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NOVE POESIE di Stefanie Golisch: “Summerguests”, “Fly and fall” con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano – E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano.

Foto Edward Honacker

Stefanie Golisch, scrittrice e traduttrice è nata nel 1961 in Germania e vive dal 1988 in Italia. Ultime pubblicazioni in Italia: Luoghi incerti, 2010. Terrence Des Pres: Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte. A cura di Adelmina Albini e Stefanie Golisch, 2013. Ferite. Storie di Berlino, 2014.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente. Se manca l’Origine, c’è la spaesatezza. E siamo tutti deiettati nel mondo senza più una patria (Heimat).  Ed ecco l’Estraneo che si avvicina. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano.
L’espressione è il volto codificato del dolore.
Ad un lettore italiano la poesia di Stefanie Golisch suona come un oboe sommerso, con un tono cupo, monocorde, attutito. Del resto, i titoli di queste poesie e della raccolta inedita sono esplicativi: Summerguests (Ospiti d’estate) e Fly and fall (Volo e caduta), sono eloquenti. Si tratta della tematica dell’estraneo e della tematica del volo e della successiva caduta. Tematiche ad un tempo della metafisica e della vita quotidiana, tanto per smentire le tesi di coloro i quali intendono la metafisica come cosa diversa e a parte dalla vita quotidiana. E invece per Stefanie Golisch è il medesimo tema che ritorna in tutte le sue poesie, come anche nella sua narrativa fatta di brevi prose fulminanti, prose legate ai luoghi e alla loro storia. Ma da come viene posizionato il verso italiano, dalle atmosfere plumbee, dagli improvvisi incisi e dai susseguenti strappi, si capisce subito che abbiamo a che fare con un poeta di madrelingua allotria. Ed è un arricchimento questo per la lingua poetica italiana di insospettabile valore. Il fatto è che il linguaggio poetico italiano ne viene come strattonato, reso plumbeo, ammaestrato alla scuola dell’espressionismo tedesco; e ne sortisce fuori come fortificato, solidificato, preciso, tagliente. Un solo esempio: «Corvi che gridano al cielo vuoto l’insensatezza del rimorso», verso che sembrerebbe uscito dalla penna di un autore che sta tra Georg Trakl e Gottfried Benn. Certo, in Italia non abbiamo avuto un equivalente del movimento poetico dell’espressionismo tedesco, e questa lacuna stilistica non è stata indolore; la poesia italiana del Novecento è stata così costretta dentro la asfittica forbice: lirica – antilirica, con il prosieguo di post-lirica e di anti-lirica di marca tardo novecentesca e sperimentale, con tutta una serie di equivoci che si sono moltiplicati a dismisura. Da noi i pochissimi poeti a tendenza espressionista non hanno goduto il favore della critica. Tipico è il caso dei Canti orfici (1914) di Dino Campana, opera etichettata da Pier Vincenzo Mengaldo sotto l’egida dell’inno, da porre come contraltare all’elegia di Montale. Ma le questioni non sono così semplici e non si possono ridurre a formule antogonistiche e, dunque, riduttive.  Ma ecco qui che viene la Stefanie Golisch ad immettere linfa espressionistica nel nostro armamentario stilistico e nel lessico poetico italiano. Ed è un dono di non poco significato.
Quello che colpisce nelle poesie della Golisch è la sua capacità di inserire la molteplicità del mondo nella struttura monologante della sua lirica, cosa non facile né scontata, non si giunge a questo grado di rappresentazione senza una profonda meditazione su ciò che è la «cosa» chiamata poesia e su ciò che essa deve contenere; e soprattutto, la poesia qui non è un mero contenitore di «cose» ma una «cornice» dove ci sta di tutto: l’infanzia, la vita erotica, le passioni, la conoscenza, l’oblio, la percezione del limite, il mistero che dà alla poesia un significato omogeneo e unitario. Il significato di una poesia è sempre fuori di essa, mai dentro, come credono gli ermeneuti ingenui, la poesia non si risolve in un amalgama di significanti e di significati, come purtroppo una vulgata durata decenni ci ha voluto dare ad intendere. La poesia è, al pari del romanzo, molteplicità, totalità finita che allude all’infinito delle possibilità inespresse.
Quello che colpisce in queste poesie è l’impiego sapiente delle immagini, certe poesie sono costruite con i mattoni delle immagini alternate:

.

Il matto, lo chiamano lupo mannaro.
Corvi che gridano al cielo vuoto l’insensatezza del rimorso.
La copia della copia del santo bevitore.
Uomo in canottiera gialla alla finestra della cucina, fumando.
La vecchia che attende il suo giorno, ripetendo tra sé e sé
una storia della sua vita…

.

Le immagini chiudono e aprono, sono una serratura che permette al lettore di entrare all’interno della poesia. E il lettore entra come un ladro che ruba le sensazioni, gli attimi di cui sono fatte le parole. Il lettore diventa un ladro di parole. Come del resto lo è anche l’autore: un ladro di parole. Nei suoi momenti di punta l’espressionismo della Golisch ci apre delle porte verso l’aldilà, un luogo ultroneo, verso il mistero dell’esistenza di questo ente chiamato uomo.

Foto Robert Mapplethorpe donna entra nei veliSummerguests

Una donna con la barba bianca, gonna a grandi fiori
impressionisti, mi ferma per strada. Chiede del pane,
ma non ha fame. Dice che non è di qui e con un cenno
di mano appena, si congeda da me casuale. Passeggia
lungo questa giornata d’estate lenta e senza scopo
preciso come una nuvola indecisa, una etimologia poco
chiara, un amore moribondo per colpa di nessuno

*

Dice che non riesce più a baciarla dopo averla intravista
per sbaglio in camicia da notte a fiorellini azzurri, una
vecchia che pure un tempo è stata la sua amante
d’occasione. Lei chiude gli occhi mentre lui serra le
labbra. Ecco, il bacio più goffo del mondo, sbrigato
in un rifugio di montagna, raggiunto faticosamente in
una domenica di giugno generoso

*

Lo vede il cane dalla finestra della cucina, il ragazzo che
passeggia per le vie del centro deserto in una camicia da
vecchio, collo chiuso, cappello contro il sole sul capo. Un
giorno sì, uno no, con un cono di gelato alla crema, sempre
guardando avanti diritto come se avesse in mente una meta
precisa. Appare alle tre del pomeriggio e si dissolve verso
le cinque in una nuvola di magliette colorate e hot pants.
L’estate è ugualmente per e contro tutti

stefanie-golisch-190

Stefanie Golisch

Stefanie Golisch Fly and fall – Inedito
Poesie tratte dalla raccolta inedita Fly and fall

.

Un io e la sua bestia

.
Copri con il tuo grigio pelo
il pallore della mia pelle,
il mio tremolante desiderio.
Dentro le mie calde viscere
sento il tuo ansimare secolare
mischiarsi alla mia linfa.
I tuoi morsi mi risvegliano reale,
custode del mio segreto animale.
Nel nostro silenzio
gorgoglia vita indistinta

Proteggi questo troppo lieve io
dalla tristezza degli uomini

.
Corpo di madre sulla terra

.
When will we three meet again?
In thunder, lightning or in rain?
When the hurlyburly’s done,
When the battle’s lost and won.

(Shakespeare, Macbeth)

Stesa sull’asfalto,
avvolta nella mia pelle pallida,
il corpo di mia madre
è una ferita

Sulla breve via verso il freddo,
la sua carne avara
prega la mia,
calda per coprire la nostra sconfitta

La battaglia è finita.
Tra cavalli e guerrieri morti
con bocche spalancate,
ti canto, madre, la ninnananna
alla rovescia

.
Kartoffelfeuer

.
Nella quiete di primo autunno,
un improvviso grido di corvo,
il profumo di mele mature
e di involtini primavera dal ristorante cinese
al pian terreno

C’è in questa natura morta
una ansia di risposte a fine estate,
un cupo giorno di settembre
in cui la mia infanzia bruciò
in un Kartoffelfeuer.
Dopo quel giorno, non c’era più

Nello specchio una ragazza sorride seducente
al mondo appena nato, come per dire,
eccomi,
prendimi,
sono tua

.
* Il Kartoffelfeuer è il fuoco con il quale, nelle campagne, i contadini bruciano le piante di
patate dopo il raccolto.

.
La mia inviolabilità

.
Luz è il nome dell’osso
dalla cui improbabilità risorgerò
dopo che la grande onda mi avrà trascinato via,
mia madre mi avrà chiamato a casa

Non dimenticare
la mia gobba antica,
non dimenticare
il vuoto nell’ora degli uccelli morti,
quando le domande,
una a una, svaniscono
senza risposta,

Raccogli quell’io pietra
nel mistero della sua
imperfezione

*Nella religione ebraica luz è il nome di un osso minuscolo che non può essere distrutto e dal quale, alla fine dei tempi, l’uomo sarà ricreato.

Foto donna tra i veli

Quando una vecchia suora si prepara per la notte

.
Quando una vecchia suora si prepara per la notte, innanzitutto si toglie
le pesanti scarpe marroni,
poi il velo, chiuso dietro la nuca con una striscia di velcro.
Aprendo la lunga cerniera sulla schiena, lascia cadere la tonaca
a terra.
Nella sua veste ingiallita sta davanti a nessuno specchio.
Invece della propria immagine, le sorride seducente
un giovane uomo dai lunghi riccioli biondi che dice:
non aver paura, sei o non sei la mia sposa diletta?
Fiduciosa, sfila i collant color pelle,
il reggiseno color pelle e le mutande color pelle.
Nella luce diffusa di una fredda notte d’autunno,
eccola, nuda davanti al suo Signore.
Tremando, indossa una camicia da notte rosa,
e si fa scivolare sotto le coperte.
Persa come una goccia di pioggia in un cielo senza nuvole,
fa sparire le dita stanche
nell’antro sacro tra le gambe,
dove si nasconde la vita
umida, oscura, muta

.

Il motel più economico

.
Questa è la stanza dei vecchi amanti,
così disperatamente devoti all’idea dell’amore
che potrebbero uccidere,
diciamo un cane,
se questo fosse il prezzo da pagare
per una prima volta nuova di zecca.
Ma non c’è alcun cane intorno,
soltanto due paia di scarpe consunte
sotto un unico letto
per tutti gli amanti.
Venite, uccidetemi, direbbe
il cane, se ci fosse un cane,
ma, ahimè, non c’è.

Tutto qui: non c’è

.
Fly and Fall

.
Piano il giorno apre gli occhi
per salutare la mattina di fine agosto.
Ecco ciò che sta per accadere oggi:

Un uomo troverà l’amore e un altro lo perderà.
Qualcuno arriverà alla stazione giusto in tempo,
mentre un altro attenderà invano.
Un merlo sussurra nell’orecchio di un altro, che bello volare e cadere.
Qualcuno inaugurerà il giorno con una bottiglia di birra,
e un altro ascolterà a lungo l’eco dei sogni complessi.
Qualcuno scriverà una lettera scarlatta,
mentre nel cuore ferito del suo vicino non è rimasta una sola parola.
Una bambina si sveglierà dai suoi sogni notturni
stringendo il suo orsacchiotto, e una donna si sveglierà
soltanto per morire a metà mattina poiché il giorno
richiede tutto questo. Lottando scivolerà via davanti agli occhi
dei vivi nello stesso momento in cui
un pittore finalmente trova il suo blu.
Oggi sarà il mio giorno pensa il giovane,
mentre si allena, impaziente di gettarsi nella mischia.
Nella cantina di una casa abbandonata,
una gatta tigre gioca con un topo soltanto
per intrattenere la piccola cosa

Quel che il pittore non sa
è che quel blu non esiste,
ma soltanto una voce lontana,
quasi non udibile nel brusio di tutto questo fare all’amore,
morire, chiacchierare con gli amici, mangiare, bere,
spaventarsi e gioire,
impaziente di placare l’insaziabile
oggi

.
La vita è tutto questo

.
You are marvellous. The gods want to delight in you.

Charles Bukowski

.
Il matto, lo chiamano lupo mannaro.
Corvi che gridano al cielo vuoto l’insensatezza del rimorso.
La copia della copia del santo bevitore.
Uomo in canottiera gialla alla finestra della cucina, fumando.
La vecchia che attende il suo giorno, ripetendo tra sé e sé
una storia della sua vita.
La ragazza finta bionda con i jeans economici,
la maglietta economica e i suoi sogni inimmaginabili.
La coppia di nani al loro primo bacio, ansiosi
di fare bella figura.
Sole di Novembre, tempo di resa,
tempo di rinascita, perdono e oblio.
Un verso di Hölderlin che recita:
più l’uomo è felice, più alto è il rischio che si rovini.
Il mistero di ogni nuovo giorno
e i sette significati nascosti di una antica fiaba.
Oscure selve germaniche e luminosa bellezza mediterranea.
La speranza che una calza rotta può essere rammendata,
che le ferite possono guarire,
e che la nostra voce può migliorare con il tempo,
perdendosi
in tutte le voci

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Enrico Pietrangeli TRE POESIE INEDITE “Torneremo angeli in terra”, “Apocatastasi indotta”, “Dal seminterrato della cappella dell’anima”, con un Appunto di Giorgio Linguaglossa

pittura Franco Gentilini

pittura Franco Gentilini

Enrico Pietrangeli, vive a Roma , è autore della raccolta di poesie Di amore, di morte, pubblicata in versione cartacea (Teseo editore – 2000) e in elettronica (Kult Virtual Press – 2002), ha collaborato con giornali e riviste da diversi anni ed è giornalista pubblicista. Presente sulla scena romana della poesia sin dagli anni Ottanta, ha curato anche rassegne e spettacoli come Poesia da Bruciare nonché ha ideato, con un percorso che va dal 2003 al 2007,  un’interazione di tappe in bicicletta con eventi culturali poetici, realizzando l’organizzazione in collaborazione con altri di: Sicilia Poetry Bike 2008/09, CicloPoEtica 2010, CicloInVersoRoMagna 2011, CicloInVersoEmilia 2012, Love, peace and bike 2012-13. Nel 2014, con CicloInVersoRoma, compare solo come ideatore. Nel 2010 collabora nello staff organizzativo del Festival di poesia di Nettuno e partecipa su invito all’educational di bicicletta e cultura Terre di Aquileia. Attraverso la traduzione poetica, si è dedicato all’opera di alcuni autori poco conosciuti. Ha pubblicato il suo romanzo d’esordio In un tempo andato con biglietto di ritorno (Proposte Editoriali – 2005) con una seconda edizione in elettronica (Kult Virtual Press – 2007) e un’ulteriore silloge poetica dal titolo Ad Istanbul, tra pubbliche intimità  (Il Foglio – 2007). Recentemente è uscita la sua ultima raccolta in versi dal titolo Mezzogiorno dell’animo (CLEUP – 2011), è stato co-autore e addetto alla revisione del libro La ragione nell’amore (CLEUP – 2012) con ideazione e realizzazione della co-autrice. Ha condotto il format radiofonico Love, peace and bike e, nel 2014, è stato curatore del libro “CicloInVerso Poesia in Bicicletta” con contributi di più autori dal Piemonte alla Sicilia.

 

roma Puro generone romano. Produttori televisivi, pr, giornalisti (il figlio di Bruno Vespa), ninfette e soprattutto lei, la presidente Renata Polverini e il console Er Batman

Puro generone romano. Produttori televisivi, pr, giornalisti (il figlio di Bruno Vespa), ninfette e soprattutto lei, la presidente Renata Polverini e il console Er Batman

Appunto di Giorgio Linguaglossa

 Si può notare in queste tre poesie inedite di Enrico Pietrangeli l’impossibilità di fare una poesia realistica e l’impossibilità di fare poesia tout court, di qui l’espressionismo esasperato di questa poesia. Espressionismo che prende luogo appunto là dove manca un luogo, espressionismo come violenza verbale e figurale, allontanamento dalla tradizione novecentesca e sua dismissione. In un autore alle soglie dei cinquant’anni come Enrico Pietrangeli tutto ciò è visibile, è la generazione di coloro che sono stati privati dei loro diritti, privati del diritto al lavoro e privati del diritto ad avere un futuro. E allora c’è da chiedersi: perché meravigliarsi se i migliori esponenti di questa generazione si abbandonano ad un espressionismo a volte esasperato? È il modo con il quale una generazione si affaccia all’istituzione poetica, di per sé reattiva quant’altri mai nel non ammettere i diversi o gli estranei o gli intrusi, insomma, tutti coloro che non aderiscono al bon ton delle beneducate istituzioni pubbliche e private. Ed ecco che si torna alla virulenza figurale e poietica come unico strumento di risposta e di ribellione alla società e ai suoi riti apotropaici. Un espressionismo dunque che non nasce come proposta di una nuova poetica ma come bisogno di esternare la propria inquietudine e la propria ostilità alle vulgate che si professano oggi nelle officine della poesia contemporanea.

 

Enrico Pietrangeli ischia, 2014

Enrico Pietrangeli

Torneremo angeli in terra …

Putride salme di scarafaggi
di cadaverina esalata stanno
rinsecchite dentro la loro corazza.
Sono carri armati al fronte,
divisioni immortalate nell’attimo
che, d’ogni disfatta, è il suggello.
Fuma di giallo l’acciaio
tra rosi campi di grano,
l’esoscheletro d’ocra acceca
tra la sabbia del deserto.
Giacciono ribaltati,
oltre l’avvallamento,
di multiformi zampe
e cingoli disegnano
un rullio che avanza,
l’inesorabile marcia,
l’eco di uno sbaraglio
che strati di polvere
a noi rende la storia.
Spavalda o vile che tu sia,
piccina blatta che la morsa
di un tacco a spillo rifugge,
tu comunque, tu come loro,
pronta sarai a soccombere,
calpestata in un angolo,
erosa da un tempo
sostrato alla vita
che qui perfino, sullo spigolo
di un marciapiede mondano,
tra resti di pasti radical-chic,
nell’umido oscuro metropolitano,
di azoto volge alla terra.
Tu, come me, vagabondi
in un distratto mondo,
quale apolide dispersa
tra l’afflato d’un presente
che non lascia più fiato,
vivi tra il marciume,
in un corso d’eventi
per sempre andato:
polvere che il vento
ramazza nell’altrove.
Io e te siamo l’oblio,
decomposto pulviscolo
senza più una memoria
e che d’informe massa
vaste nubi rende al cielo
per tutti i sogni perduti.
Eppure mai come ora
siamo stati tanto vicini a Dio;
annientati da corrotto mondo,
torneremo angeli in terra.
Tu ci metterai le ali
che mai hai evoluto
ed io tutto l’amore
che contenere più non posso.
Torneremo, finalmente,
per amare librando
della dignità d’esistere.
Nel non importa il morire,
ma con decoro resistere
torneremo in nome
della decenza del vivere.
Apocatastasi indotta

Portami in grembo
ed io ti cullerò,
lenirò ogni tua ansia,
d’infinita dolcezza
tenderò la mano
dando linfa al tuo seno.
Prendimi nove mesi dentro,
abbandona lo sperma
e trattieni me, solo me dentro,
prigioniero nell’utero
che mi consacrò alla vita
come in un campo di concentramento.
Tienimi forte, carezza il contratto volto
e stringi, stringi le dita sulle gote …
Sarò padre, figlio e amante,
il tutto che mi manca,
l’insieme che ti sfugge.
No, non voglio scoparti,
voglio l’anima …
Come un demone del possederti
assetato sono
per dilagare ovunque
e laddove nessun membro
giungere potrebbe
lacrimando impotenza
dopo effimero godimento.
Tutt’intero voglio restare,
nel pensiero eretto, sì …
Possederti per ritrovarti,
ricongiungermi ancora
d’apocatastasi indotto.
L’ordine di Dio com’era
prima che l’angelo ribelle
condannasse me
dell’essere uomo
e te dell’esser donna …
Poiché noi eravamo
medesima sostanza
fluttuante nel cosmo,
trattienimi dentro nove mesi ancora.

Dal seminterrato della cappella dell’anima

Dell’ossario dell’anima,
si contemplino pure,
uno ad uno, i teschi,
su se stesso si rigiri
il malleolo nel tempo
e che obelisco posi
quella tibia in terra
per lasciare un segno!
Che mandibola resti
di liquami assetata
nel consunto, usale gesto,
sul ghigno di morte
di polvere immerso
per un eroso emerso.

(inediti, 2015)

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Tomaso Kemeny brani scelti da “Incontri con la prosa e la poesia” “Incontro con il linguaggio”, “Incontro con Dio”, “Incontro con Prometeo”, “Incontro con Scimmie”, “Incontro con la Donna Barbuta e il Califfo”, “L’incontro con “Morte”, “Incontro con il caos” – Edizioni del Verri, 2014 pp. 163 € 12 con un Commento di Giorgio Linguaglossa

 

pittura Jean Metzinger

J. Metzinger

 

Tomaso Kemeny (Budapest, 1938), professore ordinario di letteratura inglese all’Università di Pavia, ha pubblicato dieci libri di poesia tra cui Il libro dell’angelo (Guanda,1991), La Transilvania liberata (Effigie, 2005) e Poemetto gastronomico e altri nutrimenti (Jaca Book, 2012), Una scintilla d’oro a Castiglione Olona e altre poesie (1014). Traduttore di Byron, Jozsef Attila e Ch.Marlowe, ha ideato numerose “azioni poetiche” e ha scritto il testo drammatico La conquista della scena e del mondo (1996). Con il filosofo Fulvio Papi ha pubblicato un libro di poetica Dialogo sulla poesia (Ibis,1996) e ha scritto un romanzo Don Giovanni innamorato (ES,1993). E’ uno dei fondatori del movimento internazionale mitomodernista e della Casa della Poesia di Milano. Come anglista ha pubblicato libri,saggi e articoli sull’opera di Coleridge, Shelley, Carroll, Dylan Thomas, Pound e James Joyce.

pittura Jean Metzinger, Anachronisme, c. 1927

J. Metzinger Anacronismo, 1927

Commento di Giorgio Linguaglossa

 Come si può notare dagli stralci del volume che presentiamo, si tratta di un libro singolare nella forma e nel modo di esposizione della narrazione. Ispirazione del libro è il mondo con tutta la sua volubilità e tutte le sue sfumature di oggetti e di personaggi; i colori sono sempre sovraccarichi, i toni della più vasta gamma, dai toni cromatici a quelli metallici a quelli in chiaro scuro; i colori sono sovraesposti ad una luce diretta, la struttura frastica è altalenante, incalzante, con improvvise accelerazioni e improvvisi rallentamenti. Il ritmo a onde lunghe fa emergere e, insieme, sommergere, impressioni, emozioni, ricordi, sussulti, traveggole, ossessioni, oggetti fobici, oggetti del desiderio, relitti libidici, disquisizioni libidiche, personaggi, dettagli colti in un fluire vorticoso e verticale; ogni attante viene usato, inghiottito e, subito dopo, dimenticato, eruttato, espulso, espanso, dura il batticiglio di un attimo, e trapassa nel passato remoto. C’è come un grande inghiottitoio deputato ad ingoiare centurie di parole e di frasari, come un orlo nero, un orizzonte degli eventi che trangugia tutto e tutto riduce il bollori bluastri. Il prosimetro di Kemeny da ebbrezza, non sai mai se punta in verticale o se in orizzontale, se punta in alto o in basso; si ha l’impressione che il poeta tenti di amalgamare elementi e ritmi contraddittori e ingovernabili, intermittenze incerte e provvisorie, reticenze e dichiarazioni ultronee, surrealtà e surrazionalità. Nella sostanza, direi che è un libro narrativo, con una voce narrante fuori campo che opera da direttore d’orchestra, ma è un’orchestra strampalata e stralunata, dove ciascun musicante va per contro suo o sembra seguire il capriccio di un momento o di una emozione, e il verso, che non è più un verso, si dilata e si raccorcia, oppure, si distende sulla misura della narrazione sincopata e forsennata. È un tipo di scrittura che vuole fondere insieme verticalità e orizzontalità, dilatazione e restrizioni, e riesce ad inghiottire anche il lettore, a renderlo partecipe di questo mega universo di parole in ebollizione, un «linguaggio impenetrato», un «sublime panorama lunare», portato al diapason  «finché il dolore diventa insostenibile». Siamo all’interno di un ingranaggio di porte, aperte, chiuse, girevoli, e di scale che salgono e che scendono alla Escher, di segrete e di celle oscure alla Piranesi, in uno spazio eminentemente curvo, curvato da una mano maldestra e maligna di un demiurgo ozioso e infame…

Uno dei rari libri della nostra letteratura davvero espressionista, crudele, disperato, appassionato. Un libro espressionista, dicevo, appunto nella misura in cui nella poesia italiana del Novecento è mancato un movimento espressionista. Ecco la ragione di questo espressionismo diffuso, molecolare in quanto là dove la parola manca o tende a mancare, ecco che un poeta è spinto a ricorrere alla deformazione, all’espressione diretta e immediata. In breve, alla deformazione dell’espressione.

 

Tomaso Kemeny

Tomaso Kemeny

Tomaso Kemeny

Incontro con il linguaggio

   Entro nell’ultima delle sedi terrestri prima che il volo cosmico abbia inizio. Aspirato sopra una foresta di braccia, con il cappello traccio grandi otto nell’aria prima di diventare invisibile agli altri. Da un nembo s’abbassa un lampadario di cristallo a prismi luccicanti mentre il sole viene coperto da un tappeto morbido a larghe bordure.

   Minuscoli corpi celesti a forma di bilia urtano contro la luna anche lei invisibile producendo un armonico tintinnio. Aquile che carezzano in cerchio l’aria tiepida mi fanno perdere la coscienza del terreno; con un gesto che non finisce mai getto nel cielo lontano il linguaggio lardellato di eufemismi e altre incrostazioni retoriche, solo allora mi sfiora il volo di un angelo dalla forma simile a una cassa automatica: mostra la sua manovella aggraziata, una profonda fessura e un quadrante rossastro sul quale appare un cuore sanguinante.

   L’angelo ha occhi verdi, naufraghi, mi sistema un minuscolo cuscino aleggiante sotto entrambi i piedi e poi enuncia un ordine :”Devi eseguire l’incrocio dell’addormentato con salto”. Prendo confidenza con lo spazio che ora mi pare inoffensivo e immateriale; tasto il vuoto, assaporo, fremendo, la traversata ascensionale (Addio, monotonia orizzontale, la linea verticale che sto tracciando non ha misura!).

   E’ giunto il momento giusto per girare la manovella aggraziata dell’angelo: gli astri cominciano a girare; un duro schiocco e si realizza il crollo del linguaggio vincolato al buon senso comune.

   Mi rendo conto che lo scrittore diminuisce a ogni parola che scrive e a ogni parola perduta s’illude di avere superato i confini del cosmo conosciuto . Si inginocchia in un impeccabile saluto ai posteri, ma subito dopo si rende conto di non trovarsi che a quindici metri dal punto di partenza.

   Mi sento prigioniero di questa ascensione senza parole e senza la visione del sublime panorama lunare. Continuo a esercitarmi in volo, con delicatezza e ostinazione finché il dolore diventa insostenibile. Solo allora il linguaggio impenetrato si apre- sollevando sempre più in alto il mio corpo per accogliermi finalmente dentro di sé.

Incontro con Dio

Sono sul marciapiede che marcisce prima del tramonto. Viscide vipere m’impediscono di sopravvivere ulteriormente. Dall’alto scende una carrozza d’oro-volante e mi trasporta in un campo di defunti in attesa di giudizio.

Dopo un’attesa di venti secoli, un angelo inquisitore mi stacca entrambe le braccia con una sega elettrica e nelle spalle m’inserisce ali candide perché io possa volare al di là del tempo. Vertigine.

Entro nella luce divina.

Vorrei fermarmi a risplendere nell’armonia celeste. Ma mi sveglio al vecchio vento che mi trascina là dove c’è un altro futuro.

Incontro con Dio

Prima del tramonto affogo nel tempo
aperto a scandalose
introspezioni: mi sento Principe
dell’Ignoto, artificiere vano,
commediante ipnotizzato
dalle viscide vipere
annidate nelle profondità
per spuntare all’improvviso
in forma di parole
a dire che le cose non possono restare
così, con le porte chiuse per me
dal lieben Gott:
né mi sento destinato
alla deportazione
nel campo dei defunti
in attesa di giudizio.
Nulla di più molesto e irritante
per me dell’Angelo Inquisitore che mi
interroga sul mio pormi
in testa ai condottieri
del piacere. La verità è
che ogni sorriso dell’Amata
m’inonda dello sfolgorio
di un Dio procreatore eterno
della bellezza certa in cielo e in terra.
Amen.
pittura Ernst Ludwig Kirchner, 1911

Incontro con Prometeo

Un urlo, un urlo disperato, un urlo acuto come un chiodo gigante, angosciante attraversa la porta imbottita della mia cella. Forse è uno impazzito a urlare così, è facile perdere la ragione in una cella che ti esclude dal mondo civile, in una prigione che esclude le visite, l’internet, la TV, i giornali. Poi durante la giornata non si ha il diritto di stendersi: dopo le cinque del mattino il letto deve essere alzato contro il muro e ci rimane attaccato fino le nove di sera. Il carcerato in piedi viene sorvegliato meglio.
Il mio regalo di Natale penetra attraverso le assi che accecano la finestra. Scorgo la campagna innevata, grandi alberi candidi illuminati dalla luna piena. Incatenato a un lampo rossastro scaturito dalle viscere gelide della luna all’improvviso appare Prometeo “Giustizia madre mia, soffro da millenni. Insorto contro gli Dei per dare agli uomini il fuoco, la libertà, le arti e la tecnica vedo masse inquiete sulla superficie infetta della terra e mi viene la nausea ad osservare quella umanità resa prigioniera dalla metafisica nefasta di un progresso suicida”.
Ascolto le parole dell’eroe, con la pazienza di un indio. L’acciaio delle manette mi penetra le carni e in certi punti mi fa sanguinare la carne tumefatta.
“Prima di sprofondare nel ventre gelido della luna parlai agli uomini, ma guardandomi non mi videro, ascoltandomi non mi udirono, il mio esempio non ha vita in se stesso, il mio mito non è da studiare nelle scuole, ma deve venire incarnato dagli uomini che desiderano la liberazione della specie, da uomini in rivolta senza compromessi.”
Stringo i pugni. Un lume al soffitto consente ai secondini di vedermi-spiarmi attraverso un minuscolo foro praticato nella porta. Sono diviso da tutti quelli che potrebbero sostenermi nella lotta per la bellezza. È natale anche per i forzati della libertà negata, tradita. Vola una farfalla, nera. Com’è arrivata qui? Non sono più solo. Ma due custodi mi tirano all’indietro il braccio destro, due quello sinistro. Vengo steso a terra, con le mani strette all’altezza delle scapole.
Merda. Eccomi nella nuvola, la cella è divenuta intensamente opaca. Mi precipito, dal centro della titubanza, in un varco sul confine dell’inconscio, vincolato alle sbarre dell’ingiustizia globalizzata.

Incontro con Prometeo

“Merda! Prigioniero di una cella di ghiaccio
pur lontano dalla morte qui si muore
qui l’insondabile inseguimento della luce
si travasa in inadempiuta liberazione.
Sprofondato nel ventre gelido di un carcere
il mio nome, Prometeo, è inciso nel ghiaccio,
a un lampo prolungato incatenato
la mi carne si dissolve in uno stormo
di farfalle nere in grado di attraversare
emozioni intersiderali , ma incapaci
di attraversare le mura del carcere di ghiaccio
ove lontano dalla morte si muore
in una notte chiomata
più alta di ogni luna
ove la differenza tra morte e vita
in ogni momento viene carbonizzata.”

Incontro con scimmie

Rimonto in sella e pedalo furiosamente.
Abbandono la bici sul prato in pendenza e di corsa giro intorno al portico. Le scimmie danno un party, i loro genitori essendo via.
Hanno appeso lumi dappertutto e hanno smontato il tavolo del soggiorno per dare spazio alle danze.
Una Gorillina di collina, sbadatuccia, rovescia un vasetto di begonie sul pianoforte.
Un Gorillone metropolitano, con un panciotto fantasia, per non essere da meno, spegne uno spinello in un piatto di porcellana cinese.
Vivaci le percussioni del complesso Simias Coalas dal muso schiacciato e dalla vezzosa coda terminante in un ciuffo rosa.
La Scimp con decolletage pelosa mi trascina alle danze quando la luce va via. La musica ci avvolge in spirali lamentose, poi cessa di colpo.
“È un blackout?” chiedono voci.
Liane ci avvolgono e ci legano alla foresta vergine. “Jamus tatane dans le dodo!” mi sussurra la Scimp. Divento leggero tra le terzine della Divina Commedia tradotte in scimpanzese.

Incontro con Scimmie

Nel 1952 scrissi:
“Siamo scimmie
con disperazione aggrappate
al ramo della vita…
io umile non sarò
di attendere di cadere senza forze
ma unica libertà,
lascerò la presa,
allargherò le braccia,
angelo dal volto d’animale
e il volo
avrà il colore
della mia ebbrezza”…
ma eccomi a pedalare furiosamente
nel fumo dei rami incendiati nel 2014
verso un party di scimmie adolescenti
i genitori si sono perduti nella giungla
la casa è libera. Una scim., Cimpy
dalla vezzosa coda
mi trascina a ballare al buio
ai ritmi del complesso Coas-Scimm
il ritmo ci avvolge in spirali
di oscenità prescolare.
Tremano le fronde nella foresta di lacrime
brulicante di sguardi di giaguaro
mentre le liane ci stringono
in endecasillabi danteschi tradotti
in scimpanzese e la coda di Cimpy
lacera il chiaro di luna
mentre cozzano gli astri in brindisi celeste
“Alla salute di voi scimmie,
viviate felici finché gli alberi
non scodellino le loro foglie avvizzite
sui vostri genitali in fiore!”
Balliamo finché il buio si ritira
poco
a
poco

pittura mimmo paladino 1

Mimmo Paladino

Incontro con la Donna Barbuta e il Califfo

La gonnella audacemente corta a mostrare un lembo del torrente tracima l’epidemia nel talamo del Califfo. La gonnella è portata con disinvoltura da una passeggiatrice barbuta dallo sguardo vitreo sotto un cappello di paglia. Tutta la sua vita è stata una lotta per non essere in regola. Tutto ciò che le bolle in mente viene a galla. Talvolta a parole, talvolta in gas. Gas di fogna. Gas di fogna simile all’afflato divino che sale dal cadavere puzzolente dell’Idea.
Il Califfo si contorce, si sente in un mondo dove non c’è posto per muoversi. Si sente in una prigione viscerale. Sogna la resurrezione del suo tubo digerente. Tutto il mondo si riduce a escrescenze difficilmente distinguibili sulla superficie di un cosmico intestino. Tenie frugano nel taschino del panciotto del Califfo per trovare la sua anima. Invano.
Gli dico “Caro Califfo, la Donna Barbuta, un esempio impressionante di umana miseria abbattutasi su una infelice di ottima famiglia, è venuta per cucinarti un pranzo memorabile.”
Come un rottame di naufragio il Califfo in pigiama si alza per sperimentare il risveglio della sua anima e per nutrirla come una spugna che si imbeve di luce eterna. Osserva con orrore la Donna Barbuta in minigonna che mescola una sbobba di pan bagnato con carne di cavallo macinato sottile. In cambio il Califfo le inserisce zoccoli ferrati nell’utero per cavalcarla meglio e conchiglie vuote tra i seni a pera.
Di colpo la Donna Barbuta si veste da Idolo Giavanese. In mano tiene un teschio dalle cui orbite cave esce il gemito di un vento che fa gelare il sangue nelle vene del Califfo, che, ondeggiando, viene verso di me e con uno spruzzatore mi schizza addosso una nuvola di parole di accesso all’inferno. Noto che i suoi capelli brulicano di minuscoli topi.

L’incontro con la Donna Barbuta e il Califfo

In ogni caso l’immagine
delle cupole dei seni
della Donna Barbuta
non lascia presagire
nulla di buono!
Il languore innalza in pietra
il sembiante di questa passeggiatrice irsuta
su un letto di marmo stesa
in pieno abbandono e in attesa
di un amadore ignoto.
Cavità sonore nel marmo
ove il giorno gioca
a evocare la Donna Barbuta
mentre si muta in Idolo Giavanese.
E il mondo intero
stende le sue membra annose
sul talamo del Califfo erto
ad incrociare in pigiama la sua anima
evasa dalla prigione viscerale
a riscattarsi dall’intestino cosmico
(intestino al servizio del divino cannibalismo)
pronto a digerire
la provocante maturità
della sua preferita
dalla vita sottile tanto
da fare risaltare i suoi seni-
anima evasa anche
per riuscire a risorgere dai borbottii
del tubo digerente trascendentale.
Dallo sguardo vitreo della passeggiatrice,
dalla Donna Barbuta sale
un gas da fogna
simile all’afflato dello Spirito Santo
e analogo al fetore
emanato dai cadaveri delle Idee.
Il Califfo si contorce,
dalle sue orbite cave
spira un gemito di vento
a fare gelare il sangue
nelle vene dell’irsuta
proprio quando sta per sentire
il pene di lui vagare
tra le pieghe della sua minigonna
facendole scorrazzare minuscoli
topi nei capelli e facendoli emergere dalla vagina:
tutto viene a galla
in questa età di prodigi,
non più idoli piangenti
ma discorsi pubblici e faccende
a forma di sbobba di pan bagnato
e di carni di sauro
macinati fino la fine della tua indifferenza,
caro lettore che hai l’estrema fortuna
di potere contare su un eresiarca come me
nei tuoi meandri mentali e ranghi.
Il Califfo ora solleva
l’orlo della sottanella della Barbuta-
sottanella che come un estivo ombrello
lo insapora d’odor silvano
“Che estate meravigliosa” pensa il despota
“di aure, di ombre raspose, di silenzi
intafanati di selvaggio ardore
al di là di ogni vento che livella!”

moda caffèL’incontro con “Morte”

Ogni critica della condizione umana presagisce la capacità di potere immaginare un ordine esistenziale superiore.
Per pensarci meglio del consueto cammino nel bosco con la neve alta fino alle ginocchia, non è come camminare tra auto parcheggiate in divieto, tra sacchetti di spazzatura, su marciapiedi sporchi di cacca di cane, tra case spalmate da figurazioni che parlano di modeste vite autodistruttive.
In una radura scorgo un palco quadrato, delimitato da un triplice ordine di corde fissate su quattro pali disposti agli angoli. È un ring.
Mi aspetta il Campione Mondiale dei Pesi Massimi, sulla cintura porta la sigla atroce della morte. L’altoparlante mi chiede qual è il mio ultimo desiderio. Tuttavia le cose si mettono in moto. Imperterrita “Morte” comincia alla grande, scaricandomi addosso la sua furia. Mi sento spacciato. Mi fa rabbia che Dio se ne stia soddisfatto nell’alto dei cieli. Per la rabbia trovo la necessaria determinazione per reagire, metto in pratica le mosse giuste…Non mollo un attimo, schivo, attacco allo stesso tempo concentrandomi di coprirmi meglio possibile.
Il sangue scorre in me con la forza di mille indomabili primavere. Si mette a piovere. È tempesta, però, questa. La durata della resistenza fisica conta di più della verità stessa. C’è però un problema: mi ha fratturato il naso, ma voglio continuare anche se so che pensare di essere imbattibile è un clamoroso errore.
“Morte” non sta ad aspettare che mi riprenda, ora tira colpi pesantissimi…ogni volta che mi colpisce in faccia mi sembra di infilare la testa intera in un’enorme presa della corrente. Disperarsi non ha senso. Mi sento forte e coraggioso come non mi sarei mai aspettato di potere essere. Con baldanza mi dissolvo in una vita infinitamente più vasta e bella della vita riservata agli uomini esposti alle comuni difficoltà quotidiane.

Incontro con “Death”

Abbandono la mia città saccheggiata
da Ali Babà e i suoi 40.000 ladroni.
Oltre le montagne di spazzatura
entro nel Bosco Sacro-
avanzo nella neve
fino alla radura
dove sul ring risplende Death,
l’imbattuto Campione degli Extra Strong.
Al primo scontro
la sua furia mi frattura
entrambi i metacarpi e il naso.
E ora non rimane che attivare
“le mosse giuste”:
schivo, attacco, mi copro come posso
attacco, schivo…
so che rimango vivo
solo finché resisto
alla serie dei colpi pesantissimi.
Non mollo, non arretro,
finché non m’inghiotte l’istante tetro
nel quale mi dissolvo
per una vita infinitamente più vasta
riservata a chi combatte con onore
fino all’ultimo round.
Incontro con il caos

Il mio orecchio è addestrato a percepire i soffi ignei del furore, ma si tiene all’erta e sa mettere la sordina all’urlo barbarico dell’essere.
Ascolto il dolore del mondo destinato a non durare e cerco di percepire il principio e origine di tutte le cose.
Ma basta indugiare, raccolgo una conchiglia marina scagliata dal buio dei flutti (“flung out of the obscure dark chaos“). Altri di me più saggi disquisiscano sull’Apocalisse e altro.
Apro le finestre e getto questa cicca in cortile; tra alcune pattumiere la mia sigaretta si spegne sibilando in una larga pozzanghera gialla. Poi cerco i portali d’accesso al mondo sotterraneo, la dove la coppa del Re degli Incubi lampeggia e le onde oniriche s’infrangono sul litorale dei tempi.
Il Re apre il palmo della mano ossuta e sul muscolo adduttore del pollice leggo la parola “caos”.
Dopo avere tentato di frequentare con ostinazione molti di quei generi letterari che possono dare l’illusione di un potere illimitato sulla rappresentazione, scopro in questa parola uno strumento di salvezza, “caos”, uno strumento di ascesi, una terapia. Nel caos si superano le inquietudini per una forma , il terrore del cattivo gusto, le superstizioni di uno stile tendente, alla pur relativa, perfezione.
Quando si ama il linguaggio come l’amo io, sopravviverle è un disonore.

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