliferazione della poesia che è venuta durante gli anni settanta e ottanta e seguenti in Italia e in Europa ha la propria ragione in una situazione storica ben determinata[…]»

Giorgio Linguaglossa

caro Gino,

mi tiri per la giacca dentro il problema della poesia di Sereni e del posto occupato dal poeta di Luino nella poesia italiana del secondo novecento. Il mio parere è che Sereni sia stato un poeta di secondo piano, uno di quelli il cui lavoro è preparatorio per la poesia di altri, di chi verrà dopo. Quello che la tradizione sereniana ha potuto dare, l’ha già dato. Per me il capitolo è chiuso. Quello che noi stiamo cercando di fare con la nuova ontologia estetica è «chiudere» la tradizione sereniana nel posto che le compete e «aprire» la «nuova poesia» alle sollecitazioni del nuovo mondo globale. Aprire la nuova poesia sul periscopio del nuovo orizzonte degli eventi. Continua a leggere

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Franco Fortini (1917-1994) POESIE da L’ospite ingrato 1986 e una poesia da Composita solvantur (1994) – Dall’impegno alla fine della poesia impegnata: dagli anni Sessanta agli Ottanta – Commento di Giorgio Linguaglossa

FOTO POETI POLITTICO

 Franco Fortini pseudonimo dello scrittore Franco Lattes (Firenze1917 – Milano 1994); rifugiatosi durante la guerra, per ragioni razziali, in Svizzera, partecipò alla Resistenza in Val d’Ossola. La sua opera poetica, nata all’insegna dell’ermetismo, riuscì negli anni a conferire alla scontrosa severità di una ispirazione civile e politica una classica misura: Foglio di via e altri versi (1946); Una facile allegoria (1954); la raccolta complessiva Poesia ed errore, 1937-1957 (1959); Una volta per sempre (1963); Questo muro (1973); l’altra complessiva Una volta per sempre. Poesie 1938-1973 (1978); Paesaggio con serpente. Versi 1973-1983 (1984). Rare le sue prove narrative: Agonia di Natale (1948; col tit. Giovanni e le mani, 1972); Sere in Valdossola (1963); La cena delle ceneri (1988). Nel ruolo di coscienza inquieta degli intellettuali di sinistra, dai tempi del Politecnico di Vittorini, del quale fu redattore, fino ai Quaderni piacentini, F. costituì un sicuro punto di riferimento per le giovani generazioni, applicando l’intelligenza penetrante del saggista a temi non soltanto letterarî ma anche politici e culturali: Dieci inverni: 1947-1957 (1959); Verifica dei poteri (1965); I cani del Sinai (1967); Ventiquattro voci (1969); Saggi italiani (1974); Questioni di frontiera (1977); Insistenze (1985); Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine (1990). Tradusse Proust, Éluard, Brecht e Goethe; una sua raccolta di traduzioni apparve con il titolo Il ladro di ciliege e altre versioni di poesia (1982). Del 1990 è l’ampia silloge di Versi scelti: 1939-1989, in cui F. riunì il meglio della sua produzione poetica. Si devono inoltre ricordare la raccolta degli scritti in versi e in prosa di carattere epigrammatico e satirico (L’ospite ingrato: primo e secondo, 1985), il recupero di due racconti rimasti a lungo inediti (La cena delle ceneri & Racconto fiorentino, 1988) e alcune raccolte di saggi (Nuovi saggi italiani, 1987; Non solo oggi: cinquantanove voci, a cura di P. Jachia, 1991; Attraverso Pasolini, 1993). Nel 1994 apparve il suo ultimo libro di poesie, Composita solvantur. Numerose le pubblicazioni postume, a partire dal volumetto di Poesie inedite (1997, già apparso in edizione fuori commercio nel 1995), curato da P. V. Mengaldo. Sono seguiti: Breve secondo Novecento (1996; nuova ed. 1998); i due volumi di Disobbedienze (1º vol. Gli anni dei movimenti: scritti sul Manifesto, 1972-1985, 1997; 2º vol., Gli anni della sconfitta: scritti sul Manifesto, 1985-1994, 1998); i quattro studi raccolti in Dialoghi col Tasso (a cura di P. V. Mengaldo e D. Santarone, 1999); Il dolore della Verità: Maggiani incontra Fortini (a cura di E. Risso, 2000), un’intervista del 1983 allo scrittore M. Maggiani; le conversazioni radiofoniche del 1991 pubblicate col titolo Le rose dell’abisso: dialoghi sui classici italiani (a cura di D. Santarone, 2000).

Onto Fortini

Franco Fortini, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Una lettera di Montale a Franco Fortini del 1951

Nel 1985, in occasione del conferimento a Franco Fortini del premio Montale-Guggenheim,   il poeta narra questo aneddoto:

«Trentaquattro anni fa, il 6 ottobre 1951, Montale mi scriveva per darmi un giudizio assai severo e, a ben considerare, assai giusto ed equilibrato, di un fascicolo di una cinquantina di poesie manoscritte che gli avevo mandato. Avevo allora 34 anni, il mio primo libretto di versi era del 1946 e mi pareva lontanissimo; e andavo cercando confusamente e senza neanche sapere di cercare, dopo qualche plaquette, i versi per la mia seconda raccolta, che venne dodici anni dopo la prima. Montale, fra l’altro, mi scriveva:

«L’ispirazione che ti muove è una ispirazione religiosa, non però, beninteso, della religione che corre oggi nelle strade e nelle chiese. Dei due fili che vi si intrecciano (l’umiltà e l’orgoglio, la dedizione e la rivolta) molto più tuo mi sembra il primo… Ammetto, insomma, che la tua mira è alta e che una certa tua non-forma nasce dal miraggio di una forma più nuova, più impalpabile, più vera. In complesso, credo che la cosiddetta “arte” ti ripugni soprattutto per ragioni morali. Qui però entra in gioco anche l’orgoglio di cui t’ho parlato. Ti rassegneresti poi a dire (a sentirti dire): tu arrivi sin qui e basta? Ti adatteresti a sentirti stimar meno di quanto tu potenzialmente sei? Ti piacerebbe sentire che c’è in te una parte inutilizzata e forse inutilizzabile? E una parte che in un certo senso è la migliore di te? Tali sono i guai, le umiliazioni, le sofferenze che toccano agli artisti. Più volte ho avuto (non dico oggi, leggendo i tuoi versi) l’impressione che tu sottovaluti il travaglio degli uomini della tua generazione e di quella che t’ha preceduto, nel senso che molti problemi che ti preoccupano sono stati sentiti e parzialmente espressi anche da altri; da altri che apparentemente non pensano o pensano meno di te».

I miei ascoltatori non hanno bisogno di essere avvertiti: qui Montale parla anche – e quanto – di se stesso. E questo spieghi perché la lettera fu per me tanto sconvolgente quanto deprimente. I rilievi negativi erano inconfutabili, ma la via indicata m’era impercorribile proprio a causa di quel nesso di dedizione e di rivolta che Montale mi aveva diagnosticato. Quella lettera faceva mancare il respiro. Quando mi ripresi mi mossi, come un ragazzo protervo, in direzione opposta. Valgano gli eventi di quegli anni. Fu erranza, errore e, almeno in parte, poesia. Altri e quali anni ci sarebbero voluti perché acquisissi la certezza o la pretesa testamentaria di aver veduto e detto alcunché «una volta e per sempre».

Montale aggiungeva: «Qua e là troverai segnato a lapis qualche luogo che mi è particolarmente piaciuto». Scorsi il dattiloscritto. Un segno accompagnava una breve poesia intitolata Parabola. Vi paragonavo la mia sorte a quella del grappolo trovato immaturo e non colto (ero già sulle tracce di un mio Manzoni!) e, non giunto a dolcezza, l’inverno lo avrebbe macerato. Con una leggera scrittura a lapis, Montale aveva aggiunto: «Speriamo di no».

Ho sperato anch’io, ecco tutto.

Parabola

Se tu vorrai sapere
chi nei miei giorni sono stato, questo
di me ti potrò dire.
A una sorte mi posso assomigliar
che ho veduta nei campi:
l’uva che ai ricchi giorni di vendemmia
fu trovata immatura
ed i vendemmiatori non la colsero
e che poi nella vigna
smagrita dalle pene dell’inverno
non giunta alla dolcezza
non compiuta la macerano i venti.

Onto Pasolini

Franco Fortini. L’intellettuale isolato e il conflitto su tre fronti

Nell’ottobre 1958, per una relazione interna alla rivista «Officina», Franco Fortini scrive:

«Questo problema dell’eredità è di grandissimo momento perché molto probabilmente può condurci a riconoscere l’inesistenza di una eredità propriamente italiana, in seguito alle fratture storiche subite dal nostro paese; ovvero al riconoscimento di antenati quasi simbolici, appartenenti di fatto a tutte le eredità europee». «Nell’odierna situazione, credo che le postulazioni fondamentali di “Officina” – agire per un rinnovamento della poesia sulla base di un rinnovamento dei contenuti, il quale a sua volta non può essere se non un rinnovamento della cultura – con i suoi corollari di civile costume letterario, di polemica contro la purezza come contro l’engagement primario ecc. – siano insufficienti e persino auto consolatorie. Rappresentano il “minimo vitale”, cioè  un minimo di dignità mentale, di fronte alla vecchia letteratura evasivo-ermetizzante e alle nuove estreme-destre letterarie ma sono anche, di fatto, assolutamente prive di forza e di prospettiva di fronte alla letteratura e alla critica nuove.1 Continua a leggere

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Remo Pagnanelli (1955-1987) POESIE SCELTE – Un poeta del Novecento da rileggere – Commenti di Flavio Almerighi, Paolo Zubiena e Guido Garufi

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Remo Pagnanelli, poeta e critico letterario, nasce a Macerata il 6 maggio 1955, dove muore il 22 novembre 1987. Nel 1978 si laurea cum laude in Lettere moderne con una tesi su Vittorio Sereni. Nello stesso anno esordisce come poeta con la plaquette Dopo, cui fanno seguito nel 1984 Musica da Viaggio, nel 1985 Atelier d’inverno e il poemetto L’orto botanico, per il quale è tra i sei giovani poeti vincitori del premio di poesia internazionale “Montale 1985”. Vengono pubblicati postumi l’ultima raccolta di versi Preparativi per la villeggiatura ed Epigrammi dell’inconsistenza. L’opera poetica di Pagnanelli è stata raccolta nel volume complessivo a cura di Daniela Marcheschi Le poesie.

Valente critico, nel 1981 ha pubblicato La ripetizione dell’esistere. Lettura dell’opera poetica di Vittorio Sereni e nel 1985 Fabio Doplicher. Nel 1988, postumo, è uscito il suo lavoro più impegnativo, Fortini. L’intenso impegno nell’ambito della critica letteraria e della teoria della letteratura è documentato da innumerevoli saggi, studi e recensioni su poeti e scrittori anche non contemporanei, pubblicati su riviste specialistiche. Parte dei saggi sono stati raccolti da Daniela Marcheschi nel volume postumo “Studi critici. Poesie e poeti italiani del secondo Novecento”. Alcuni studi sull’estetica e sull’arte sono confluiti nel volume Scritti sull’arte, uscito in occasione del ventennale della scomparsa.  L’intero corpus documentario di Remo Pagnanelli (dattiloscritti, manoscritti, epistolario) è depositato presso l’Archivio contemporaneo Bonsanti – Gabinetto Scientifico-Letterario G. P. Vieusseux di Firenze.

Per ogni altra notizia il sito ufficiale a lui dedicato (http://www.remopagnanelli.it/).

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Appunto di Flavio Almerighi

 Di storie di losers (perdenti) sono lastricate le vie. Come non dimenticare il più perdente di tutti, marchigiano come lui, Giacomo Leopardi? Conobbi questo poeta quasi per caso, facendo una ricerca sul cognome Pagnanelli su Google, non trovai l’origine del cognome, ma la sua poesia. Poesia che va riletta, reinterpretata non più dimenticata. Poesia singolare, poesia piena di risvolti disperati e dolorosi, eppure intrisa di autoironia.  Remo Pagnanelli, poeta meraviglioso e fondamentale, che propongo ai lettori de L’Ombra delle Parole.

 da una nota di Paolo Zubiena

 La vicenda umana e poetica di Pagnanelli appare tutta scandita dall’inesorabile richiamo della morte, basso continuo della malinconia. Nessuna semplificazione omologante tra nosologia psichiatrica e scrittura – arte e vita, come si diceva un tempo , ma non può sussistere dubbio che l’esperienza di Pagnanelli poeta ponga le radici nella sua sindrome depressiva, la cui oscillazione tra Stimmung  e psicopatologia è da lasciare al giudizio di chi ha potuto conoscerlo. Già nell’incunabolo degli Epigrammi dell’inconsistenza  si  riconosce un’esperienza di totale investimento del sé nella scrittura poetica, che trae dalla situazione melanconica (esemplarmente delineata nella figura dell’“hidalgo”) una conclusione di auto cancellazione (la “lunga vacanza dalla terra”). In Dopo la pronuncia e i ritmi si dilatano: echi del tardo Montale e del Sereni post Strumenti umani definiscono strutture monologanti in cui prevale però la dominante disforica: si veda al proposito, in Mezzosonno, la traslazione di un Sereni corporalizzato verso il tema del dissolvimento – dal sonno al freddo del rigor mortis tramite la voce che salmodia la tentazione “di scappare verso la morte”. Un periglioso autobiografismo bordeggia lo sfogo, ma spesso consegue il risultato dell’impietoso (e sia pure a tratti masochistico) referto. La nuova stagione di Musica da viaggio e Atelier d’inverno  importa un aumento del tasso sperimentalistico e un’alternanza tra la denuncia dell’inadeguatezza dell’io e quella del disastro politico e sociale, con una più diretta voce patemica. Si coglie forse un eccesso di accoglienza di materiali lessicali disparati (tra l’altro il registro basso-corporale, volutamente sgradevole): quasi a voler punire la tenuta stilistica con una brutale imposizione del reale, visto però tal- volta con una lente troppo confidenzialmente egotrofica. Scrive ottimamente Enrico Capodaglio, autore del migliore contributo complessivo sulla poesia di Pagnanelli: “L’autore ricorre a Freud più come al diagnostico che come al pensatore e adotta egli stesso un’attitudine medicale, nel tentativo non solo di esprimere i legami tra il soma e la psiche, ma anche di guarire gli affini con solidale spirito sociale, in virtù della descrizione della malattia. È come se un medico di acuta intuizione diagnostica ci sfogliasse quelle foto crude che si trovano  nei libri di patologia, alternando le spiegazioni tecniche con improvvisi, affettuosi, auspici di guarigione e di salute”.

foto sbarre nell'atmosfera

Commento di Guido Garufi

Remo Pagnanelli, uno scrittore centrale del Secondo Novecento

 Mi viene chiesto di scrivere del mio più caro amico e sodale, Remo Pagnanelli, che nel 1987 decise il suo viaggio per un altrove. Mi è difficile scrivere perché Remo è sempre presente in me e questo potrebbe generare un eccesso di proiezione da parte mia. Tenterò una via diversa. Pagnanelli era e rimane un punto di riferimento imprescindibile nel panorama della poesia italiana del secondo Novecento. Importante nel suo doppio registro di scrittore e di critico. Notti, pomeriggi, telefonate, passeggiate interminabili nella nostra Macerata, e parole, tante parole, giudizi critici, ipotesi teoriche, nuove griglie interpretative. Persino a cena ( anche con la mamma insegnante di Lettere, Luigina – chiamata affettuosamente da mia madre che la conosceva “Gigetta”, il babbo Franco e,  allora, la sorella, una giovanissima Sabina) o dopo cena , facendo una rampa di scale nella sua casa di Via Batà. E poi in camera sua, con le lettere, una macchina a staffa ( non si usava il computer e non c’erano  cellulari) e poi la tensione godibile, l’attesa di ricevere lettere da Loi, da Sereni, da Fortini, da Bertolucci… Remo, alla fine della serata, disordinato o smemorato com’era, gettava a terra fogli residui o inservibili, accartocciati, gli stessi che con tenerezza   diventano in una sua poesia “palle di neve” che- anche lui citato -, il padre raccoglieva e riponeva altrove. E siamo al 1981: decidemmo allora di mettere su, insieme, una rivista, “Verso”, e così facemmo. Ricordo come fosse ora che condividevamo la doppia lettura: verso come il verso dei poeti, naturalmente, ma anche la sua versione latina, “versus” , che appunto vuol dire “ contro”. Remo sosteneva che la poesia aveva una funzione, quella di essere  testimonianza, di “martirio” laicamente inteso. La rivista viaggiava bene, benissimo. Intanto il mio amico pubblicava per Scheiwiller un poderoso saggio su Sereni, La ripetizione dell’esistere, che vinse il Premio Mondello. E contemporaneamente il suo primo libro di versi, Dopo. Gli avevo presentato Giampaolo Piccari e anche io stavo pubblicando il primo libro, Hortus. Ricordo, come fosse ora, che decidemmo insieme la sua copertina, insieme scegliemmo  un bel bleu.

Remo era un gran lettore, un lettore affamato, non affannato, onnivoro: poderosa nella sua stanza la filiera  di testi di critica letteraria e qualche centinaio di libri di poesia. Penso che il suo armamentario filologico ed ermeneutico fosse davvero interessante, almeno  per quei tempi. E tutto questo si deduce dai suoi saggi su Fortini, Penna, Bertolucci, Caproni ed una foltissima schiera di apparenti “minori” del secondo Novecento. Un approccio interdisciplinare, a metà strada tra la critica stilistica e quella variantistica. Alla base, come ho detto ma voglio ripetere,  un centrale armamentario teorico, l’ assorbimento di Freud e Jung, sorvolando Lacan, ma soprattutto i Maestri, da Contini ai più recenti, con un affetto incondizionato per Debenedetti e Mengaldo. Ma questo per restare in Italia. Già, perché oltre le Alpi c’erano Ricoeur, Levinàs  e una piccola schiera di teologi. Non voglio e non debbo qui fare un elenco, sgradito a me e probabilmente ai lettori. Ma è certo che Pagnanelli sapeva unire il suo fiuto  ad una notevolissima e ben digerita  retro cultura, fiuto, intuito e studio matto e disperatissimo che oggi mi pare assente. E anche lo stile, nonostante le citazioni bibliografiche, era uno stile piano, “narrante”, alla Serra, per intenderci. Un dolce stile, godibile, argomentante, accattivante …A questi saggi di carattere letterario bisogna affiancare qualche “perla” critica sul versante dell’ estetica, dell’arte, del puro visibilismo e sul paesaggio ( rimane sostanziale quanto Remo ha scritto sul rapporto Leopardi-Natura, dove bene si coglie quella interdisciplinarità della quale ho parlato).

Ho fatto solo  qualche cenno al Remo critico. Qui informo i mei ventiquattro lettori che aveva anche  una passione di fondo, nascosta , recondita: la musica. Mi disse un giorno che il suo vero sogno sarebbe stato quello di diventare direttore d’orchestra. In salotto c’era un pianoforte che non suonava mai(eccetto che con me, poche volte, e sotto tortura) ma non è casuale questo ricordo, quanto alla poesia. Premettendo, come tutti sanno, che un direttore ha lo scopo  di “accordare” i vari strumenti, di unirli e “sintonizzarli” affinché ne possa scaturire una “musica” uniforme e totale, ho motivo di ritenere che Remo abbia  tentato di fare qualcosa del genere  con le sue raccolte di versi, a partire dalla prima, quella con la copertina bleu, Dopo, proseguendo con Musica da viaggio, Atelier d’invero, e quello finale-terminale, Preparativi per la villeggiatura” ,  che abbia tentato di inseguire una “sostanza musicale” o una “musica di fondo” come sempre mi diceva e ribadiva nei saggi teorici, laddove si occupava di metrica e fonosimbolismo. E’ stato Giampiero Neri ad “accorgersi” di Remo, a supportarlo. Ed è il lessico tonale di Neri che affascinava Remo, una musica di fondo minimale, apparentemente atonale, eppure massimamente espressiva, simile alla indicazione di Montale sul tema della prosa-poesia.

Non sta a me qui percorrere le raccolte, una per una, ma certamente posso segnalare la “qualità” dei suoi versi, pensanti, “pensieranti”, persino quelli che io, come lui sapeva, non “sentivo” e che tanto invece piacevano  a Giuliano Gramigna,  che poi infatti curò la prefazione di Atelier d’inverno. In una sezione, come Remo riconosceva, faceva capolino Lacan, e io gli dicevo che quella sezione del libro mi sembrava ingolfata. Lui sorrideva, di un sorriso compiacente, sapeva che quei riferimenti all’inconscio che in quel libro alitavano, servivano unicamente come “scarico” di un dramma analitico, come una interpretazione dei simboli del sogno. Non so, dopo tanti anni, perché io ricordi questo. Probabilmente perché dei sogni, sempre, Remo mi parlava, dei suoi sogni, dico, e mi chiedeva l’interpretazione. Abbiamo sognato tanti anni insieme e c’è una poesia, anche ironica, dove ci sono di mezzo io, nella figura del “biografo”.

Ed è questo che io voglio ricordare oggi. La sua mancanza è centrale, perché è stato un uomo, una persona, uno scrittore, che aveva capito la “responsabilità”  e il “peso” della scrittura, il ruolo della poesia. E se mi guardo intorno, ne scorgo pochi come lui, capaci di intendere pienamente ciò che sta scomparendo, la Civiltà umanistica, quel residuo che ancora esita e raramente tocca l’umano, la pietà, lo sguardo e la parola degli altri, e agli altri si rivolge, con tenerezza e speranza di comunicare, ancora con i versi  e con il cuore.

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Poesie scelte di Remo Pagnanelli

Nel salone

Non conosco il nome della pianta
né mi interessa di saperlo.
Mi attirano soltanto quelle foglie
inverosimili di plastica
che si allargano fino al soffitto
e lo toccano a una altezza pari
alla vista fuori dell’azzurro.
E’ importante per me notare questo azzurro
intenso e sciroccoso – mentre fuori
tutto si agita e si torce qui
niente fa una grinza e le forme del vuoto
si svelano più facilmente.
E’ importante invece che io tenti paragoni
tra interno e esterno? A tessere
l’elogio del primo non penso
e neppure capire il movimento del secondo
mi smuoverebbe. Non faccio nessun
tentativo di intelligenza,
non scavo, non tento nessun collegamento.
Guardo ancora le foglie larghe
e ogni tanto il cielo.
Non ricordo il nome della pianta.

Da Scherzi per un compleanno
a G.

III
Vorresti prenderti in flagrante,
prenderti sul serio il destino del mondo
sulle spalle. Via, scosta questo orrore
e almeno questa volta non lo fare

IV
Auguri in fretta pestiferi uccelli
scaccia presto in fretta altrimenti
come Ipazia la corsa termina
in un frammento.

(dalla Rivista “Salvo Imprevisti” 1981)

Biglietto da viaggio
spesso in una voliera sognami.
Sarà grande garantirà per me
questo splendore, parti pure e
non interrogarti (questione di
attimi e scorderai).

*

mi addormento nel pensiero, non di te,
ma nel pensiero stesso, forse di lui
ma non necessariamente …

Da Le poesie, il lavoro editoriale, Ancona 2000 , p 100 e p. 202

*

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Les Adieux

infilàti in una nebbianebbione tra ordini e contr’ordini gridati
si rivedono i due vecchi amanti da tempo in un ipotetico oltreche.
Lui può assaporarla giovane come ancora la sognava –
hanno l’opportunità di dire te l’avevo detto che non finiva
… anche qui dandosi incontri che falliscono, dove gli dei
non si avventurano facilmente, tutto retto ancora dal caso.
Ma il sospetto di stare assistendo ad un film d’infimo ordine
non li abbandona … e in qualche modo ne sono fuori
comunque, per un po’ d’odore si rianimano al solo guardarsi
fra le crepe rattrappite dei loro corpi di bacca (in una
nebbia-nebbione)
.

Da Le poesie, il lavoro editoriale, Ancona 2000 , p 95 e p. 199
[Musica da Viaggio, poi confluito in Atelier d’inverno]

*
nel nulla di una stazione cancellata da fiandre
piovaschi, sulle sete sudicie ma tese delle
palpebre, scorre un rumore d’impalpabile azzurro,
un tremore di palme arrochite, assopite nel lino
orsolino. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
(nel grande fiume di luce apparente, estenuantesi
fino all’estinzione, che porta i morti alla foce
d’un altro destino, dorato da sopra macchie
mediterranee d’una cenere autunnale semplicemente
posatasi, vedo la cupola spenta nel latte del bosco)
(nel treno nella notte chissà se dormi lontana
sorella)

IV TOMBEAU

(pensa nel sonno i sonni fanciulli, li sogna, cigni
neri di inutili cicloni? Le querce gli andavano
dietro, gli echi di lui suonavano dalle rive)
lasse celesti e lunari non castamente mortuarie
(qui) rimarginate da bassa plenitudine e bellezza,
in ciocche decrepite e tiepide urne dove gli occhi
si conservarono (anche le suole alate le sabbie dei
cavalieri)

V

dove gettano leghe di legnometallo, l’oscurità si
sgrana in solventi azzurri, in gomiti cavi di gocce
di cenere (s’animano allora le anime immobili, si
scuote il mare tornato intatto da remale mormorio)
– Chi tu sia, il mio non tronco trattieni con ospitalità
regale, le non più braccia nello stridore sgomento
di una stretta
(non la corrente ma il nuovo gelo ti spaventa,
e tu saltalo, se sei un arcangelo. . . . . . . . . . . .
corrompi e sciogli i gorghi, sporcati (poco)
nei liquami – il tuo occhio non regge la visione?
E tu saltala, se sei un arcangelo. . . . . . . . . . . .)

VIII

ora dalla tua ferita (per somiglianza figurale
isolanuvola) fluiscono acerbe ragazze dai colli
lunghi e contesi, che si spengono in una cavea
illune, traversata da un postale, dentro cui suonano
iridi felicemente orientali, dai piedi teneri e
conclusi
(in prossimità del canale si staccano una sera
qualunque teste spedite via)

XI

(una valletta di calici e coppe dischiuse)
gloria levantina scorre su stordimento e pianti
fra una moltitudine di rose travolte da increspature
– vi affonda una mano. . . . . . . . . . . .
(a mezza costa la storia ci sorpassa
ci cancella di volo negli essiccatoi
autunnali – siamo nei piovenali
abbandonati)

XII

la risacca è quella degli anni giovani, logorati
su una losanga emersa da un tiglio genius loci,
ala prediletta e luminosa fra le corde dello
scollamento

(da l’Orto Botanico)

*

L’anno ha pochi giorni perfetti.
Non ci lascia mai incolumi la divinità felpata.
Noi la subiamo come l’eccessivo caldo
o il troppo freddo.
Nel corso passano senza freno i dagherrotipi
della nuova eleganza e ci portano via
le donne e la vita.

.
*

Che altro di strabiliante chiedevo per me,
da lasciarvi tutti così sorpresi e non piacevolmente,
niente che già non si sapesse e di cui si fosse
taciuto e da tanto.
Altri, della passata generazione, direbbe
che il corteggiamento riesce e
del resto chiedere pista e circuire
non è difficile; io nemmeno immaginerei
la morte senza rima come un verso libero.

*
Vorrei fare una lunga vacanza nella terra.
Mie notizie penerebbe il vetro del mare o qualche animale
dal mugugno impigliato nel trabocchetto del buio.
A chi volesse trasmigrerei nelle stagioni intermedie
il fresco dal mio sottocutaneo (la terra
si raffredda più presto del mare), risolto
nel minerale, spesso in simbiosi col vegetale,
assoggettato in altra specie dall’acqua che disperde
in più sciolto da ogni esperimento di corporeità.

*
Forse l’eterno è in questo dormiveglia
di calce mista a biacca senza bagliore,
che elude in inganno ogni virile
aspettazione. Piè Veloce non agguanta
la sua tartaruga né noi il tratto esiguo
d’una giornata.

Vorrei questi versi riversi come un cane
che si abbandona all’agonia.

(da Epigrammi dell’Inconsistenza)

EXILES

Uccelli di specie lontana salutano
passeggiando come foschie sopra
l’adolescente fanciullo adriatico
nell’estivo rifiorire del mare in
un’erica sepolcrale sorella all’autunno.
Gli orti sono invasi da spume presto secche.

forse è ottobre, forse autunno, non sappiamo,
quando s’inazzurrano, per celarsi, le vene
della città, le piane desiderate già al
primo caldo di pasqua, dolci e struggenti.
Scendiamo a coppie sui laghi bianchi, dalle
punte bionde e fiacche, non traslucidi ma
opachi, come noi sul punto di addormentarsi.
Ora fa buio e le candide pernici (nelle estati,
marroni e scattanti ai nostri brindisi)
s’alzano verso gli chalet delle pensioni
e i mangiatori di fiori graffiano le siepi
delle ringhiere.

CLINICA

Efficiente disordine. Bottiglie morandiane
metà opache, lembi di liquide rose sui
guanciali, veli veloci a coprire……………
nel mattino di sole ci si guarda splendere
tra i palmizi e i vasi della villa vicina,
una lacca d’oro entra sulla lampadina
accesa all’angelo custode…………………..
…………………………………………
……………………… (in pozzi bianchissimi e ruotanti
ascolto l’amata traversare vertiginosi
giardini, ignorare gli aliti imputriditi)

nelle brocche, nei cristalli dei lumini
e delle lacrime il tuono delle regate
mosse di fine stagione, lo zoo vuoto
dalle foglie sanguinanti, la schiera
del gruppo che si sgrana e profonda
nel sudore…..……

ora che il fuoco sottile delle lamine è un sogno
della visibilità, un verde pendant di pellicani neri
si versa secco nel parco opaco e voi, fratelli separati,
che la nebbia sbriciola via corrucciati e spenti,
scendete dando le spalle

(da Le proporzioni poetiche. La poesia italiana fra gli anni Settanta e Ottanta, vol.3, a cura di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti,Milano 1987)

*

mi godo questa Luce ultima
della fine senza fine.
Profonda
quanto più nel ritrarsi
pare scalfire.
Che non possiede,
che spossessa le cose e te,
riducendo all’osso e al bianco.

Quant’altra sotto ne dorme
che la pioggia non offusca.

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ALFREDO DE PALCHI, POESIE, “La buia danza di scorpione (1947-1951) ” Commento di Giorgio Linguaglossa  – Lo scorpione, simbolo psicanalitico del pene malsano che infetta e distrugge invece di fecondare e dare vita”; “simboli materni della vita placentale e uterina che collidono e sfibrillano con i simboli paterni”; “un universo simbolico violento e sterile, che porta morte e sterilità”; “Il primo poeta che nella storia della poesia italiana del Novecento inaugura il «frammento» quale forma base della propria poesia”

Alfredo De Palchi con Gerard Malanga New York 2014

Alfredo De Palchi con Gerard Malanga New York 2014

Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York, dove dirigeva la rivista Chelsea (chiusa nel 2007) e tuttora dirige la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto, e tuttora svolge, un’intensa attività editoriale.

Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; Il edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus (introduzione di Sandro Montalto, Novi Ligure (AL): Edizioni Joker, 2010). Nel 2016 esce Nihil (Stampa2009) con prefazione di Maurizio Cucchi.

Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a tradurre in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane.

scorpione uomoCommento impolitico di Giorgio Linguaglossa su “La buia danza di scorpione”

La struttura metrica di questo poemetto poggia su un metro irregolare, cacofonico, spezzato e incidentato, irto di spigoli acustici e semantici. Non c’è alcuna gerarchia compositiva. La gerarchia è sempre opera della coscienza stilistica. A livello dell’inconscio non si dà mai alcuna gerarchia, tutto è affidato alla improvvisazione di una «esperienza profonda» che riemerge, a sprazzi, alla coscienza. Affiora, dalla antichità dell’inconscio, il «fiume», il femminile «Adige». Emergono l’«argine», i «margini burroni», la «colomba», lo «zucchero», «la madre», il «girasole», le «uccelle», «il seno biondo» simboli materni della vita placentale e uterina che collidono e sfibrillano con i simboli paterni: il «seme», lo «sputo», l’«arma», il «gallo», «il palo del telegrafo», il «becco», etc. – Su tutti e tutto aleggia la maledizione dello «scorpione» che inscena «la buia danza» di morte, di sortilegio e di sacrilegio. Lo scorpione rappresenta la degenerazione del mondo, simbolo psicanalitico del pene malsano che infetta e distrugge invece di fecondare e dare vita. Il ragno è una figura maschile che costruisce il «ragnatelo» « il ragnatelo blocca l’incertezza»); l’«incertezza» di cui si parla è una sintomatica e paradigmatica confessione della situazione di sospensione della azione simbolica che dovrebbe sistemare la grave ingiuria dell’essere venuto al mondo mediante un atto di soppressione del Totem. Ma il Totem è sempre là. È invulnerabile in quanto assente. È invulnerabile in quanto ritorna. Ha la stoffa del fantasma. Come ogni Totem si nasconde nei ricettacoli, negli angoli più remoti. È invincibile. Il coito che dà la vita è vissuto così: «A boati il vento mi cozza nella cella». Si profila un universo simbolico violento e sterile, che porta morte e sterilità. Il discendente è appeso alla «incertezza» della sua nascita e immagina di stare immerso nelle «acque» del fiume placentale:

Mi dicono di origini
sgomente in queste acque: qui sono erede
figlio limpido — ed amo il fiume
inevitabile

Il destino del giovane de Palchi è presto detto: «ho questo seme / da trapiantare». Il giovane poeta si assume il compito di assicurare il tramandamento delle generazioni, di rigenerare e tramandare il «seme» paterno in altri «fiumi» producendo l’immortalità della progenie. Sono sogni, fantasticherie ad occhi aperti del giovanissimo de Palchi. La sua poesia si nutre a piene mani di queste fantasticherie, la cui funzione è quella di rendere abitabile il mondo e la coscienza al servizio dell’io incerto che si sta per affacciare al mondo della storia. Il giovanissimo de Palchi fantastica di una rigenerazione che avverrà, e fantasticando, tra un onirismo e l’altro, scrive queste poesie che vivono di sussulti e di frammenti, di insurrezioni e di insubordinazioni alla maestà del Totem e della storia. La raccolta termina con un abbandono estatico dell’io al «fiume» della femminilità agognata e amata, alla femminilità della vita placentale dove le contraddizioni e gli orrori della storia vengono sopite e dimenticate: «Nella desertica vastità delle acque».

Il frammento si nutre di tempo e di nostalgia; l’attesa è il suo metronomo, la sua miccia di innesco; ma, una volta innescata seguirà la detonazione, lo scoppio. La nostalgia si muove a ritroso nel tempo verso il Principio, il Principio del tutto. E non è un caso che la raccolta di de Palchi inizi appunto con un «Principio» di tutte le cose, il big bang, con l’inseminazione dell’ovulo. Da qui si diparte il «Principio» del male e la degenerazione della storia. Ecco la poesia di apertura:

IL PRINCIPIO

Il principio
innesta l’aorta nebulosa
e precipita la coscienza
con l’abbietta goccia che spacca
l’ovum
originando un ventre congruo
d’afflizioni

È ben visibile, a livello molecolare della scrittura, la matrice edipica che traccia questo quadro inconscio che darà luogo ad una trasfigurazione simbolica tra le più suggestive del Novecento poetico italiano.

*

scorpioneIl primo autore che nella storia della poesia italiana del Novecento inaugura il «frammento» quale forma base della propria poesia è Alfredo De Palchi, con La buia danza di scorpione (1947-1951) e, successivamente, con Sessioni con l’analista (1947-1966), pubblicata nel 1967, che però non ricomprende le poesie scritte, dal 1947 al 1951, nelle celle dei penitenziari di Procida e di Civitavecchia dove fu rinchiuso il giovanissimo poeta con l’accusa infamante di omicidio per il quale fu condannato, con un processo farsa, in primo grado, all’ergastolo. Una traumatizzante esperienza che gli detterà la prima forma frammentaria della poesia italiana del secondo Novecento. Sessioni con l’analista (1947-1966), la seconda opera in ordine cronologico di de Palchi, che verrà pubblicata ad opera di Sereni con la Mondadori nel 1967, priva però della prima raccolta, La buia danza di scorpione (1947-1951), che venne stralciata per volontà dell’autore e pubblicata negli Stati Uniti con Xenox Books nel 1993.

«Cominciati in prigione a vent’anni – scrive de Palchi in una nota alla edizione americana del 1993 – questi testi di compatte immagini rivivono in quattro sezioni: l’agonia dell’adolescenza, della guerra, della detenzione, allora attuale, e dell’idea del suicidio. Ringrazio profondamente l’amico prigioniero poeta Ennio Contini per avermi istigato a scrivere, a leggere e a produrre».

In quegli anni di disperata scrittura, dal 1947 al 1951, De Palchi scriverà La buia danza di Scorpione, il primo e più compiuto esempio di disseminazione del linguaggio poetico e di frammentazione della forma-poesia.

Dopo di quella data la poesia italiana non procederà più in quella direzione. E le ragioni sono varie. Le riassumo qui. La poesia italiana del dopoguerra si impegnerà, da un lato nella riforma che avvieranno: Vittorio Sereni, con Gli strumenti umani (1965), Giovanni Raboni con Le case della Vetra (Poesie 1951-1964) pubblicata nel 1965 e Giovanni Giudici con La vita in versi (1965); dall’altro, lo sperimentalismo di derivazione neoavanguardista e l’esperienza della rivista “Officina” di Pasolini, Roversi e Leonetti. In sintesi, l’obiettivo cui miravano queste riformulazioni del linguaggio poetico era quello di assimilare ed esaurire l’esperienza del post-ermetismo mettendolo fuori gioco, formulando nuove tematiche urbane, un lessico prossimo al parlato, toni bassi, narratività, istanze civili, presa di distanza dalla connotazione e preferenza per un linguaggio denotativo e referenziale. L’impresa, almeno in parte, riesce. Il post-ermetismo viene messo fuori gioco. E questo è un merito indiscusso che riuscirà utile per riparametrare la poesia italiana verso parametri linguistici più consoni all’uditorio della nuova civiltà di massa che si profila all’orizzonte. Si tratta comunque di impostazioni debitrici di un concetto di poesia che obbedisce ad una idea lineare della struttura poetica che si può compendiare nella formula: discontinuità-continuità-rottura in rapporto ad un modello canonico legiferante di matrice lineare che si presuppone in vigore.

scorpione qÈ ovvio che non poteva essere questa la strada intrapresa dal giovanissimo De Palchi, il quale, chiuso nei reclusori di Procida e Civitavecchia, costruisce una poesia, come si dice oggi, «corporale»; costruisce la forma-poesia del frammentismo emotivo molto lontana dai paradigmi stilistici dominanti in quegli anni. Si tratta di una poesia che viene scritta in diretta, durante una esperienza traumatica, la reclusione, che si prolungherà per ben sei anni; una poesia che sortisce fuori in maniera vulcanica e terremotata dalla viva percezione della clausura ingiusta. È una parola che nasce già scheggiata e ferita, che ricorre al ricordo del «fiume» della adolescenza quale contraltare al presente che il giovanissimo poeta vede senza via di uscita.

Oggi la questione si pone e si ripropone, non più al modo del frammentismo emotivo del primo progenitore Alfredo de Palchi che pubblicherà in Italia il suo primo straordinario libretto nel 2001 in una raccolta della sua produzione poetica dal titolo esemplificativo di Paradigma. Le poesie qui riportate appartengono alla primissima raccolta La buia danza di scorpione, con quelle sue caratteristiche verticalizzazioni e intensificazioni liriche ed emotive, ma al modo di un frammentismo simbolico e iconico, di una forma poematica che echeggiava Villon e Rimbaud in sede di poesia modernista, con elementi rivissuti e rivitalizzati attraverso l’esperienza personalissima e traumatica della detenzione.

Dicevo che il riconoscimento di un progenitore della poesia del frammento emotivo che oggi alcuni autori fanno in Italia, si pone in modo impellente, perché dopo il grande successo del minimalismo romano-milanese di questi ultimi tre, quattro decenni, si avverte nei poeti più dotati che hanno attraversato quell’esperienza, l’esigenza di voltare drasticamente pagina. In molti poeti si avverte il bisogno di una inversione di tendenza. Sono i poeti della mia generazione o giù di lì quelli che si interrogano e scrivono una poesia che intende perseguire l’obiettivo di una riformulazione in chiave iconica e post-simbolica della forma-poesia. C’è in atto un risveglio, almeno da parte dei poeti che hanno una età che va dai cinquanta anni ai sessanta in su. Dei più giovani, non saprei dire, mi sembra che ristagnino nelle forme poesia ben obliterate, cercano di andare sull’usato sicuro.

alfredo de Palchi_1

Alfredo de Palchi

Alfredo De Palchi Poesie “La buia danza di scorpione”

La buia danza di scorpione
(Procida/Civitavecchia, primavera 1947 – primavera 1951)

                                                                Ce monde n’est qu’abusion

                                                                              François Villon

IL PRINCIPIO

Il principio
innesta l’aorta nebulosa
e precipita la coscienza
con l’abbietta goccia che spacca
l’ovum
originando un ventre congruo
d’afflizioni

***

Mi dicono di origini
sgomente in queste acque: qui sono erede
figlio limpido — ed amo il fiume
inevitabile
in cui l’intrigo del mio tempo
si accomoda

osservo nel fondo rotolare l’isola
verso il nulla
l’età muta calore
il vespaio del gorgo
e l’uno vuole il perché dell’altro:
tu sempre uguale, io
dissennato

***

Al palo del telegrafo orecchio il ronzio
il sortire incandescente da quando
le origini estreme
provocano la terra
percepisco
accensioni e dovunque mi sparga
chiasso d’inizio odo

***

In mano ho il seme
nero di girasole —
so che la luce cala dietro
l’inconscio / ma altre nebule
avanzano
e ho questo seme
da trapiantare
come unico dei sistemi
sconosciuti

***

Primavera
è una colomba
che pilucca i semi della noia e urta
la soglia
— mai mi abbandono
alla sua ingordigia o mi abituo
alla vanità ma
la volubilità che m’incanta allunga
il becco sui semi della noia

***

Nel chiasso
di germogli ed uccelle
la porta spalanca la corsa
in gara col baccano del gallo
sotto la tettoia di zinco

e m’incontra l’argine con l’officina
trebbie e cortili che alzano un fumo
buono di letame
— la pista mi svela
lo scompiglio e odo
una punta di luce scalfirmi gli occhi

***

Estate
frutto propizio seno biondo
d’una calata di sensazioni

nel belato d’alberi la luce astringente
urta
tutto scompiglia: il verde-
verde
il cielo-cielo e il rombo . . .

 

Ciminiere fabbriche
del concime e dello zucchero
barconi di ghiaia e qualche gatto
lanciato dal ponte
snaturano questa lastra di fiume
questo Adige

***

scorpiones-05

Vortica una fanfara
di zanzare nel crepuscolo
e la giostra del mondo
una fiera di ritagli di luce
— io, incerto
giro il vertiginoso cuore impestato
di zanzare

***

Con piedi cercatori
pesanti più che ali d’inverno
vado incontro alla luce

ho gli occhi pesti come
dopo l’incendio terrestre
la notte
la volontà di vedere quello che d’abitudine
si dimentica

***

Il lepidottero barcolla ai vetri —
mi alzo dai fogli dove sono
insicuro ed apro la finestra

fuori di sé insiste a frenarsi
squama alla luce — io fuori di senno
persisto la buia danza
di scorpione

***
scorpione x.

UN’OSSESSIONE DI MOSCHE

Si abbatte il pugno
sul totale formicolio
della natura — è
sofferenza questo gesto
sulla vorace indifesa
degli insetti e
di me

***

Contratto tra convulsioni di case
e agguati
osservo un passaggio di autocarri

e mentre scoppiano argini e barconi
nuoto verso rive ascoltate
— lo sforzo
mi guasta ad ogni bracciata
e i miei pochi anni nuotano con astuzia
di pesci ai fianchi

***

Ad ogni sputo d’arma scatto
mi riparo dietro l’albero e rido
isterico
alla bocca che sbava
un’ossessione di mosche

***

Una madre sradicata del ventre geme
per il figlio:
occhi sbucciati
infiammato groppo di lingua
al palo del telegrafo penzola con me
afferrato alle gambe

***

Dopo l’ultima raffica
il subentrare della calma orrenda
un prete esce pazzo dal fosso
con uno straccio di cristo
impalato

***

Non più
udire il tonfo dei crivellati nel grano
urli di vecchie bocche e di bestie
negli incendi e bui guazzi
nell’Adige

vedere un branco di vili osservare
chi s’affloscia al muro
il camion che di botto lascia al lampione
chi fa le boccacce con eloquente
groppo di lingua

***

Al limite del paese le vie
come antenne dilungano
racchiudono il boato e l’angoscia di uomini
che spiandosi in giacche succinte
di precauzione
vilmente si evitano

***

Al richiamo del gallo non evito
la piazza irosa
che inventa leggi — presto
un falso fazzoletto rosso
anche ai miei 18 anni

***

scorpione-in-nero_91-9763

 

.

Appigliata alle spalle la colomba
annunzia la condanna
odore del diluvio
e l’albero di fuoco
sbracia i rami
strillanti nel cielo basso di fango
lo spavento dell’uccella difforma
l’innocenza che non si rifugia nell’arca

***

Già nel cantiere il muratore rimbastisce la casa
con mattone e mattone

all’uscio batte le nocche la madre

risponde con radici d’acciaio rovesciate il ponte
— e chi è che passa
sugli argini della disfatta ribaltando i reticolati

***

Al calpestio di crocifissi e crocifissi
sputo secoli di vecchie pietre
strade canicolari
il pungente sterco di cavalli immusoniti
in siepi di siccità

(al gomito dell’Adige allora crescevo
di indovinazioni rumori d’altre città)

e sputo sui compagni che mi tradirono
e in me chi forse mi ricorda

Alfredo De Palchi -7

Alfredo De Palchi

.
Nel giorno della disfatta cerco la verità

sono il campo vinto
ragazzo armato di ferite

il suolo calpestato
idolo d’argilla

il pane della discordia
la trave nell’occhio

la fionda che punta il mondo
scroscio d’oro del gallo

nel giorno della disfatta trovo la verità

CARNEVALE D’ESILIO

Dopo una lunga attesa la Rimbaudiana
bellezza mi viene sui ginocchi

le chiedo dell’afflizione e mi offre
la gioia che rifiuto

ancora aspetto
la bruttura che possiede

***

L’incubo si srotola
sbiscia nel frullare delle piante
dal soffitto
dal muro circolare che imprigiona la luce
essudata d’un olio buio —
non decifro le pagine bibliche
inerti all’occhio che matura
la notte / pelaghi di sonno via
mi portano: margini burroni,
mi muovo lento
la distanza è nera e i passi
sono balzi al rallento mentre le braccia
annaspano . . .

***

Uovo che si lavora nella luce ovale
nuovo adamo
invigorisco nell’altrui simulazione
e quindi anch’io implacabile finzione

anch’io sono, io
mi credo
altri osserva che non sono —
com’è possibile
se sulla croce di tutti ulcerata
mi svuoto le gote
se circondato non c’è chi
mi disseti
solo chi impreca

***

Mi condannate
mi spaccate le ossa ma non riuscite
a toccare quello che penso di voi:
gelosi della intelligenza e del neutro
coraggio aggredito dal cono infesto
delle cimici

— io, ricco pasto per voi insetti,
oltre l’ispida luce
vi crollo addosso il pugno

***

A boati il vento mi cozza nella cella
dove sono intracciabile —
la mia mano di sepolto
è uguale a quella d’altri che altrove
si tentano uniscono e separano
non lasciando una traccia
qui
l’indifferenza livella tutti

***

Fra le quattro ali di muro
circolo straniero a pugno
serrato — non ho amicizie
non mischio occasionali smanie
con chi le persiste
e siccome ognuno impone
il proprio mondo a chi perde
non si chieda cosa avviene:
la parola è nella bocca dei forti

***

Concluso fra pareti vilipendio
e menzogne
mi sfinisco per quello che succede
mai — non so
non so chi e cosa dovrebbe
capitare: un figlio come me
un quaderno di scritture per testimonianza
un’arma che mi geli
o una migliore conflagrazione
***

Alfredo de Palchi periodo francese

Alfredo de Palchi periodo francese

scorpione il record di Kanchana regina degli scorpioni

Kanchana regina degli scorpioni

Il mio tempo tra muri infetti
è un ricordo di spighe rovinato dagli uccisi
ancora in fuga
— il suolo li sigilla in cedimenti
di ruggine —
e dall’occhio che indaga laconico

***

Che cogliere dalle disfatte
se tutte le malattie
le vivo — ferro e paglia
m’induriscono la faccia inquadrata
dalle sbarre crescenti

si apra il cancello
la città nella conca schiuma di luci

***

Pane è pietra
la sete pietra
ho metri di pietra
mordo la pietra

chiedo acqua
— mi si impone sete
voglio luce
mi si impone ombra
calce viva che rosica le mani occupate
a scacciare l’oscurità

la luce è dispensata
quanto l’acqua di cisterna

‘vivo! è bello vivere’
mi sorreggo
ma i ghigni intorno mi ghermiscono

***

Età cruda
fame cruda
una gamella al giorno di ceci col baco
e un pane benzoino

sbadiglio per la fame
mi piego in pena
e vivo di notizie che raccontano quella secca
il suo scheletro nelle baracche
appigliata alle reti elettriche

***

Il pezzo di pane mi nutre
in una putredine di patria
e traffico di truffatori
— il pane
sa di petrolio
lo mastico con bucce di limone
raccolte nelle immondizie

***

alfredo de palchi italy 1953

alfredo de palchi in Italia, 1953

.

All’alba morchia — morchia
di caffè con sale
eiaculazioni
c’è chi va e chi viene — si esce al cancello
per indovinare
‘piove?’
non piove
mezzogiorno stagna la monotonia
la puzza del bugliolo
il giornale che tarma
la giornata: consuete notizie

***

Qui
carnevale d’esilio
e bestemmie — fuori
di mortaretti
‘che maschera sono’
non sono eguale
‘che maschera porto’
sono eguale
cristo impostore, riconoscimi
esercita pietà
sono il dannato

***

Il cubicolo è un forno che trasuda
l’umore di me alle prese con la forza
e l’atto di scontare un vivere
ingombro di spurgo
— cosa serve aggiustare
il perché delle menzogne
l’immensità della pena più grande
di me in questi dintorni
se oltre l’incubo
non so altra percezione

***

Arso dalle azioni di chiunque
annoto i crimini —
pure qui la vita
disfa la vita fruga
interpreta le ragioni forma e scombina
codici irrazionali
e benché annusi una ricordanza d’uomo
nelle piaghe ripugnanti e menti
carbonizzate dall’odio
non concepisco un lazzaro o un cristo
deforme

***

Importunato dalle pazienze i dubbi
l’ambiguità
mi guasta le cellule il vostro microbo
di pace finta — questa larva dilegua
se dissento
se vulnerabile all’insidia biascico
parole vere
se rumino l’attesa di chi
di che
di me stesso

***

La palma lingueggia
lingueggia la pioggia lustrando i crani
semi della prossima sventura
che in agguato già lingueggia prostituta

***

Giorgio Linguaglossa Alfredo De_Palchi serata 2011

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Poter combaciare la notte con la palma
che alza un sapore verde
ma il tarlo d’uomo rode

‘non c’è angolo dove nascondersi’

al mio intrico si intìma
una lunga indifesa
un maturare incerto
— solo c’è luogo
nel cranio di Villon
e sotto la palma che a lingue corrosive
spula la luce demente di Nerval
nello sguardo narcotico

***

Dalla palma nel cortile la civetta stride
per il topo che sono — un fetore
di bugliolo m’incrosta la gola
e l’impeto della notte
mi spacca la mente

(mi scaglio nel breve passato
mi tolgo le scarpe
ai fossi strappo le canne per soffiarvi
una bolla di mondo . . .
e sogno splendidi anarchici)

***

Anch’io incrudelito dall’usanza
da studi sulla rana sul granchio
scosciati vivi
al tavolo della scienza sviscero
ogni forma di vita per concepire quello
che ci definisce: arma sangue —
imito il dio del verbo
onoro la sua opera

***

La nudezza dei pozzi mi secca
il corpo fisso alla branda
e assopisco nelle mie forti
braccia umane

***

Aggiusto lo sguardo riconto gli anni
anni ingannati pentiti regalati
alla famelica babilonia

se il domani fosse certo potrei forse
sostenere il morso
in me che segregato non indovino quale
luce mi darà vigore —
intanto in questo cubicolo
mi mangio maturando e sulla pietra
raspo per una vita dissimile

***

Una scatola
batteriologica un tubo di provini
chimici e da qui si comincia il nuovo:

uomo ovoidale
tutto testa calva
e privo delle decadenze
che si conosce dai testi di storia

si cominci — ogni azione ogni cosa
andrà per il meglio se arriveremo in tempo
a non interromperci di scatto
con qualcosa che . . .

***

Anni verdi rivengono
ora che pesano le pietre / ogni anno
una pietra nel mare sottostante e non so
ch’io sia — a bracciate mi spiego
io maldestro nuotatore

(erano bianche le strade
andavo per sentieri allagati da orti
liquidi di sole e contro i pali
del telegrafo sibilava la fionda)

ma un pugno stupendo di nocche mi resta
ora che anni di granito pesano
e alla forza rozza che ha odio soccombo
pelle mente verbo

***

La tarda lingua della viltà e precauzione
non impedisce alla mia età ostile
di rivedere l’Adige
e di mozzare il guaire di tutti
totale insulto
con i denti aguzzi che schizzano veleno
qui e dove non ho altro da dire che
Ce monde n’est qu’abusion
scorpione q

IL MURO LUSTRO D’ARIA

C’è in me dello spazio
usurpabile — cerchio
o cono che sia . . .

solo so che nella vertigine
il ragnatelo blocca l’incertezza

***

Il fiore selvaggio delle tenebre
mi scotta sulla fronte
e mentre indietreggia ed impiccolisce
e dilegua
ingoio rospi / questi omuncoli da circo —
è ora di rinunciare il fuoco per le tenebre

Una mosca adolescente bruisce
sulla gamella calda di zuppa
annunziando l’infezione
e gira l’orlo come sulle labbra
di me che sogno di uccidermi

***

Si decentra la notte sul muro si decentra
michelangiolesca
la lesione dell’occhio

la cella costringe silenzio
si spacca il silenzio alle sbarre e il trauma
è combustione

— io
groviglio di piedi e mani
prevenendomi
farnetico perfezione

urlo al muro il muro
assorbe da me l’eco risponde
alla sagoma straniera

***

Nella desertica vastità delle acque

scorpione la regina dello scorpione thailandia

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Salvatore Martino (1940) UNDICI POESIE da “La fondazione di Ninive” (1977), Cinquantanni di Poesia 1962-2013 (Roma, Progetto Cultura, 2015 pp.  1000 € 25), con un Appunto dell’Autore e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

salvatore martino copertina la fondazione di ninivo
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Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel cuore più segreto della Sicilia, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra(1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). Ha ottenuto i premi Ragusa, Pisa, Città di Arsita, Gaetano Salveti, Città di Adelfia, il premio della Giuria al Città di Penne e all’Alfonso Gatto, i premi Montale e Sikania per la poesia inedita. Nel 1980 gli à stato conferito il Davide di Michelangelo , nel 2000 il premio internazionale Ultimo Novecento- Pisa nel Mondo per la sezione Teatro e Poesia, nel 2005 il Premio della Presidenza del Consiglio. È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010  con la direzione di Sergio Campailla  e insieme a Fabio Pierangeli ha tenuto un laboratorio di scrittura  creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008, un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.
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Salvatore Martino in pensiero

Salvatore Martino

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Appunto di Salvatore Martino
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Intorno alla città mitica e reale, mai distrutta nella memoria
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Cominciai a scrivere “La fondazione di Ninive” nel 1965, in seguito alla folgorazione, quasi una via di Damasco incontrando T.S.Eliot e il suo maggior fabbro Ezra Pound. The Wast land e i Four Quartets, i Pisan Cantos abitarono la mia casa come in seguito ad uno sconvolgimento tellurico, incrociando il mio specchio, la mia anima, la mia razionalità.
Molte cose avevano preceduto questo evento, la scrittura volgeva allora verso i grandi spagnoli del ‘98 Jimenez e Machado, e a quelli della generazione del ‘27 segnatamente Lorca e Guillen.  Fogli,  lettere,  alfabeti, frammenti, tentativi lunghi e brevi, dispersi e ritrovati, abbandonati sui tavoli, e mai distrutti, ferocemente segnati, custoditi comunque in un codice della memoria. Adesso finalmente costituiscono il corpo iniziale del mio werk, “Cinquantanni di poesia”.
Cominciai a intravedere “Ninive” come ho già detto nel 1965, avendo in qualche modo chiaro il disegno di un poema in tre parti. In realtà codesta divisione era l’unica finestra in un magma materico da evocare dal letto dove dormiva da chissà quanto tempo. Sapevo soltanto che sarebbe stato un viaggio, la ricerca di una identità perduta, forse un lontano gennaio,di un anno che non possiede numeri, la resa dei conti con l’Altro. Del resto attore per vocazione di alchimista, ma anche di viandante, in ultima analisi di randagio, ho sempre viaggiato, maledicendo sempre la partenza, sperando la sosta ad ogni stazione di treni, ad ogni angolo di aeroporti, in un ciclo costante di ritorni, ma non è stata mai una fuga, solo la condizione ineluttabile dell’essere mio e dell’Altro.
E “Ninive” descrive appunto questa lunga parabola nelle tre sezioni, in cui il poema si divide: il viaggio/ la casa/ steep darkness. Un cammino che cerca un approdo, il richiamo definitivo nella speranza che la tua dimora ti  avvolga e ti possieda, ma l’itinerario scivola inesorabilmente nella ripida oscurità. Tutto ho messo di me in gioco in queste pagine, l’eros e l’assassinio, la maschera, il teatro, l’abbandono degli studi di medicina e della normalità, il disprezzo per le cose banali, la condanna politica, il senso ambiguo della storia, l’erotismo del corpo e della mente, il silenzio di Dio, le navi e l’oceano, gli eroi del mito, lo specchio che rimanda la tua immagine che a volte non sai decifrare, lo sguardo tuffato dentro il cosmo, la precarietà degli affetti, gli inganni e l’amicizia, e tante altre cose.

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Ninive mi ha perseguitato con rabbia a volte, spesso con dolcezza, con disperazione nell’arco di undici lunghissimi anni, dilatandosi ed essiccandosi alternativamente quasi in maniera autonoma, al di là, altra da me. Dal 1976 cammina finalmente la sua strada, con fatica, ma libera, non mi appartiene più.
Mi rendo conto che i testi riprodotti in questa sede non possono minimamente raccontare tutto il poema, tra l’altro sono fra i più brevi, ma certo Linguaglossa avrà avuto le sue ragioni per sceglierli.
Voglio riportare, e mi scuso se approfitto dello spazio rubandolo, almeno la chiusa del saggio introduttivo che il grande Ruggero Jacobbi regalò al mio “La fondazione di Ninive”.
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Martino ha percorso questo iter rischioso, talora spaventoso, per giungere a un riscatto che egli stesso ha propiziato, in modi di verso e prosa, che non somigliano a niente d’oggi, che sono soltanto suoi e meritano dalla critica, un’attenzione senza pregiudizi, capace di illuminare la vera sostanza di questo dramma di questo romanzo di questa elegia.
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Salvatore martino cinquantanni-di-poesia-1962-2013
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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
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La fondazione di Ninive riunisce poesie scritte dalla metà degli anni Sessanta fino all’anno precedente l’assassinio di Moro, il 1977, ma del gusto degli anni Sessanta-Settanta questi testi di Salvatore Martino non recano traccia alcuna; è una scrittura che soffre di aperta discronia stilistica e spirituale rispetto alla poesia del suo tempo. Questo è un dato di fatto dal quale io partirei per avvicinarmi alla poesia di Martino. Che la sua poesia non fosse in linea di consonanza con il suo tempo credo che fosse chiaro anche all’autore all’epoca della stesura delle poesie. Ma il problema è che quando un’opera manca l’appuntamento con il lettore, o meglio, con l’uditorio maggioritario, ne deriva che la sua collocazione viene a non essere riconosciuta per mancanza di simultaneità e di scambio reciproco tra l’autore e il lettore, tra cerchie letterarie e l’opera. È quello che è accaduto al secondo libro di Salvatore Martino, che si situava in un suo spazio proprio, anche linguisticamente, isolato e isolazionista, se pensiamo al taglio squisitamente retorico (di alta retorica) del lessico e della sintassi Martiniane, per quel suo desiderio di rendersi non riconoscibile, di ritrarsi in un mondo oscuro e nella penombra di una parola che era e sembrava elusiva ed allusiva, enigmatica, magmatica e che puntava molto su tali quintessenze. Questi aspetti  finivano per accentuare il fatto che il testo sembrava essere il lettore di se stesso. Un testo che rischiava di apparire «squisito», «effabile» e, quindi, «elitario» in un momento in cui la parola d’ordine l’avevano pronunciata Giovanni Giudici con La vita in versi del 1965 e Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965), per una poesia di taglio colloquiale, civile, con tematiche industriali e urbane, dove la chiarezza denominativa e l’abbassamento dei registri stilistici erano ritenuti elementi assolutamente prioritari. Insomma, Martino privilegiava la via della oscurità del tragitto esistenziale, l’esperienza erotica e dionisiaca e l’accentuazione di certo orfismo, quando i tempi invece si orientavano verso la chiarezza del nesso referenziale, l’abbassamento del lessico, l’ambientazione e i temi urbani. Martino punta ancora sulla analogia e sulla simbolizzazione, in una parola, sulla connotazione, in un periodo nel quale invece l’uditorio letterario preferiva la denotazione e la letteralizzazione. A rileggerlo oggi quel libro ci appare fuori delle aspettative dell’epoca, fuori del suo orizzonte degli eventi, e, direi, più inaspettato rispetto a quello di Giovanni Giudici. Oggi, paradossalmente, La fondazione di Ninive, ci appare più in sintonia con le esigenze della ricerca poetica odierna, e pensare che sono trascorsi cinquanta anni dalla stesura di quei testi, ma il fatto è spiegabile perché, in poesia, ciò che si pone come contemporaneo invecchia presto, mentre spesso ciò che si sottrae al contemporaneo, alla lunga, si rivela essere più moderno delle opere un tempo considerate di punta. Con il suo secondo libro il giovane Martino coglieva nel segno di un’opera nata sotto l’egida di uno smaccato anacronismo e di uno scandaloso elitarismo della soggettività. E venne subito archiviato. Forse, oggi si può cogliere con maggiore distacco e serenità la sensuosità di certi passaggi-paesaggi della poesia martiniana, forse di gusto un po’ floreale e appassionato, ma proprio per questo oggi vicini alla sensibilità del lettore moderno. Scrive Donato Di Stasi nella Introduzione al volume Cinquantanni di Poesia 1962-2013 (Roma, Progetto Cultura, 2015 pp.  1000 € 25): «Opera viscerale e cerebrale, La Fondazione di Ninive espone il grumo a cui la coscienza è stata ridotta nella postmodernità… concentra nei suoi risvolti stilistici una formidabile lotta fra il linguaggio e mondo, una partita luttuosa fra l’eros sempre in fuga dalle catene della stabilità e il nostos, sinonimo di necessità e di ritorno a un porto sicuro di significati». (Ibidem p. 135)
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Salvatore Martino in tralice

Salvatore Martino

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da Cinquantanni di Poesia 1962-2013 (Roma, Progetto Cultura, 2015 pp.  1000 € 25)

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A una distanza pari dalla giungla seguendo il filo di un
airone basso nelle correnti dell’aria Disposti a seguitare
malgrado l’oroscopo straniero verso l’alto del piano dove
spirali si rincorrono e la schiera alata dei pesci Intorno
il sentiero mostrava tracce d’un’altra carovana passata
chissà in un giorno di aprile Si avanzava per gradi
lo sguardo fisso al perimetro del dolore

but if you think of a periscopal motion
of thinghs and animals

L’arsenico nel vino i segnali del passo Dalla bocca del
capanno un grido di fucili Stormi inquieti di volatili e
il rosso cremisi delle piume alla vista dei cani
Ci spingemmo avanti senza l’appiglio delle streghe
Poi avrai notizie dagli agenti del cielo Orbite e sonde
le riprese di luna e mille crateri illuminati dalla
fiamma silicea Come sciogli il granito?

A una distanza pari dalla giungla l’anima si riduce ad una
massa che invade le finestre entra nelle cantine squarcia
i vetri e le porte precipita negli alambicchi Piombo
***
Doppiata la collina si piega il tempo per cogliere il
tracciato che scende in un azzurro paese dove laghi
s’incontrano il verde meridiano e oltre la fossa il cielo

Tradito dai sicari

Ci siamo tinte le mani con bianchissima calce
coperto i sopraccigli col sudario una flora batterica
per coltivare agavi o la demenza di chi spera
al mattino un oroscopo astuto delle carte

Non c’è comparazione col metallo quello duro e temprato!
La fossa spaventosa degli inganni precipita intatte
carovane l’oro disciolto nei crogioli l’interminabile spirale
conquista il punto Ricomincia l’ascesa a gironi più fondi
Nel Maelström attorcigliati Cibele e il corpo di Attis
ritrovato una piatta famiglia di lombrichi Sirene
calamitate a riva da un canto più del loro sinistro

Siede il giovane Orfeo la lira stanca lungo il braccio
sul cavalcante Egeo stanco dell’Ade stanco dell’Olimpo
tradito dagli amici le mani di bianchissima calce e un
vuoto contro la mezzaluce balenata in pieno dormiveglia
dalla camera accanto

Dovremmo salire E gonfiare nell’azoto

Una centuria volatile

***

Se ancora disperi di vedermi e i passi si cancellano
nella veglia a mezz’aria tra desiderio e fatica

E un’ora dopo ai piedi di una lunga valle
ti prendessero per mano quasi dicendo una preghiera

Mercoledì 8 gennaio in una valle

E ti conducessero per cerchi e rottami senza una
cruda stanchezza ch’è poi attesa di non attendere

E ti prendessero quando singhiozzano i merli con una
storia da decifrare portandoti attraverso canali di metallo

Se ancora i passi si cancellano
***

A sera la camicia sporca O luna O luna come non sei!
Che il nodo sale e l’anima si spezza Che faremo a gennaio?
Darker and on other time siamo invasi di calma ora
che il tempo è entrato a far parte di noi e l’attimo
blocca le scale O luna O luna per coprirci la mano

***

Esistono giorni che vorresti partire ma per restare e
partire domani o non partire più che hai perso la
logica del partire e ogni logica di transito ch’è poi la
logica di tutto che passi la meditazione della giornata
sopra una mosca e il vento ostinato di grecale contro
l’azzurro del sole Esistono giorni che potrebbero finire
giorni come esistiamo noi senza numeri e segni

E vorresti partire non più domani nel transito di una
mosca uccisa non far niente e sparire non essere stato
non essere mai cancellare ogni presenza del tuo niente
Che niente?

***

Se poi ti addormenti il sonno ti avrà posseduto
come appartenne a te il sonno prima di essere
sonno e ancora alla fine Il miracolo cresce ha
lunghi capelli che non risentono d’influssi ormonali
il letto e il tavolo sono le due dimensioni basta con
gli inganni! Perché il letto è ancora vuoto e io che
aspetto di dormire sono un numero senza matrice il
mistero di un punto fino al finito sirena e luce Il letto
non dovrà aspettare! Ma incidere i grovigli? Gli occhi
rifiutano di vedere perché seguitare? 9/8/6/3 Si sente
un fiato che cresce fino a gonfiare l’aria E poi niente

 

salvatore martino col sigaro

salvatore martino

***

Eros il saggio si sedette sull’orlo della cisterna

A volte mi domando ed è una lunga sera di quelle che non
puoi uscire attraccato alla porta con le scarpe in mano
e una sedia per passi e la stanza prende vigore dal caldo
una cortina separata dalla strada irreale Una di queste
sere mi domando quando il canto degli alberi è rotto dal
silenzio e significa speranza il modulato avvertimento
dei pesci nell’ora della rete per tante miglia tirata da
comode barche e speranza l’assetto del cielo e le
innumeri galassie e il freddo arriva dal mare e non ha
forza e i marosi distaccano i denti incagliati nella sabbia
A volte mi domando

Il dolore è mancanza

***

Giungono d’ogni parte assassini dagli occhi di smeraldo
e la pelle assetata la barba corrosa dal libeccio

– Ma il sangue s’è appiccicato al pavimento non viene
via Non viene ! Via! Più gratto e più lo si vede –
Un garofano macchia la platea Le sventure rimangono
appiccicate a un piedistallo geometrico emergono dalle
latrine come il cotone introdotto per forza nell’esofago

Dannato colui che si perde nei cunicoli impensati
della memoria e l’altro che decifra il limbo del futuro

***

Se un giorno ci siamo amati che sia possibile intrecciare
memorie di viaggi con la candela in mano e trafiggere
le stimmate di una qualche avventura prossima ormai
alla fine e dormire con la bocca interrata in un campo
di vermi trascinando l’aratro del tuo sesso per anfratti
sovrani seminare sventure nella terra di Sisifo che sia
possibile se un giorno ci siamo amati non importa in
quale angolo di strada o piazza o camera d’albergo al
terzo piano attraverso giorni dominati dal vento che
sia possibile se molto ci siamo amati confondere
il seme e la testa l’unica memoria del viaggio

L’amore sulla pietra arenaria Perché ci legarono i sassi
Arpionati Dalla bocca a taglio dello squalo But if you
like it Se ti domando l’universo in parti disuguali
o mi trascende un segno dei tuoi capelli In tutta questa
storia ci legarono i sassi alla scoperta di sabbie
lacustri nei lunghi pomeriggi Arpionati La testa in
parti uguali I piedi che si sfaldano

***

Nell’universo quando due storie
si equivalgono restano inespresse

Attraverso chilometriche fiale
Darker the sky on the back of the mountain
Segni di un antico dominio
Sempre gli stessi libri Sbiadiscono i capelli

Quando mi dissero di lasciare la casa
lo feci senza rumore
Perché negare l’assoluto?
Presi le cose che più mi appartenevano
lasciando ad altri l’inventario e la strage
Il mondo può avere rispondenze precise
in cambio del piacere il piacere

Le storie si equivalgono
su bassa frequenza di contatti

Lo feci senza rumore come
sradicando l’albero della prima infanzia
e il petto struggente della madre

Nuvole imbiancate a calce lungo siepi giganti
calpestano fiori di loto e l’acqua solitaria dello stagno
dove il giovane bello coglie il bacio mortale

Non c’è silenzio così grande che non possa

***

Colmato è il piano Si procede a distanza dagli ultimi
vigneti per un’estate obliqua nella magia degli occhi
Si scendono pendii e bianco alla vista dei corvi
l’arsura ci unisce fino alla decima carta S’abbassano
a cerchi e intorno la sterpaglia assetata Qui riluce
il falco e si chiamano ovunque giostre di uccelli Quando
verranno a prenderti Un sibilo di piume Il gioco delle
sfere La pelle si attorciglia alla carotide Quando verranno
a prendermi Il gioco degli specchi oltre la decima carta
e il rammarico di non aver parlato e come potesse
finire un’altra sto
ria o soltanto impietrirsi nel ricordo
Quando verranno a prenderci legati a doppio anello
di menzogne quando muti verranno col freddo piede
di uccello l’unghia ritorta nella gola

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Sandro  Montalto AUTOANTOLOGIA (2000-2011) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa “Nella poesia di Sandro Montalto si rinviene  un elemento nuovo. Fare una poesia privatistica o una pubblicistica?”

foto palazzo illuminato

palazzo con finestre illuminate e buie

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Nella poesia di Sandro Montalto si rinviene  un elemento nuovo. Fare una poesia privatistica o una pubblicistica?

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Il problema del «Che fare?» in poesia era stato messo a fuoco, in senso privatistico, da Vittorio Sereni in senso e in chiave privatistica, quando richiamava alla necessità che il poeta «ci dica ciò che a noi veramente importa, venga incontro a domande essenziali, torni a offrirci, dietro la fuggitiva apparenza, il fondo stesso delle cose», nella convinzione che  solo nella consapevolezza che in ogni verso «de re mea agitur» sarà possibile per la poesia «ancora esercitare la sua presa di possesso del mondo». In Sereni e nei poeti della sua generazione vigeva ancora la confusione tra il «pubblico» e l’«interlocutore», che erano due concetti da tenere distinti. La dizione: «ciò che a noi veramente importa» era da intendere riferito al pubblico? Era una domanda pubblicistica? O privatistica? Contemporaneamente, anzi ben prima di questa formulazione, Sanguineti con Laborintus (1956), aveva destabilizzato il modo stesso di porre delle domande privatistiche, dimostrando, indirettamente e contro la propria volontà, forse, che il privatismo avrebbe condotto al diarismo montaliano di Satura (1971) con tanto di beneplacito e di lasciapassare per la futura democratizzazione della poesia, per la poesia di consumo rivolta al consumo dei brand che fiorirà in seguito negli anni Settanta e Ottanta. Poi, il fatto che Sanguineti nelle opere seguenti facesse retromarcia e abbandonasse la via privilegiata della de-strutturazione e della de-significazione totali per riposizionarsi, anche lui, nel solco di un diarismo illustrativo, è un problema critico e storiografico che ancora deve essere indagato e spiegato. E poiché i problemi non risolti tendono a ripresentarsi sotto altre forme e altre guise, come i nodi al pettine, ecco che anche il giovane Sandro Montalto, quando pubblica la sua opera di esordio, Scribacchino (2000), si trova a dover fare i conti con quel problema formale e sostanziale rimasto insoluto, e cioè: fare una poesia privatistica o una pubblicistica? Problema non da poco che il poeta risolve dribblando il problema: cioè facendo una poesia privatistica in forma pubblicistica, cioè posponendo il problema che il Novecento gli consegnava lindo e pinto nella sua integrale nudità. Ancora oggi io sono convinto che il suo miglior libro sia il primo libro, là dove frigge e balugina una idiosincrasia di fondo, che sta molto al fondo delle cose, una difficile e promiscua vivibilità di pubblicistico e privatistico. Quella forma che appariva debordare ed esorbitare da tutte le parti in esplosioni semantiche e scintille immaginifiche del libro d’esordio, avrebbe dovuto e potuto condurre ad una esasperazione dei conflitti semantici e delle frizioni lessicali. Così non è stato. Il fatto è che i problemi di linguaggio non si risolvono con una chirurgia sul linguaggio, questa è stata una falsa strada praticata dallo sperimentalismo italiano, ma andiamo avanti. Molto di frequente, paradossalmente, i problemi formali rimasti insoluti danno luogo ad opere brillanti; ma è vero anche che i problemi formali non si risolvono operando chirurgicamente sulla Forma. Accade spesso, invece, che le invarianti subiscano delle variazioni imprevedute e imprevedibili. Non sempre una soluzione formale conduce ad opere esteticamente ineccepibili. E così il problema delle Forme in poesia comporta anche il problema dei mezzi, dei metodi, delle scelte lessicali e stilistiche, delle scelte privatistiche e delle scelte pubblicistiche. Però, poi la Storia con la maiuscola interviene con le sue prescrizioni che il poeta non può evitare: arriva l’epoca della stagnazione economica e spirituale, un quindicennio di terrificante mediocrità italiana, un quindicennio di cloroformio e di conformismo. E la poesia italiana maggioritaria ne è lo specchio fedele, anche se ha, qui e là, come un sussulto, qualcuno sembra risvegliarsi dal coma profondo, ma la generalità continua nel coma catatonico. C’è chi va per una poesia di taglio, di diagonale, di frantumi e chi va per le poesie leggere e per le poesie gastronomiche. I critici del palazzo gridano di visibilio, i migliori mettono, come gli struzzi, la testa sotto terra. E siamo arrivati ai giorni nostri. Montalto è un poeta critico, uno dei pochissimi della sua generazione in possesso degli strumenti per una indagine della poesia contemporanea. Questo è un aspetto importante da tenere presente.È un poeta ideologo, un poeta intellettuale (secondo una formula invalsa ma non impropria). Nella sua poesia si rinviene  un elemento nuovo, frutto della crisi, non notabile prima, che si farà sempre più percettibile nella migliore poesia di questi ultimi anni, man mano che la crisi formale si aggrava: la parola tende a raffreddarsi, ad anestetizzarsi, a farsi estranea alla pronuncia, a mettere uno iato fra voce e parola, tra parola e parola. Tra pensiero e voce si insinua una disparità, una diversità, una alienazione, una preterintenzione; l’io si trova in una posizione dis-locata, de-territorializzata:

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Pensa.
Pensa al dolore che non provi,
che non provi più,
pensa al mondo di angosciante silenzio nel quale
stai affogando mentre mani ossute ti afferrano
e trascinano in baratri senza fondo né sonno.
Pensa al dolore che fingi di soffrire, affinché essi
non capiscano che non soffri più
e non ti torturino con unghie acuminate (ed infette)
che ti dilanierebbero il cuore…

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foto allo specchio ovale

AUTOANTOLOGIA di Sandro Montalto

REFRAIN

1.

Tutta questa carne che sta in dolorosa pena,
solenne circostanza di anziana morte preannunciata,
morte che vomita vita brulicante
(qualcosa si agita e danza,
in essa,
su di essa, forse).
Stimoli pungenti e maledicenti sollecitano l’anima
e fanno rabbrividire le membra, sussultare,
stupire, spaventare, agghiacciare, dubitare,
come un servo che implora con voce rotta
una pietà lontana vestita o rivestita di speranze
ingannevoli e malevole,
si rotola nel dubbio e ossessione:
“Perché questo corpo debole e
deforme, passeggero,
gustoso, saporito, prelibato,
perché queste membra spezzate,
questa gabbia di dolore
causa tuttavia di una feroce
punizione implacabile
come se essa fosse il peccato stesso?”
Ora dovrai pagare, subdolo pachiderma,
tu,
nonostante la scarsa
resistenza all’assalto di mille e più colpi
di falce e di spada.
Pensa.
Pensa al dolore che non provi,
che non provi più,
pensa al mondo di angosciante silenzio nel quale
stai affogando mentre mani ossute ti afferrano
e trascinano in baratri senza fondo né sonno.
Pensa al dolore che fingi di soffrire, affinché essi
non capiscano che non soffri più
e non ti torturino con unghie acuminate (ed infette)
che ti dilanierebbero il cuore,
mentre nelle loro avide gole colerebbe il tuo sangue,
come immondo pasto.

(da: Scribacchino, Edizioni Joker, Novi Ligure 2000)

NUVOLE E…

Ma al di là,
oltre, successivamente,
si nasconde un segreto più grande del mistero –
simboli ed archetipi si affollano in trama avulsa.

Le stelle
si organizzano ad inventare perimetri
dediti alla menzogna,
qua sotto
noi stiamo con il naso parallelo alla schiena
e la bocca semiaperta (come di pesce defraudato)
a chiederci un’altra volta cosa nascondano le nuvole
che si abbracciano a dispetto guardandoci per ingelosirci,
a chiederci quale segreto neghino alle nostre menti senza più nord,
a chiederci se il segreto sia più sconvolgente del mistero.

(da: Scribacchino, Edizioni Joker, Novi Ligure 2000)

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Sandro Montalto Scribacchino copCOSI’ NON VA BENE

se guardi fuori, nei pori, fra le anatomiche fessure
non ci capisci niente
se esponi all’aria gelida e decifri le crepe epidermiche
non ci capisci niente
se appendi al muro un chiodo, se ti ci aggrappi con i denti
non ci capisci niente
se fai coincidere i pensieri con i desideri, i posti con le lacrime
non ci capisci niente

che tu sia accelerato o ovattato, che tu vada o resti inscrivendo nei cerchi
guarda:
tutto quello che vorresti dire, tutte le parole che si nascondevano
dietro all’incertezza e all’incongruenza (o quasi tutte, o quelle almeno
che ti sono sempre servite quando la gola si annodava), tutte le parti
a tessera di puzzle della tua vita oramai si incastrano con il nulla

fai mente locale:
qualcosa quelle nuvole ti avranno pur detto
nelle coniche notti insonni dai rumori che crescono mentre se ne vanno,
segreti impensabili solo tuoi ti avranno pur suggerito l’abbozzo di una chiusura
ed una musica avrà contrappuntato un tuo sospiro o gemito nel buio,
qualche luce che hai creduto di vedere avrà pur illuminato un significante

ma non va bene, e ancora non va:
una minima oscillazione, un qualsivoglia cambiamento
può far crollare la clessidra e disperdere al vento la sabbia dei giorni,
una parola al momento sbagliato (o anche al punto giusto)
può far avvizzire una gioia, dimagrire a spettro una nota di naturale
(o apparente, o autoattivante) tensione allo scherzo
e la folle cartografia della mia essenza mi è ignota, ancora non si sa
se il maestro e discepolo di se stesso abbia giustificato le assenze

qualsiasi cosa se ci penso su se ne va:
ci sono autonomi brandelli di corpi
che narrano ancora storie lunghe come serpenti
ed appare ineluttabile il cigolare delle cose che gemono la loro fine
mentre cartoline multicolori raccontano brani di felicità altrui

so che così non va:
ho fatto l’autopsia al mio me indeciso,
sono stato da un verso che mi è venuto troppo lungo pizzicato e deriso:
percuoto come gong il supremo istante e vi saluto all’improvviso

(da: Scribacchino, Edizioni Joker, Novi Ligure 2000)

.
Sandro Montalto Il segno del labirintoXIV.

(Ode)

In lode al signore del tempo
gratta la palpebra squamosa del domani
misera è la fonte della vita

paludosa sull’argilla informe
sulla terra come mica sbriciola
lontana dalla splendente rilucente folgore
un vago moto si arresta
un’intenzione di gesto si smorza
identico torna l’evento su se stesso
da se stesso generato

il barocco costruirsi del tempo come opale
orbita ancora attorno all’ombra del sé
falò della svendita di sé
con xilofona accozzaglia di scheletri
le ore contate si scagliano contro la pelle
sudore ogni sorriso sgocciolante

il mio respiro breve
l’affanno del congiungimento
estasi breve ogni estasi
viscosità del desiderio
pausa nel narrare le ore
per ribadire la precarietà dell’eterno

fra nocca ed osso, fra cartilagine e disco
si annida il minimo clocchiare di un destino
non cercare nella luce tarda imitatrice di sé
delle stelle fredde il dipanarsi di un arcano

ricca solo di onde la risacca geme
umido solo del proprio desiderio l’oceano migra
bacio è il deflagrare di corrucciate polveri nere
illusione e falsa deduzione appare il bianco
che tutto divora e spazi fra la voce genera
mimo della vastità ed in realtà famelico dirottatore
di ombre da tessere e disfare
biancheggia sulla sabbia il bianco
goccia a goccia scivola la sostanza

si aggruma la vita,
come attonito smegma resta intriso della sua morte
ogni attimo che fallisce il centro

(da: Esequie del tempo, Manni, Lecce 2006)

.
XVIII.

(lapidarium)

Assorbito nell’innegabile caducità
lentamente avanzo e retrocedo,
perso nella nebbia di ipnotico pulviscolo
nei perfetti circoli del tempo,
vago fra cartacei avelli infuocati
e fra marmorei giacigli illustri.
Un fiore piange i petali di un tempo
sulla fredda lapide, muta di un raccontare
che si perde nel passato.
Mi ricorda
che cessata la vita cesseranno il tempo
e lo spazio, per me, le mie parole
saranno alternativo sonnifero
per nostalgici votati al fraintendimento.
I miei versi più inutili, collante poetico,
saranno il mio immortale epitaffio,
mia epìtrope e lapide saranno
le mie chiose obbligate e le grida di stupore.
Niente più che muschio saranno
le mie riflessioni, i versi ispirati
di pensiero e lucida sofferenza,
il mio solo Io sperduto in parole
per sorde orecchie, per pagine troppo piccole.

“Non notare, non insegnare, non avvertire”
mi dice una voce che mi consiglia
di non credere alle voci e ai segni
“la tua polvere sarà semplice starnuto
per la gente comune, lapidi orientate
verso un unico sole, come già
la polvere di altri in passato”.

Intento a discutere mi sorprende la sera,
e mi incammino per la via sconosciuta ed antica
di pietre familiari
scritte col muschio della pazienza.

(da: Esequie del tempo, Manni, Lecce 2006)
Sandro Montalto copertinaXXIV.

(sussurri nella nebbia – kyrie)

Proprio lei che va di fretta,
e non sa che attraversa il tempo
nelle ore del mattino fino al vespro di cartone.
Scusi, non sa se qualcuno si è avvicinato
si è accostato al tempo fuoriuscito dalle assi,
non conosce il riso che ne tampona il fluire?

Giorno e notte, invenzione limata la poesia
esce da me ma subito il mondo ne fa retorica,
il mondo che la retorica l’ha obliata
e muggisce, indefesso, con garbo di diarrea
e ti fa credere eterno mentre ti fa imbalsamato trofeo.
Tutto nasce dall’uovo immortale perpetua frittata
dell’andare e stare, viaggiare diagonali nello spazio
mentre avevo perduto ancora l’attimo.

Alberi che mi tendete clorofille fanciulle
di cuccagne e frutti ne abbiamo abbastanza,
schernite con il vostro autunno-primavera temete
l’umana caducità.
Sempreverdi arroganze,
in triste colloquio con il magma marcescente
dell’ottusità nulla movente, negano il fluire
e consegnano l’uomo al limbo dello sparire.

Con giochi di prestigio la fatina brilluccichina
ha seminato incantesimi come ossa
ha acquistato al laser delle confusioni
la mia mente, distratta dall’andare del tempo.
Lanterne di opacità
ripetono che l’alba è una trovata pubblicitaria
che sul tetto del sonno vi è solo la morte
che il silenzio è muto e non sa l’eternità.

Ma che se ne fanno dell’eternità
la cosa innominata, il verbale del consumarsi,
l’interlocutore cerebrale, la ripetizione,
il nome dato per appuntare uno spillo al tempo,
la ripetizione, il destino alibi sempreverde,
i cespugli di intricati desideri,
l’uomo che si cerca in una bocca amara.

Per lande, deserti, foreste e città
unghiamo il gomitolo del tempo
e tutte le età raggrumate cicatrizzate
si strofinano le mani e soffiano
come fa lui, che se ne va di fretta
e non mi vuole dire se segna il tempo,
se va contromano, se ha ceduto
o non ha capito come il tempo sia un brodo
cui le epoche cedono il loro nutrimento.

(da: Esequie del tempo, Manni, Lecce 2006)

.
(prologo)

Ricordi il progetto di un comune ricordo?
No, trasparente come l’aria che svela
i profili delle cose lontane
fingi di guardarmi
mentre fra noi le cose si susseguono,
gli spazi ammutoliscono e mutano
e i tuoi occhi lontani nella mente
sono globi di vetro in cui mi rifletto.

Un senso mortale mi adesca,
leggo una storia già vecchia
in un libro dai caratteri increati.

Un significato più semplice si profila
come soluzione a una disperazione assuefatta,
come quando fuori il rumore muore
e lo spirito si concede a se stesso.

Ubriaco di mete informi
so buie le ore passate
e traditore il confine fra parola e parola:

e resto lì, fermo recensore di me stesso,
lo sguardo ottuso come di balena in secca.

(da: Il segno del labirinto, La vita felice, Milano 2011)

.
foto in acqua

Oppresso dai rimedi da scovare
attende il momento propizio
per scavare in sé l’animo abulico
e per cieli e mari vaga inutile il pensiero,
mentre l’essere rimanda il momento
della domanda e del vero pentimento.

Il pentimento a nulla serve,
ogni giorno è una piaga utile
ad allevare vermi per compagnia
mentre le bocche simulano incroci
di parole e invece di lingue
umide di piaceri si intendono.

I piaceri sono ricordi
di passate angosce irrisolte,
soffia una brezza che piange umori
mentre ad un tratto
– ecco! –
in dolore s’eterna.

L’eternità è la rinuncia ad ogni progetto,
i lupi ululano alla luna che costringe all’intimità
mentre grandina sugli acini dei nostri prudori
rastremati in ordinati rimpianti.

Il rimpianto è una fine troppo comune,
mescolo i dolori sperando in una reazione
che la dinamica del calore non permette.
Vascelli di nostalgia solcano pelaghi insidiosi
ed io sono il pirata che deruba la sua notte,
mentre m’invento un fato contro la vita inopportuna.

Il pirata è colui che deruba la notte,
la sua notte – e mi ripeto.

(da: Il segno del labirinto, La vita felice, Milano 2011)

.
***

Ho speso ore di vita non vissuta
– o sublimata – a dar forma di parole
alle complesse sinapsi della memoria,
ho condannato all’immobilità attimi irripetibili
per ricalcarne la perfezione, per codificarne
l’armonia e la segreta egolalia.
Ho dato vita forse malata a desideri
(non so se arcaici e ululanti
ma certo lacerati da una lama
terribile nella sua inconoscibilità)
che ora faccio tremare nel timore
che qualcosa venga a sconvolgere il tutto
e a ricreare un disordine più probabile.

Cosa devo ricordare di te, mia sagoma
di compagna in versi scritti e sussurrati,
cosa devo negare al tempo?
Ho permesso agli attimi di susseguirsi
in un pulviscolo di sentimenti taciuti:
non posso più fare nulla – ma
mai ho potuto, mi dicono suoni e ritmi –
e un sentimento superiore tenta di fugare il rimorso.

Non sono che fredda brace sotto la cenere.

(da: Il segno del labirinto, La vita felice, Milano 2011)

.
(epilogo)

Nuvole a catafascio, oggi, nell’azzurro degli occhi.

Fragili prospettive s’affastellano e fioriscono nomi rocciosi
in ogni atto germinante dissoluzioni distratte; opaca,
l’esistenza va oscillando tra fonte e fonte, verbalità
sopraffanno la confezione di petali a precipizio…
– Ecco!
qui fiorisce il mio sguardo straziato di dolcezza.

(da: Il segno del labirinto, La vita felice, Milano 2011)

Sandro_montalto

sandro montalto

Sandro Montalto è nato a Biella nel 1978, dove vive e lavora come bibliotecario. È Direttore Editoriale delle Edizioni Joker (www.edizionijoker.com), presso le quali cura collane di saggistica, poesia, aforismi e teatro. Dirige le riviste «La clessidra» (rivista di cultura letteraria) e «Cortocircuito» (semestrale di cultura ludica). È redattore delle riviste letterarie «Il Segnale» e «Poetry Wave» e consulente per l’Italia della rivista internazionale «Hebenon». Svolge inoltre attività critica su molte altre riviste nazionali e internazionali, tra le quali «Poesia», «Testuale», «Atelier», «Téchne», «Clandestino», «Cultura & Libri», «Bloc notes», «Confini», «Testo», «LN», «La Battana», «Pòiesis», «Pagine», «Alla bottega», «Punto d’incontro», «Golem», «Il Cittadino» e «Poiein»; scrive inoltre su volumi collettanei e su alcuni giornali («Corriere di Como», «Il Domenicale», etc.). Queste le sue pubblicazioni in volume:

  • Scribacchino, Joker, Novi Ligure 2000 (poesia)
  • Compendio di eresia, Joker, Novi Ligure 2004 (saggi sulla poesia contemporanea)
  • L’eclissi della chimera, Joker, Novi Ligure 2005 (aforismi)
  • Pause nel silenzio, Signum, Bollate 2006 (poesia)
  • Crolli emotivi, Lietocolle, Faloppio 2006 (prose; nuova edizione riveduta e accresciuta Cento Autori, Villaricca NA 2010)
  • Esequie del tempo, Manni, Lecce 2006 (poesia)
  • Beckett e Keaton: il comico e l’angoscia di esistere, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2006, con una nota di Paolo Bertinetti (saggio; in corso di stampa negli Stati Uniti)
  • Forme concrete della poesia contemporanea, Joker, Novi Ligure 2008 (saggi sulla poesia contemporanea)
  • Tradizione e ricerca nella poesia contemporanea, Joker, Novi Ligure 2008 (saggi sulla poesia contemporanea)
  • Monologhi di coppia, Joker, Novi Ligure 2010, con prefazione di Paolo Bosisio (teatro)
  • Un grosso apostrofo (FUOCOfuochino, Viadana 2010) (prose)
  • Lentinsetti, Pulcinoelefante, Osnago 2011 (con disegno di Tania Lorandi) (poesia)
  • Ubu furioso, Edizioni del “Collage de ‘Pataphysique”, Sovere (BG) 2011 (con illustrazioni e una in oleografia originale di Marco Baj) (teatro)
  • Il segno del labirinto, Edizioni La Vita Felice, Milano 2011 (poesia)
  • Filastrocchetta, Pulcinoelefante, Osnago 2012 (con serigrafia di Ugo Nespolo) (poesia)
  • Varianti di stupro, Joker, Novi Ligure 2014, con prefazione di Lella Costa (teatro)
  • La geometria della notte, ai quattro venti, 2015, con incisione di Gillo Dorfles (poesia)

Ha curato molti volumi, tra i quali Umberto Eco: l’uomo che sapeva troppo (ETS, Pisa 2009), Fallire ancora, fallire meglio. Percorsi nell’opera di Samuel Beckett (Joker, Novi Ligure 2009), Temperamento Sanguineti (libro + DVD; Joker, Novi Ligure 2011; con Tania Lorandi), ALLARMUS Sanguineti. Edoardo Sanguineti, Francesco Pirella e l’Archivio Museo della Stampa di Genova, (Joker, Novi Ligure 2015). E’ inoltre curatore di diverse raccolte di aforismi e testi teatrali. Ha composto musiche per pianoforte, per complessi cameristici, per banda e per coro. Attivo nel mondo della ‘Patafisica, è Reggente del “Collage de ‘Pataphysique”. Ha ideato alcuni libri-oggetto tra i quali Aforismario da gioco (Edizioni Joker, Novi Ligure 2010). Ha pubblicato anche diversi scritti di argomento musicale e cinematografico su riviste specializzate («SuonoSonda», «Musicheria», «Costruzioni Psicoanalitiche», «Arts and Artifacts in Movies» etc.).

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DIECI POESIE di Umberto Fiori da “Poesie” (Oscar Mondadori, 1986-2014) con un Commento di Giorgio Linguaglossa

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Umberto Fiori è nato a Sarzana nel 1949 dal 1954 vive a Milano. È autore di saggi e interventi critici sulla musica (Scrivere con la voce, 2003) e sulla letteratura (La poesia è un fischio, 2007), di un romanzo, La vera storia di Boy Bantàm (2007) e del Dialogo della creanza (2007). Del 2009 è Sotto gli occhi di tutti, un cd di canzoni tratte dalle sue poesie, in collaborazione con il chitarrista Luciano Margorani. Il suo primo libro di poesia, Case, è uscito nel 1986 per San Marco dei Giustiniani. Sono seguiti, per Marcos y Marcos, Esempi (1992), Chiarimenti (1995), Parlare al muro (con immagini del pittore Marco Petrus, 1996), Tutti (1998) e La bella vista (2002). L’ultima raccolta è Voi (Mondadori, 2009), ora inclusa, insieme a tutte le sue poesie e ad alcuni inediti nell’Oscar Mondadori uscito nel 2014.

umberto fiori copertinaCommento di Giorgio Linguaglossa

Nella poesia di Umberto Fiori c’è un percorso che parte da Sereni de Gli strumenti umani (1965), attraversa Giovanni Raboni e giunge fino al De Angelis di Somiglianze (1976) e al Cucchi de Il disperso (1976); c’è un abbassamento tutto lombardo del lessico. È una poesia di sottotoni, c’è il parlato anonimo di un «io» che si sottrae dalla scena, che si nasconde. La poesia di Fiori, fin dai suoi esordi, è sempre stata ricca di figure segnaletiche di luoghi urbani indicati di scorcio, in tralice (mai in prospettiva); le figuralità sono intercambiabili, gettoni della anonimia della vita moderna («i palazzi», «la tangenziale», «un capannone», «sui viali»); ci sono poi le diciture  del tempo  atmosferico e cronometrico, per lo più dizioni intenzionalmente indistinte: «In piena notte», «un giorno…», «una volta», «Ogni mattina», «Quando», «come quando», «È come quando di nuovo…», «una certa fermata», «in giro», «per un paio di piani», «tra le case», «da qualche parte», «è stato ottobre, gennaio». Molto frequentati risultano i deittici: («qua intorno», «lì intorno», «Qui ora c’è questa rete / e al di là della rete / questo terreno», «Le cose sono lì…», «Giorno e notte, qua sotto», «ogni giorno son qua»), che indicano luoghi generici, indistinti, indeterminati e intercambiabili. Gli oggetti, i macchinari, gli strumenti sono anch’essi indicati da termini generici («le macchine si muovono a scatti»), sembrano non avere nessun rapporto con gli agenti umani, sembrano mossi da forze esogene, esterne, indipendenti dalla volontà degli umani; anche le parti del proprio corpo sembrano essersi liberate dalla dipendenza dell’io, sono pezzi meccanici che si sono sottratti alle leggi della fisiologia («Lo vedi questo piede, / quando mi siedo, come lo metto?»); il sintagma «gente» è impiegato in modo equivalente al sintagma «i tanti»:

In tanti vanno, lungo il marciapiede,
continuamente. S’incrociano e si scansano,
rallentano e poi avanti. Filano, scorrono
svelti e tranquilli

Le indicazioni di luogo non indicano mai in quale città si svolgano i «fatti»; le locuzioni stradali sono sempre asettiche, indeterminate, neutrali non sono serventi alla riconoscibilità dei luoghi; le figure non sono neanche tipizzate come simboli (di qui la distanza abissale dai simboli montaliani, dalle Dora Markus, da Clizia, da Arsenio etc.) ma sono anonime, indistinte, grigie, impersonali, impolverate, unidimensionali; la ricorrente frequenza di nomenclature toponomastiche: strade, viali, angoli di strada, tangenziali, semafori (sottopassaggi, tram, macchine, giardini, autosilo, piazzale, cantieri, scavi, asfalto etc.), indica località urbane intercambiabili, ci si può trovare a Milano ma anche a Genova o altrove. I verbi coniugati per la maggior parte al presente vogliono indicare questa anonimia di fondo dei luoghi, delle persone e del tempo, non illustrano mai azioni concrete, atti, volizioni, quanto piuttosto degli accadimenti estemporanei e intertestuali tra una poesia e l’altra, denunciano l’appiattimento sulla dimensione del presente. Non c’è una temporalità riconoscibile, c’è semmai una temporalità impolverata, opaca, indistinta, si avverte quasi l’odore dei muri scrostati, i fumi di scarico del traffico urbano, dei destini affetti da anonimia. Diversamente da Montale, non c’è mai alcun momento che introduce all’epifania, non c’è alcuna epifania. La poesia sliricizzata di Fiori prende atto, come un registratore, delle esistenze nelle metropoli dei nostri giorni, non si propone, né lo potrebbe, alcun antagonismo al simbolismo (come erroneamente è stato sostenuto da qualche commentatore), perché non c’è alcun simbolismo nella segnaletica dei segnali stradali o nelle nomenclature delle strade. Anche dal punto di vista stilistico e sintattico questa poesia accetta di sopravvivere nella latenza anonima del «parlato» e di un «dettato» in chiave mimetico-realistica. Paradossalmente, si realizza una poesia senza stile, peraltro non richiesto dalla materia trattata, anzi, si verifica addirittura un raddoppiamento delle istanze mimetiche, quasi un iperrealismo, quasi a voler compensare l’irrealtà e l’indistinzione dei paesaggi urbani: «Cancellate, ringhiere, / scale, colonne, cornicioni»; «Siamo lontani dalle cose vere / che abbiamo intorno. / Siamo in errore» (Pedone); «lì davanti li hai / e non li vedi ancora» (Tangenziale); «Vedi? Parlare ci separa» (Spiegarsi); «nessuno parla – o ascolta – veramente». (Il discorso e la voce I)

Umberto Fiori

Umberto Fiori

Umberto Fiori

Apparizione

Alte sopra la tangenziale, chiare,
due case con in mezzo un capannone.
È questa l’apparizione,
ma non c’è niente da annunciare.

Eppure solo a vederli
là fermi, diritti davanti al sole,
i muri ti consolano
più di qualsiasi parola.

Cancellate, ringhiere,
scale, colonne, cornicioni:
ha l’aria, tutto, come se qualcuno
dovesse veramente rimanere.

.
Allarme

In piena notte
sui viali scatta un allarme.
Si ferma, e poi ripete
due note acute, tremende, con la furia
di un bambino che gioca.
Nei muri bui dei palazzi lì sopra
le finestre si aprono, si accendono.

Tranne la strada
in mezzo ai rami, vuota,
niente si vede.
Si tirano le tende
e si rimane intorno a questo urlo
come si sta in un campo
intorno a un fuoco.

(da Esempi, 1992)

.
Di guardia

Mi conoscono bene, hanno ragione:
io sono come un cane,
una di quelle bestie nere che dormono
intorno ai capannoni industriali
e se passi, si avventano di colpo
sulla rete metallica
e più gli dici “Buono!”, più si sgolano.
Adesso, chi li consola?
Finché non hai girato l’angolo
gli bolle il sangue. Tirano tutti sordi.
Scoprono i denti, mordono
anche il filo spinato; ma sono gli occhi
che fanno più paura: sereni
e puri come quelli di un neonato
o di una statua.
Hanno imparato il compito: questo recinto
tenerlo sgombro. Sia senso del dovere
o invece solo istinto, non ti commuove
almeno per un attimo
la scena che -loro- sempre, tutta la vita,
li fa smaniare, li esalta
e li avvelena?
Io, per me, lo capisco
meglio di tutti gli altri che ho mai sentito,
questo discorso.
La riconosco bene la voce
fanatica, che sbraita per difendere
-così, alla cieca, per pura gelosia-
l’angolo dove l’hanno incatenata.
Tu non sai che cos’è, stare di guardia,
in ogni odore
sentire una minaccia
a quei tre metri di terreno,
urlare in faccia al mondo intero
fino a perdere il fiato, e non sapere
cosa c’è da salvare, a che cosa
veramente si tiene.

(da Chiarimenti, 1995)

Minitram anni Cinquanta

Minitram anni Cinquanta

Per strada

Se all’angolo una signora
– o magari un vigile –
si volta
con la faccia scavata dalla luce
della bella giornata
e parla –proprio a me,
a me, qui- del rispetto che si è perso
o del caldo che fa,
io mi sento mancare, come un santo
quando lo sfiora l’eternità.

Sento le piante crescere, sento la terra
girare. Tutto mi sembra forte e chiaro, tutto
deve ancora succedere.

(da Chiarimenti, 1995)

Strettoie

In tanti vanno, lungo il marciapiede,
continuamente. S’incrociano e si scansano,
rallentano e poi avanti. Filano, scorrono
svelti e tranquilli, finché
di qua c’è un mucchio di assi, di là
un rimorchio di camion.

Soltanto uno ci passa.

*

milano, il naviglio pavese in secca e palazzi residenziali del quartiere barona alla periferia sud --- milan, dry naviglio pavese channel and residence buildings of barona district at south periphery

milano, il naviglio pavese in secca e palazzi residenziali del quartiere barona alla periferia sud — milan, dry naviglio pavese channel and residence buildings of barona district at south periphery

Uno soltanto: ma chi?

Ogni volta ti incanti,
prima di entrare.
Rimani lì a pensarci
una vita.

Dall’altra parte la gente arriva spedita,
s’infila nella strettoia. Tu le fai ala
come una folla al suo sovrano.

*

Con un mezzo sorriso
ti fai da parte, lasci che sfili
un cane
che tira una signora,
poi un tizio che viene
dietro di lei, deciso; ti sporgi appena
e subito rientri,
fai largo a un altro con una moto.

Guardali come sono calmi, sereni,
mentre ti passano di fronte
senza parlare, con gli occhi fissi nel vuoto,
ognuno un sole che sorge.
Beati, indifferenti:
sembrano dèi.

Tu invece, lì sull’attenti,
mastichi amaro.

*

Cos’è, rancore
quello che ti prende
ogni volta? Che torto ti hanno fatto?
Passare tu, volevi,
al posto loro?

No, non è questo.

*

Né tu, né gli altri. In quel passaggio stretto
vorresti che nessuno avesse cuore
di penetrare;
che durasse per sempre
e per tutti quell’attimo di scrupolo,
di esitazione;
che soltanto a vederlo, questo sentiero
sacrificato, in mezzo a due transenne,
le persone restassero impietrite
da un infinito rispetto.

*

Allora, fermi a un imbocco
e all’altro della strettoia,
mille volte ripetere l’invito
– prego, si accomodi!-
e mille volte regalarci il mondo
con gli occhi e con le mani, e mille volte
rifiutare, e invitarci, finché l’asfalto
che ci separa, a furia di cerimonie
si spacchi, e l’erba lì in mezzo ricresca alta
come se mai
ci fosse passato un uomo.

(da Tutti, 1998)
*

Contatti

Lo vedi come sono
storto, contratto? Lo vedi questo piede,
quando mi siedo, come lo metto?
È tutto per lo sforzo, in tanti anni,
di non urtare le persone. Stretto
contro un sedile, dentro l’autobus pieno,
stare a posto, evitare
coi miei vicini
persino il minimo contatto.
Sulle panchine delle sale d’aspetto
o in treno, in corridoio, era una pena
ogni momento sentire sfiorarsi il buio
del mio ginocchio e del loro.
Ore e ore, giornate intere:
uno di fianco all’altro
stavamo, come i gusti del gelato
nel bar della stazione.
Di vero tra noi, di giusto,
lo spazio di due dita
era rimasto.

(da Tutti, 1998)

*

Eccomi

Dello sbuffo di polvere che si alza
tra le forsizie e le macchine,
di quest’aria di pioggia, di questi morti
alla televisione,
richiami di cornacchie, sirene
di ambulanze,
nessuno ci assicura.
Del baretto incendiato, dell’abbraccio
di una donna al suo dobermann
all’ombra, qui, del portone
– del loro male, del loro bene –
abbiamo perso la misura.
Facce, bottiglie rotte, rami fioriti:
il mare in cui nuotiamo
precipita
nei nostri occhi senza fondo.
Eppure quando mi chiamano
mi volto ancora – vedi? –
e rispondo.

(da La bella vista, 2002)

bruxelles-tram

bruxelles-tram

Diciotto e ventisette

Le macchine che si muovono
a scatti lungo il viale, poi restano
ferme in fila al semaforo,
non sono vuote.

Ogni volante, una testa. Come due uova
rimaste nel cestello di cartone,
il taxista e il cliente
guardano avanti.

È troppo nuova per te, questa scena?
Perché tremi? Cos’è, non l’hai mai visto
il suo broncio di pietra
venirti incontro? Non sei ancora pronto
a queste facce, a queste ruote?

Ancora ti sconvolgi, di fronte
all’autotreno che non si ribalta,
alle minacce che non arrivano, al cuore
strappato vivo
dal petto di nessuno
e stretto in mano, e sollevato in alto?

(da La bella vista, 2002)

.
[Insieme a voi]

Insieme a voi
ho visto il mare brillare, le case correre
sempre più grandi
sotto i carrelli del boeing.
“Che caldo fa oggi”, ho detto
quando era caldo.
Anche per me è stato ottobre,
gennaio. So cos’è un letto,
una stella, un autobus.
Ho riso, ho avuto sete.
La terza ho fatto, la quarta.
Non basta ancora? Quando
mi prenderete?
Potrò essere mai
dalla vostra parte?

.
[Le vostre accuse, i vostri]

Le vostre accuse, i vostri
rimproveri, di nuovo.
……………………………….Mentre li smonto
come posso, uno a uno,
citando fatti, nomi, date,
mentre riconto sulle dita i miei due,
tre, quattro meriti,
e vi abbaio sul muso la mia vita
non dite niente: mi guardate.

Le orecchie rosse, le vene
gonfie sul collo
– cosa guardate? Lo so, lo so che il bene
è diverso.

Ma non vi fa pietà
vedere come
ogni giorno son qua
a fargli il verso?

(da Voi, 2009)

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GIORGIO LINGUAGLOSSA DUE POESIE –  IL RINNOVAMENTO POETICO “Cogito è in viaggio su un treno blindato”, “Giocavano a dadi con i meteci”, con un Commento di Mario M. Gabriele a proposito della rifondazione della “forma-poesia”

Foto Vopos Verso la libertà a bordo della BMW Isetta, Una storia vera

Il Signor Cogito alla guida della Lada di proprietà

.

due poesie di Giorgio Linguaglossa a cura di Mario M. Gabriele

Se è vero che la filosofia secondo Hegel è:“Il proprio tempo compreso con il concetto”, dal quale poi si forma una connessione di elementi che rientrano nella cosiddetta “Fenomenologia” dove si chiarisce il percorso che ogni individuo deve realizzare, partendo dalla sua coscienza; allora tale definizione può anche essere trasferita, pur con le dovute variazioni, alla poesia, al di là di tutte le interpretazioni che sono state elaborate nel corso della Storia. Barthes, ne “ Il piacere del testo”, perviene ad un progetto di ricerca seguendo le sedimentazioni temporali della scrittura che si allarga ad ogni sapere fino a incontrare il lettore, autentico interprete di ogni opera.

Un interrogativo però si pone ed è questo: è il lettore in grado di interpretare il “Profilo Sommerso” legato alle figure retoriche, che costituiscono la “Maschera” con cui si cela l’altro di sé del poeta, il quale agisce su “Espressione” e “Contenuti”, raggiungendo la Forma estetica del verso fasciato di “Allegoria” e “Allusione”,”Metafora”e Metonomia” ecc.? In questa indagine Barthes coinvolge anche la “Simbolica”  attraverso la quale agisce la scrittura polisemantica. Un altro interprete della poesia è stato Saussure il cui nome è legato allo Strutturalimo, contribuendo con le sue ricerche  a fissare i punti di orientamento della Linguistica, come Scienza, attraverso alcune nozioni tra le quali si annoverano la “Sincronia” e la “Diacronia”, la“Struttura”, e la “Commutazione” che, una volta assemblate, includono la lingua  in  un “sistema in cui tutti i termini  sono solidali tra loro e il valore dell’uno risulta soltanto dalla presenza simultanea degli altri”. L’immagine di una poesia immutabile nel tempo diventa mero astrattismo perché la “Critica del gusto”, verso modelli legati  alla fitta rete-semantica, si è sempre indirizzata verso nuove catalogazioni.  Da molto tempo però  l’industria editoriale ha chiuse le porte a molti Autori di ottimo profilo poetico, immettendo nel mercato prodotti secondari,  camuffandoli come  innovazione, tanto è vero che la critica ha rinunciato al suo ruolo di analisi e di valutazione, creando un vuoto culturale fra letteratura e società.

”Osservando il panorama editoriale contemporaneo ci troviamo di fronte alla situazione paradossale di poeti ottimi pubblicati da case editrici minori, o addirittura invisibili, e autori di scarso interesse che escono in Case Editrici molto accreditate, con una precedente tradizione, come Einaudi, Mondadori o Garzanti. Ne deriva una situazione di profondo sconcerto che coincide con l’eclisse della critica della poesia.” (Alfonso Berardinelli).

Con questo scempio editoriale la poesia di frontiera è rimasta ai margini di se stessa e della invisibilità. L’impegno e il rinnovamento non sono stati abbastanza sufficienti a determinare il rovesciamento dei gusti e delle proporzioni poetiche. E’ stato un prezzo altissimo che hanno pagato i poeti di diverse generazioni.

Cosa si può fare allora per contrastare  la letteratura del consenso e dello spettacolo? Rimanere onesti con se stessi, a costo di morire nelle catacombe e accettare il motto delle Giubbe Rosse: marciare per non morire. La tradizione e la ricerca devono avere una funzione interagente nel procedimento linguistico, ciò che non si trova  nell’area avanguardistica ricca di segni iconici provenienti dall’informatica e dall’area multimediale. In quest’ambito il vero coup d’aile avviene con il disordine linguistico dei vari Baino, Viviani, Voce, Ottonieri, Bilotta ecc. che invece di formare una valida alternativa alla lingua, si sono smarriti in un universo senza luce e sbocchi. Per fondare nuove alternative, l’uomo deve riscoprire la dimensione del linguaggio. E’ l’unica risposta che si possa dare al necrologio di Baldacci, che ne “Il male nell’ordine: Scritti leopardiani,” Milano, 1988, ha affermato:” l’Avanguardia non è più proponibile”, confessando nella Introduzione ai testi di Patrizia Valduga: Medicamenta ed altri medicamenti  (Torino Einaudi, 1989), “che le parole nella poesia sono state tutte adoperate”. Su questo tema si è espresso anche Sanguineti,  in una intervista di Pietro M. Trivelli, su La Repubblica del 16 luglio 2003, pag.19, quando afferma  che:” non ci sono fronti culturali che si contendano una spinta al cambiamento. Non esistono “Gruppi” di poeti. Tuttavia come negli anni 50 c’era più impulso di ricerca tra pittori, musicisti, registi, rispetto alla letteratura, anche oggi è più viva l’inquietudine nelle arti figurative ma prevale il mercato sul dibattito culturale”.

Onto Gabriele

[Mario Gabriele nella grafica di Lucio Mayoor Tosi]

Su un altro versante ha operato Arnold Schönberg sostenendo che dopo la dodecafonia non è più possibile inventare nuovi moduli compositivi se non reinterpretando la musica. Quando “l’oltre” non è più praticabile nelle arti, l’impoverimento espressivo diventa un deserto morfologico, senza il riscatto formale del significante. Hand Freyer in “Società e cultura” rileva che se un autore vuole sopravvivere all’afasia deve necessariamente “attingere a tutte le fonti, raccogliere parole ed espressioni in tutti i vicoli, ma anche nelle miniere più antiche, purché abbia il coraggio di penetrare nelle gallerie in rovina”. Si tratta della medesima concezione di Eliot sulla poesia, vista come una  unità vivente di tutte le poesie che sono state scritte: ossia la voce dei morti in quella dei vivi. Contro l’omologazione della poesia koinè, è necessario contrapporre il dissenso e l’antagonismo, cercando di agire con la qualità e la ricerca, senza fossilizzarsi in forme e contenuti  di dubbia consistenza, cambiando un poco le regole del gioco  e i luoghi culturali, fino alla contrapposizione di un progetto duraturo e credibile, potenzialmente rivoluzionario.

È un percorso difficile da realizzare, ma percorribile nelle diverse esperienze acquisite,  Tra i vari modi di scrivere versi, la poesia racconto, (ma anche quella di impronta ideologica, così attiva negli anni Sessanta, con Fortini, Pasolini ed altri), ha offerto uno spazio dilatato  e rispettabile di fronte alla fumisteria e all’apnea poetica. E’ stato un genere letterario che ha avuto nel passato illustri nomi da Mallarmè con “Il pomeriggio di un fauno”, a Pascoli dei “Poemi Conviviali”, da Pavese di “Lavorare stanca”, alla poesia straniera con Lee Masters di “Spoon River”, a Withman, Pound, Garcia Lorca, Neruda, Majakovskij e Ginsberg di Kaddish. In effetti l’ampio registro verbale ha legato il lettore ad una struttura linguistica più impegnata. Se poi la poesia racconto è riuscita ad essere anche un contenitore di tematiche esistenziali, meditative, e socio-politiche, in relazione alle cosiddette figure grammaticali individuate da Kopkins, allora”l’universo del discorso” che, ha caratterizzato questa poesia, ha una sua valenza nel variegato panorama dei “Modelli”. Qui non si possono non citare anche gli esiti della poesia visiva, attraverso la rappresentazione eterogenea dei segni iconici e tipografici, simboli del consumismo, slogans e figure geometriche. Il rischio maggiore legato alla poesia visiva è stato l’autolesionismo che ha sublimato e ideologizzato, nella sostanza e nella forma, l’esclusività dei suoi caratteri nell’era del postmoderno, nel momento in cui era necessaria la sua collocazione in un contesto più vasto e progettuale, fuori  dalle maglie troppo strette di uno status propagandistico, per entrare con altri linguaggi e culture, all’interno di un “villaggio globale”.

Secondo Stelio Maria Martini l’elemento visivo, a parità di diritto con quello verbale, va considerato complementare di questo, perché rappresenta meglio di quanto non farebbe con la parola, da sola, il sostrato fantastico e sentimentale che sottende uno schema verbale (e viceversa, naturalmente) per non lasciare nelle mani dei mercanti d’arte o dei fotografi dell’immagine, la mistificazione del prodotto  e il ribaltamento della realtà”, fuori da quell’aura propria di cui parlava Benjamin “Dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità  tecnica”.

Per quanto si possa parlare in questi tempi di un nuovo ordine linguistico, non si può non riconoscere lo sforzo ricostruttivo compiuto da Giorgio Linguaglossa nei confronti della Forma poetica, sempre attento a non offrire ai lettori del circuito italiano ed extranazionale, paraventi linguistici falsamente comunicativi, da ciò la sua preferenza a riformulare la langue su tutte le ceneri linguistiche. Le figure di pensiero sono così veicolate da una coscienza del dire, che è molto spesso una concatenazione di idee e di recupero di volti e nomi all’interno della Metafora, utilizzata per lo sviluppo di  trame che coinvolgono  più soggetti. Ma si dà anche il caso che, a volte, affiorino gradazioni psicologiche, come incremento del significante da cui partono le fratture del tempo storico e contemporaneo. Ne sono testimonianza le opere pubblicate attraverso le varie sigle editoriali, a cominciare dal 1992 con “Uccelli”, seguito da “Paradiso” nel 2000, da “La Belligeranza del Tramonto” e nel 2013 da “Blumenbilder. Natura morta con fiori”, mentre  in “Tre fotogrammi dentro la cornice” Selected Poems (Chelsea Editions, 2015) il lettore entra  in una antologia poetica fatta di  connessioni metaforiche volte  a rappresentare un continuum di tematiche aperte a tutto campo.

Ho conosciuto l’Autore attraverso la lettura di queste due poesie inedite, da me pubblicate su: isoladeipoeti.blogspot.it e da cui poi sono nati “punti di vista”  sul fare poesia di oggi:

Giorgio Linguaglossa

Cogito è in viaggio su un treno blindato

Stanza n. 73

Cogito è in viaggio su un treno blindato

Il gioco dell’ombra tra gli hangar. Fasci di luci dai riflettori
posti sulla sommità delle torrette blindate.

Sulla terra battuta il passo dell’oca dei soldati.
I gendarmi giocano al gioco delle tre carte.

Gli ufficiali puntano alla roulette: sul rosso, sul nero,
sul numero 33.

Giocano con le bambole, giocano con le murene.
Accompagnano al pianoforte la bella Marlene

Che canta il Lied della nostalgia e della morte.
In alto, le sette stelle dell’Orsa maggiore.

Beltegeuse è una stella nana, Enceladon è lontana.
Firmamento stellato.
Cogito è in viaggio su un treno blindato,

Sta scrivendo una cartolina ad Enceladon:
«Mia amata, il mio posto è qui».

[…]

Un pittore fiammingo dipinge la luna e una natura morta.
Un Signore salta dalla bandella del polittico nella stanza del pittore.

Cammina per la stanza, dice che vuole prendere un po’ di aria fresca.
Non vuole più dipingere Annunciazioni, pastorelli, re Magi, Madonne col bambino.

Un gendarme col berretto a visiera tra gli hangar, agita il frustino
Un nugolo di cani lupo. Abbaiano furiosi, intuiscono
gli ordini dell’aguzzino dal movimento del suo polso.

[…]

Interno di una locanda: dei balordi giocano a carte.
La luce della finestra non li raggiunge.

Li sfiora e va altrove e la luna non c’è.
Benozzo alla corte degli Estensi.

Un cardellino sul ramo di corbezzolo,
Non c’è più tempo, deve affrettarsi,
il Beato Angelico lo ha chiamato a Roma presso il papa.

«Per fare cosa?», si chiede Benozzo, «ancora affreschi,
polittici da altare, annunciazioni?».

Il treno carico di morti viventi è in corsa nella notte.
Inverno. È arrivato il grande freddo.

Berlino. Il lampionista spegne i lampioni lungo la Marketstrasse n. 7.
La polizia segreta bussa alla porta del Signor Cogito.

«Gutentag Herr Cogito».

(da Le Risposte del Signor Cogito inedito)

 

Giocavano a dadi con i meteci

Un angelo zoppo ci venne incontro
e disse, senza guardarci: «Malediciamo il nome di Dio.»

Eravamo incomprensibili. Stavano tutti al bar
a bere caffè, quando, a mia insaputa, cominciai a zoppicare.

Erano tutti zoppi gli avventori del bar e gobbi.
Avevamo la gotta e la gobba ci spuntava dalle spalle.

A quel tempo dall’Albero vennero i bastardi
con le risposte pronte e gonfiarono le vele

E gettarono le ancore.
Io fissavo il loro occhio di vetro …

Giocavano a dadi con i meteci e a morra con gli iloti,
se la spassavano con le troiane,

Ma anche quelle presero a zoppicare oscenamente.
A quel tempo facevo l’infiltrato e la spia,

Passavo informazioni ai persiani in cambio di talleri d’oro
e poi riferivo ai bastardi le notizie sottratte

ai carovanieri di spezie e di porpora che attraversavano il deserto.

Io a quel tempo me la spassavo nella Suburra,
tiravo con l’arco al bersaglio e giocavo a morra con i bastardi.

Un angelo gobbo ci venne incontro
e disse, senza guardarci: “Dimenticatevi il nome di Dio.”

(da La Belligeranza del tramonto, 2006)

Trattasi di un fluire poetico di  autentico “humus psicoestetico, all’interno del quale si può benissimo parlare di poesia perché Linguaglossa ha introdotto un vero e proprio linguaggio ellittico e risolutivo, cancellando l’Expo del linguaggio tradizionale e afasico, rimuovendo il lirismo del dopoguerra, e le fantasie verbali dei poeti pulp, e post-avanguardisti. Da qui il rifacimento di una realtà, con un mutamento linguistico che non è soltanto frattura con la Tradizione, ma  rimozione di un mondo risemantizzato con nuovi “strumenti umani”.  Su queste due poesie l’Autore precisa che «la loro stesura ha riguardato una distanza temporale di 10 anni l’una dall’altra, la prima l’ho scritta nel 2014 mentre la seconda nel 2005. Questo, per dire che c’è stata una continuità tra il primo lavoro e l’ultimo ancora inedito su carta. Poi, in questi anni c’è stato l’aggravamento della Crisi del Paese e la Crisi della Ragione Narrante che mi ha motivato a spingere sull’acceleratore di una forma-poesia che riorientasse la poesia italiana del secondo Novecento. Ho dovuto prendere le distanze perciò dalla poesia di “Satura” (1971) di Montale, il maggior poeta italiano del Novecento, per sterzare in un’altra direzione. Ho dovuto apprestare perciò uno strumento linguistico e stilistico e una metafisica, insomma, ho dovuto munirmi di una  nuova ontologia estetica. È stata una ricerca che è durata 30 anni, perché sono dovuto partire da zero. O quasi. Ho dovuto inventare di sana pianta uno stile modernistico e riallacciarmi alle sorgenti del Modernismo europeo, un lavoro gigantesco che dovrebbe essere visibile nella raccolta di prossima pubblicazione “Il tedio di Dio” che dovrebbe uscire con Progetto Cultura di Roma.»

Nella mia replica, ricordo, sempre tramite post, di aver usato per me, nella ricerca sulla poesia, il termine “speleologo”, che molto si addice al Linguaglossa nel suo lavoro di rifondazione linguistica, formale e lessicale, di contenuti, opzioni salutistiche sulla lingua e al progetto psicoideografico della realtà, asfissiando così l’area poetica venutasi a saturare con il Gruppo ’93, e della terza ondata, e approdando con coraggio a una “rifondazione” della lingua in diversi capitoli estetici, che hanno aperto la lettura a nuovi canoni utili a giustificare “l’assedio” alla poesia, durato 30 anni di ricerca e di impegno ricostruttivo. La novità che intravedo, leggendo le sue poesie, è correlata ad un  umanesimo culturale che affonda le radici in più territori. Ciò viene a determinare un “manifesto poetico” indicativo nel fare poesia.

Fayyum ritratto di Donna romana

Fayyum ritratto di Donna romana

Sul concetto di Arte, con riferimenti anche alla musica e alla poesia, Linguaglossa  centralizza il suo pensiero affermando che: ”Nell’arte degli Anni Cinquanta avviene una”catastrofe”, ovvero l’incrocio tra diversi codici artistici che sfocerà in una libertà fino ad allora impensata. Un artista la cui opera è altamente significativa e densa di conseguenze per chi voglia intendere, è stata la musica e le riflessioni di John Cage  il quale scrive che

“l’arte è un modo di vita, come prendere l’autobus, cogliere fiori”, affermazione che comporta l’abbandono del regno tradizionale dell’estetica e una visione della vita come il regno del non-intenzionale. Nell’opera di Cage vengono recisi i legami con il linguaggio e la teoria musicale tradizionale: i suoni non sono più considerati un veicolo di significati tratti altrove, ad esempio da un testo poetico, e non sono più ordinati secondo un sistema prestabilito (armonico, tonale, atonale, dodecafonico) in cui incasellarli in una gerarchia di suoni. Tale pratica di non-intenzionalità rispetto al suono sollecita un gesto di sospensione autoriale. Il che comporta che i suoni accadano in quanto suoni al di fuori di qualsiasi pentagramma prestabilito.

“Direi che questo assunto,” continua  Linguaglossa, “è utilissimo anche per quel che riguarda la procedura compositiva di una forma poetica. Cage ci ha dimostrato che in musica è possibile trattare i suoni in questo modo. Analogamente, con le parole è possibile operare secondo un procedimento dinamico interno che si spinga fino alla impossibilità di giungere all’opera conchiusa; insomma, mediante una procedura che consenta di creare allo stesso modo con cui si crea l’universo in continua espansione. L’autore quindi si deve limitare a creare una struttura-cornice o un progetto-partitura entro i quali lasciare che gli eventi accadano. Le parole quindi vengono trattate come eventi. Le immagini e le metafore sono nient’altro che eventi. In tal senso la mia poesia può essere letta come una grande scacchiera dove avvengono eventi molteplici i quali creano a loro volta nuovi spazi interni entro i quali si inseriscono altri eventi che accadono in uno spazio-tempo in continua espansione. Con questa procedura si possono ottenere una miriade di spazi che si aprono all’interno di altri spazi, talché avviene che la distanza tra due o più spazi viene ad essere misurata dal tempo (dal tempo vissuto), quale categoria ontologica di seconda istanza. È una procedura di nuovo conio, ma non lontana dalle procedure compositive di Mandel’stam che teorizzava e praticava una poesia basata sulla metafora tridimensionale; una procedura imparentata con la teoria degli equivalenti oggettivi di Eliot e con la teoria dell’imagismo di Pound. Per non parlare delle immagini in movimento di Tomas Tranströmer. Si tratta di uno sviluppo ulteriore degli assunti della poesia modernistica europea”

acconciatura muliebre periodo del principato

acconciatura muliebre periodo del principato

Il 4 settembre.2015 10:29,  così rispondo al Linguaglossa:

“Il pensiero di Cage annulla la funzione statica della musica: una specie di “armonium” che ci ha accompagnato anche in poesia per lungo tempo, quintessenziando il pre e postermetismo (Soffici, Marinetti Sbarbaro, Onofri, Cardarelli e, perché no, lo stesso Montale di “Le occasioni”, per cui di fronte alla impossibilità di creare nuovi stilemi e, andando su un altro versante, quello della musica dodecafonica, anche Arnold Schönberg, ha ripudiato il principio tradizionale di una tonalità non riformabile,  mettendo i dodici suoni della scala cromatica su un piano di assoluta eguaglianza, e ritenendone ognuno parimenti atto ad essere centro armonico e generatore di accordi. Qui sorge lo stesso tuo problema di fronte ad una poesia da rigenerare ex novo. Su questo passaggio la domanda è se dopo la dodecafonia è possibile andare oltre approdando a una nuova musica, ossia, inventare altri moduli compositivi? Su questo tema, a suo tempo, rispose il Maestro Carlo Maria Giulini, il quale alla base della sua esperienza negò altre soluzioni, asserendo che la musica può essere solo reinventata e reinterpretata così come avviene per le metafore che in poesia costituiscono “eventi”, illuminazioni”, “dinamismo iperculturale” come fai tu.”

Il 4 settembre 2015 12:36:

Linguaglossa chiude gli interventi, precisando che “In analogia con gli assunti della musica dodecafonica possiamo ammettere che le parole siano tutte eguali, che partano da uno statuto di eguaglianza per cui ciascuna parola può essere, assumere, il ruolo di centro di gravità (sonora e/o insonora) della composizione poetica. Il centro armonico generatore di accordi quindi può essere rivestito da qualsiasi parola, immagine, metafora, tutte su un piano di parità. Certo, questo assunto implica che l’autore si ritiri nell’ombra, che si situi in una zona fuori dal cono di luce della composizione, fuori visione. Concetto correlato con quello della impersonalità dell’arte moderna e dello svuotamento anche semantico che attinge le parole di oggi nella lingua di relazione e nei linguaggi poetici. Quello che non capiscono i poeti di modesta levatura è proprio questo punto. Impersonalità e disumanizzazione dell’arte implicano l’accettazione di una estetica del vuoto quale quadratura del cerchio (mi si passi l’ossimoro), come unica condizione possibile da cui partire e a cui ritornare.”

Quando Franco Fortini scrisse Traducendo Brecht, aveva già metabolizzato il fallimento della sua idea marxista della società soffermandosi sulla inutilità della poesia come nella chiusa del testo e cioè: “La poesia non muta nulla / nulla è sicuro ma scrivi”; un invito che si adatta molto bene al lavoro di Linguaglossa e alla sua ferrea volontà  di rifondare la poesia partendo da zero. E’ una lezione che ascolteremo fino in fondo, con immutata attenzione e curiosità.

Formalizzati così i “punti di vista”,  rimane ora  indicare l’area dove collocare la poesia  di Linguaglossa. che certamente va agganciata alla poesia modernista ed europea, quest’ultima caratterizzata dallo“stile che nasce dal dialogo cosmopolita alla ricerca di un nuovo linguaggio della poesia. La caratteristica principale del nuovo stile è quella di mirare alla costruzione di testi polifonici, leggibili a più livelli e giustapposti su un unico piano senza distinzione, consentendo così di accostare registri linguistici appartenenti a strati sociali, e culturali diversi” (griseldaonline) E’ una strada, o meglio un obiettivo che si può raggiungere solo con una cultura alle spalle e tanta esperienza da rimuovere la poesia dal suo stato letargico e afasico.

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura” e pubblicato diversi volumi di poesia tra cui il recente Ritratto di Signora 2014. Ha curato monografie e saggi di poeti del Secondo Novecento. Ha ottenuto il Premio Chiaravalle 1982 con il volume Carte della città segreta, con prefazione di Domenico Rea. E’ presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poetidi Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzario, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia contemporanea a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) Si sono interessati alla sua opera: G.B.Vicari, Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Luigi Fontanella, Giose Rimanelli, Francesco d’Episcopo, Giuliano Ladolfi,e Sebastiano Martelli. Altri Interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier. Cura il blog di poesia italiana e straniera L’isola dei poeti.

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POESIA Emporium. Poemetto di civile indignazione di Marco Onofrio (2008), la “civile indignazione” – Autopresentazione

vita difficile-1961-risi-

vita difficile-1961-risi-

 La notizia risale a qualche tempo fa, ed è stata riportata nei principali quotidiani italiani:

Il livello di corruzione raggiunto dall’Italia nel 2014 è lo stesso di Paesi come il Senegal e lo Swaziland, piccola monarchia del Sud Africa. Nell’area dell’euro, invece, non abbiamo rivali: pur allineandoci sullo stesso piano della Grecia e della Bulgaria, nessun altro Paese fa rilevare un indice di percezione della corruzione superiore al nostro. L’elaborazione è stata realizzata dall’Ufficio studi della CGIA su dati Transparency International, istituto che ogni anno elabora l’indice sulla corruzione in più di 170 paesi del mondo. Le vicende emerse dalle azioni giudiziarie che hanno interessato l’Expo di Milano, il Mose a Venezia e “Mafia Capitale” sono solo alcuni degli episodi che delineano un quadro generale molto preoccupante. Negli ultimi 5 anni, fa notare la CGIA, la situazione si è addirittura aggravata. Sempre secondo la graduatoria stilata da Transparency International, abbiamo peggiorato la nostra collocazione a livello europeo di 6 posizioni. Crisi economica e corruzione procedono di pari passo: ciascuna è causa e conseguenza dell’altra.

Ma le piste di “sputtanamento” che – malgrado i tappi preventivi e le censure – di tanto in tanto hanno modo di emergere, sono con ogni probabilità soltanto le bocche del vulcano su cui poggiano i nostri piedi, assai più profondo e radicato di ciò che riusciamo a immaginare. La “lava” continua ad accumularsi: prima o poi, tutto finirà per esplodere. Da decenni la politica non è più etica di servizio al cittadino: l’hanno trasformata in mestiere di profitto, in prassi di malversazione. Il cittadino è stato abbandonato alla malora del suo antico ruolo di “suddito”. La gente, nauseata, ha finito per distaccarsi dalla cosa pubblica – ed è proprio quanto vogliono i ladroni: che li si lasci agire indisturbati. Non ci si può più riconoscere in uno Stato vessato da decenni di malgoverno, e soprattutto sentirsi rappresentati da una classe politica e dirigenziale arroccatasi in “casta”, priva ormai di qualsiasi credibilità. Ci sono tante realtà parallele al di sotto della facciata mistificante che i politicanti, inutili patetici buffoni, cercano di propalare, con l’unico scopo di garantirsi voti.

La classe operaia va in paradiso Gian Maria Volontè

La classe operaia va in paradiso Gian Maria Volontè

Molte istituzioni sono coperture ideologiche di giochi sporchi, a vantaggio dei “soliti protetti”. Il potere è come un iceberg: e la punta serve a sventolare il vessillo falso di ciò che la maggior parte occulta, anzi nega. Le massonerie internazionali tirano i fili di innumerevoli sipari: le farse che vi si recitano sembrano commedie regolari, formalmente corrette, con tanto di claque. La meritocrazia viene celebrata apertis verbis dagli stessi maneggioni doppiogiochisti, che in realtà segretamente la osteggiano come quanto di più “pericoloso”: scompiglierebbe le carte segnate, farebbe saltare i trucchi della bisca clandestina, scardinerebbe guarentigie e prelazioni. L’individuo (ogni individuo) – potenzialmente eversivo, per la sua carica di energie sovvertitrici – deve essere disarmato e anestetizzato, reso inoffensivo, confuso da informazioni ambivalenti, destabilizzato da segnali contraddittori. Dobbiamo starcene buoni ad accettar soprusi, e soprattutto a consumare, a indebitarci con le banche, il cervello spento dalle televisioni e lo sguardo ipnotizzato sugli scaffali degli ipermercati. La “realtà” (quale delle tante inafferrabili?) ci disegna attorno un labirinto di matrioske inquietanti: più ci sembra di capire, più la matassa s’ingarbuglia.

È forse oggi più che mai attuale la sfida al labirinto invocata da Italo Calvino all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso? Il saggio è contenuto nella raccolta Una pietra sopra:

Dalla rivoluzione industriale, filosofia letteratura arte hanno avuto un trauma dal quale non si sono ancora riavute. Dopo secoli passati a stabilire le relazioni dell’uomo con se stesso, le cose, i luoghi, il tempo, ecco che tutte le relazioni cambiano: non più cose ma merci, prodotti in serie, le macchine prendono il posto degli animali, la città è un dormitorio annesso all’officina, il tempo è orario, l’uomo un ingranaggio.

E si pensi alla “visita in fabbrica” di Sereni, ne Gli strumenti umani (1965).

Ma beffarda e febbrile tuttavia
ad altro esorta la sirena artigiana.
Insiste che conta più della speranza l’ira
e più dell’ira la chiarezza,
fila per noi proverbi di pazienza
dell’occhiuta pazienza di addentrarsi
a fondo, sempre più a fondo
sin quando il nodo spezzerà di squallore e rigurgito
un grido troppo tempo in noi represso
dal fondo di questi asettici inferni.

La classe operaia va in paradiso Gian Maria Volontè

La classe operaia va in paradiso Gian Maria Volontè

La propensione agli “asettici inferni” si è man mano accentuata, con l’avvento dell’era post-industriale e dell’economia globalizzata. Siamo schiavi di un mondo tecnicizzato, spersonalizzato, spoetizzato, che ci impone di essere efficienti come automi. Un mondo che brucia tutto in fretta. Che quantifica, misura, monetizza. Che “riduce” il valore della persona, la sua infinita complessità. Che non ha tempo da perdere, perché il tempo è – come noto – denaro. Tutto è misurato sulla base del “principio di prestazione”. Ebbene: la letteratura può raccogliere la sfida a questo “labirinto” che involve l’individuo, senza vie d’uscita, nella confusione babelica del “mare delle cose”? È ancora in grado di testimoniare dell’umano? Di accendere o mantenere accesa la scintilla di luce, dentro ai nostri occhi? È ancora la ragione delle parole il filo d’Arianna per tentare di uscire dal labirinto, per scorgere vie di fuga?

Occorre un’etica umana, laica e trans-culturale, in grado di unire e armonizzare ciò che è diverso. Un ethos planetario, fondato sulla coesistenza e la responsabilità: ognuno, a cominciare dai governanti, dovrebbe pensare e comportarsi come se il bene futuro di tutto il mondo dipendesse da lui, fin dalle minime azioni quotidiane. «La carità comincia a casa propria, e la giustizia dalla porta accanto» notava C. Dickens. Lo scrittore, dal canto suo, è chiamato a sentirsi parte di una società, vincolato al tempo che lo circonda. “Società”, tuttavia, è termine largamente abusato, forse consunto. Osserva il premio Nobel tedesco H. Böll, nelle sue Lezioni francofortesi (1966):

Il sociale vero e proprio si verifica fuori programma, durante la cena, mentre si beve un bicchiere la sera tardi; è lì che si arriva a confidenze sorprendenti, che si fanno e ci si aspettano confessioni: non appena il linguaggio scende dai trampoli della vanità pubblica e si lascia un po’ andare.

La classe operaia va in paradiso Gian Maria Volontè

La classe operaia va in paradiso Gian Maria Volontè

La verità del linguaggio è inversamente proporzionale al potere. Più potere si dà, più verboso e insignificante diventa il vocabolario. La letteratura, per continuare a manifestare l’uomo, dovrebbe consustanziarsi ad una lingua fidata e familiare. Farci sentire un terreno amico sotto i piedi, che renda ancora pronunciabile la parola “futuro”. Un’estetica della lingua vissuta: chiamare le cose con il loro nome. Una lingua abitabile come premessa a un mondo abitabile. La letteratura, insomma, deve praticare la cura, prendersi cura dell’uomo. Ma per chi scrivere, per chi pubblicare? A chiederlo era Gian Carlo Ferretti sulle pagine di  «Rinascita», nel 1967. Così rispondeva Calvino (di nuovo lui): «per un lettore che ancora non esiste, o un cambiamento nel lettore qual è oggi».

Un libro viene scritto perché possa essere affiancato ad altri libri, perché entri in uno scaffale ipotetico e, entrandovi, in qualche modo lo modifichi, scacci dal loro posto altri volumi o li faccia retrocedere in seconda fila, reclami l’avanzamento in prima fila di certi altri.

E ancora:

La letteratura non è la scuola; deve presupporre un pubblico più colto di quanto non sia lo scrittore; che questo pubblico esista o non importa. Lo scrittore parla a un lettore che ne sa più di lui, si finge un se stesso che ne sa più di quel che lui sa, per parlare a qualcuno che ne sa di più ancora. La letteratura non può che giocare al rialzo.

Oggi non è così. C’è un livellamento in basso sia tra chi scrive sia tra chi legge. Lo scrittore strizza l’occhio al lettore, che gli chiede testi non impegnativi, di facile approccio, disponibili a una fruizione distratta, discontinua, “televisiva”. Si vuole il libro come appendice plastificata e patinata di un mondo effimero, “leggero”, spettacolarizzato.

L’esperienza degli anni Sessanta e Settanta ha dimostrato che la letteratura ha un peso politico modesto, se non nullo: tanto più che si legge sempre meno. Ogni libro è un granello di sabbia in riva al mare. Mi chiedo, tuttavia: non è il granello di sabbia che fa nascere la perla dentro l’ostrica? Quanto può incidere sul mondo? Può, la letteratura, dar vita alla realtà? Può certamente aumentare la consapevolezza, l’arco degli strumenti di conoscenza, di previsione, di immaginazione. Laddove specialmente la si viva come evento esperienziale, come soglia di trasformazione. L’opera letteraria “educa” nei modi suoi propri, nel senso che produce un “accrescimento stilistico”, modificando il nostro modo di guardare alle cose, di abitare il mondo. Ogni opera si collega al destino di ognuno di noi, e vi opera un processo di ri-definizione dei confini, dei materiali, degli obiettivi. È lievito che nutre, impolpa, colora, accende, ispira.

Gian Maria Volontè

Gian Maria Volontè

Il sonno della ragione partorisce mostri; ma è quando i sogni si addormentano che la ragione partorisce i suoi incubi peggiori. Il “politeismo etico” e il “pensiero debole” – i quali, se radicalizzati, finiscono per imporre e riproporre in termini di fondazione autocratica, sotto forma di relativismo “deificato”, quell’Assoluto che d’altra parte si accaniscono a demolire – hanno ulteriormente allargato la già vasta scissura dell’essere che accompagnava, fin dall’epoca barocca, il manifestarsi della modernità. La crisi delle coscienze è oggi devastante. Dove sono le scintille di una luce? Anche i sogni residui si addormentano di noia, per consunzione interna, nell’attesa senza fine di un Godot che non arriva, e non vale più la pena di aspettare! La crisi induce la paura, e la paura si traduce in barriere difensive e paratie. Siamo confusi e diffidenti. È irta di blocchi e recinti, la corrente vitale che ci attraversa e che, in teoria, dovrebbe avvicinarci. Mentre è sempre più impalpabile e fredda, incisa dentro al vuoto di un silenzio sterile, la trama affettiva che vorrebbe/dovrebbe intessere la nostra educazione, sostanziandola di cultura – di sapere e sapore: di sostanza umana. Stiamo evaporando proprio in quanto Uomini, nella nostra più essenziale quiddità. Deprivati, rapinati, devitalizzati. Si sono puntualmente e tristemente verificate, in peggio, le analisi profetiche dei vari “francofortesi”, e di McLuhan, Debord, Perniola, Lyotard, Bauman, etc.

Minimalismo disumanizzato: questo è il trend. I bambini passano ore davanti allo schermo dei computer, dei videogiochi, delle televisioni: come riempitivo, come succedaneo. La TV vuole formare le nuove leve dei consumatori, indurli al bisogno artificiale, allevarli a mo’ di polli in batteria. I cartoni animati che, ad esempio, vengono propinati a getto continuo nei canali tematici dedicati all’infanzia, sono più che altro un pretesto per le raffiche di spot pubblicitari e, quindi, fungono da volano dell’industria dei giocattoli e dei gadgets, acciocché i bambini “mettano in croce” gli adulti per farseli comprare di continuo, sempre nuovi (l’obsolescenza dei prodotti è rapidissima). Quanto scalda questo calore di vita liofilizzato? Quali danni psicologici produce questa adorazione ipnotica del totem elettrico che tutto ci racconta e tutto “crea”? È il Grande Fratello: esiste solo quello che Lui dice. E si “cresce” nell’in-differenza. In un mondo plastificato di simulacri estetici che soprattutto i bambini – privi come sono di adeguati strumenti interpretativi – fagocita all’interno delle sue dinamiche, delle sue logiche spietate, plasmandone lo sguardo, la coscienza, l’educazione in fieri. È questo il traviamento originario.

La classe operaia va in paradiso Gian Maria Volontè

La classe operaia va in paradiso Gian Maria Volontè

È per questo tramite che passano valori di cartapesta, con esterno patinato o in confezione spray – come aggressività, bullismo, apparenza, potere del denaro e della moda – ben rappresentati dai campioni mediatici dominanti: attori depilati, modelle anoressiche, scalpitanti starlettes, veline, statuine, letterine, pagliacci da reality, grassoni del wrestling, calciatori sciocchi e miliardari, etc. Ne risulta disturbato, quando non compromesso, lo sviluppo cognitivo che viceversa, a quell’età, occorrerebbe di ben altre certezze e chiarezze distintive, indispensabili a sostenere la fluidità complessa e in ultimo aporetica della conoscenza superiore. Gli adolescenti oggi sono apatici per eccesso di stimoli. Lasciano basiti per il cinismo che li domina. Succubi – fin dalla tenera età – di un tempo che non ha tempo, che stritola e consuma tutto in fretta, che si apre per nonnulla e per nessuno. Un mondo che ne incallisce presto lo sguardo, e lo fa scettico, scaltro, indurito: disposto e avvezzo ad ogni cosa. Un mondo da cui apprendono una visione perdente e nichilista della vita come “sventura casuale” da cui uscire quanto prima, e con il minimo danno possibile; e una percezione dell’Altro come pedina utilizzabile, senza remora alcuna, per il proprio interesse – alla stregua di un personaggio da videogame, che se viene eliminato poco importa, tanto ce n’è un altro di riserva.

«Uomo, veni foras», evocava Zavattini ne “La veritaaa!” (1983)… Occorre catalizzare il richiamo dell’Uomo, e tentare di rianimarlo, poiché versa in condizioni pietose – tra gli attori (le comparse) di questa società. È un sistema fatto apposta per rubarci i sogni e spegnerci la luce dentro gli occhi. Ora però dobbiamo lottare per riaccenderli. Persona dopo persona. La scintilla per fortuna è contagiosa.

La classe operaia va in paradiso Gian Maria Volontè

La classe operaia va in paradiso Gian Maria Volontè

Ecco il senso profondo e l’intenzione autentica del mio Emporium. Poemetto di civile indignazione, che ho pubblicato nel 2008 interpretando lo spirito dei tempi, in anticipo di due anni sul pamphlet di Stéphane Hessel. Un poemetto drammatico e dialogico – a prevalenza di versi endecasillabi – scritto con passione etica e rabbia salvifica, nell’approfondimento conoscitivo e nella vibrante, appassionata rappresentazione di alcuni fra i temi più scottanti del mondo contemporaneo: la supremazia del potere e del profitto (l’emporium, appunto) sul valore; il condizionamento dei media sull’uomo-massa; il lavoro totalizzante e/o precario; la mercificazione del tempo e dell’essere; l’anestesia dei sogni; il consumismo di ennesima generazione; la corruzione etica e politica; l’imbarbarimento culturale e civile; la morte dell’umanesimo, ecc. Sono parole che ho “eruttato” dopo anni di bocconi amari, fulminando dall’interno il mio disagio: come un tuono viscerale, un “grido unanime” da raccogliere e poi riascoltare nei discorsi quotidiani della gente. Il libro, pur pubblicato da una piccola editrice, ha avuto un discreto successo di vendite, esaurendo tre edizioni da 800 copie cadauna. Emporium è stato presentato e letto diverse volte in pubblico, a Roma e altrove. È inoltre andato in scena al “Seminteatro” di Roma, nel novembre-dicembre 2010, per la regia di Antonio Sanna, che lo ha interpretato con Francesco Sechi; spettacolo poi replicato al Liceo “Mamiani” di Roma e al Comune di Albano Laziale (RM). Sotto forma di docu-reading lo ha interpretato Barbara Frascà, al teatro “Petrolini” di Roma e nei centri sociali “Brancaleone” e “Casetta Rossa”. Diverse le recensioni e le riduzioni radiofoniche.

[vedi il trailer: http://vimeo.com/26126265?fb_ref=Default %5D

Si riporta qui di seguito l’invettiva che conclude il poemetto.

Marco Onofrio, Emporium. Poemetto di civile indignazione, Roma, EdiLet, 2008, pp. 84, Euro 10.

La classe operaia va in paradiso Gian Maria Volontè

La classe operaia va in paradiso Gian Maria Volontè

Politica, che cosa ti sei fatta?
Schifosa pattumiera d’impostura.
Mestiere di potere e di profitto
finalizzato al suo stesso gioco,
non più al bene collettivo.
Dov’è la passione civile
il senso autentico del popolo?
Dov’è l’educazione, la cultura
il rispetto degli altri e di se stessi?
La coscienza etica di un Calamandrei…
Dove sei, uomo, dove sei?
Dov’è la Roma dei tuoi occhi?

Ecco la grassa sguaiata puttana,
la grande Babilonia-meretrice.
Guarda i salotti dell’im-mondanità!
Senti che si dice!
Congreghe di scrittori e fritti misti
che sprizzano potere da ogni poro
i servi più servili del Potere
le mosche immerdicchiate e le zanzare:
intellighentia, società, rappresentanza!
Sessantottini riciclati giornalisti
compromessi finti battaglieri
rampanti dirigenti e imprenditori
commessi galoppini e caudatari
accademici autorevoli baroni
(cipiglio corrucciato ai cazzi amari)
codazzi di assistenti e baciaculi
e cardinali in mutria e pompamagna
imitatori, adepti e paparazzi
registi direttori ed anchormen
topi di fogna e scintillanti sorche
modelle coscialunga accavallate
attente ai letti giusti
e ai tipi convenienti da infilare,
e dappertutto fumo e cocaina.

È stato un grande sbaglio fare il mondo
e soprattutto darlo in mano all’uomo.

È uno spurgo immondo di cloaca:
è il covile nel profondo di una tana.
È la sabbia insanguinata di un’arena
dove ringhiano le belve più feroci
che si aggirano nervose tra le gabbie
aperte, spalancate come fiori
dopo aver sbranato i domatori:
è un pullular di voci, una Babele
un caravanserraglio, un gran bazar.
La giostra di pacchiane meraviglie
girandola umorale
è il gioco da tre carte, è sempre uguale
la prestigitazione che ti fotte
è un battere di banche e società.
New Economy, flusso planetario:
globalizzazione da fast food.
La finanza emancipata dalle imprese.
I soldi virtuali e immaginari
(ma i debiti li paga il cittadino).
Leviatano mastodontico e spettrale
la collusione occulta dei poteri:
onorevoli burocrati ministri
governanti magistrati finanzieri:
fiumi carsici di soldi riciclati
e paradisi esteri del fisco:
falso in bilancio, cronica evasione
estorsione, truffa, peculato.
È la fiera campionaria del reato.
È il sofà di tutti i vizi.
È degrado permanente, è corruzione.
È una lotta senza tregua né quartiere
per il controllo occulto dei servizi:
è il mercato dell’informazione.

Ahi, la pieta inconsolabile del giusto
che muore nel servaggio tristo e reo!

La classe operaia va in paradiso Gian Maria Volontè

La classe operaia va in paradiso una scena con Mariangela Melato

Liberismo incontrollabile e selvaggio:
la potenza galoppante del denaro
senza freni, senza correttivi
dove vince, immancabilmente
colui che più ne ha
da spendere, da monetizzare
e già per questo sa, può immaginare
con ragionevoli criteri predittivi
che sempre più ne andrà
ad accumulare,
perché schiaccia dall’interno il concorrente
chi parte da migliori condizioni
chi detiene il ca-pitale di papà
e fa del suo mercato un monopolio
a scapito del bene immateriale
sotto l’occhio del politico ammiccante
che poi ci mangia sopra, ne divide
confidando in un Paese aumma aumma
tra gli errori e le vacanze di una legge
dove ognuno ha il suo interesse di omertà.

Marco Onofrio Emporium copertina

È il classismo e il nepotismo delle logge
sono i muri invalicabili di gomma
il “dimmi chi ti manda, non chi sei”
da cui le camarille, le consorterie
i privilegi ereditari della casta
e la rabbia conseguente di chi urla
“Adesso basta”
con gli imboscati, con i raccomandati
gli incapaci figli d’arte che per forza
devono arrivare
scavalcando chi, pur bravo,
è carne da concorso, è da trombare.
Basta coi consigli degli “amici”
i deterrenti avvisi dei mafiosi
i favori interessati
e gli scambi delle cortesie.
Basta coi Ponzi Pilati
che a vicenda si lavano le mani
per uscirne più puliti che si possa
mentre scavano la fossa
dove insabbiar le prove
e i testimoni
prima dell’inutile irruzione
della polizia
prima che il diluvio ci travolga
tutti, e ci porti via.

È la finzione, è la mistificazione.

Dare a vedere di impegnarsi
senza farlo troppo sul serio.
La faccia ben compunta ed atteggiata
senza aderire mai completamente
a quello che tu sembri o che tu sei.
Volare bassi: braccia in superficie.
Agili, fluidi, disponibili.
“Mica ci crederai davvero,
a quel che dici?
Mica sarai scemo?”
Guardare senza vedere,
pensare senza riflettere,
parlare senza dire.
Politicamente corretti.
Inappuntabili, almeno all’apparenza.
Bella presenza, predisposizione
ai pubblici rapporti alle persone.
Brillanti, splendidi, ironisti.
Schiavi delle strutture
che noi stessi siamo a costruire
della prigione con le chiavi in mano:
a cercarle, a invocarle, a desiderarle.
E in ogni caso: come eludere
la guardia di noi stessi
se noi stessi siamo i carcerieri?
Come osare uscire dalla fila,
che ci fa stare in piedi e tiene uniti?
Alzati e cammina, Münchhausen,
se ancora ce la fai.

Ma ecco dunque che cos’è,
adesso vedo: nient’altro
che una lunga fila senza fine
verso una grassa rugosa megera
la cassiera di tutte le cassiere
col viso ebete e gli occhi spiritati.
La quale, dopo aver
scrupolosamente digitato la tastiera
(ma spesso non ci azzecca)
che batte senza posa alla sua cassa
il conto apocalittico e totale
(e qui di nuovo scroscio di zecchini
sopra un grande mare)
ci porge infine a turno
come un lecca-lecca a dei bambini
uno dopo l’altro, inesorabilmente
il sacchetto di polvere che siamo.

Marco Onofrio legge emporium

Marco Onofrio legge emporium

Marco Onofrio (Roma, 11 febbraio 1971), poeta e saggista, è nato a Roma l’11 febbraio 1971. Ha pubblicato 21 volumi. Per la poesia ha pubblicato: Squarci d’eliso (2002), Autologia (2005), D’istruzioni (2006), Antebe. Romanzo d’amore in versi (Perrone, 2007), È giorno (EdiLet, 2007), Emporium. Poemetto di civile indignazione (EdiLet, 2008), La presenza di Giano (in collaborazione con R. Utzeri, EdiLet 2010), Disfunzioni (Edizioni della Sera, 2011), Ora è altrove (Lepisma, 2013). Alle composizioni poetiche di D’istruzioni Aldo Forbice ha dedicato una puntata di Zapping (Rai Radio1) il 9 aprile 2007. Ha conseguito finora 30 riconoscimenti letterari, tra cui il Montale (1996) il Carver (2009) il Farina (2011) e il Viareggio Carnevale (2013). È intervenuto come relatore in centinaia di presentazioni di libri e conferenze pubbliche. Nel 1995 si è laureato, con lode, in Lettere moderne all’Università “La Sapienza” di Roma, discutendo una tesi sugli aspetti orfici della poesia di Dino Campana. Ha insegnato materie letterarie presso Licei e Istituti di pubblica istruzione. Ha tenuto corsi di italiano per stranieri.  Ha scritto pubblicato articoli e interventi critici presso varie testate, tra cui “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “Lazio ieri e oggi”, “Studium”, “La Voce romana”, “Polimnia”, “Poeti e Poesia”, “Orlando” e “Le Città”.

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La lampada perduta. PERCORSI DELLA POESIA ITALIANA DAL 1945 AD OGGI, di Marco Onofrio  – Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana, 1945-2010 di Giorgio Linguaglossa

Not Vital, 700 Snowballs

Not Vital, 700 Snowballs

 Scrive Corrado Alvaro, in un tratto del romanzo L’età breve (1946): «Il poeta non capisce quello che dice ma dice prima di capire, e quella è la verità». Appartiene in effetti alle profondità millenarie del canone occidentale il topos del poeta cieco e veggente, e il concetto di numinosità della parola (luminosa e illuminante, sia pure tenebrosa). La parola, quindi, come lampada, come fiaccola di costruzione e civiltà. C’è un presupposto di retroterra (filosofico e linguistico) che presiede allo sviluppo della poesia italiana del ‘900: la svalutazione e, poi, la perdita del registro profetico-sapienziale. Viene smarrito lo statuto “alto” di credibilità e sensibilità che la rappresentava su un piano di consistenza e riconoscibilità dei valori, dei contenuti, degli stili. C’era un terreno comune su cui confrontarsi, appunto un “canone”. Adorno nel 1966 dichiara addirittura il luogo a non procedere della poesia: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie». La poesia non è più possibile, se non – aggiunge Paul Celan – attraverso un “linguaggio spezzato” testimone della scissione metafisica prodotta dal male assoluto (gli eccidi del ‘900).

giorgio linguaglossa dalla lirica al discorso poeticoViene meno, insomma, il “sistema delle evidenze”: in futuro stenteranno a ricostruire la nostra epoca perché noi stessi non abbiamo più un “linguaggio comune”. Che cosa accade in poesia dopo il ’45? E, soprattutto: dopo gli anni ’60? Per orientarsi può essere utile il volume (Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana, 1945-2010, EdiLet, 2011, pp. 412, Euro 18) con cui Giorgio Linguaglossa affronta e tenta di arginare la complessità dei problemi sollevati dal tema in oggetto, inquadrandoli nell’ottica della storia civile, per cui l’analisi e la sintesi della società letteraria italiana vengono collocate entro uno scenario più vasto, mosso, arioso, e il saggio – nutritissimo, sfaccettato – di storia e critica letteraria si legge, al contempo, come un romanzo appassionante sul nostro Paese, dal secondo dopoguerra ai giorni nostri. C’è, ovviamente, la provvisorietà dei discorsi tipica del critico militante. Ed è un tentativo di ricostruzione tanto più difficile e delicato, dal momento che (insieme con il terreno comune di confronto) sembrano venuti meno i criteri di storicizzazione della letteratura. In base a quali criteri, appunto, storicizzare la contemporaneità? Qual è la “linea egemonica” del secondo ‘900?


giorgio linguaglossa_Dopo il NovecentoLinguaglossa sottolinea anzitutto che nulla è neutro: le scelte rivelano rapporti di potere
; ma soprattutto le esclusioni (anche eccellenti) degli isolati, dei periferici, dei non integrabili (ad es. Flaiano, Ripellino, Lorenzo Calogero):

«(…) le istituzioni stilistiche egemoni del Novecento appaiono nudamente quali sono: involucri ideologico-stilistici, tralicci ideocratici che proteggono, sotto il loro tegumento, visioni del mondo conservatrici          (…) come mai poeti di tutto rispetto come Lorenzo Calogero, Alfredo De Palchi, Helle Busacca, Bartolo Cattafi, Franco Fortini, Angelo Maria Ripellino sono entrati così presto nel dimenticatoio? Quali sono le ragioni politico-estetiche che determinano amnesie così macroscopiche?» (Linguaglossa, op. cit, p. 11)

Ci si scontra qui con i problemi stessi – a livello di metodologia – della storicizzazione tout court. In che conto si tiene, storicizzando la poesia italiana del secondo ‘900, la dialettica fra quadro e cornice? Il rapporto fra centro e periferia? La differenza tra monumento e documento?  Ai “cadaveri eccellenti” accidentalmente o volutamente esclusi corrispondono infatti, a mo’ di contraltari, i “monumenti intoccabili” della storia istituzionale. In gioco c’è da sempre, come sempre, la presupposizione del “nome” acquisito. Il pregiudizio positivo o negativo. Sarebbe curioso procedere ad un esperimento: a chi darebbe la palma del valore letterario un critico letterario “ufficiale” (cioè sensibile ai rapporti di potere) se gli facessimo leggere un presunto inedito mediocre di autore celebre, e un inedito eccellente di autore sconosciuto? Posto che non la conoscesse, che cosa direbbe – lo stesso critico – dopo aver letto, ad esempio, questa “poesia”? Continua a leggere

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LA CENSURA DI NATALE – TRASCRIZIONE DI UN RECENTE SCAMBIO DI COMMENTI TRA GIORGIO LINGUAGLOSSA E LA SIGNORA CLAUDIA CROCCO SUL SITO “LE PAROLE E LE COSE” CON CONSEGUENTE CENSURA DELLE IDEE RITENUTE NON “PERTINENTI” ALL’ARGOMENTO

 Si trascrive per i lettori del blog un recente scambio di commenti tra Giorgio Linguaglossa e la signora Claudia Crocco sul sito “le parole e le cose” a proposito di un articolo della Crocco sulla poesia contemporanea. Crediamo sia interessante il modo con il quale la Crocco e la redazione del sito si siano sottratti a rispondere alle obiezioni di fondo espresse da Linguaglossa operando una censura delle idee, indice, non solo di debolezza teorica, arroganza e  presunzione, ma anche di incapacità ad accettare il terreno di un approfondimento critico delle questioni di poetica poste.

LA CENSURA DI NATALE

Giorgio Linguaglossa al Mangiaparole, Roma 2013

Giorgio Linguaglossa al Mangiaparole, Roma 2013

 giorgio linguaglossa

  1. 20 dicembre 2014 a 14:01

Pur apprezzando lo sforzo dell’autrice dell’articolo, mi chiedo: come si fa a dedurre delle linee generali di sviluppo della poesia italiana contemporanea se si parte da due libri di ragazzi, lasciatemelo dire, molto modesti; davvero, lasciamo almeno maturare un po’ questi ragazzi e non affibbiamo loro delle responsabilità eccessive. I testi riportati sono più che eloquenti intorno al loro modesto bagaglio tecnico e maturità espressiva. Ci sono autori contemporanei di maggiore livello estetico da prendere in considerazione sui quali costruire un discorso critico, credo.

  1. Gabriele Fratini
    21 dicembre 2014 a 18:56

Se posso chiederti, Giorgio, quali sono? Tu da chi partiresti? Un saluto.

  1. giorgio linguaglossa
    21 dicembre 2014 a 21:02

Gentile Gabriele Fratini,

in generale sono restio a fare dei nomi di autori di poesia contemporanei, chi ha curiosità in tal senso può rovistare nel blog lombradelleparole.wordpress.com che faccio con altri autori, ma certo una cosa va detta: è da molti anni che non vedo in giro un autore giovane (diciamo 30 o 40 anni) che abbia maturato una propria maturità espressiva, tutti più o meno scrivono in un buon italiano medio, mediamente coltivato; io cercherei invece in autori più anziani i quali hanno avuto il tempo di metabolizzare il mondo molto complesso di oggi. Potrei fare due nomi di poetesse morte: Giorgia Stecher con Altre foto per album (1996) e morta nello stesso anno e Maria Rosaria Madonna autrice di un unico libro Stige (1992) e morta nel 2002. Tra i vivi io direi Anna Ventura, autrice che ha iniziato nel 1978 e che ha stampato quest’anno una Antologia Tu quoque (1978-2013) e, tra gli uomini, Roberto Bertoldo (che è anche filosofo) autore di alcuni pregevoli libri, Steven Grieco e Luigi Manzi. Ma, al di là dei nomi, mi sembra che la direzione di sviluppo della poesia italiana del tardo Novecento e di questi ultimi anni sia quella che io ho sintetizzato nella formula “Dalla lirica al discorso poetico” nel mio omonimo lavoro critico “Storia della poesia italiana (1945-2012) stampato con EdiLet di Roma . Il discorso critico sulla poesia italiana di questi ultimi decenni è ovviamente molto complesso e non può certo essere riassunto qui in poche righe, chi è interessato alla problematica della poesia contemporanea può consultare il blog sul quale scrivo.
Cordiali saluti

  1. Gabriele Fratini
    22 dicembre 2014 a 00:23

Grazie Giorgio Linguaglossa, leggerò ciò che trovo di questi autori, e il suo blog. Sono interessato ad approfondire. Tra lei e Claudia Crocco mi avete fornito molto materiale da leggere. Buone feste.

francesca diano

Francesca Diano

  1. giorgio linguaglossa
    22 dicembre 2014 a 09:58

Gentile Gabriele Fratini,

trascrivo un mio commento fatto sull’ombra delle parole del 25 maggio 2014 alle 16.11=

«Sono particolarmente contento della qualità delle poesie di questo post: Antonio Sagredo, Annamaria De Pietro, Francesca Diano e Donatella Costantina Giancaspero ci offrono un tipo di poesia che si allontana e di molto dalla poesia che oggi va di moda un po’ troppo facile e, diciamolo pure, abbastanza scontata che tratta il “quotidiano” e il “privato”. L’intento dell’Ombra delle Parole è appunto quello di mostrare che c’è un altro tipo di poesia, che tratta tematiche e non tematismi, che ri-adotta le tematiche eterne, ad esempio quelle del rapporto che lega l’uomo contemporaneo con il Potere, e quella che tenta di decifrare(e leggere) in modo nuovo il Mito (e non usarlo in modo parassitario per abbellire una composizione).
Sono convinto che la scelta di un “tema” diverso è già in sé un atto ESTETICO e POLITICO, di contro all’omologismo che invade le scritture poetiche parassitarie che non pensano neanche a mettere in discussione i propri assunti di partenza. Per fare una poesia diversa bisogna prima pensarla, averla pensata lungamente; è fin troppo facile fare poesia di seconda mano, diciamo assumere come dato di fatto la “secondarietà” come un assioma basandosi sull’assunto che tanto il Novecento ha già detto tutto e che non c’è niente di nuovo a dirsi e a farsi. E allora, occorre dirlo in modo netto..e chiaro: c’è oggi in Italia chi fa, con ottimi risultati una poesia che non assume la “secondarietà” come dogma inconfutabile. La “secondarietà” si confuta da sola: chi continua a scrivere in continuità con la linea discendente di una tradizione che non c’è più tradisce soltanto il buon senso oltre che la logica elementare del pensiero.
È oggi possibile scrivere una poesia che non ricalca parassitariamente le orme di quella passata».

  1. Gabriele Fratini
    22 dicembre 2014 a 13:34

Sì grazie Giorgio lo avevo letto e sono abbastanza d’accordo. Ho lasciato un commento. Sto visitando anche il suo sito

Czesław Miłosz

Czesław Miłosz

  1. giorgio linguaglossa
    22 dicembre 2014 a 14:59

Vorrei iniziare con un riferimento ad Adorno tratto da Dialettica negativa, e precisamente nel capitolo dove il filosofo tedesco dichiara che dopo Auschwitz un sentire si oppone a ciò che prima del genocidio si esprimeva tramite il senso. E aggiungeva che nessuna parola con tono pontificante, quand’anche parola teologica, ha legittimità dopo Auschwitz. Come sappiamo, il filosofo tedesco assegna al genocidio di massa un valore radicale, e lo cita come rovina del senso. Il senso della storia ci conduce a questo: nel riconoscere che non c’è alcun senso della storia, se diamo al termine il valore di razionalità nella accezione invalsa da Hegel in poi: che «il reale è razionale», che c’è una spiegazione per ogni aspetto del reale, anche per le cose apparentemente insignificanti, minime, che anch’esse rientrano nel disegno di organizzazione universale dello Spirito del mondo e nel disegno razionale. Per il pensiero liberale la Storia ha una sua direzione proiettata verso il futuro nella forma del progresso e della civilizzazione etc., la storia ha una sua direzionalità pregna di senso etc. Ma dopo due guerre mondiali e la guerra fredda non si può più formulare un pensiero come questo. Per Adorno dopo Auschwitz non si può più scrivere poesia. E invece i fatti hanno dimostrato non solo che dopo Auschwitz si può ancora scrivere poesia ma che anzi oggi assistiamo ad un vero e proprio diluvio di poesia di tutti i tipi, elegiaca, iconica, concettuale, sperimentale, del quotidiano, mitologica, giocosa etc.

Adam Zagajewski

Adam Zagajewski

La storia sembra andare verso l’implosione piuttosto che verso il suo ripiegamento, verso la demoltiplicazione piuttosto che verso il dimidiamento. Ma la Poesia ha coscienza di questa negatività?, la Poesia ha coscienza di questo de-moltiplicatore?. Ma è una negatività senza impiego, senza contraltare, una negatività che permette soltanto la finzione, l’allestimento di un palcoscenico vuoto. Al posto dell’impegno è subentrato il disimpegno, al posto del negativo è subentrato il post-negativo; le ipertrofie, le faglie, le erosioni, le citazioni, i rimandi, i percorsi sotterranei del senso diventano i veri protagonisti della poesia, diciamo, del post-negativo. La poesia ironica e scettico-urbana del post-negativo si muove in questa topografia assiale delle rovine (del linguaggio e del senso); si muove, con eleganza e ironia magari, in questa topografia delle rovine (con una tipografia delle rovina!); si trastulla sfoderando le risorse antiche del plurilinguaggio, esibendo l’abilità del rhetoricoeur, nell’improvvisare paronomasie, omofonie ed anafore, corto circuiti tra suono e senso, tra citazione e citazione; mima un senso plausibile ed effimero per poi subito dopo negarlo e de-negarlo ammiccando alla impossibilità per la poesia di prendere la parola, di parlare facendosi schermo dei famosi versi di Montale: «Solo questo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo ciò che non vogliamo».

  1. Claudia Crocco
    22 dicembre 2014 a 17:23

@Giorgio Linguaglossa
Non deduco linee generali a partire da due libri: mi pare che il mio discorso sia un po’ più ampio, e che vengano tirate in ballo altre opere. Inoltre, cosa le fa pensare che io non abbia costruito discorsi critici su autori (e periodi) diversi altrove?
Mi fa piacere che abbia avuto modo di esprimere la sua opinione e di segnalare il suo sito. Da ora in poi, però, verranno approvati soltanto commenti in cui si discute il post.

  1. giorgio linguaglossa
    22 dicembre 2014 a 17:42

gentile Claudia Crocco,

le faccio presente che mi sono limitato a rispondere alla domanda di Gabriele Fratini. Peraltro, la mia riflessione era intesa ad approfondire e ampliare il discorso da lei avviato. Ritengo che avviare un discorso critico parallelo a partire dal suo post sia utile e interessante per chi voglia capire di che cosa si sta parlando. Forse lei intende la riflessione come un semplice commento interpolazione al suo testo, io invece ho un’altra idea del dibattito critico che credo debba essere una agorà dove si confrontano le tesi e non un luogo dove si emettono dei silenziatori.

  1. Claudia Crocco
    22 dicembre 2014 a 17:49

Gentile Giorgio Linguaglossa,

se avessi voluto mettere dei silenziatori e non dare vita a un dibattito critico, non avrei approvato giudizi negativi sul mio saggio (un paio dei primi). E non avrei approvato cinque suoi commenti, nei quali il discorso critico si basa solo su citazioni da suoi testi (con l’eccezione di Adorno) e dal suo sito. Mi creda, non ho intenzioni censorie.
Mi pare che lei abbia anche risposto a Fratini e che nessuno lo abbia impedito.
Non vedo molta volontà di confronto, però, da parte sua.

Saluti,

C.

Peter Sloterdijk

Peter Sloterdijk

  1. giorgio linguaglossa
    22 dicembre 2014 a 19:27

gentile Claudia Crocco,

comprendo perfettamente che il suo angolo visuale parte dall’esame di due autori della generazione degli anni Ottanta (la sua medesima) per valorizzarne il lavoro, forse è giusto così, ognuno parte dalla cognizione dei propri interessi, il suo lavoro interpretativo è utile, ma necessariamente parziale, e, per rispetto del suo impegno, non sono entrato a contestare o dimidiare il suo articolo o parti del suo articolo, che va bene così, ha dato il suo contributo critico a una serie di problemi veramente vasti e complessi. Però, suvvia, sia concesso anche all’interlocutore di turno di ampliare l’orizzonte del discorso anche a chi utilizza altre categorie di pensiero critico, non si richiuda a riccio entro il proprio recinto, da parte mia non c’è alcuna intenzione paternalistica ma chiedo che da parte sua neanche ci sia una intenzione censoria.

  1. Claudia Crocco
    23 dicembre 2014 a 00:34

Gentile Giorgio Linguaglossa,

e invece si sbaglia. Parlo di due libri di miei coetanei, è vero, ma poi il discorso diventa più ampio, e altre opere vengono coinvolte. D’altronde, il Novecento è pieno di critici che compiono (senz’altro meglio di me, certo) la stessa operazione. Non penso affatto che parlare di opere della mia generazione sia limitante, né che conduca a usare categorie ristrette. Al contrario, mi sforzo di usare categorie che siano in continuità con la storiografia della poesia che ho studiato, e allo stesso tempo adeguate a ciò che si scrive oggi. Non so quanto mi riesca; però rifiuto del tutto il suo commento generico, superficiale, e paternalista. Ben venga qualsiasi commento puntuale, anche brusco, ma basta con questo tronfio tono condiscendente. Mi faccia pure le pulci, se vuole: you are welcome. Non approverò più commenti autoreferenziali in cui, per “ampliare gli orizzonti”, sponsorizza solo le sue opere e il suo sito.

Saluti,

C.

  1. giorgio linguaglossa
    23 dicembre 2014 a 10:15

gentile Claudia Crocco,

mi creda, lo ripeto, non sono entrato dentro la sua argomentazione critica non per snobismo o per (come lei mi accusa) paternalismo, ma perché i problemi sono veramente molto complessi i cui nodi si possono rintracciare (se li si vuole risolvere) ben prima della generazione degli anni Ottanta, e precisamente agli inizi degli anni Settanta. Prendiamo ad esempio l’opera del maggior poeta italiano del Novecento: Eugenio Montale. Partiamo da lì.

franco fortini

franco fortini

Dopo Composita solvantur (1995) di Franco Fortini, la poesia diventa sempre più piccolo borghese: si democraticizza, impiega una facile paratassi, la proposizione si disarticola e si polverizza, diventa semplice insieme di sintagmi molecolari; si risparmia, si economizza sui frustoli, sui ritagli, sui resti del senso (un senso implausibile ed effimero), si scommette sul vuoto (che si apre tra gli spezzoni, i frantumi di lessemi, di sillabe e di monemi). Subito si spalanca davanti al lettore il «vuoto», la cosa fatta di vuoto, l’«assenza» (non più inquietante ma anzi rassicurante!), la «traccia»; il poeta oscilla tra una lingua che ha dimenticato l’Origine e ha de-negato qualsiasi origine, tra la citazione culta e la de-negazione della citazione. Il poeta deve produrre «valore»? Se così stanno le cose la poesia si accostuma all’andazzo medio, fa finta di produrre «senso» e «valore», ma produce soltanto vuoto, flatulenza di frasari distassici, combusti allegramente, per ri-usarli nell’economia stilistica imposta dalla dismetria dell’epoca della stagnazione e della recessione. Si profila la Grande Crisi che ha prodotto gli ultimi tre decenni di «vuoto» della forma-poesia (altro concetto dimenticato)!. Che cosa si intende oggi per forma-poesia? Che cosa si intende per dismetria? Che cosa è rimasto dell’economia dello spreco e dello sperpero, delle neoavanguardie e delle post-avanguardie agghindate, traumatizzate e tranquillizzanti?.

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

La poesia non ritiene più indispensabile cercare di edificare su Fondamenta solide, equivoca, prende l’abbaglio di credere che si possa costruire su Fondamenta instabili o, addirittura, sulla mancanza di Fondamenta. La poesia italiana contemporanea sembra aver perso energie, non crede più possibile ricreare le coordinate e le condizioni culturali per una poesia che voglia comunicare con parole «nuove» al pubblico (e poi: quali parole?, quale vocabolario?). La poesia parla del non-senso?, del senso?, del vuoto tra le parole?, del vuoto dopo le parole?, del vuoto prima delle parole?. Si ha l’impressione di una gran confusione. Ma qui siamo ancora all’interno delle poetiche della protesta e del disincanto del tardo Novecento!. La poesia ironica?, la poesia giocosa?, il ritorno all’elegia?, la poesia come battuta di spirito?, la poesia degli oggetti?, la poesia del mito?; il campo appare disseminato di mine, è un campo minato di rovine del pensiero. È vero?, dobbiamo credere ai pessimi maestri che ci hanno detto queste cose?, che il mondo è incomprensibile e altre sciocchezze?, e che la poesia si deve adeguare all’indirizzo medio e ai gusti di un medio pubblico mediamente acculturato?. La poesia tenta allora di orientarsi tra gli smottamenti, le faglie, i deragliamenti del senso, le deviazioni accidentali, con la dismetria dell’ironia, affonda il periscopio nel terreno della materia combusta, dei materiali esausti, degli isotopi delle parole decadute, dei detriti per riutilizzarli in una composizione emulsionata e cementificata. È questo il suo limite e il suo destino. È questo il suo télos.

Mauro Bonaventura sphere_red_man_giant

Mauro Bonaventura sphere_red_man_giant

C’è una gran confusione, una «dissolvenza» di tutti i concetti «forti», «solidi». Qualcuno dice di preferire ciò che è «liquido», «leggero», che la «leggerezza» è una virtù; qualcun altro dice di adottare il «quotidiano», il «privato»; qualcun altro sostiene di voler adottare il linguaggio della comunicazione, e così via; ho il sospetto che si tratti di comodi alibi per non affrontare di petto quella cosa che abbiamo davanti: la Grande Crisi della poesia italiana. Si dice che non si dà più alcuna certezza, nessuno è così sciocco da investire né sulla «leggerezza», né sulla «pesantezza». E il poeta?. Qualcuno dice che il poeta non ha nessun salvagente cui aggrapparsi, nessuna ancora cui legarsi, nessun punto di vista da difendere, e che è costretto a fare poesia «turistica», da intrattenimento, poesia da bar; appunto, c’è chi difende il turismo intellettuale: la chatpoetry quale parente stretta della videochat; c’è chi prova a fare poesia con il linguaggio dei cellulari. Si va per iniezioni, tentativi inconsulti; e la poesia diventa molto simile ad una attività approssimativa che scimmiotta i linguaggi telemediatici.

eugenio montale e il picchio

eugenio montale e il picchio

Oggi va di moda

Oggi va di moda porre un referenzialismo che poggia sullo zoccolo duro del linguaggio quotidiano e/o scientifico, con in più l’idea che le frasi-proposizioni esistano isolatamente e siano intellegibili in sé sulla base di una interpretazione interna; dall’altro, un anti-referenzialismo che parte dal discorso, (anche da quello di finzione come il discorso poetico), dalla letteralizzazione delle proposizioni, si procede sulla strada della de-metaforizzazione. Così è nato il mito che il senso estetico dipendesse da un massimo di referenzialismo del quotidiano. Dopo “Satura” (1971), l’opposizione fra il letterale e quotidiano (Montale) e il figurato (Fortini) sarebbe stata una falsa opposizione, nel senso che tutta la poesia italiana si è avviata nel piano inclinato e nel collo di bottiglia di un quotidiano acritico e acrilico. Da ciò ne è risultato che dalla poesia italiana è stata espulsa la metaforizzazione di base, il metaforico e il simbolico con le funeste conseguenze che sappiamo. Così, oggi, un poeta di livello estetico superiore come Maria Rosaria Madonna che poggia la sua poesia su una potente metaforizzazione di base, risulta quasi incomprensibile (almeno a chi è abituato al modello segmentale del verso lineare). Certo, la poesia di Helle Busacca come quella di Madonna (parlo di due poetesse ormai defunte) è irriducibile a quel piano inclinato che avrebbe portato la poesia all’abbraccio con la piccola borghesia del Medio Ceto Mediatico.

calvino e pasolini

calvino e pasolini

Riguardo a Pier Vincenzo Mengaldo

Riguardo alla affermazione di Mengaldo secondo il quale Montale si avvicina «alla teologia esistenziale negativa, in particolare protestante» e che smarrimento e mancanza sarebbero una metafora di Dio, mi permetto di prendere le distanze. «Dio» non c’entra affatto con la poesia di Montale, per fortuna. Il problema è un altro, e precisamente, quello della Metafisica negativa. Il ripiegamento su di sé della metafisica (del primo Montale e della lettura della poesia che ne aveva dato Heidegger) è l’ammissione (indiretta) di uno scacco discorsivo che condurrà, alla lunga, alla rinuncia e allo scetticismo. Metafisica negativa, dunque nichilismo. Sarà questa appunto l’altra via assunta dalla riflessione filosofica e poetica del secondo Novecento che è confluita nel positivismo. Il positivismo sarà stato anche un pensiero della «crisi», crisi interna alla filosofia e crisi interna alla poesia. Di qui la positivizzazione del filosofico e del poetico. Di qui la difficoltà del filosofare e del fare «poesia». La poesia del secondo Montale si muoverà in questa orbita: sarà una modalizzazione del «vuoto» e della rinuncia a parlare, la «balbuzie» e il «mezzo parlare» saranno gli stilemi di base della poesia da «Satura» in poi. Montale prende atto della fine dei Fondamenti (in questo segna un vantaggio rispetto a Fortini il quale invece ai Fondamenti ci crede eccome!) e prosegue attraverso una poesia «debole», prosaica, diaristica, cronachistica, occasionale. Montale è anche lui corresponsabile della parabola discendente in chiave epigonica della poesia italiana del secondo Novecento, si ferma ad un agnosticismo-scetticismo mediante i quali vuole porsi al riparo dalle intemperie della Storia e dei suoi conflitti (anche stilistici), adotta una «positivizzazione stilistica» che lo porterà ad una poesia sempre più «debole» e scettica, a quel mezzo parlare dell’età tarda. Montale non apre, chiude. E chi non l’ha capito ha continuato a fare una poesia «debole», a, come dice Mengaldo, continuare a «de-metaforizzare» il proprio linguaggio poetico.

martin heidegger nel bosco ala fontana

martin heidegger nel bosco ala fontana

Quello che Mengaldo apprezza della poesia di Montale: «il processo di de-metaforizzazione, di razionalizzazione e scioglimento analitico della metafora», è proprio il motivo della mia presa di distanze da Montale. Montale, non diversamente dal Pasolini di Trasumanar e organizzar (1968), da Giovanni Giudici con La vita in versi e da Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965), era il più rappresentativo poeta dell’epoca ma non possedeva la caratura del teorico. Critico raffinatissimo, privo però di copertura filosofica, Montale aveva terrore della cultura di massa del Ceto Mediatico. Montale ha in orrore la massificazione della comunicazione. Vicino in ciò ad alcuni filosofi esistenzialisti o di estrazione esistenzialista (come Heidegger o Husserl) i quali sostenevano che l’uomo moderno vive nella ciarla, nel mondo del «si» ed quindi confinato nella inautenticità, sommerso dalla straordinaria quantità di messaggi che lo bersagliano, il poeta ligure vede in questa condizione il dissolvimento ultimo del linguaggio (e del linguaggio poetico) come strumento della comunicazione. L’idea è quella che ogni tipo di rapporto linguistico sia costretto a realizzarsi in presenza di un fortissimo rumore di fondo, che sovrasta la parola, la distorce e la rende infine un segno non più idoneo alla comunicazione. La poesia è un atto linguistico, storicamente determinato, nel senso che risente, come qualsiasi atto umano, delle condizioni di civiltà nelle quali si manifesta. Di qui il pericolo incombente che la perdita di senso afferisca anche al linguaggio della poesia.

edmund husserl

edmund husserl

Montale compie il gesto decisivo, pur con tutte le cautele del caso apre le porte della poesia italiana a quel processo che porterà alla de-fondamentalizzazione del discorso poetico. Con questo atto non solo compie una legittimazione indiretta e inconsapevole dei linguaggi dell’impero mediatico che erano alle porte, ma legittima una forma-poesia che inglobi la ciarla, la chiacchiera, il lapsus, la parola interrotta, la cultura dello scetticismo, la disillusione elevata a sistema, a ideologia. Autorizza il rompete le righe e il si salvi chi può. La forma-poesia andrà progressivamente a pezzi. E gli esiti ultimi di questo comportamento agnostico sono ormai sotto i nostri occhi.
Il problema principale che Montale si guardò bene dall’affrontare ma che anzi con la sua autorità approvò, era quello della positivizzazione del discorso poetico e della sua modellizzazione in chiave diaristica e occasionale. La poesia in forma di elettrodomestico, la poesia in sotto tono, quasi nascosta, in sordina. Qui sì che Montale ha fatto scuola!, ma la interminabile schiera di epigoni creata da quell’atto di lavarsi le mani era (ed è) un prodotto, in definitiva, di quella resa alla «rivoluzione» del Ceto Medio Mediatico come poi si è configurata in Italia.

25 dicembre ore 10,00

Claudia Crocco

@Giorgio Linguaglossa.

Intervengo un’ultima volta per dirle due cose:

1) il suo commento esprime molta presunzione. Questo sito dà spesso attenzione a poeti di valore, e di recente ha pubblicato svariate cose su Fortini. Non mi pare che lei sia l’unico a occuparsi in modo serio di poesia contemporanea, come sembra suggerire qui.

2) Non approverò più commenti di questo tipo.

Saluti,

C.

 

helmut newton nudo in un interno

helmut newton nudo in un interno

25 dicembre ore 10.30

 Giorgio Linguaglossa

 gentile Claudia Crocco,

 lei è arrivata al dunque: con tono intimidatorio dichiara che censurerà (“non approverò”) ogni altro mio intervento “di questo tipo”, sottraendosi così al dialogo e all’approfondimento delle questioni estetiche che avevo posto con il mio contributo. Le faccio presente che io non ho espresso pareri irriguardosi o, come lei scrive, “Presuntuosi” nei confronti del suo articolo, anzi, ho scritto che andava bene ma che occorreva ampliare la riflessione sulla crisi della poesia e retrodatarla agli inizi degli anni Settanta. A questa mia legittima obiezione lei non ha risposto. Le ricordo che è lei l’autrice dell’articolo e se un interlocutore le pone una questione (fondata o infondata) è lei che deve rispondere con un approfondimento o una precisazione. Il suo  diniego a fornire alcuna risposta è indice di un atteggiamento sprezzante e irriguardoso non soltanto nei miei confronti (che avevo posto la questione) ma nei confronti di tutti i lettori del blog.

Chiedo infine alla redazione del sito se è lei che può decidere di censurare una discussione o se, invece, questo compito spetti alla Direzione del sito.

E questa è una domanda che pongo alla Direzione del sito, che, spero, non vorrà sottrarsi alla mia legittima richiesta. Preciso, inoltre, che anch’io sono direttore di un blog e che non ho mai censurato nessuno tranne commenti che sfioravano il codice penale con frasari offensivi o diffamatori.

cordialità. Giorgio Linguaglossa

Risposta della redazione del sito.

@Linguaglossa

  1. a) Come sempre, la moderazione del post spetta a chi lo pubblica. In questo caso, a Claudia Crocco.
  2. b) L’autore del post non “deve” rispondere a un bel nulla. Se vuole risponde, altrimenti no. In generale, si ha voglia di rispondere a obiezioni intelligenti, pertinenti e formulate in modo sintetico e rispettoso. Si ha meno voglia di rispondere a obiezioni autoreferenziali, verbose e palesemente fuori tema. Quando poi le obiezioni paiono servire soltanto a spostare l’attenzione di tutti sull’ego di chi le formula, la voglia di rispondere – o anche solo di leggere – rischia di sparire del tutto. Ci pensi.

(gs)

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 CONSIDERAZIONI di Alfonso Berardinelli sulla poesia di Mario Luzi

 mario luzi.

La poesia di Mario Luzi e la riflessione morale che forse ha bisogno di prosa

 il Foglio 23 gennaio 2014

Si commemorano quest’anno i cento anni dalla nascita di Mario Luzi, morto nel 2005. E’ stato il più precoce, dotato, produttivo e colto dei poeti ermetici che ebbero come maestri Ungaretti, Campana, Mallarmé, Novalis. Negli ultimi tre decenni della sua vita e soprattutto, mi sembra, da quando cominciò ad aspettarsi il premio Nobel (che invece fu assegnato a Dario Fo) Luzi diventò ancora più prolifico, si investì del ruolo di “grande poeta”. Dopo il suo libro migliore, “Nel magma”, uscito nel 1963, la “verticalità” del suo stile e il suo esistenzialismo spiritualistico lo hanno spinto sempre più verso un poeticismo quasi involontariamente enfatico, dilatato, cosmologico, che aveva origine nella sua formazione tardosimbolista.

 Leggendo l’articolo che domenica scorsa Carlo Ossola ha dedicato a Luzi sottolineandone il carattere di poeta morale e civile, mi sono venute in mente le mie precedenti impressioni. Se si escludono alcune zone della sua opera, Luzi tende a pensare troppo in grande, in generale e al cospetto dell’assoluto per essere un poeta propriamente morale e civile. Il fatto che come uomo e cittadino abbia sofferto per la situazione italiana, non significa che fosse capace di esprimere in poesia questa sofferenza, come hanno saputo fare, con un linguaggio più sobrio, i suoi coetanei Vittorio Sereni e Giorgio Caproni. Basterebbero le citazioni fatte da Ossola per capire che la sensibilità di Luzi si perde, o meglio vuole ingrandirsi e sublimarsi, in una nebbia di entità indeterminate, in un labirinto di allusioni e metafore che risultano nobilmente retoriche. Parla di “forza interiore” necessaria all’uomo, dice che “il volto della verità è stato offeso: per errore per ignoranza per inerzia per viltà” (la mancanza di virgole, più che esprimere un crescendo di esasperazione, aggiunge enfasi e toglie concretezza). Parla di “una vita formale, eterna” (su vita, forma ed eternità si potrebbe, o dovrebbe, costruire un’intera filosofia, mentre qui si capisce appena l’accostamento). Esorta i lettori e l’umanità intera: “Trasformatevi dolorosamente / nella vostra incipiente divinità” (suggestiva allusione a un’etica teologica da precisare).

A sua volta Ossola aggiunge astrazione ad astrazione dicendo che Luzi “come tutti i grandi poeti del Novecento ha mirato all’essenza”. Ora c’è da chiedersi che cos’è l’essenza, che cosa si deve intendere con questa parola. C’è l’essenzialità di Ungaretti, ma c’è anche quella di Montale. E Saba è poco essenziale? E Giovanni Giudici (che Ossola ha studiato) con i suoi versi umili e quotidiani, cattolici e comunisti, ha mirato o no all’essenza? Ha raggiunto il bersaglio? In letteratura e in particolare in poesia, quella dell’essenzialità è forse (con quella di realtà) una delle nozioni più sfuggenti e controverse. Ogni stile ha la sua idea di ciò che è essenziale. Ogni stile ha la sua fisica e metafisica più o meno implicite.

Milano, 11/12/1960 Nella foto: Eugenio Montale

Milano, 11/12/1960
Nella foto: Eugenio Montale

 Mi sembra che Luzi, forse immaginando di essere sulle orme di Montale, abbia preso invece tutt’altra strada, si sia sollevato in volo verso l’inconoscibile e abbia perso, in tutti i suoi ultimi libri, che non sono pochi, la distinzione tra fisico e metafisico, tra l’esperibile e il sovrasensibile. Ungaretti (su cui Ossola ha scritto un libro) è il poeta più “essenziale” del Novecento, eppure le sue poesie di guerra (le migliori) sono sommamente circostanziate: di ogni testo si precisa il luogo e la data di composizione. Poi, con il suo secondo libro, ha inventato l’ermetismo perché non sapeva più con precisione che cosa dire.

Ed ecco i versi di Luzi che dovrebbero toccare l’essenza, mentre si limitano a nominarla: “Le nazioni non meno dei singoli / disimparano l’amore della sostanza, dimenticano / quel giro stretto di vita e volontà / che ne molò i lineamenti, ne definì l’essenza”. Mi sembra che non poca poesia poeticizzante e poeticamente nulla scritta da diversi autori più giovani, sia dovuta all’influenza di questo Luzi che vola verso l’assoluto e nomina categorie morali senza mostrare situazioni morali: che vede la vita e il mondo come “putiferio della mortalità” e il potere politico come “eterna satrapia”. Siamo nel solenne e nel vago, mi pare.

Molto meglio un articolo che Luzi pubblicò sul Messaggero il 7 gennaio 1991 e che Piergiorgio Bellocchio scelse subito per ripubblicarlo sulla nostra rivista Diario, numero 9. Qui Luzi parla come uomo e cittadino e non si preoccupa di fare il poeta:

Sto studiando se e come sia possibile ancora associare la condizione di italiano e quella di persona civile. Con tutti gli sforzi della buona volontà non ci riesco. Per troppo tempo la carità patria mi ha fatto velo ed ho lasciato, come altri, che lo facesse. Ma, evidentemente, non si può andare oltre un certo limite; poi l’indulgenza si trasforma prima in indignazione e rivolta, infine in sconforto e vergogna quando ci accorgiamo che, non arginata da nessuna decente e rispettata statualità, la disgregazione sociale è divenuta barbarie (…). Non ci sono solo i Sindona, i Gelli e tutta una generazione di politici che sembra avviata a una tremenda catastrofe a testimoniare lo sfracello italiano; ci sono anche i subalterni che alla loro ombra hanno trafficato, corrotto, commesso arbitrii e soprusi; e ci siamo noi che siamo riusciti a sopravvivere in questo marasma come pesci nell’acqua sporca (…). Non solo, ma ne abbiamo più o meno consapevolmente assimilato il criterio, quasi a confermare l’idea di Machiavelli che in uno stato inefficiente la naturale perfidia umana dilaga”.

alfonso berardinelli

alfonso berardinelli

 Sembra proprio che la riflessione morale e un vero, non retorico moralismo abbiano bisogno di un po’ di prosa. Il più bel libro di Luzi, “Nel magma”, era un libro di situazioni, il più prosastico con i suoi lunghi versi metricamente poco definibili. E’ a quel punto che Luzi aveva trovato la giusta forma per “spingere più oltre (…) la captazione del reale e l’identità di prosa e poesia – nell’unicum della lingua”, come scrisse in una lettera a Sereni del 12 maggio 1963. Il poeta ermetico era diventato (come succederà anche a Montale con “Satura”, nel 1971) un poeta che cerca la sua epigrafe più adatta in una satira di Orazio: “… nisi quod pede certo / differt sermoni, sermo merus: se non fosse per la misura dei versi, questa non sarebbe altro che prosa”.

Dopo quel libro Luzi ha invertito la sua direzione di marcia, è tornato a quella che Orazio nella stessa satira (la quarta del primo libro) chiama “ispirazione geniale e divina” e “voce capace di toni sublimi”. Quando ha cercato di far fruttare la sua cultura ermetica giovanile dilatandola in un’epica spirituale della vita divina, quando ha voluto accendersi di un sacro fuoco, quando in epigrafe ha cominciato a mettere san Giovanni, Dionigi Areopagita e i Veda (quando ha cominciato a pensare al Nobel, se volete) Luzi ha perso la misura di poeta morale e civile e si è smarrito in una retorica frenesia da veggente.

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