
Man Ray, rue de la transfusion
Prefazione di Fernando Bandini.
Ecco come ho conosciuto il poeta Margiotta. Sedeva in fondo all’aula, staccato di una o due file, nel laboratorio di scrittura poetica che tenevo a Bologna, organizzato dal «Centro di Poesia». È un elemento costante della mia esperienza didattica, realizzata nei più diversi contesti e situazioni, l’immaginare che ci sia tra chi mi ascolta qualcuno molto informato e criticamente attento che soppesa senza pietà quanto vado dicendo. Durante quelle lezioni avevo individuato il personaggio di questi miei timori in quel giovane uomo.
Alla fine ho letto le poesie di Margiotta ed è nato un rapporto di confidenza, come sempre succede quando qualcuno ti affida un testo perché tu lo legga e ne dia un giudizio. Andrea Margiotta conferma una tendenza fondamentale della poesia d’oggi, che si riscontra, sull’estremo confine di questo secolo, in altre notevoli giovani voci: da una parte una attenzione alle esperienze pregresse del Novecento, non più marcate da rigide scelte di poetica né tanto meno da costringenti fedeltà a ideologie. Quanto viene offerto dai lavori della poesia del Novecento (un secolo poeticamente fertile come furono soltanto il Due – Trecento) viene espropriato e assunto nel proprio dire con una disinvolta ma meditatissima libertà, il cui unico rischio è forse quello, nei meno rigorosi, di un certo eclettismo dello stile. E tuttavia le ragioni della poesia, le attestazioni – immanenti ai testi – della sua necessità, appaiono (come nel caso di Margiotta) lampanti. La poesia diventa strumento di un’operazione autre (il «dirsi» e il senso nascosto), che riscopre la lezione di Rimbaud e tuttavia trascende l’orfismo come si è affermato da noi nelle sue concrezioni passate e recenti. Limite dell’orfismo era la nebulosità del linguaggio poetico (non l’oscurità, che è inevitabile, ma la nebulosità, l’incapacità cioè di ritagliare e incidere oggetti fermi e chiari nel proprio discorso, il vizio di confondere l’approssimativo col numinoso). Nel Margiotta degli esiti migliori la cosa autre irrompe nella compagine del vissuto, in una verità umana che precede il possibile (indispensabile ad ogni non caduca poesia) arrivo del nume. Lì, in forme talvolta anche di elegia, Margiotta affida ai tempi verbali del racconto la propria verità. Ma l’elegia non è in lui la rinuncia agli «universali», non è il rifugio dopo la sconfitta nelle serre di una ingannevole «calda vita». Per questo può scrivere singoli versi bellissimi, pieni di profonde risonanze, anche dove il contesto può sembrare qua e là non del tutto compiuto e risolto. È perché Margiotta mantiene una costante fedeltà a una sua idea alta della poesia, idea nella quale confluiscono anche i suggestivi e pertinenti ricordi di pregressi dettati danteschi e stilnovistici, quasi un segnale di appartenenza a qualcosa che si pretende staccato da mode e maniere, che però cerca, anche tra gl’inevitabili scacchi, una diversa collocazione della propria modernità. Margiotta, nelle sue dichiarazioni verbali, dice di amare molto Conte e il suo «mito del mito». Ma da Conte lo distanzia l’attenzione allo smalto del linguaggio (proprio nell’ accezione di materiale netto e duro), la sua attenzione a una misura nitida del verso, oltre che la renitenza a farsi divorare e cancellare dagli dei. Conte, nella sua poesia, realizza un monologo dilagante dell’io, che si fonde entusiasticamente nel risucchio delle proprie immagini, mentre la poesia di Margiotta sembra sbattere, come quella di Ritsos, contro un muro che non permette nessuna sacrale fusione, anzi il suo discorso si rivolge a interlocutori che, ahimé, non rispondono. Ma non gli si può muovere rimprovero di questa sua contestabile opinione di sé, fenomeno che è abbastanza frequente anche in poeti importanti. In verità il lettore dei versi di Margiotta avverte il confluire, nella sua poesia, della doppia suggestione di Luzi e Caproni. L’ircocervo – di un Luzi attento in prima istanza ai sensi metafisici che gravitano sul mondo, e di un Caproni che parte materialisticamente dalla storia per incontrare quei medesimi sensi, – realizza questa vicenda sospesa della poesia di Margiotta, che indica e promette territori ulteriori nei quali forse potrà sfociare con maggior sicurezza e perentorietà. Ma cosa può dire un poeta vecchio mentre affettuosamente sta presentando un poeta giovane? Questi futuribili si estendono oltre la sua esistenza, sono una scommessa, e se Margiotta vivrà nel discorso della poesia futura, spero che almeno si ricorderà di me.
Fernando Bandini
Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
Pensiamo per un momento se tutti i poeti di oggi scrivessero come impone il modello magrelliano o come impone il modello della poesia deangelisiana o cucchiana, ecco che accadrebbe che, molto semplicemente, non ci capiremmo più, parleremmo tutti lo stesso linguaggio, lo stesso lessico, la stessa sintassi, lo stesso fono simbolismo, lo stesso tono simbolismo. Sarebbe una ecatombe, non riusciremmo più a capirci, a comunicare, perché parleremmo lo stesso linguaggio! Parleremmo tutti con il linguaggio delle «didascalie in margine a un giornale» con le didascalie lessicali dei libri della poesia maggioritaria! Sarebbe un disastro, non riusciremmo neanche a dire una frase semplice semplice come «andiamo a prendere un caffè?» perché non ci capiremmo più, non sapremmo se parliamo come una didascalia, e quindi usiamo una domanda retorica, o se parliamo di un nostro bisogno esistenziale, e quindi di una cosa per «noi» importante.
Questo concetto lo spiega molto bene un poeta oggi dimenticato, un poeta intellettuale di una generazione lontana, nato nel 1914, contemporaneo di Pasolini e di Moravia, che si poneva domande che nessuno oggi, dei poeti attuali dico, si pone, Piero Bigongiari il quale si chiede:
«Linguaggio dunque come atto integrale dell’uomo prima che l’uomo accetti di dividersi nella parzialità delle proprie attività operative. È questa l’”attualità” che il linguaggio “improbabile” premette a ogni momento della prassi. Diciamo insomma che l’uomo può parlare in quanto i poeti parlano al limite del possibile stesso del linguaggio, e ogni volta lo portano più in là, ogni volta con la difficoltà on cui mettono l’istituto linguistico aprono all’infinito per l’uomo la possibilità d’intendersi anche sul piano più comune e utilitario. Diciamo di più: se non esistessero i poeti, arriverebbe il momento in cui gli uomini, per usura, non riuscirebbero più a intendersi fra loro».1
Bigongiari si pone qui un problema molto importante (che nessuno oggi si pone più), che una storia letteraria che dimentica la scrittura che la precede, o che, peggio vuole soffocarla e farla dimenticare, come accade ed è accaduto in questi ultimi decenni, dicevo che una storia letteraria che fa questo si pone nella condizione della «pattumiera della storia», precipita tutta intera nella insignificanza, nella letteratura di consumo e di vetrina…
È chiaro che questa problematica sta molto a cuore alla «nuova poesia» della nuova ricerca che abbiamo chiamato la «nuova ontologia estetica», ed è questa consapevolezza che ci spinge alla ricerca di un nuovo linguaggio, di un nuovo sguardo sul mondo. E sarà la nuova poesia della nuova ontologia estetica che riscatterà, forse, un giorno lontano o non lontano, la poesia di oggi di precipitare anch’essa, tutta intera, con le scarpe e il maglione, nella «pattumiera della storia».
Sarà chiaro a questo punto che il ritorno ad una poesia rimata e ritmata come questa di Andrea Margiotta si collochi in un contro movimento, in un punto di rifrangenza rispetto alla generale tendenza alla narratività presente nella poesia italiana di questi ultimi decenni; la funzione della rima in questa poesia è importante; innanzitutto, una funzione segnaletica e fono simbolica; in secondo luogo, per un prendere le distanze da quella diffusa dispersione delle energie poetiche verso la narratività che ha finito per disossare la poesia italiana nella sua versione generalista ed epigonica. Margiotta reagisce come può e come la sua intelligenza gli suggerisce, facendo un passo indietro, saltando all’indietro la poesia generalista e narrativa degli ultimi decenni e ripristinando il concetto di una poesia degnamente orfica, riprende dal primo Montale saltando tutto ciò che è venuto dopo il secondo Montale; non costruisce un nuovo linguaggio, il neolatino, come farà Maria Rosaria Madonna con Stige nel 1992 (libro ora riproposto con gli inediti da Progetto Cultura, Stige. Tutte le poesie 1990-2002, nel 2018) ma si accredita come uno degli autori più rappresentativi del fono simbolismo che ha il suo esponente più autentico nella poesia di Roberto Bertoldo (in proposito, il primo e l’ultimo dei suoi libri: Il calvario delle gru del 2000, e Il popolo che sono, Mimesis Hebenon del 2017). Io non privilegerei, come fa Bandini, il parallelismo con la poesia di Giuseppe Conte, piuttosto, la sua presa di distanze dalla poesia di ligure, mi sembra fuori discussione; qui l’operazione di Margiotta è diversa: è la presa di distanze dal semplice ritorno alla rima con un linguaggio neoclassico come quella del Conte, il tentativo di Margiotta è ripristinare la linea centrale della poesia fono simbolica e tono simbolica che vede nella rima l’asse semantico da privilegiare.
1 P. Bigongiari La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Rizzoli, Milano, 1972, p. 31
Testi da Diario tra due estati
DOPO LA PIOGGIA
La città rischiarata dai lampioni verdi
dopo la pioggia e il silenzio.
Ondeggiano le nuvole d’argento
sulla piazza dove è passato il vento.
Dall’altra parte del ponte
entrano i giocatori nelle osterie.
Zampilla l’acqua dolce da una fonte
oltre i giardini e gli alberi,
sale alle luci ferite degli angeli.
La luna rotola sulle tue gambe,
s’infrange la bellezza
negli specchi dell’estate.
Di nuovo il traffico lungo le strade.
(Grecia, 1995) Continua a leggere