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UNA POESIA INEDITA di Steven Grieco Rathgeb “Felice notte O Bon” con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa “«Felice notte O Bon», è un augurio di buonanotte, l’augurio di entrare nel regno delle ombre, un mondo architettonico e spirituale della nudità e assolutezza del senso perduto”; “La poesia è lì, posata su un tiretto, in un appartamento al terzo piano di un anonimo palazzo romano, come un oggetto di oreficeria, una moneta fuori corso. Ci parla come può parlarci un ricordo dimenticato”

Steven Grieco Epang-Palast

la Montagna degli Immortali

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Nel 2016 pubblica Entrò in una perla Mimesis Hebenon editore. Dieci sue poesie sono rinvenibili nella Antologia di poesia contemporanea a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) indirizzo email: protokavi@gmail.com

 

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Che cosa ci dice Steven Grieco Rathgeb in questa poesia? Tutto e nulla. Ci parla di «sconosciuti» «giunti da così lontano», di «ospiti» che hanno abitato il «tuo pensiero: fluido, inafferrabile»; subito dopo parla del «volto delle principesse»; infine una notazione, un ricordo, una negazione della notazione: «No, non eravate solo seduti in riva a fiumi oscuri, / lo Yamuna soffocato dal pattume, con le rondini in alto.»; accenna a una «distanza» che gli «occhi» sono «capaci di raggiungere». Ecco, siamo arrivati ad un punto chiave: si tratta di una poesia dello sguardo che tenta di raggiungere una «distanza», un «luogo». E poi, subito, una tranche di ricordo biografico: «Anni prima uno di loro era venuto a Firenze / nell’appartamento sui tetti». Quindi, «uno di loro», qui si parla di fantasmi, dei fantasmi della memoria, che ritornano. Poi ci sono dei soprammobili, delle masserizie, i libri di Li Baj, e poi si parla di un «serpente miracoloso, sinuoso, senza spina dorsale», una mostruosità che si insinua nell’interno dell’anima e del ricordo; e poi, di nuovo, l’intermezzo di un ricordo, che diventa immagine: «A Roppongi, quando giacesti a lungo malato sul divano Luigi XIV»; e poi un’altra immagine ricordo, un misterioso «ospite»: «lui era l’anonimo sassofonista». La poesia continua così, con ricordi che diventano immagini e immagini che si presentano nella veste di ricordi. Tutto e nulla, misteriosamente, convergono. Ma dove? Forse, la fame di spazio e di luoghi di cui vive questa poesia è la stessa fame di luoghi e di spazio che ha abitato la persona di Steven Grieco, la stoltezza di ospitare degli «ospiti» privi di «spina dorsale», quindi anch’essi come disincarnati, alati aliti, immagini, eidola che diventano immagini di una fantasmagoria, di un caleidoscopio. E la poesia ha l’andamento pianissimo e il passo di visioni successive che si presentano una dopo l’altra proprio come in un caleidoscopio onirico. La poesia abita gli stessi luoghi della fantasmagoria del poeta. È viva in Grieco Rathgeb l’esigenza di liberarsi dalle convenzioni relative ai metri, agli spazi e ai tempi della poesia tonale lineare per rivolgersi alla poesia atonale, circolare. Le parole diventano suoni atonali, sono morceaux per pianoforte: parole enigmi che si susseguono ad altre parole o che sfuggono ad altre parole, come per restare in uno sfondo, un secondo piano mnestico, quasi fossero tappezzeria, arredamento della memoria che evanesce.

Da quando Cage ha stabilito che tutto è musica, i rumori sono diventati significativi, e con essi le immagini, i frammenti. I rumori sono frammenti di suoni un tempo forse nobili, e i frammenti sono nient’altro che rumori ricchi di un senso perduto, di echi, di tracce smarrite.

Dunque, ad un poeta del nostro tempo resta il compito di ascoltare e far «suonare» il «rumore» delle parole con le parole. In fin dei conti. «La mente ti ha guidato così bene solo per farti smarrire», «La poesia è sempre la stessa». Il mondo, diventato un «acquitrinoso labirinto di lingue», non richiede più da tempo alcuna rappresentazione lineare o prospettica, l’unica struttura formale consentita è la raffigurazione a-prospettica e multiprospettica, la sovversione delle strutture temporali, un tempo ritenute stabili, la elusione di qualsiasi convenzione dei movimenti frastici impressi sul pentagramma convenzionale; il pentagramma della nuova poesia bisogna scoprirlo da soli, immaginarselo; possono sopravvivere soltanto la durata e l’intensità di ogni singola parola; come nella musica per pianoforte e archi di Morton Feldman; sopravvivono le immagini che si presentano alla memoria trascendentale come tessere di un mosaico che non sta al poeta disporre ma soltanto comporre.

Steven Grieco YuanJiang-Penglai_Island

YuanJiang-Penglai_Island

In tal senso la «Felice notte O Bon», è un augurio di buonanotte, l’augurio di entrare nel regno delle ombre, un mondo architettonico e spirituale della nudità e assolutezza del senso perduto, scevro di qualsivoglia notazione simbolica, iconica, politica o religiosa. Quest’opera è tra le più singolari della poesia di Steven Grieco, e una delle più alte del contemporaneo; nel lungo movimento frastico a guisa di «serpente» privo di «spina dorsale», si svolge ed involge il moto elicoidale come la catena del DNA, si trovano varie voci e vari personaggi, al pari di una composizione musicale dove interagiscono il soprano, il contralto, il coro, una voce fuori campo, una viola, un Glockenspiel e percussioni sospese nel vuoto. È una poesia che ha per tema il «vuoto». È viva la sensazione di un tempo sospeso e della quiete monocroma alla Rothko Chapel di Morton Feldman. La poesia inizia con l’arcana impenetrabile sacralità di un pianissimo per svolgersi in una serie di movimenti musicali a contralto e a contrasto, come seguendo il respiro di una fantasmagoria che lievita verso l’alto.

C’è un moto che lievita, insieme al suono lento e sussiegoso delle parole. Ed ecco che appaiono i fantasmi: «gli sconosciuti giunti da così lontano»:

Chiunque poi, fossero. Se mai erano esistiti.

Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
inafferrabile […]

Affiorano come dall’ombra delle ombre i nomi immagini, le località note al poeta e a lui solo: Rappongi, Waseda, il Giappone, Tokyo, Aoyama, e poi Roma nominata per sineddoche per il tramite delle sue strade. D’improvviso, il monocolore del sogno della «felice notte» si apre alla polifonia delle voci e dei colori:

Ma di colpo si aprirono i paesaggi: Kyōto, i colori, le colline,
i templi addossati alle colline. Il bianco e rosso di una fanciulla.
E nel tempio vuoto la presenza fremente del dio che inesiste.

Dal carattere «statico» e «oggettivo» di questo stile, insomma, filtra con delicatezza orientale l’anima più in ombra di Steven Grieco Rathgeb, il lato in ombra, monocolore, e il lato al sole, multicolore. Gli studi appassionati del poeta sull’armonia vocale e sui principi della polifonia, sui waka, sugli haiku, sui tanka, sui poeti prediletti (Li Bai, Meng Hao Jan, il russo Aigi), sulla musica di Giacinto Scelsi e di Morton Feldman hanno reso il suo metro particolarmente adatto ad ospitare le grazie e la fuggevolezza della poesia cinese in una cornice occidentale in un particolarissimo stile che fonde insieme un che di «frivolo» (tutti i sogni appaiono frivoli dinanzi alla realtà) e di drammatico, di surreale e di allucinatorio. L’autore ricorre esplicitamente alla nominazione dei luoghi (Firenze, nell’appartamento sui tetti, Roma per sineddoche tramite le sue vie abitate da una varia multietnicità: via Buonarroti, piazza Vittorio, via Merulana dove la poesia è nata ed è stata composta) e di personaggi misteriosi che insistono in spazi circoscritti e diluiti insieme, inviolabili reperti della memoria nei quali le voci risuonano limpidamente e senza soluzione di continuità, rispondendosi e richiamandosi l’un l’altra nell’alternanza di toni complementari e sfuggendo ognuna per proprio conto in direzioni molteplici. E, d’improvviso, appare

E nel tempio vuoto la presenza fremente del dio che inesiste

Si verifica così una grande indirezione di tracce, di echi, di frammenti di sogni e di ricordi; e accade che il quadro d’insieme più viene arricchito di particolari più ne risulta sfumato, complicato, incerto, ibrido, insostanziale:

Tutta via Merulana ingoiata: i palazzi, i negozi, i grandi platani,
tutto è l’interno vuoto di un vetro d’un qualche trasparire.

Scendi nella via, nel traffico assordante lo sguardo
ti cade sul selciato volta dopo volta, fracassandosi,
ricostituendosi.

Sarebbe inutile e stucchevole chiedersi se la poesia abbia un senso e quale, o molti sensi o alcun senso. La poesia è lì, posata su un tiretto, in un appartamento al terzo piano di un anonimo palazzo romano, come un oggetto di oreficeria, una moneta fuori corso. Ci parla come può parlarci un ricordo dimenticato.

Breve nota introduttiva

In Giappone l’O Bon è il giorno in cui gli spiriti ancestrali tornano a trovare i loro discendenti. La festa viene celebrata il 15 agosto, dopo il crepuscolo, quando la gente scende per le vie delle città e va in processione con lanterne in mano.

 

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Poesia di Steven Grieco Rathgeb

FELICE NOTTE – O BON

Il solo tuo vederli li riportò più volte in vita.
I molti sempre in uno, gli sconosciuti giunti da così lontano.
Un fremito, un singulto, uno strano singulto dell’anima.
Chiunque poi, fossero. Se mai erano esistiti.

Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
inafferrabile. Con mano tremante hai sfiorato il volto
delle principesse. Ne hai vissuto le parole, esterrefatto.

No, non eravate solo seduti in riva a fiumi oscuri,
lo Yamuna soffocato dal pattume, con le rondini in alto.
Non eravate senza diritti, aspettando la fine.
Ci furono doni: come la vita non è.
I tuoi occhi, capaci di raggiungere ogni distanza.

Anni prima uno di loro, studioso di poesia giapponese,
era venuto da Tokyō a Firenze
a trovarti nell’appartamento sui tetti.
I tuoi volumi di Li Po, Meng Hao Jan, Chang Jien,
fra le sue mani diventarono frammenti di luce.
I volti chiarissimi, trasfigurati.
nel paesaggio toscano altri paesaggi dormivano larvati.

Così entrò in te la virtualità del waka:
serpente miracoloso, sinuoso, senza spina dorsale.
Un sentire: un impalpabile pensiero creatore.

A Roppongi, quando giacesti a lungo malato sul divano Luigi XIV,
lui diventò l’anonimo sassofonista che dopo il tramonto
saliva in cima al palazzo per suonare fra i
cassoni dell’acqua e le antenne della televisione
un solitario canto d’amore alla metropoli illuminata.

L’anno dopo, nella trattoria sotterranea a Waseda,
dopo aver ripreso in pugno la realtà, averla domata, parlasti
per ore con quell’intellettuale occhialuto, grande e grosso.
Del Giappone anni Trenta, della Guerra, cose di cui,
senza sapere come, eri perfettamente a conoscenza.
Fino nell’intimo erano tue le macerie di Tokyō.

 

Con difficoltà respingesti il disagio, quasi un’allucinazione
fra le birre vuote sul tavolo, i piattini dei sottaceti.
Forse era soltanto il suo inglese malfermo,
o il tuo acquitrinoso labirinto di lingue,
la ricerca angosciosa di qualche aggancio con il tedesco.

Di colpo si aprirono i paesaggi: Kyōto, i colori, le colline,
i templi addossati alle colline. Il bianco e rosso di una fanciulla.
E nel tempio vuoto, la presenza fremente del dio che inesiste.

Le immagini nacquero una dall’altra: strani nascituri,
ciascuna balzava fuori dalla precedente,
ingenerata dal senso di se stessa che non può sapere,
ma fortemente esprimere.

L’arco teso all’inverosimile, quando è scoccata la freccia
non era una freccia: sonorità armoniche, sovra-toni,
echi sparsi per tutta l’aria, dure schegge lucenti.

Poi, Roma. All’inizio, nemmeno lo riconoscesti,
eppure abitava qui, nel tuo stesso palazzo in via dello Statuto,
lo vedevi sempre uscire da una delle chiostrine interne.
Un moto di stupore: perché di loro pensavi non
avere più elementi, tutto passato, concluso.
Ma ecco il sorriso familiare, i baffi radi e spioventi,
l’I-pad, il gatto nero con gli occhi gialli elettrizzati
sempre appollaiato sulle sue spalle.

Un mattino il carro funebre lo aspetta giù nella via.
Nella notte un infarto l’ha trasformato in un riquadro
azzurro sopra i grattacieli di Aoyama.
Salutandolo attraverso il cielo, hai pensato, chissà
perché, a Aygi: lo stesso sentire traslato, l’anima
che trasumanando vola fuori dal corpo in diecimila forme.

Non transitare davanti alle loro stelle, non oscurarle.

E’ pomeriggio. Ti svegli: nel tuo cerchio dell’apparire
si aprono abissi trasparenti. Sai bene cosa vuol dire.
Ti sfiora qualcosa, ali di falene.
Sei così sfinito, non riesci nemmeno a disperarti.

Tutta via Merulana ingoiata: i palazzi, i negozi, i grandi platani,
tutto è l’interno vuoto di un vetro d’un qualche trasparire.

Scendi nella via, nel traffico assordante lo sguardo ti cade
volta dopo volta sul selciato, fracassandosi,
ricostituendosi.

No! è una premonizione! Un utamakura. O Bon!
Con queste due parole può illuminarsi una città intera.

Nei loro mascheramenti, proprio qui l’hai rivisti,
quasi senza accorgertene. Per qual motivo così affranto?
Il sorriso, che stringe gli occhi fin quasi a chiuderli.

Perché loro indicano sempre l’altro di se stessi.
Quando l’espressione è troppo sofferta, genera fra mille
doglie il suo opposto. Come dire, il significato identico
ammicca, sorride. Non è mai lui.

Cos’è allora “l’originalità”? Dire quello che altri non
han detto? A lungo hai cercato negli angoli non frugati
gli incroci nascosti, da cui loro già ti venivano incontro.

Poi di colpo, scomparsi. L’hai ritrovati, un gregge,
mimetizzati sul fondo della sempre stessa via,
ramificata ormai in miriadi e miriadi di vie.
Così, l’udito ha visto; e la vista ha saputo cogliere
l’indecifrabile musica. Eri del tutto incredulo:
l’oceanico, diversificato intrico di waka
somigliava solo a se stesso.

Stai tornando la sera a casa. Non hai più niente.
Hai rischiato tutto per amore. La paura di ignote sciagure
ora ti fascia come un velo invisibile.

E’ proprio questo: l’uomo ha soltanto nostalgia di se stesso.

Ma questa è la sera di O Bon:
le ombre di mezzo agosto calano presto, dopo che il sole
ha disfatto tutte le pietre e i visi dei passanti.
Una folla di spettri bizzarri e lanterne risale via Buonarroti
solo per te. E il giorno d’un tratto è notte – una notte
festosa, spettrale, piena di luce e di promesse.

Sono qui dall’Estremo Oriente per riprendersi i tuoi tempi passati:
la preziosità dell’enunciato, veloce come un fulmine, capace di
nascondere-rivelare strati di paesaggio ben più profondi.
E come usciste da voi stessi, involandovi nel cielo
per meglio contemplare le terre predilette nel gran chiarore.
Sospesi fra lo sciamano dell’aria e il poeta visionario,
quando in sogno raggiungesti le remote colline d’Epiro
dove i fiori d’acacia cadevano come neve.

Del verso la fessura segreta ha significato entrare
al suo interno, vertiginosamente.
Là dentro hai capito cos’è la plasticità della parola,
come crea le tre dimensioni del mondo visibile.
Là dentro, non sai come, stai al largo di Suma e Akashi
splendenti nella notte,
là rivedi la barca dello studioso giapponese:
senza remi o rematore,
indica l’orizzonte della poesia.

Aveva un senso, questo? O non lo aveva per niente.
Eran tutte cose che volevi fare. Poi sono finite,
perché vita e scrittura sono diventate terrificanti,
perché in te è nato il cigno di Eros-Thanatos,
finito il tempo dei sogni.

Un antico pianto sale, l’acqua sorgiva sale oscura dal profondo.
Quel verso coreano, come diceva? Ah, sì…
Gets ei sen kou –
“la luna si specchia nei mille fiumi”.

La poesia, dunque, è sempre la stessa. Non puoi volerla.
La mente ti ha guidato così bene solo per farti smarrire.

Ma quel loro fare, i vestiti un po’ logori, ti sono del tutto familiari.
Sono quasi giunti all’angolo con Piazza Vittorio, magrissimi,
involucri vuoti, senza età. Li ami per questo: per i folti capelli
bianchi, le gonne e le giacche strampalate,
la cravatta sgualcita che vola via nel colpo di brezza.

E il non-divino. Lo sguardo ispirato.
Uno sguardo che in realtà non esprime nulla.
ROMA, Piazza Vittorio, marzo 2013 – agosto 2014

 

Note: 1. Roppongi, Waseda, Aoyama, tutti quartieri della gigantesca metropoli di Tokyō.
2. Il waka è una forma poetica giapponese (5-7-5-7-7 sillabe).
3. Aygi: il russo-ciuvascio Gennady Aygi (1934-2006) forse il massimo poeta in lingua russa della seconda metà del XX sec.
4. Utamakura: il “cuscino della poesia”: in un waka o haiku, parola o frase, spesso riferita ad un luogo geografico, che serve per evocare, dare l’avvio alla composizione. Matsuo Bashō: “perfino a Kyōto sento nostalgia di Kyōto – il canto del cucù.”

 

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SETTE POESIE INEDITE di Steven Grieco-Rathgeb Nel caleidoscopio (2002), Cosa vedemmo dal ponte S. Trinita, Via de’ Canacci, Nido sulle onde, al padre Stretto di Magellano, 1934, Nel caleidoscopio, Indovinello sulla coda di rondine, Che canta il merlo alle 5 del mattino? – con un Commento di Giorgio Linguaglossa e una Lettera dell’Autore

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur  India

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur India

Steven J. Grieco-Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.

È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. È tra i fondatori del blog lombradelleparole.wordpress.com  indirizzo email:  protokavi@gmail.com

Duska Vrhovac, Giorgio Linguaglossa e Steven Grieco Roma, 25 giugno 2015 Isola Tiberina

Duska Vrhovac, Giorgio Linguaglossa e Steven Grieco (a sn.) con Rita, Roma, 25 giugno 2015 Isola Tiberina

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 Il «caleidoscopio», in ambito narrativo, è anche una delle figure retoriche accostate all’entrelacement, tipo di narrazione in cui è presente un continuo intreccio di storie, proprio riferito alla molteplicità di figure (immagini) che si possono scorgere in esso.

Il caleidoscopio (dal  greco καλειδοσκοπεω, «vedere bello») è uno strumento ottico che si serve di specchi e frammenti di vetro o plastica colorati per creare una molteplicità di strutture simmetriche.

Il più rudimentale caleidoscopio è formato da un semplice tubo di cartone rivestito internamente di almeno due specchi (montati solitamente fra loro in modo da formare angoli di 60°); nella parte anteriore, separati dal corpo centrale da un vetro rotondo trasparente, sono inseriti dei frammenti colorati di varie forme e colori. Un vetro smerigliato chiude il tubo all’estremità.

Appoggiando l’occhio ad un’estremità (come guardando in un cannocchiale) e ruotando l’intero strumento, o la parte terminale mobile (nei modelli più complessi), è possibile vedere delle figure geometriche simmetriche colorate, generatesi dall’unione dell’immagine diretta dei frammenti e di quelle create dalle riflessioni negli specchi; continuando a ruotare il caleidoscopio stesso, le figure mutano e cambiano colore e forma, senza mai ripetersi.

Analogamente, la tecnica compositiva di cui fa uso Steven Grieco è esemplata sul caleidoscopio, ogni strofe costituisce una immagine o gruppo di immagini, più strofe assemblate costituiscono un insieme di immagini in movimento reciproco, cangianti nel colore, nella fluidità e nella iridescenza. Il risultato complessivo indotto nel lettore è una sorta di fluidità e di incertezza denotativa, i colori delle immagini sono frammisti e, per così dire, dispersi, solubili, sfrangiati. Gli incipit sono sempre legati ad un luogo temporale o spaziale («La mattina grave», «In questa via stretta», «È spaccata la melagrana, sfera infranta», «Quel furore adesso, quel fulgore»); oppure, il riferimento temporo-spaziale viene accennato nel titolo («Che canta il merlo alle 5 del mattino?»). Il luogo temporo-spaziale quindi si amplia fino a comprendere una realtà più vasta e complessa seguendo il filo del discorso del poeta il quale è come se tracciasse più linee, una molteplicità di linee su una pagina bianca, con l’effetto di una serie di iridescenze.

C’è sempre un punto in cui la composizione tipo di Steven Grieco raggiunge il climax, in quel punto preciso si situa l’evento, il quid che accade e illumina a ritroso il percorso compiuto. È questa la significazione che viene comunicata al lettore. Una significazione complessa che ricomprende ed acquista pieno valore semantico ed iconico da tutte le strofe precedenti e dalle strofe che seguono. Nella prima composizione il climax viene raggiunto quando appare «una coppia di anatre», il cui «splendore» illumina tutta la composizione. Nella seconda composizione il climax invece è interno alla composizione, non viene mai designato, non accade perché è già indicato nel titolo, è fuori della composizione: «via de’ Canacci»; tutto ciò che avviene fa parte di questo luogo magico, luogo caleidoscopico per eccellenza. Nella terza composizione il climax viene attinto nel penultimo verso là dove «apparve il Vuoto, altissima / trave che precipita sul mondo». Ogni composizione ha dunque un punto di climax che cambia di posizione, ed ogni posizione di climax si riverbera sulla orditura orchestrale della poesia, come una chiave musicale che dà il via ad un pezzo armonico. Nella successiva poesia intitolata «Al padre», c’è un sotto titolo: «Stretto di Magellano»; la chiave di volta è qui, nel titolo, nel parallelismo tra la figura del vecchio padre e le correnti tumultuose dello stretto di Magellano, con un effetto di fusione e di confusione tra le due icone semantiche. Nella quinta composizione il fulcro della poesia è rivelato dalla citazione di Chuang Tzu: «Il Vuoto è grandezza. È come l’uccello che canta / spontaneamente, identificandosi con l’Universo». Il Vuoto viene richiamato dalla comparsa dell’«usignuolo», il quale non fa nulla ma si capisce che ciò di cui qui è questione è il suo canto, simile al canto della poesia. L’ultima poesia non poteva che essere un «indovinello» tra il critico e il poeta «sulla coda di rondine». Il critico tenta di razionalizzare: «Il non-spazio tra ricordo e speranza», parla di «presente»; il poeta, invece, non può che riferirsi al tutto, a ciò che precede e a ciò che segue il «presente», in quanto  «sul bianco foglio io traccio mero inchiostro». Il suo compito finisce qui, come nella pittografia zen, nell’atto di tracciare un segno.

Duska Vrhovac, Giorgio Linguaglossa, Carlo Bordini e Steven Grieco con Rita, Roma, 25 giugno 2015 p.za Del Drago Al Ponentino

Duska Vrhovac, Giorgio Linguaglossa, Carlo Bordini e Steven Grieco con Rita, Roma, 25 giugno 2015 p.za Del Drago Al Ponentino

Per tornare al caleidoscopio, nel caso di caleidoscopi formati da due specchi, la forma dell’immagine risultante all’occhio dell’osservatore ricorda un fiore a sei petali; di questi sei settori uno è generato dall’immagine diretta dei frammenti di vetro mentre gli altri cinque sono le immagini riflesse. Se gli specchi sono tre le immagini sono molte di più; il loro numero dipende dal numero di riflessioni multiple che si hanno lungo gli specchi. Ciò dipende non solo dalla lunghezza del tubo ma anche dalla qualità delle superfici; se gli specchi non sono di ottima fattura, saranno visibili solamente le riflessioni principali.

Secondo Emanuele Severino, la civiltà occidentale non riesce a pensare l’«esser sé dell’essente», cioè la verità dell’essere. Il suo nichilismo sarebbe proprio questo. Il suo nichilismo è pertanto inconscio che non indica «ciò che non appare, ma ciò che ancora non è stato portato nel linguaggio; sì che il linguaggio, che ne parla, ancora non appare. E la “consapevolezza” è l’apparire di questo linguaggio»*
Al di sotto di questo nichilismo c’è, rileva Severino, un più profondo inconscio: è l’inconscio di quell’inconscio, il sottosuolo del sottosuolo, ciò che avvolge l’avvolgente, che consiste nella struttura originaria dell’essere: «l’essere è e non può non essere». Questa è la verità dell’essere, la verità che è l’apparire dell’autonegazione della negazione dell’esser sé dell’essente. L’essente è dunque «eterno».
«Il destino della verità» non può essere smentito da alcun sapere, umano o divino e include originariamente il proprio apparire. Il destino della verità è già da sempre manifesto. Esso sta alle nostre spalle e dunque non ha senso mettersi in cerca della verità.

La poesia di Steven Grieco è alla ricerca di qualcosa che sospetta essere «irraggiungibile», cionondimeno, la ricerca continua, e continuerà fino alla fine del tempo. Questo aspetto della sua poesia si rivela chiaramente nell’ultima poesia presentata, là dove c’è la «porta mai chiusa»:

pensavo, spalancando forte
la tua porta mai chiusa
di non trovarti

 È uno spasmodico domandare a quel sottosuolo del sottosuolo. Ma il destino della verità è sempre alle nostre spalle, è in quell’atto di volgersi indietro. Vive nella transitiva temporalità di quell’evento che è appena trascorso.

*Emanuele Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 15.

Caro Giorgio,

hai scritto una introduzione davvero splendida a queste mie poesie. Nel caleidoscopio è stato l’ultimo gruppo di poesie in qualche modo legate, almeno dal mio punto di vista (sicuramente soggettivo), al modernismo, e cioè ad uno stile riconducibile alle esperienze poetiche del ‘900. (Anche se dentro le poesie stanno contenuti distillati da esperienze poetiche e filosofiche più che altro asiatiche, chissà se non è per questo che volli usare nel titolo questa parola “caleidoscopio”.) Questa operazione la feci, allora, quasi coscientemente: una sorta di estremo saluto, anche nostalgico, al modernismo, da parte di un poeta nato nel 1949, che si era formato a quella grande scuola, e che da essa era stato tradito… lui, come forse tutti i poeti della nostra generazione e quella successiva, nel senso che quella scuola stessa è poi naufragata sugli scogli di mille ininfluenti neo- e post-avanguardie.
E’ eccellente come dai importanza al caleidoscopio, non solo sul piano simbolico e metaforico, ma proprio come oggetto. Bellissimo! Hai commentato le mie poesie caleidoscopicamente…
Forse questa è una delle cose che abbiamo in comune, e io penso che nasca dalla curiosità di conoscere esperienze diverse dalle nostre, e magari talvolta anche a immedesimarsi in esse. Sei unico fra i poeti – non soltanto italiani, credimi – ad esserti aperto ad altre sensibilità poetiche e altre culture. Anzi, meglio dire così: tu condividi con i grandi poeti, non i piccoli, questa curiosità intellettuale. Che poi è esattamente la qualità che ha contribuito a farli diventare “grandi”. Su questo fatto non ho alcun dubbio.
E’ ovvio che Transtroemer ha quello stile così potente, come un pugno, perché è stato intrepido, avventurandosi in tutte le acque poetiche possibili e immaginabili. Curiosamente anche Joseph Conrad, scrittore di prosa, ha uno stile “potente” (e di forte denuncia), al quale non può non aver contribuito una vita di viaggi in mare per tutto il mondo.

Nelle poesie di un poeta che ha letto molto, come hai fatto tu, si avverte sempre il vento che soffia, come sul ponte di una nave. Anche nei commenti critici.

(Steven Grieco)

foto di Steven Grieco luci e rifrazioni urbane (India, Bombay)

foto di Steven Grieco luci e rifrazioni urbane (India, Bombay)

inediti Nel caleidoscopio (2002)

Cosa vedemmo dal ponte S. Trinita

La mattina grave,
gonfia di piogge intermittenti –
e palazzi, neri macigni in vie strozzate

ma anche strappi, ventate qua e là – e ardite,
in alto, nubi, bianchi sbuffi di locomotiva
un ricordo d’ali
che scendeva

Andava veloce il fiume limaccioso
ingombro di rottami e nudi tronchi
quando, sopra il viluppo di rami sospinto
verso riva,
vedemmo una coppia di anatre

naufraghi splendenti giunti dallo squarcio fra cielo e acqua,
da un’icona che narra il suo Nulla

E loro, rivolte ai nostri sguardi,
erano della lucentezza che scavalca i secoli:
appena consapevoli d’esser qui,
ma svegli a questo atto creatore

ancora dialoganti con un pittore sgraziato
che ha infine il pensiero che spumeggia
quietato,
e scorge di là dalle distanze, loro comporsi,
due forme sottili precipitare in corridoi d’aria

e le plasma, e stupito l’attira;
e nel tumulto è loro, fin qua sulle onde brute,
i due fulgidi corpi
doppia tenebra piumata –

Un corvo gracchiò dal cornicione
fai tua quella lucentezza!
Impiega i colori che nel tempo
risplenderanno

Risalendo in alto, rivivi la vertigine
di quelle barriere – un soffio ti schiuda
l’uscio chiaro di quaggiù:

dove i pioppi ondeggiano
dove sempre perdi
fra le acque di primavera,
ritrovi
il sentiero dell’immagine

Via de’ Canacci

In questa via stretta
dai portoni sempre chiusi,
deserta nel bagliore di mezzogiorno,
ho ricordato un poeta che io conobbi,
timoroso di finestre, timoroso di squarci,
che al tramonto aspettava,
da dietro le persiane, l’arrivo della notte
scassinatrice;

forse era proprio sua questa via dura
e decrepita, questa via dal rotto selciato
dove sul tardi appaiono sfiorite falene
dietro i cassonetti
e ubriachi spargono vino sui marciapiedi
e berciano gli spacciatori,
e piangono gli eroinomani inconsolabili
spiati da dietro le persiane da uno stormo
di vecchi ostili, e gechi, e pipistrelli.

Ma quando infine chiudono i locali,
e tacciono i tubi di scolo,
e prende sonno anche l’aria,
la via
mille volte violata
s’acquieta;
nel silenzio senza respiro
torna a fendere la sua anima tenebrosa
il canto di un ebbro d’amore,
già avviato
oltre il ciglio dell’aurora.

foto di Steven Grieco (India)

foto di Steven Grieco (India)

Nido sulle onde*

1.
È spaccata la melagrana, sfera infranta:
i suoi chicchi dispersi,
il frutto marcisce meraviglioso sulla battigia,
rotolando fra le onde.

E ancora oggi sognano i famigliari
un tavolo comune a cui sedersi,
ciascuno per proprio diritto,
solenni consanguinei
eppure seduti di sbieco l’uno all’altro.
Anche se le loro vite s’incrociano,
non vi è incrocio di sguardi,
si conoscono per riconoscere
cosa l’ha scissi.
Hanno la mossa rovescia,
l’ombra del pugnalatore;
irrompe l’odio a squarciagola,
inaudite le fiamme
divorano il proprio splendore.

Ma ci pensa infine l’avidità
a far scempio dei corpi abbracciati,
spargendone le viscere
per tutto il prato insanguinato.
Di questo castello, fatto, rifatto,
restano solo rovine e rovine.

Assaporando il fiele in ogni cibo,
scesi nelle profonde segrete
dove mi apparve il Vuoto, altissima
trave che precipita sul mondo.

2. al padre
Stretto di Magellano, 1934

Quel furore adesso, quel fulgore
è solo silenzio che fiammeggia

vedo le vene delle tue mani di vecchio –
stagliate vie, densi intrichi,
sentieri scordati e ritrovati
che hanno trascorso i fortunali
e riposato nella bonaccia dei mari:

ma tu hai preso sonno
e un punto minimo ancora
un punto tra noi, in quest’oceano,

va sul dorso di profonde correnti
e saltano gli ultimi pesci
miraggio dell’abbondanza,
spumeggiano le onde sbraitando
sprofondano tumultuose
nel cielo capovolto

Ora il tuo sonno-abisso
scioglie le mille vene
le libera un attimo

prima che antico ordito
impegni nuova trama

* Nel titolo, allusione al martin pescatore, che si pensa nidifichi sul mare greco nel periodo di quiete e sole che ogni gennaio si apre inatteso fra le tempeste invernali.

foto di Steven Grieco (India)

foto di Steven Grieco (India)

Che canta il merlo alle 5 del mattino?

“Il Vuoto è grandezza. E’ come l’uccello che canta
spontaneamente, identificandosi con l’Universo.” Chuang Tzu

Scienziati e millenaristi, gli assetati
delle origini, dovrebbero ascoltarmi:
proprio loro, strano a dirsi, i più distratti.
Pure è in questa mia voce senza strumenti
l’istantaneo rammemorarsi delle cose.

Li disorienta il mio dedalo di suoni
mentre dall’antenna eccelsa canto il vuoto sottostante,
e ruotano in alto i miei gorgheggi,
e canto tutto simultaneamente
quel che a voi giunge in temporal sequenza.

Incrocio d’ogni fenomeno e dimensione,
non temo di nuvole il cielo affollare,
né spalancare la rossa ferita all’orizzonte.
Il mio canto è acqua, e pietra che sprofonda
schizzando via dal centro su cui ricade.

Non imito l’usignuolo,
non imito il garrito di rondine,
non imito il mio stesso cantare
che si apre in crescenti dissimili cerchi.

E non siate ingannati dalle mie mille “elle”–
quando un frutto si stacca dal ramo
piangerlo è solo staccarlo di nuovo.

.
Indovinello sulla coda di rondine

Valutazione del critico:

Completo dici tu questo presente:
del domani che ci dilaga incontro
ravvisi il volo, splendida nerezza
dileguarsi in multiformi passati.

Risposta del poeta:

Sempre, volgendomi avanti, io osservo
che precede in perpetuo combaciarsi:
come l’anelito se stesso insegue,
ma sempre si specchia nei nostri occhi.

Esortazione del critico:

Il non-spazio tra ricordo e speranza
dunque è un seme che intero li contiene?
Sii lucente, supera ogni censura,
ogni assurdo: da sé, “stesso” disgiungi.

Risposta del poeta:

Abbagliato, trascuri il mio lettore:
sul bianco foglio io traccio mero inchiostro,
ma lui quel senso sprigionando incanta,
e il cieco incastro fa guizzare in alto.

Nel caleidoscopio

Quel tempo in cui pensavo
di percorrere solo questa desolazione
mi rende un pugno d’immagini rovesce:

pensavo, spalancando forte
la tua porta mai chiusa
di non trovarti,
ignaro di non poterti raggiungere;

dopo rovina, deliquio e morte
ritrovarmi uomo, padre dei miei figli,
seduto alla mia tavola
sotto la fiaba di un arco arabescato:
e stretto in questo abbraccio
perdermi al suo interno,
diventando irraggiungibile;

sì, adesso riconosco
il paradosso del tuo sguardo:
è Nessun Dove:
“tu” trovare “me”

scala
che s’attorce su nella mia dispersione,
ma di cui l’ubriaco immaginare
può rovesciarsi

Geme il catenaccio dell’abbaino
s’aprirà lo sportello aperto…
non so, ancora esito a percorrere le vie dell’aria

2002

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Odisseo che scrive a Telemaco nella poesia di Brodskij è una grande poesia. Odisseo parla da Dopo il Viaggio e da Dopo la Guerra. Anche noi, caro Steven, parliamo da Dopo il Moderno e da Dopo la Grande Guerra, dopo le tre guerre mondiali che hanno sconvolto l’Europa. E adesso sono rimasti soltanto i filistei che officiano i loro riti apotropaici alle Icone del Successo e della Ricchezza. Nel 1971 il presidente americano Nixon annunciò la fine del cambio fisso del dollaro con l’oro. il Capitale Finanziario  è stato liberato dal cambio fisso con l’oro, da allora questa deità ci domina, è il nuovo Demiurgo che esercita il proprio dominio sugli uomini. Quindi noi a ragione possiamo parlare come l’Odisseo di Brodskij da Dopo il Tramonto dell’Occidente. E che altro è la tua poesia se non un pensiero poetico che medita sul Tramonto? Sulla Luce che lentamente si estingue? La tua poesia è sempre paesaggistica, è sempre en plein air, vuole chiamare il lettore dentro la luce e i suoi mille riverberi; e che cos’è questo se non il chiamare il lettore dentro il tramonto della Luce? È in questo tramontante tramontare che la tua poesia si illumina (riceve la luce) e la proietta sul lettore… Nella tua poesia gli oggetti ricevono luce dall’alto, dal basso, da destra, da sinistra, diventano visibili e, nello stesso tempo, invisibili per un eccesso di luce, un eccesso di aria trasparente, di rifrangenze. Forse sei tu il più grande poeta, oggi, che poeta en plein air, come un novello impressionista. Le tue poesie sono Icone che hanno un fondale d’oro, monocromatico, unidimensionale, che non ha altra funzione che quella di riflettere e riverberare le luci e la luce. E che cos’è l’Icona? Non è una pittura silenziosa dove la luce viene dal un Altro Luogo?, un luogo immateriale e immortale? Ovviamente, la tua poesia en plein air, si riallaccia alla antichissima poetica delle Icone bizantine, sono dei moderni fotogrammi che prendono luce da un’altra dimensione, ricchi di aria e di vuoto, pieni di vento …

L’icona rappresenta un punto di congiunzione tra la dottrina neoplatonica e la religione cristiana. Qui l’icona non è semplicemente la raffigurazione del trascendente, ma vera e propria incarnazione dell’ente supremo nella forma sensibile. Si parla allora di epifania dell’essere supremo. In questo senso la mimesis platonica raggiunge la sua massima espressione. Questo carattere epifanico della verità di Dio non spetta allora solo al Verbo, alla parola, ma anche l’immagine, simbolo della luce divina, è manifestazione di Dio; possiamo addirittura affermare che l’arte dell’icona è poesia senza parola, messa in opera della verità in immagine silenziosa: ciò che la parola dice, l’immagine lo mostra silenziosamente. È quindi sbagliato affermare che mentre nella cultura greca è la vista l’organo privilegiato per pensare il soprasensibile – basta pensare al significato delle parole fondamentali del pensiero platonico idea e eidos che rimandano a un vedere essenziale -, nella cultura cristiana il vedere diventa un ascoltare. Non a caso una delle immagini più ricorrente in tutta la tradizione cristiana è proprio quella della luce, intesa, appunto, come immediata epifania della verità: lo Spirito santo è sia Verbo che Luce. Nella visione teologica cristiana la luce è una promanazione (secondaria quindi) dello Spirito Santo. Questa metafora della luce come immediata percezione della verità non si esaurisce in una dimensione puramente religiosa, tra luce e verità c’è un filo conduttore comune, infatti, quando l’occhio percepisce gli oggetti, ciò che in realtà percepisce è la luce riflessa di essi. L’oggetto è visibile soltanto perché la luce lo rende luminoso. Quel che si vede è la luce che si unisce all’oggetto, che in un certo modo lo sposa e prende la sua forma, lo raffigura e lo rivela. È la luce che rende bello l’oggetto, permettendo a quest’ultimo di raggiungere il suo bene, la sua essenza. L’artista dell’icone è colui che mediante la vita ascetica si svuota di tutti i desideri terreni per accogliere la luce trascendente trascrivendola su tela. Infatti, l’arte contemplativa si pone al centro della cosmologia dei Padri della chiesa: la visione dei lógoi archetipi, dei pensieri di Dio sugli esseri e sulle cose, costituisce una teologia visiva, una iconosofia. Ogni cosa possiede il suo lógos, la sua parola interiore, la sua determinazione strettamente legata all’essere concreto. Questo legame è posto dal fiat (l’imperativo “sia”) divino; esso è la corrispondenza adeguata e quindi trasparente tra forma e contenuto, il suo lógos; la loro intima compenetrazione, la loro coincidenza segreta si rivela in termini di luce e costituiscono la bellezza. La bellezza della icona sta nella trascendenza e nell’immanenza divina. Quest’arte, tipicamente orientale della cristianità ortodossa, rappresenta la possibilità che il trascendente platonico possa rendersi visibile nel mondo mediante un processo ascetico di purificazione e di accoglimento del soprasensibile.

Ora, se nella cultura cristiano-orientale l’arte dell’icona rappresenta la concreta possibilità di produrre lógoi che raccordano il mondo soprasensibile col mondo sensibile, nella dimensione occidentale si produrrà una scissione del concetto di arte e quindi di ποίησις, scissione che farà emergere i nuovi caratteri dell’arte moderna: l’abitare stabilmente nel nichilismo quale dimora della nuova epoca. Odisseo è ritornato e ritrova la vecchia Penelope, il ragazzo Telemaco, trasformato in complice dei suoi assassinii, i rozzi contadini della sua isola, sterpaglie, vento…

Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco
trasandato e dei sassi e una regina.

(Brodskij)

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