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La vita è troppo psicopatica per la psicologia, troppo romanzesca per il romanzo, troppo impoetica per la poesia, la vita fermenta e si decompone troppo rapidamente per poterla conservare a lungo in frigorifero, la vita è impresentabile, intrattabile e irrappresentabile, Aforismi di Silvana Baroni: La lotta di classe inizia già all’asilo, Poesie kitchen di Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno, Raffaele Ciccarone, Mimmo Pugliese, Acrilico di Marie Laure Colasson, astratto concreto, 60×60 cm, 2022

Marie Laure Colasson acrilico 60x60 2022Marie Laure Colasson, acrilic, 60×60, 2022

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Una zona di indistinzione, di indiscernibilità, di indecidibilità, di disfunzionalità tra le parole

di Marie Laure Colasson

La vita è troppo psicopatica per la psicologia, troppo romanzesca per il romanzo, troppo impoetica per la poesia… la vita fermenta e si decompone troppo rapidamente per poterla conservare a lungo in frigorifero… la vita è impresentabile, intrattabile e irrappresentabile.
Asserire la tesi secondo cui la poesia debba affidarsi ai significati e ai significanti perché solo in essi si può cantare e perché sono l’ossatura del linguaggio, come ha pensato il modernismo nel corso del novecento e in questi ultimi anni di normologia della ragione, non può che incartarsi nelle aporie della propria ambiguità. Chi pone così la questione considera le pratiche discorsive dipendenti dalla parte del significato e del significante, le pensa in modo erroneo e non sa altrimenti pensarle se non dalla parte del significato, non è uscito da quell’incantesimo dal quale proprio il pensiero delle pratiche discorsive intendeva liberarlo. Uscire fuori dal significato e dal significante come fa la poesia kitchen, significa fare poesia finalmente liberata da una allucinazione consolatoria e totalitaria che ha impoverito il linguaggio poetico.

Una zona di indistinzione, di indiscernibilità, di indecidibilità, di disfunzionalità si stabilisce tra le parole e le frasi come se ogni singola unità frastica attendesse di trovare la propria giustificazione dalla unità frastica che immediatamente la precede o la segue.

Una «azione retrograda», una azione ritardata, ritardante e anticipatoria, una zona altamente compromissoria e auto contraddittoria

Se il battito delle ali di una farfalla a Vladivostok ha effetti sulle maree nel Mediterraneo, figuriamoci gli effetti che una guerra in Ucraina come quella in corso può avere persino nel nostro frigorifero e nel serbatoio di benzina della nostra auto.
La Rückfrage (il domandare all’indietro di Heidegger), è il domandare di cui si deve appropriare il nuovo discorso poetico. Ma anche il domandare in avanti è indispensabile al discorso poetico il quale non può non prendere in considerazione la zona di compromissione che si situa tra l’azione dell’atto linguistico con ciò che non è linguistico, con ciò che deve de-finire senza mai finire veramente e che può però finire in un discorso poetico; questa zona del discorso poetico, deve e può fare riferimento a tutto ciò che si trova in quella zona di compromissione che definiamo Es, Inconscio, Preconscio, in quella zona accidentale e accidentata nella quale la pratica delle parole mette in moto una «azione retrograda», una azione ritardata, ritardante e anticipatoria, una zona altamente compromissoria e auto contraddittoria inficiata di anacronismi inconsci e preconsci e coscienzialismi ideologici del tutto slegati e non dipendenti dagli anacronismi inconsci. Proprio in quella zona di compromissione si situa la massima vulnerabilità e, quindi, la massima attualità del discorso poetico kitchen. È pur sempre il linguaggio che descrive il passaggio dal non-linguistico al linguistico, ed è il linguaggio poetico quella zona di compromissione e di indistinzione recettizia di questa zona compromissoria. La manifesta paradossalità del linguaggio poetico kitchen che si presenta agli occhi di un lettore ingenuo della communis opinio come incomprensibile, irragionevole, gratuito, arbitrario deriva dal fatto eclatante che esso si situa, appunto, in questa «zona di indistinzione e di indiscernibilità tra le parole» dove il linguaggio del business è preponderante.
Non ha veramente senso parlare di un «soggetto» creatore se non come il prodotto di pratiche discorsive che riguardano i correlativi soggettivi del soggetto e i correlativi oggettivi dell’oggetto, insieme con i correlativi inconsci e preconsci, non certo un presunto soggetto plenipotenziario attore centrale del discorso poetico. È di un «soggetto scabroso» (ticklish subject – dizione di Slavoj Zizek) ciò di cui stiamo parlando.

(Giorgio Linguaglossa)

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Come si fanno a ottenere risultati quando si fa business? Conviene partire piano, senza farsi troppo notare, mentre il business ingrana? Oppure conviene cercare di farsi spazio? Ne parlo in questo video.

Silvana Baroni

da Per amor di dubbio, puntoacapo, 2022 

Gli aforismi di Silvana Baroni ci dicono che oggi abbiamo bisogno di intelligenza perché la verità ha le diottrie di chi la guarda, in un mondo di manipolazione programmata della verità dei fatti come è evidentissimo nella guerra in Ucraina dove i fatti vengono capovolti dalla propaganda del Cremlino, in cui si cambia il nome ai fatti, anzi, si capovolge la verità dei fatti è indispensabile mettere in ordine le parole, ottimizzare le parole, renderle precise, inequivocabili, responsabili. Una volta, dieci anni fa, un letterato ha scritto che la poesia deve essere «irresponsabile». Ricordo che sono rimasto sbigottito. Oggi non c’è più tempo, non abbiamo più tempo per giocare con le parole «irresponsabili» e con i significati, anch’essi irresponsabili» le parole rischiano di dimenticare altre parole, di tradirle… quando si sovvertono le parole anche i fatti se ne vanno a ramengo e non si sa più che cosa sia la verità delle parole. Quindi, questi aforismi di Silvana Baroni sono un esercizio salutare per l’intelligenza delle parole. Un saluto cordiale quindi a Silvana Baroni per questa sua testimonianza in aforismi, l’arte dell’inteligenza concentrata in poche parole. E vorrei iniziare le citazioni di alcuni aforismi da quello, direi, più ovvio:

La lotta di classe inizia già all’asilo.

Il linguaggio specialistico è il vallo di cinta d’ogni potere arroccato.

Anche a nascer calice, si finisce nella campana di vetro.

La verità ha le stesse diottrie di chi le guarda.

La vita è una strana staffetta: giorni che corrono senza passarsi il testimone.

Chi s’affida alla logica, chi ai fondi di caffè.

Il consumismo ci trasforma da beati in beoti.

Ogni religione tende a scagionare Dio.

Molti scrivono per espellere tossine.

S’è ferro lo vedi dalla ruggine.

Le idee più originali sono furti senza saperlo.

Viveva a giorni alterni per farla breve.

Non c’era nessun futuro anteriore in quel suo infinito passato remoto.

Ci sono anime gemelle e anime doppioni

C’è chi vive la vita e chi la frequenta.

Nei libri, o trovi pagine di scrittori, o scrittori di pagine.

Mauro Pierno

Abbiamo nominato il pane invano le porte
i fabbricati le finestre gli antidoti le minestre

gli infissi i divani le scatolette le conche le mollette
le mutande i reggiseni gli stivali gli scolapasta

le ortiche l’orzo il grano il farro le lenticchie
gli asciugamani le bandiere i cannoni

i missili l’acciaio i cassetti i portafogli le camicie
le fabbriche gli isolotti le acciughe la luna i falò

le lavatrici i rossetti le portaerei i fiammiferi
i sugheri gli accendini le sigarette i tombini

i cavatappi le bottiglie gli stendini i binocoli gli aratri
i carrarmati gli aerei gli elicotteri i fenicotteri

gli archi gli architravi le saune le fragole i biscotti
le grucce i pantaloni le valigie i libri le edicole

gli occhiali gli ombretti gli ombrelli le auto le stufe
i camini la legna il carbone il magnesio il radio

il cromo il selenio la borragine le penne le gomme
i tromboni i violini le zattere le margherite.

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(Da anni l’unica scrittura che pratico è sul foglio elettronico di codesta rivista. È un continuo work in progress, uno stimolo costante alla ricerca di un’idea condivisa di poesia e di risoluzioni poetiche)

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Francesco Paolo Intini

Qualcuno bussa al XXX

C’era da aspettarselo? Capocchio si girò incuriosito.
Gianni lo azzannò al nodo del collo.

Il punto critico delle ossa fece un crac.
Ci rimise una banca, tre banconote e un cent.

La clavicola cedette un ponte.
Se il Don si avvitava il Reno avrebbe brindato
o viceversa?

Un torrente di linfa scende lungo le spalle
L’osso sacro si spezza e una gamba corre più rabbiosa dell’altra.

Il tavolo cresce in lontananza ma non in lungimiranza
Per due punti qualità si perde un pollo arrosto.

L’intimo era già perduto quando il botulino
Imperversò nell’olio del girasole.

Mirra si affacciò dal palazzo in fiamme.
Era la sua voce o un verso di corvo?

La sentivamo triste e aggressiva ma non riuscivamo a sbarazzarci di lei.

Accusava i dolori reumatici della perdita di obiettivo
Avrebbe portato all’Aia il capo degli streptococchi
E alla flora intestinale disse che poteva mettersi in pensione.

Un carro armato presidiava l’aorta ma non osava entrare nel ventricolo.

A un tratto il microfono afferrò un mezzobusto alla gola
intimandogli di smetterla col Brazil
Gridò: c’è Dante, lo faccio entrare?

Jashin con i baffi fiammanti apparve tra i pali.
Una bolgia contro l’altra armata.

Come s’impedisce a un missile di entrare nell’epoca sbagliata?
Burgnich e Facchetti, Molotov a mediano.

Il grande portiere ha una pausa di terrore.
Il rasoio solleva un palazzo, Cislenko fa cilecca.

Il fornello ad est fa una mossa geniale.
Ricorda Cesare quando scese tra i suoi e la battaglia fu vinta.

Ora si trattava di dare al reporter fiorentino
la chiave di chiusura del gas. Continua a leggere

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Duška Vrhovac  Inevitabili note Pensieri scelti, Traduzione di Isabella Meloncelli, Presentazione di Giorgio Linguaglossa

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Presentazione

In questo libro dal titolo inequivocabile, Inevitabili note, Duška Vrhovac compie il gesto decisivo: si libera dalla tirannia del pensiero apofantico, sposta lo sguardo dall’oggetto del pensiero all’analisi e alla indagine dei presupposti del pensiero tout court, piega l’interrogare su se stesso. Il principio logico fondamentale, il principio di non contraddizione, non è negato ma limitato e condotto al suo luogo d’origine, il determinato. L’indagine della poetessa predilige l’ambito di ciò che non è ancora determinato, di ciò che non è ancora sedimentato, poiché il determinato non ha alcun valore per tutto ciò che è e resta incognito: per gli stati d’animo, le tonalità emotive, le angosce del quotidiano, gli innamoramenti, i gesti che sfumano e scompaiono, un sorriso che scompare, il sole che tramonta… Scrive la Vrhovac:

«Aprite il cuore, aprite le finestre, allargate le braccia, aprite la porta, chiudete soltanto la porta del male. È questo il modo più semplice per non vivere nella prigione in cui si è tramutato il nostro mondo».

L’attenzione della Vrhovac verte su quanto è «prima» dell’atto di determinazione, quel «prima» che la stessa determinazione logica presuppone, e sul «poi», su ciò che segue. La dislocazione dello sguardo della Vrhovac si sposta dal contenuto del «dire», del logos, all’itinerario del logos. Questo tragitto porta la poetessa serba a scorgere il profilo di quel continente nascosto che Vico chiamò ingens sylva, l’indeterminato, ciò che appare non concluso e non definito. Siamo prossimi a quella problematica, l’angoscia di Sein und Zeit di Heidegger, che apre l’esserCi alla consapevolezza della «possibilità dell’impossibilità dell’esistenza in generale».

Duška Vrhovac usa il linguaggio forse più inadeguato del nostro tempo, quello della poesia, in senso largo della poiesis, che parla della crisi in cui viviamo con la lingua della crisi. Ma quale crisi se tutto è in crisi? E qui sorge il problema: come fare per scorgere un fondamento nella crisi?, ma non è possibile alcun fondamento, e la riflessione della Vrhovac lo esemplifica chiaramente quando scrive: «Nel cielo il sole, dentro di te il sole, ma tutt’attorno il buio».

Il genere prescelto è il Tagebuch, il diario, il luogo nel quale vengono appuntati i pensieri del giorno, ciò che pone all’“Io” il compito etico di rispondere all’ordine del giorno mediante dei pensieri che rispondono ad una situazione di incertezza e di pericolo.

Se sapere è porre in luce significati a partire da presupposti che restano in ombra, scrivere un diario è non sapere ciò di cui si scrive, un tentativo di inoltrarsi tra le ombre dei significati che sono essi stessi nell’ombra e quindi che non possono essere condotti alla piena luce dell’evidenza. Il diario è propriamente questo, un tentativo di gesticolare nell’ombra dei significati ossificati, un tentativo di compiere dei gesti che aprano degli spazi nei significati in ombra.

Scrivere un diario è, letteralmente, storiografare se stessi e il procedere della propria scrittura. Scrivere è osservare. Si tratta perciò di mettere a tema il problema della collocazione storica dell’osservatore il quale sembra essere al di qua della pagina mentre invece è sempre al di là della pagina, nel pieno della luce dei significati già dati. Ed è questa l’aporia del diario, la sua finzione è la sua funzione, il voler dare ad intendere che chi scrive è l’osservatore che osserva la scena, mentre invece è un intruso, un ospite nel teatro dell’esistenza, un ospite che fa parte dell’esistenza che scorre ma che non può vedere dall’esterno come il diario vorrebbe.

Il pensiero poetante deve farsi costellazione di pensieri. Andenken è «memoria», è il pensiero che s’indirizza a ciò che si manifesta, a ciò che si dà come oggetto di conoscenza, ovvero ai significati, ma che nello stesso tempo ne rievoca anche la provenienza; «ricordo» che essi si danno in presenza a partire da un’assenza, da uno sfondo che va a fondo. Rievocare la provenienza non significa rendere presente ciò che è assente, portare a manifestazione ciò che, come tale, non si manifesta, ma esplicita l’attuare un mutamento dello sguardo, una diplopia: vedere ciò che si mostra come ciò che è in presenza, ma guardarlo, in un certo senso, anche dal lato dell’assenza, vederne il limite.

Che cosa dunque rievoca il pensiero poetante? Esso «rammemora» l’Evento. Rievoca quella zona d’ombra che è l’accadere stesso della luce; l’andare a fondo in quanto far emergere qualcosa non al fine di gettare luce sull’ombra e cancellarla come ombra, ma al fine di «sospendere» la cogenza dei significati.

Si tratta di mostrare che quei significati che vengono alla presenza non sono verità assolute nel senso di ab-solutum, sciolto, svincolato da un contesto, ma appartengono sempre a una cornice, sono figure che appaiono in primo piano a partire da una condizione che, subito, retrocede sullo sfondo. Rammemorando questa condizione, i significati vengono «storicizzati», mostrati nel loro limite, ossia nella loro contingenza storicamente determinata e nella loro dipendenza da un orizzonte.
Heidegger ha ragione quando afferma che il corpo umano è affatto diverso da tutte le altre cose del mondo perché è un corpo, cioè il corpo di un soggetto che dice di sé di essere un “Io”, e di conseguenza di avere un corpo.

Homo sapiens è questa separatezza. E come l’umano è separato dal suo stesso corpo così è separato dalle cose e dal mondo. L’ecologia non risolve questa frattura interna all’umanità dell’umano, può al più mitigarne e dilazionarne gli effetti. Heidegger parte da questa constatazione antropologica. Si tratta ora di capire fino a che punto, questo strano vivente che nega il suo stesso essere corpo,che è questa stessa negazione, può spingersi verso il mondo delle cose, fra cui c’è anche il ‘proprio’ stesso corpo che gli è estraneo quanto una galassia distante miliardi di anni luce.
La poetessa serba aprendo l’“Io” al mondo scopre una galassia dentro l’“Io”, questa complessità inestricabile fatta di tempo, di spazio, di eventi e di storia; il suo è un pensiero riflettente che pensa intimamente il reale, e il diario è la cronografia di questo singolarissimo pensiero riflettente.

Duška Vrhovac scrive di «inevitabili note» che rispondono ad un imperativo categorico. Esige di entrare nel mondo del senso, spinge per entrarvi. La vita umana non si nutre solo di oggetti, non è solo fatta della sostanza del godimento, del carattere acefalo della pulsione, ma esige di entrare nell’ordine del senso. Il genere diario è questa procedura di accesso al senso, senza questo accesso, la vita si disumanizza, resta vita animale, cade nello sconforto provocato dall’assenza di risposta.

(Giorgio Linguaglossa)

Duska Vrhovac anni settanta

[Duska Vrhovac, anni settanta]

Invece del Prologo

Stanotte la pioggia mi ha svegliata. Il vento ha gonfiato la tenda e gocce d’acqua sono cadute fino al letto, fino sul mio viso. Mi sono alzata e ho chiuso la finestra. All’alba mi sono risvegliata, il giorno stava appena nascendo. Mi sono alzata e per prima cosa ho spalancato la finestra. È vero, può entrare qualche insetto, ma un insetto lo puoi cacciare, buttar fuori senza ucciderlo. Anche quando lavoro tengo aperto almeno un vetro della finestra. Così sto contemporaneamente fuori e dentro. Percepisco il mondo mediante il fluire dell’aria. I suoni rivelatori della città disturbano il mio innato silenzio. Non recepisco il cinguettio degli uccelli, ma mi arrivano echi di risate, richiami, passaggi di automobili.

Ieri sera a passeggio per la città non ho visto una finestra aperta. Mentre mettevo a letto mio nipote, mia figlia mi raccomandava di chiudere la finestra. Anche adesso, che sto seduta al computer a scrivere queste parole, la finestra dietro le mie spalle è aperta. Una finestra aperta è come un cuore aperto. Aprite il cuore, aprite le finestre, allargate le braccia, aprite la porta, chiudete soltanto la porta del male. È questo il modo più semplice per non vivere nella prigione in cui si è tramutato il nostro mondo. Nonostante tutte le facilitazioni, i confort, le esaltazioni della libertà, le compagnie, i viaggi, le nostre vite non sono che prigioni. Non arrendetevi alla prigione. Aprite le finestre. Aprite i cuori.

Duska Vrhovac 2019 primo piano

IL MONDO

La fine del mondo avverrà certamente, ma nessuno la può prevedere, come del resto non ha potuto prevedere la nascita del mondo. Alcune civiltà sono ormai scomparse. Anche la nostra scomparirà quando verrà il suo momento cosmico. In questo sistema l’uomo è ancora e probabilmente continuerà ad essere soltanto una pagliuzza al vento dell’eternità.

Le promozioni di tutti tipi di prodotti, letterari, igienici, della buona cucina, dell’abbigliamento e via elencando cominciano allo stesso modo: i migliori, i più grandi, meglio di quanto prodotto finora, magnifico, irripetibile. Se fosse proprio così, il mondo sarebbe del tutto diverso. Pertanto cercate di essere solo migliori, più sinceri, più diligenti: è sufficiente.

Il meglio assoluto non esiste. Se esistesse il più grande e il migliore, il nuovo non avrebbe alcun senso.

I Balcani sono il buco nero del cosmo, in cui non c’è chi sia d’accordo con chi tranne i criminali con i criminali, di qualsiasi nazionalità, fede e professione siano.

Disgraziato il paese in cui siano i criminali a stabilire ordine e leggi.
Non è cambiato niente da prima di Cristo. Per lo più il mondo oggi è tale quale non dovrebbe essere. Solo che le strategie dei creatori di questo mondo sono più perfette, più perfide e più prive di scrupoli.

Dato che il commercio della droga è, in effetti, un cosciente omicidio premeditato, l’unica giusta punizione per gli smerciatori di droga dovrebbe essere il carcere a vita senza possibilità di grazia. La medesima pena sarebbe adeguata anche per gli stupratori e i pedofili, giacché le conseguenze del loro agire distruggono in modo duraturo le vite delle loro vittime. In seconda istanza sarebbe adeguata la pena di morte.

Un tempo, dovunque nel mondo, la modestia era la sublime allegoria dell’uomo nobile, mite, pacato e dignitoso, dotato di misura. Purtroppo, oggi, un uomo siffatto non ha alcuna prospettiva di sopravvivenza.
Da sempre il mondo è stato guidato o da geni (che sono folli) o da folli che si presentano come geni. A tutt’oggi non c’è in questo alcun cambiamento.

Dicono che sia necessario adeguarsi ai tempi nuovi e ai nuovi fenomeni. Io, però, non desidero adeguarmi alle persone e ai fenomeni che rendono peggiore e disumano l’essere umano. Non accettare non è la stessa cosa che non adeguarsi.
La società in cui viviamo è come un folto bosco. Finché non ne abbiate percorsi i sentieri e voi stessi non ne abbiate aperti nuovi non potete averne conoscenza.
In che mondo viviamo? Com’è possibile che l’evoluzione si trasformi in distruzione? Che la fede nel trionfo, almeno finale, del bene e della verità sia un’inutile autodifesa? Le domande si moltiplicano, ma le risposte continuano a diminuire. Continua a leggere

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Poesie di Charles Simic, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Letizia Leone, Lidia Popa, Lucio Mayoor Tosi, Mauro Pierno – La scrittura poetica in distici – Commenti e critiche

Foto Vivian mayer in ascensore metallico

Foto di Vivian Mayer – Mi sono svegliato nel cuore della notte e ho trovato/ un cavallo silenzioso accanto al letto

Charles Simic

Nella Biblioteca
                                       per Octavio

C’è un libro dal titolo
Un dizionario degli Angeli.
Nessuno in cinquant’anni l’ha più aperto,
Lo so, perché quando lo feci,
La copertina si spaccò, le pagine
Si sbriciolarono. Lì ho scoperto

Che un tempo gli angeli erano fitti
Come mosche. Il cielo al tramonto
Era sempre pieno di loro.
Dovevi agitare entrambe le braccia
Per tenerteli lontani.

Ora il sole splende
Attraverso le alte finestre.
La biblioteca è un posto tranquillo.
Angeli e divinità rannicchiati
Negli scuri libri non aperti.
Il grande segreto giace
Su qualche scaffale di Miss Jones
L’oltrepassa ogni giorno nei suoi giri.

È davvero alta, così tiene
La testa inclinata, come in ascolto.
I libri stanno sussurrando.
Io non sento nulla, ma lei sì.

  1. In the Library

There’s a book called
A Dictionary of Angels.
No one had opened it in fifty years,
I know, because when I did,
The covers creaked, the pages
Crumbled. There I discovered

The angels were once as plentiful
As species of flies.
The sky at dusk
Used to be thick with them.
You had to wave both arms
Just to keep them away.

Now the sun is shining
Through the tall windows.
The library is a quiet place.
Angels and gods huddled
In dark unopened books.
The great secret lies
On some shelf Miss Jones
Passes every day on her rounds.

She’s very tall, so she keeps
Her head tipped as if listening.
The books are whispering.
I hear nothing, but she does.

[Charles Simic]

“Le parole fanno l’amore sulla pagina come mosche nel caldo dell’estate e il poeta è solo lo spettatore divertito.”

Letti disfatti

“Amano le stanze ombreggiate,
le carte da parati consunte,
le crepe nel soffitto,
le mosche sul cuscino.

Se ti viene la tentazione di allungarti,
non essere sorpreso,
non farai caso alle lenzuola sporche,
al raschio delle molle arrugginite
mentre ti metti comodo.

La stanza è un cinema buio
dove si proietta
una pellicola sgranata in bianco e nero.

Un’immagine sfuocata di corpi svestiti
nel momento della dolce indolenza
che segue all’amore,
quando il più malvagio dei cuori
arriva a credere
che la felicità può durare per sempre.”

Charles Simic

Il Cavallo

Mi sono svegliato nel cuore della notte e ho trovato
un cavallo silenzioso accanto al letto
amico mio, sono felice che tu sia qui, gli dico,
nevica e dovevi avere freddo
solo in quella stalla in fondo alla strada
il contadino e la moglie, tutti e due morti.

Ti metto addosso una coperta e vado a vedere
se c’è una zolletta di zucchero in cucina
come quella che in un circo ho visto mettere
in bocca a una cavalla
da un uomo col cilindro, ma ho paura di non trovarti
al mio ritorno, allora è meglio che resti
a farti compagnia qui al buio.

[“The Horse”, “Il Cavallo”, una poesia di Charles Simic, tratta dalla sua ultima raccolta “The Lunatic”,Harper Collins Publisher, 2015].

Charles Simic

 [Sull’incendio della Biblioteca Nazionale di Sarajevo del 25 agosto 1992]

“La Biblioteca Nazionale bruciò gli ultimi tre giorni di agosto e la città soffocò nella neve nera.

Liberati, i personaggi vagarono per le vie, mescolandosi con i passanti e con le anime dei morti.

Vidi Werther seduto accanto ai muri sbrecciati del cimitero; vidi Quasimodo che si dondolava con una sola mano in un minareto.

Raskolnikov e Mersault chiacchierarono per giorni nella cantina di casa mia; Gavroche sfoggiò uno stanco travestimento.

Yossarian vendeva già provviste al nemico; per pochi dinari il giovane Tom Sawyer si tuffava dal Ponte del Principe.

Ogni giorno più fantasmi ed esseri viventi; e il terribile sospetto si confermò quando gli scheletri mi caddero addosso.

Mi chiusi in casa. Sfogliai la guida turistica.
E non uscii finché la radio non mi spiegò come avessero potuto tirar fuori tonnellate di carbone dal sotterraneo più profondo della Biblioteca Nazionale bruciata”

Nota
L’incendio della Vijecnica, la Biblioteca Nazionale di Sarajevo, 25 agosto 1992

“[…]Vijećnica è il simbolo della distruzione di Sarajevo e della Bosnia Erzegovina. Custodiva, prima della guerra, un milione e mezzo di libri, tra i quali 155 000 esemplari rari e preziosi, 478 manoscritti. Era l’unico archivio nazionale di tutti i periodici pubblicati in, o sulla Bosnia Erzegovina.
Dopo tre giorni di rogo, della biblioteca bruciata rimanevano lo scheletro di mattoni e dieci tonnellate di cenere.

“Una grande catastrofe culturale”, cosi il Consiglio di Europa ha definito la distruzione della Biblioteca Nazionale di Sarajevo. “La pazzia visibile”, intitolava l’articolo sulla devastazione della Vijećnica, il quotidiano inglese “The Times”.

Il 25 agosto 1992, poco dopo la mezzanotte, dalle colline che circondano la città i serbi spararono le prime bombe incendiarie su Vijećnica.

La Biblioteca Nazionale fu bersagliata dai cannoni per tre intere giornate. L’accuratezza dei lanci non lasciava dubbi sul fatto che il bersaglio fosse proprio la Vijećnica.

Sui vigili del fuoco, sui coraggiosi bibliotecari e sui volontari che, formavano una catena umana nel tentativo di salvare i libri, sparavano i cecchini o le antiaeree. La giovane bibliotecaria, Aida Buturović, perse la vita in quella occasione.

“Salvavano solo i libri degli autori musulmani”, affermò un tale Miroslav Toholj, scrittore di Sarajevo, scappato a Belgrado…” Continua a leggere

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Mirkka Rekola (1931) Poetessa finlandese – Poesie e aforismi scelti traduzione di Antonio Parente

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Mirkka Rekola, nata nel 1931 a Tampere, poetessa di fama internazionale, pluritradotta e pluripremiata (ha esordito nel 1954 con il libro di poesie Nell’acqua il fuoco –
Vedessä palaa
), al quale sono seguite una ventina di pubblicazioni come ad esempio Gioia e asimmetria (Ho ja epäsymmetria, 1965) e L’orbita della quasi luna (Valekuun reitti, 2004) ha pubblicato anche diversi libri di aforismi che le hanno valso il prestigioso “Premio Samuli Paronen” alla carriera nel 2007.

La sua produzione aforistica comincia nel lontano 1969 con la raccolta Taccuino – Muistikirja che segna un punto di svolta nell’aforistica finlandese contemporanea. Seguiranno Maailmat lumen vesistöissä (1978), Silmänkantama (1984), Tuoreessa muistissa kevät e infine aforistiset kokoelmat (1987). Ha anche pubblicato nel 1987 un libro dal titolo Maskuja che è a metà tra la prosa, la poesia e l’aforisma e che contiene facezie, motti di spirito e detti umoristici.

Gli aforismi di Mirkka Rekola sono sapientemente concisi, con un uso davvero concentrato delle parole per esprimere significati complessi. Le singole immagini sono spesso ambigue e rivelano più significati di quanti il lettore potrebbe immaginare a prima vista. Come scrive molto bene anche Markku Envall nella sua antologia sull’aforisma finlandese Suomalainen – Aforismi (1987), ciascuno degli aforismi di Mirkka Rekola si presta a un sorprendente numero di interpretazioni, a differenza dell’aforisma tradizionale che – nella sua pointe paradossale e nel suo congegno ironico – si presta quasi sempre a una sola interpretazione.

L’effetto che deriva dalla lettura degli aforismi di Mirkka Rekola non è quello solito della battuta – il riso o il sorriso – ma piuttosto quello di uno spaesamento logico all’interno del fluire consueto del linguaggio quotidiano.

Presento qui di seguito al lettore italiano una scelta di poesie e aforismi di Mirkka Rekola. La traduzione è di Antonio Parente, che ha già tradotto in italiano presso alcune riviste letterarie una scelta di poesie di Mirkka Rekola. Poesie tratte da Poeti e aforisti in Finlandia Edizioni del Foglio Clandestino, 2012

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Mirkka Rekola

 

Commento di Giorgio Linguaglossa

È evidente a chiunque la profonda affinità che c’è tra l’aforisma, il pensiero aforistico e la «nuova ontologia estetica», perché entrambi i modi di pensare il pensiero poetante puntano sulla essenzialità lessicale e l’essenzialità della immagine. L’aforisma è un «detto», un «atto», l’aforisma «agisce», proprio come fa la «nuova ontologia estetica», in essa, nelle sue frasi brevi e concitate, c’è il «detto», ma, tra le maglie del «detto» si aprono le voragini del «non-detto», del «non-pensato»; il «non-detto» e il «non-pensato» svolgono una funzione essenziale all’interno della nuova piattaforma di poetica, questo credo sia chiaro e inequivoco a chiunque legga questo nuovo modo di poesia. Nella poesia aforismatica di Mirkka Rekola abbiamo lo stesso procedimento di pensiero, non c’è sostanziale differenza tra i suoi aforismi e le sue poesie aforistiche. Lacan, pensando a Freud, scrive: «ogni atto mancato è un discorso riuscito, piuttosto ben girato, e che nel lapsus è il bavaglio che gira sulla parola, e solo di quel tanto che basta perché il buon intenditor intenda».1]

Ecco, appunto, in ogni parola mancata, si cela e si rivela la parola «detta», è l’inconscio che parla, è lui il soggetto s-centrato, il soggetto Altro che sgomita per farsi notare… È paradossale che l’inconscio parla meglio e più speditamente laddove c’è un «detto» chiaro e distinto. In fin dei conti, per chi non l’abbia ancora recepito, la «nuova ontologia estetica» predilige il «detto» chiaro e distinto.

1] J. Lacan, Scritti I, Funzione e campo della parola e del linguaggio, Einaudi 1970 p. 261

**

Abbasso la visiera del berretto smetto di guardare
i pensieri pronti alla partenza
siedo in questo treno lungo un viaggio.

(1065)

Al vento

Non c’è di che preoccuparsi. L’ombra
non può cadere. Si muove come l’albero
e ne segue ogni scatto.
Come fuoco è trascinata via nel vento
e scivola con leggerezza sopra ogni cosa.
Non c’è di che preoccuparsi. L’ombra non
può cadere. Si muove soltanto.
e quando si stacca un ramo dal tronco
lei lo sente e lo accoglie.

(1954)

Il salice

Sulla sponda
di una fresca corrente
ricordi
quel salice piccolissimo?
Quando andasti
la mia nuvola un tutto.
Adesso la cima resuscitata
la santità delle nubi
ferisce.

Non così

Non così. Non fune di aghi di pino,
se vuoi uno scabro cammino
attraverso fuoco, acqua e verso l’inespugnato.
Il sentiero si ammansisce nel fiacco remoto.
Attraversa la marcita
e ascolta il beccaccino,
vai attraverso la boscaglia verso l’ignoto. Continua a leggere

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Pensieri  poesie e aforismi intorno alla Nuova Ontologia Estetica – Jacques Lacan, Giorgio Linguaglossa, Vincenzo Vitiello, Pier Aldo Rovatti, Steven Grieco-Rathgeb, Kikuo Takano, Jacques Derrida, Donatella Costantina Giancaspero, Anna Ventura

Gif tumblr_1Pensieri  poesie e aforismi intorno alla Nuova Ontologia Estetica

Il soggetto è quel sorgere che, appena prima,
come soggetto, non era niente, ma che,
appena apparso, si fissa in significante.

L’io è letteralmente un oggetto –
un oggetto che adempie a una certa funzione
che chiamiamo funzione immaginaria

il significante rappresenta un soggetto per un altro significante

  1. (J. Lacan – seminario XI)

Giorgio Linguaglossa

L’«Evento» è quella «Presenza»
che non si confonde mai con l’essere-presente,
con un darsi in carne ed ossa.
È un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote l’io,
o, sarebbe forse meglio dire, lo coglie a tergo, a tradimento

Il soggetto è scomparso, ma non l’io poetico che non se ne è accorto,
e continua a dirigere il traffico segnaletico del discorso poetico

La parola è una entità che ha la stessa tessitura che ha la «stoffa» del tempo

La costellazione di una serie di eventi significativi costituisce lo spazio-mondo

Con il primo piano si dilata lo spazio,
con il rallentatore si dilata e si rallenta il tempo

Con la metafora si riscalda la materia linguistica,
con la metonimia la si raffredda

*

Nell’era della mediocrazia ciò che assume forma di messaggio viene riconvertito in informazione, la quale per sua essenza è precaria, dura in vita fin quando non viene sostituita da un’altra informazione. Il messaggio diventa informazionale e ogni forma di scrittura assume lo status dell’informazione quale suo modello e regolo unico e totale. Anche i discorsi artistici, normalizzati in messaggi, vengono  silenziati e sostituiti con «nuovi» messaggi informazionali. Oggi si ricevono le notizie in quella sorta di videocitofono qual è diventato internet a misura del televisore. Il pensiero viene chirurgicamente estromesso dai luoghi dove si fabbrica l’informazione della post-massa mediatica. L’informazione abolisce il tempo e lo sostituisce con se stessa.

È proprio questo uno dei punti nevralgici di distinguibilità della Nuova Ontologia Estetica: il tempo non si azzera mai e la storia non può mai ricominciare dal principio, questa è una visione «estatica» e normalizzata; bisogna invece spezzare il tempo, introdurre delle rotture, delle distanze, sostare nella Jetztzeit, il «tempo-ora», spostare, lateralizzare i tempi, moltiplicare i registri linguistici, diversificare i piani del discorso poetico, temporalizzare lo spazio e spazializzare il tempo…

Ovviamente, ciascuno ha il diritto di pensare l’ordine unidirezionale del discorso poetico come l’unico ordine e il migliore, obietto soltanto che la nostra (della NOE) visione del fare poetico implica il principio opposto: una poesia incentrata sulla molteplicità dei «tempi», sul «tempo interno» delle parole, delle «linee interne» delle parole, del soggetto e dell’oggetto, sul «tempo» del metro a-metrico, delle temporalità non-lineari ma curve, confliggenti, degli spazi temporalizzati, delle temporalisation, delle spazializzazioni temporali; una poesia incentrata sulle lateralizzazioni del discorso poetico. Ma qui siamo in una diversa ontologia estetica, in un altro sistema solare che obbedisce ad altre leggi. Leggi forse precarie, instabili, deboli, che non sono più in correlazione con alcuna «verità», ormai disabitata e resa «precaria».

La verità, diceva Nietzsche, è diventata «precaria».

Il «fantasma» che così spesso appare nella poesia della «nuova ontologia estetica», si presenta sotto un aspetto scenico. È il Personaggio che va in cerca dei suoi attori. Nello spazio in cui l’io manca, si presenta il «fantasma».

Dal punto di vista simbolico, è una sceneggiatura, il «fantasma» è ciò che resta della retorizzazione del soggetto là dove il soggetto viene meno; il fantasma è ciò che resta nel linguaggio, una sorta di eccedenza simbolica che indica una mancanza. L’inconscio e il Ça rappresentano i due principali protagonisti della «nuova ontologia estetica». Il soggetto parlante è tale solo in quanto diviso, scisso, attraversato da una dimensione spodestante, da una extimità, come la chiama Lacan, che scava in lui la mancanza. La scrittura poetica è, appunto, la registrazione sonora e magnetica di questa mancanza. Sarebbe risibile andare a chiedere ai poeti della «nuova ontologia estetica», mettiamo, a Steven Grieco Rathgeb, Anna VenturaMario Gabriele o a Donatella Costantina Giancaspero che cosa significano i loro personaggi simbolici, perché non c’è alcuna significazione che indicherebbero i fantasmi simbolici, nulla fuori del contesto linguistico. Nulla di nulla. I «fantasmi» indicano quel nulla di linguistico perché Essi non hanno ancora indossato il vestito linguistico. Sono degli scarti che la linguisticità ha escluso.

I «fantasmi» indicano il nulla di nulla, quella istanza in cui si configura l’inconscio, quell’inconscio che appare in quella zona in cui io (ancora) non sono (o non sono più). L’essenza dell’inconscio risiede non nella pulsione, nell’essere istanza di quel serbatoio di pulsioni che vivono sotto il segno della rimozione, quanto nella dimensione dell’io non sono che viene a sostituire l’io penso cartesiano. La misura di questa dimensione è la sorpresa, l’esser colti a tergo. Tutte le formazioni dell’inconscio si manifestano attraverso questo elemento di sorpresa che coglie il soggetto alla sprovvista, che, come nel motto di spirito, apre uno spazio fra il detto e il voler-dire. Come nei sogni, dove l’io è disperso, dissolto, frammentato fra i pensieri e le rappresentazioni che lo costituiscono, così l’inconscio è quella istanza soggettiva in cui l’io sperimenta la propria mancanza. Come aveva intuito Freud: l’inconscio, dal lato dell’io non sono è un penso, un penso-cose, esso è formato da Sachevorstellung, è costituito da rappresentazioni di cose. La formula «penso dove non sono» è la formula dell’inconscio, che si rovescia in un «non sono io che penso». È come se «l’io dell’io non penso, si rovescia, si aliena anche lui in qualcosa che è un penso-cose».

Il «fantasma» inaugura quella dimensione della mancanza che si costituisce nella struttura grammaticale priva dell’io, cioè della dimensione della parola come luogo in cui il soggetto «agisce».
A questo punto apparirà chiaro quanto sia necessario un indebolimento del soggetto linguistico affinché possa sorgere il «fantasma». Nella «nuova ontologia estetica» non c’è più un soggetto padronale che agisce… nella sua struttura grammaticale l’io si è assottigliato o è scomparso. O meglio, il soggetto viene parlato da altri, incontra la propria evanescenza.

(Giorgio Linguaglossa)

Onto Steven Grieco

Steven Grieco Rathgeb, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Citazioni

Non l’atto è prima della potenza, non l’essere è prima del possibile,
ma questo – il possibile, il possibile non la potenza –
è prima del mondo, della vita, dell’essere.
“La possibilità più in alto della realtà” mette in giuoco tutto…

Il più grande pericolo del pensiero è – il pensiero.
L’onnifagia del pensiero. Là più pericolosa, dove si cela.

il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore,
volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.

(Vincenzo Vitiello)

L’evento è prima dell’essere, è più antico e originario dell’essere.
E questo dipende da quello come la possibilità
viene prima dell’evento e lo fonda.

(Giorgio Linguaglossa)

L’enigma non può essere sciolto con un atto di padronanza categoriale
ma può solo essere percorso.

(Pier Aldo Rovatti)

Pier Aldo Rovatti

 «L’uomo, ha detto una volta Nietzsche, rotola via dal centro verso la X. Si allontana dal proprio luogo certo, verso un luogo incerto, un’incognita. Possiamo tentare di indicare, descrivere, raccontare questa incognita? […] È ipotizzabile una logica del decentramento del soggetto che riesca a descrivere, nel medesimo tempo, che cosa accade all’uomo quando si allontana dal suo centro e quale è il terreno, che innanzitutto occorre riconoscere, sul quale un nuovo “senso” può prodursi? Intanto: che altro è la perdita del centro se non la dichiarazione, la sanzione che il pensiero “forte” è ormai insostenibile? La situazione tipica del pensiero “forte” è infatti quella in cui pensante e pensato, chi pensa e cosa si pensa sono solidali: si tengono in una stretta, in una corrispondenza speculare. La situazione che Nietzsche vede è caratterizzata, invece, dalla possibilità del perdersi: l’uomo è giunto dinanzi a un limite, un passo oltre e potrà sprofondare, perdersi completamente. Il luogo in cui il senso potrà riattivarsi è avvistabile solo di qui, drammaticamente. È un luogo possibile? […] In Umano, troppo umano leggiamo di un “impavido spaziare al di sopra degli uomini, dei costumi, delle leggi e delle originarie valutazioni delle cose”. Un libero spaziare? Nietzsche riprenderà e correggerà continuamente questa idea di “leggerezza” e di “libertà”: l’abisso trascina in basso e la spirale della necessità continua ad annodarsi. Non è possibile librarsi in volo e liberamente spaziare come un uccello nell’aria: forse l’unica alternativa è imparare a strisciare imitando il serpente, poiché solo aderendo alla terra avremo una possibilità di sollevarci sopra di essa.

In conclusione di un suo notissimo frammento postumo (giugno 1887) Nietzsche tenta di suggerire un’immagine dell’ “oltreuomo” e si chiede: “Quali uomini si riveleranno allora i più forti?” E risponde: “I più moderati, quelli che non hanno bisogno di principi di fede estrema, quelli che non solo ammettono, ma anche amano una buona parte di caso, di assurdità, quelli che sanno pensare, riguardo all’uomo, con una notevole riduzione del suo valore senza diventare perciò piccoli e deboli […].

L’uomo è ormai abbastanza forte per apparire debole. Un paradosso? In ogni caso per Nietzsche ciò ha un significato profondo: lo “spaziare” (o lo “starsene fuori”) non può equivalere a una realizzazione compiuta e positiva collegata all’acquisizione storica di una forza, al compimento di un percorso umano, fino al punto in cui il “portar pesi” si trasforma in un “esser potenti”. […] Vi è un cammino difficile dentro il nichilismo, in cui l’uomo acquisisce la capacità di abbandonare le proprie catene. Nietzsche suggerisce che non si tratta di un indietreggiare, bensì di realizzare una potenzialità grazie alla forza che deriva proprio dall’abitare storicamente il nichilismo. Nietzsche, però, sa anche che questa forza è una capacità autodistruttiva, un rischio abissale che l’uomo avvicina a sé. […] L’immagine è quella di una situazione di equilibrio instabile su una piccola superficie d’appoggio. […] Come può una simile precarietà essere la massima forza?

Vi è una necessità che appesantisce, una forza che grava, il tornare pesante delle cose, un circolo che incatena così come ci bloccano i valori superiori, le categorie “vere” della filosofia, il fine ultimo, l’unità delle cose, il loro essere. Ma il movimento che ci incatena è duplicato da un movimento che allenta. Cosa è l’eterno ritorno se non una “diversa” necessità? […] Se la si allontana, la necessità appare pesante, ferrea. Se la si lavora all’interno, allora il nulla che siamo non è poi così terribile. La ruota del destino seguita a girare: possiamo guardarla da fuori o saltarci dentro. Possiamo arrenderci all’orrida casualità o scoprire il gioco del caso: è una scelta. Se avremo la forza per farla, scopriremo l’affermatività della debolezza. Il gioco del caso, come il gioco del fanciullo in riva al mare, è una fluttuazione, un lasciarsi prendere. Ma non è un dipendere, un essere passivi, pazienti: la necessità ha perso il suo ringhio. Caso e necessità si coniugano in due modi che sono due stili di vita. Orrida casualità e necessità che appesantisce. Necessità che alleggerisce e gioco del caso.

Il riso di Zarathustra è misterioso: né di gioia, né di dolore, forse di stupefazione».

(Pier Aldo Rovatti, Trasformazioni nel corso dell’esperienza, contenuto ne Il pensiero debole; a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 29-51.)

Onto Linguaglossa triste

Giorgio Linguaglossa, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Jacques Derrida

Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto.

Steven Grieco Rathgeb

Cosa non deve essere riconosciuto delle parole?
Il loro senso completo.
Solo l’ombra deve essere riconoscibile.
Il resto lo fa il poeta.
Quindi la parola arrivi al lettore rallentata,
e quindi velocissima…

*
Il solo tuo vederli li riportò più volte in vita.
I molti sempre in uno, gli sconosciuti giunti da così lontano.
Un fremito, un singulto, uno strano singulto dell’anima.
Chiunque poi, fossero. Se mai erano esistiti.
Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
inafferrabile. […]

*
Ma di colpo si aprirono i paesaggi: Kyōto, i colori, le colline,
i templi addossati alle colline. Il bianco e rosso di una fanciulla.
E nel tempio vuoto la presenza fremente del dio che inesiste.
(Steven Grieco-Rathgeb)

*
Una brezza
la porta si è spalancata. Fitto fogliame,
nessuno,
la soglia non varcata.
In questo addio, sono tornato a casa.

(Steven Grieco -Rathgeb da Entrò in una perla, Mimesis Hebenon, 2016)

Kikuo Takano

Nulla può il burattino, che pure è mosso da fili;
nulla può perché non saprà mai reciderli,
e può soltanto, mosso dalla disperazione,
abbrancare l’aria con inutili piroette

Baratro

Quando ti ho abbracciato
la prima volta
non mi ero ancora chiesto
il senso di quell’abbraccio.

Quando ti ho abbracciato
una seconda volta
era come stringere un baratro.

e perché mai mi capita, non solo
con te, che ogni cosa che abbraccio
una seconda volta
si trasforma nel mio baratro?

Inevitabile

Inevitabile
come il peso attratto
dal centro della terra.

Inevitabile
non posso che precipitare dal cielo
che pure tanto ho desiderato.

Onto Giancaspero

Donatella Costantina Giancaspero, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Donatella Costantina Giancaspero

Molti fatti nuovi

Molti fatti nuovi sono accaduti. Dopo.
I fili non hanno più retto.
Le parole sul bordo di una trama fittizia.

Dietro le quinte, chi sapeva il ritmo di una finestra
– come apre e chiude all’inganno del suono –
ha scritto la sua ultima misura.

Molti fenomeni si sono invertiti, sul calendario: la primavera.
Ad esempio, cedendo le ore a una stagione contraria;
ostinata in un grigio ritornello.

*

È presto. Poco prima dell’alba.
A quali inconsueti cammini si affida il risveglio
e gli interrogativi, replicati dallo specchio
– ora il tempo scredita il cielo. Brusco ricusa la luce –
A quali percorsi incita il treno prescelto – oppure toccato in sorte…

Un ordine stacca il convoglio. Brevemente
accelerando, scorre nei vetri.
Allo sguardo retrogrado.
Rettilineo incontro al giorno.
Fino al mare.

Molte strade si animano da qui.
Ristanno un po’, davanti a chi chiede la direzione
qual è.
Prendono tempo: ascoltano il passo.
Il cuore come pulsa.

Onto Ventura

Anna Ventura, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Anna Ventura

Utopia

Utopia è il luogo
in cui vorremmo essere nati,
ma siamo nati altrove.
Utopia è il luogo
in cui avremmo voluto crescere,
e scoprire il mondo,
ma siamo vissuti altrove,
e il mondo ci si è rivelato da solo,
spietato e inevitabile,
pericoloso.
Utopia è il luogo in cui, forse,
non ci sarà nemmeno concesso di morire:
perché anche questo sarebbe un privilegio.
Lungo il percorso
tanto ci siamo compromessi,
con la durezza del mondo reale,
da perdere le ali necessarie
a volare tanto in alto.
Ma abbiamo imparato a camminare.

Arbiter

L’Arbiter sapeva
di essere in pericolo,
e non se ne curava; sapeva
che, comunque, la morte arriva,
né temeva un’anticipazione;
ma lo disgustava l’idea
di una violenza brutale,
di una mano sporca
che lo avrebbe trafitto
con un pugnale
forse già insanguinato. Perciò,
meglio morire per propria scelta,
a banchetto, tra parole leggere.
Forse aveva ragione Trimalcione,
che nel suo epitaffio,
dove si definisce
“pio, forte e fedele”, avverte:
“Non ascoltò mai un filosofo”
L’Arbiter amava quella creatura
nata dalla sua fantasia inquieta:
così lontana da lui,
così vicina alla terra.

Hic et nunc

Qui dove si stringe l’interno,
dove il raggio di ponente
riscalda il cuore
e gli oggetti scombinati e vecchi
tranquilli convivono,
qui dove la lampada conserva
la pulce nera
della mosca estiva, le piastrelle non brillano,
la polvere pacifica
sta sulle cose,
qui c’è la pace dell’inutile,
il tempo immobile
del dolce far niente,
lo sguardo osserva
dietro le garze rosse e bianche,
altre case, altri comignoli e tetti,
balconi, finestre, ballatoi,
dove la vita dei semplici
scorre
senza chiedersi come
e perché,e fino a quando,
e con quale fine o mistero.
No, non ha questa presunzione
la vita dei miei dirimpettai;
perciò qui sto bene anch’io,
come loro,
nel grande fiume delle cose
che non aspettano niente.

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Roberto Bertoldo:  Pensieri sul Nichilismo, Il Nullismo come nichilismo non assiologico – Donato Di Stasi: La poesia è senza destino? (Aforismi & Insolenze) – Letizia Leone, Due poesie in tema di Nichilismo

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Roberto Bertoldo

 

Il nichilismo non corrisponde al nulla ma all’invariabilità. Non è quindi attestabile.
Il mondo non è una prigione, lo diventa se gli si inventano finestre dietro alle quali si mette il paradiso terrestre. Senza false finestre il mondo non ha limiti.
Il guardare verso e attraverso finestre che non c’erano
ha reso il mondo un locale impolverato di egoismi, colmo di scope fasulle
con proprietà terapeutiche improbabili.
L’uomo deve quindi badare da sé una volta per tutte al proprio mondo.
[…]
Il nullista è un nichilista per il quale solo ciò che è immutabile, ovvero la sostanza della materia, è eterno e che comunque tratta da eterno ciò che sa mutabile, ossia le forme della materia. Il nichilista tout court è privo di questo prometeismo.

(Roberto Bertoldo Nullismo e letteratura, 2011)

 

Pensieri sul Nichilismo

«Il mio nichilismo ontologico è in sintonia con quello di Giacomo Leopardi, ovvero che la materia si annulli o non si annulli mai il suo scopo ultimo è comunque il nulla, essendo per Leopardi l’infinito uguale a nulla. (…) Tuttavia, a questo nichilismo non accodo un nichilismo assiologico, così come non fa Leopardi e chiamo “nullismo” questo nichilismo non assiologico (…)

Il nichilismo, ieri inconsistente, oggi è impraticabile. Il nichilismo è stato un errore ottico della cultura newtoniana, ossia moderna, ed è oggi, in più, un’ingenuità, peggio: un’evasione dall’epistemologia e dai risultati gnoseologici odierni. I nichilisti, oggi, non sono solo in errore, ma rifiutano il compromesso insito nella loro stessa apertura metodologica alla conoscenza, intesa come illuminazione dell’assurdo. I nichilisti di oggi non stanno al passo con i tempi, tempi di scienza indeterministica e di neomaterialismo. (…)

Il nullista è un nichilista per il quale solo ciò che è immutabile, ovvero la sostanza della materia, è eterno e che comunque tratta da eterno ciò che sa mutabile, ossia le forme della materia. Il nichilista tout court è privo di questo prometeismo.» (Roberto Bertoldo, Nullismo e letteratura, Mimesis 2011, pp. 11, 23, 27)

«La metafisica è il nichilismo, sostiene Heidegger. Bene, ma che ce ne facciamo dell’Essere, che egli tenta di salvaguardare, se non per riqualificare l’Ente? Che ci importa di salvaguardare l’Essere se torniamo a mettere in secondo piano l’Ente? Certamente abbiamo dimenticato l’Essere, ma solo perché l’abbiamo portato nell’azione, di cui ci siamo fatti mallevadori. L’Essere, e la morte in esso dell’Ente, ovvero il Niente – l’Essere è giustamente per Heidegger il Ni-ente, il non Ente –, che però dà l’Ente, si dà in Enti, Forme o Essenti; l’Essere, la sua emersione, serve solo come memoria del nostro destino (…). L’Essere è tale come continua entificazione e il suo dinamismo rappresenta solo una compresente tendenza alla nientificazione per rientificare. (…)

Per Heidegger, il Nichilismo è l’oblio dell’Essere; per me è invece l’oblio dell’autenticità dell’Ente, l’oblio della singolarità. Il richiamo all’autenticità nella lotta titanica contro il nulla non ha un intento etico e non è neppure fatto a favore di quel disvelamento dell’Essere di cui parla Heidegger, ma è per mantenere spessore al fenomenico, per rafforzarlo.

Onto Bertoldo

Roberto Bertoldo, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Rafforzare l’Ente, la sua individualità, mediante la riattivazione della singolarità, ossia della sua totalità, è anche il progetto di Heidegger contro la “deiezione”, ma io non mi spingo fino a pormi “la questione della verità dell’Essere”, essa è esclusa dalla mia gnoseologia che ha possibilità ben più ridotte e si accontenta tutt’al più di ipotesi. È questa verità, o meglio la stessa gnoseologia, a essere metafisica – ripeto: niente di male, ma sono i filosofi oggi a criticarla quando basterebbe assumerla con riserva. (…)

Porre i fondamenti nell’io empirico e nella sua relazione/comprensione storico-sociale, come fa Dilthey, è corretto. Ed è pure corretto perché la stessa introspezione si fonda sulla storia, ma non sosterrei che “l’uomo si conosce soltanto nella storia, non mediante l’introspezione [cors. mio]”, in quanto si darebbe l’impressione di svalutare l’apporto della coscienza umana nella civilizzazione.

Il fenomenismo di Dilthey tenta un’ascesi gnoseologica nell’ambito del relativismo; questo suo progetto necessita, a mio avviso, di ampliare l’a priori kantiano – e non di eliminarlo in quanto l’apporto categoriale è inevitabile – facendoci entrare l’inconsistenza, l’ipotetico, la volontà e l’affettività, e di abbandonare l’ambizione epistemologica di Husserl. Il risultato è il fallimento gnoseologico nell’ambito del determinismo, come infatti Dilthey prospettava nella sua “Conclusione sull’impossibilità dell’atteggiamento metafisico del conoscere”. La connessione tra natura e pensiero è un esito inevitabile del determinismo gnoseologico e della sua metafisicità, ma le difficoltà riscontratesi nella meccanica quantistica hanno prodotto un conoscere limitato dalla sua stessa ambizione sperimentale. Questo conoscere indeterministico esula dalla pura ragione e assorbe nei suoi fondamenti i procedimenti sintetici, vale a dire le ipotesi, accettando il fatto che la loro proiezione analitica non è in grado di superare “la relatività dell’ambito di esperienza”. (…)

laboratorio 8 marzo Donato di Stasi

Laboratorio di poesia Libreria L’Altracittà, Roma, 8 marzo 2017, Donato Di Stasi

Donato Di Stasi

La poesia è senza destino? (Aforismi & Insolenze)

 Apertis verbis. Un poeta con un conto in banca difficilmente troverà il tono giusto.

Ibis redibis ecc. Nell’attuale battaglia antiumanistica quale prezzo siamo disposti a pagare?

L’importanza di essere onesti. I poeti scrivono per i critici, al massimo per i loro sodali, mai per il pubblico, salvo poi elevare ipocriti e lamentevoli peana alla mancanza di lettori.

Portrait of a young poet. Non glossatore, ma lettore crudele. Non macchina da lettura, ma feroce custode del gusto. Non professore e catalogatore di idee e opinioni altrui, ma dispensatore di veleno e di fiele.

A communi observantia  recedendum est.  Scrivere versi è ancora un’emancipazione, o è disastrosamente inattuale, se non passatista?  Perché continuare a scrivere versi che non saranno letti da nessuno?

Tragicommedia dei neofiti. Non datevi alla poesia, se non avete l’ardire di sbriciolare il mondo.

Poetam secreto lauda, palam admone. Chi scartabella i testi poetici attuali, non può che riscontrare spreco di cultura, di carta e di pixel. L’economia delle parole è affidata all’estro e non a un rigoroso progetto linguistico-stilistico; la transitorietà rimanda a desueti ricordi umanistico-arcadici e non all’essenza perentoria del nostro vivere; la contraddizione, infine,  risente ancora dell’anacronistico e ottimistico schema hegeliano, come se la ventata gelida del pessimismo deleuziano, in termini di irrisolvibilità dei concetti, non fosse mai passata sulle nostre teste.

Abyssus abyssum invocat. Se potessero dannarsi l’anima e vendere qualche copia, i poeti si farebbero volentieri chiudere nella gabbia dorata della mercificazione, slegandosi da qualsiasi esigenza di progresso spirituale e materiale della società.

Arbore deiecta, quivis ligna colligit. I tre capisaldi della storia letteraria italiana: letargo, controriforma, arcadia. Per una serie di ragioni politiche e culturali (divisione della penisola per tredici secoli, arretratezza linguistica, elitarismo del ceto intellettuale), la letteratura del Bel Paese risulta, fra quelle europee, la più chiusa e la più povera di radici popolari. Ergo un pubblico della poesia non è mai esistito.

Ex plurimis. Il torto e la ragione non stanno in nessun caso da una parte sola. La poesia, no. La trovi solo dalla parte del torto, della mancata gentilezza, dell’antagonismo più furioso, della sincerità più disarmante.

Amantes amentes. Ciò che in poesia non è intenso, è privo di valore, non esiste.

Nihil gignit nihil. Il Nulla staziona dentro di noi. Da questa scoperta abissale ha inizio la poesia.

Cupio dissolvi. Come altre parole di moda adoriamo il nichilismo, nel quale, però, a forza di negazione e distruzione la società si dissolve e con essa il linguaggio.

La sezione aurea. Composizione o decomposizione. Qual è il nostro destino? Che accade quando lo spirito cede sotto i colpi ripetuti e ben assestati del materialismo più seducente, ovvero il ciclo infinito di produzione-riproduzione-consumo?

Osiamo ancora fidarci dei poeti?

Ipotesi a) Leggere Gottfried Benn è come sognare un funerale da un’altra vita a questa. Ipotesi b) Di fronte alle Illuminazioni di Rimbaud un pugnale luccica nelle nostre mani. Il pugnale di Abramo che ha ucciso Isacco. Ipotesi c) Amleto e Macbeth, due inesausti pensatori. Hanno detto nelle loro tragedie quanto ci sarebbe da attendersi da ogni testo poetico.

Exeunt. L’aspetto più lucido e spedito del pensiero poetico: togliere l’etichetta di schiavi e di gregge a una componente sociale.

(Nereidi, sotto la costellazione del cane)

Onto Letizia Leone

Letizia Leone, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Letizia Leone

Due poesie in tema “Nichilismo”

I

Non era terra. Era farina nera
dell’Impero scartata
allorché scavarono la galleria.
Qualche chicco calcareo strozzò la pinza.

Tutte le macchine del cantiere, allora,
si incepparono
nel dolore. Perché anche l’uva
rinvenuta ha un sottosuolo
di crateri e nodi.

Quel vino spento
lubrificò gli attrezzi
nel fianco chiuso dell’enorme sasso.

Polverizzata roccia
terra barbara
e denti d’oro
voltolarono
all’avviamento dei compressori.

II

Sacchi di sale.
Sacchi amari e calce bianca dirompente
Per costruire i solidi che credevamo
Monumenti.

Qualcuno o qualcosa ancora lavora
Alla salatura dei sassi. Ad allineare
I ciottoli bianchi asciutti
il suono raggelato di meteoriti marine.

Ma chi sfracella la pietra
(astrale inerte fisarmonica)
non sa che fu stata una cetra.

Werner Aspenström e Bertolt Brecht

Roberto Bertoldo nasce a Chivasso il 29 aprile 1957 e risiede a Burolo (TO). Laureato in Lettere e filosofia all’Università degli Studi di Torino con una tesi sul petrarchismo negli ermetici fiorentini, svolge l’attività di insegnante. Si è interessato in particolare di filosofia e di letteratura dell’Ottocento e del Novecento. Nel 1996 ha fondato la rivista internazionale di letteratura “Hebenon”, che dirige, con la quale ha affrontato lo studio della poesia straniera moderna e contemporanea. Con questa rivista ha fatto tradurre per la prima volta in Italia molti importanti poeti stranieri. 
Dirige inoltre l’inserto Azione letteraria, la collana di poesia straniera Hebenon della casa editrice Mimesis di Milano, la collana di quaderni critici della Associazione Culturale Hebenon e la collana di linguistica e filosofiaAsSaggi della casa editrice BookTime di Milano.

Bibliografia:

Narrativa edita: Il Lucifero di Wittenberg – Anschluss, Asefi-Terziaria, Milano 1998; Anche gli ebrei sono cattivi, Marsilio, Venezia 2002; Ladyboy, Mimesis, Milano 2009; L’infame. Storia segreta del caso Calas, La vita felice, Milano 2010;

Poesia edita: Il calvario delle gru, Bordighera Press, New York 2000; L’archivio delle bestemmie, Mimesis, Milano 2006; Pergamena dei ribelli, Joker, Novi Ligure 2011;

Saggistica edita in volume: Nullismo e letteratura, Interlinea, Novara 1998; nuova edizione riveduta e ampliata, Mimesis, Milano 2011; Principi di fenomenognomica, Guerini, Milano 2003; Sui fondamenti dell’amore, Guerini, Milano 2006; Anarchismo senza anarchia, Mimesis, Milano 2009; Chimica dell’insurrezione, Mimesis, Milano 2011. Pergamena dei ribelli Joker 2011, Il popolo che sono, Mimesis Hebenon, 2016

Donato di Stasi è nato a Genzano di Lucania, ha viaggiato a lungo in Europa Orientale e in America Latina prima di stabilirsi a Roma dove è Dirigente Scolastico del Liceo Scientifico “Vincenzo Pallotti” dal 1999. Ha studiato Filosofia a Firenze, interessandosi in seguito di letteratura, antropologia e teologia. Giornalista diplomato presso l’Istituto Europeo del Design nel 1986, svolge un’intensa attività di critico letterario, organizzando e presiedendo convegni e conferenze a livello nazionale e internazionale.

Ha pubblicato articoli per il Dipartimento di Filologia dell’Università di Bari, per l’Università del Sacro Cuore di Milano e per l’Università Normale di Pisa. In ambito accademico ha insegnato “Storia della Chiesa” presso la Pontificia Università Lateranense. Attualmente collabora con la cattedra di Didattica Generale presso l’Università della Tuscia di Viterbo. È Consigliere d’Amministrazione della Fondazione Piazzolla, è stato eletto nel Direttivo Nazionale del Sindacato Scrittori. Per la casa editrice Fermenti dirige la collana di scritture sperimentali Minima Verba.

Ha pubblicato «L’oscuro chiarore. Tre percorsi nella poesia di Amelia Rosselli», «II Teatro di Caino. Saggio sulla scrittura barocca di Dario Bellezza» (1996, Fermenti) e la raccolta di poesie «Nel monumento della fine» (1996, Fermenti).

Letizia Leone è nata a Roma. Si è laureata in Lettere all’università  “La Sapienza” con una tesi sulla memorialistica trecentesca e ha successivamente conseguito il perfezionamento in Linguistica con il prof. Raffaele Simone. Agli studi umanistici  ha affiancato lo studio musicale. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF organizzando corsi multidisciplinari di Educazione allo Sviluppo presso l’Università “La Sapienza”. Ha pubblicato: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008);  La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi (2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011. Nel 2015 esce Rose e detriti testo teatrale (Fusibilialibri). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (Perrone 2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da camera (Versi erotici delle maggiori poetesse italiane), Perrone Editore, 2012. Collabora con numerose riviste letterarie e organizza  laboratori di lettura e scrittura poetica. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016)

 

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DODICI POESIE da “Criptomagrittazioni” di Silvana Baroni con una nota di poetica dell’autrice

magritte rené

magritte rené

Silvana Baroni è medico psichiatra e psicoanalista junghiana, vive a Roma. Ha scritto testi teatrali, ha pubblicato racconti e poesie su varie riviste letterarie e in volume e ha partecipato a numerose mostre in cui ha esposto le sue creazioni di grafica e pittura. Come aforista ha pubblicato nel 1992 Tra l’Io e il Sé c’è di mezzo il me, raccolta di aforismi e disegni umoristici per il Ventaglio edizioni, nel 1997 Acquerugiola-acquatinta, raccolta di grafiche ed haiku per l’edizioni dell’Oleandro. Nel 1994 escono le raccolte di poesia Nodi di rete (Il Ventaglio); nel 2001 Ultimamente, e nel 2002, Il tallone d’Achille di una donna (Fermenti); nel 2012 Perdersi per mano (Tracce). Nel 2007 esce la raccolta di aforismi Laccati di cristallina neppure i fossili sono più quelli di una volta, e nel 2001, Il bianco, il nero, il grigio (Joker, 2011).

magritte Decalcomania, 1966Suoi aforismi: «Ogni bugia per metà è vera»; «Si tace anche a vanvera»; «L’eternità è il luogo dove il tempo è innamorato»; «E se invece del Big Bang… fosse stato un Supremo Orgasmo?»; «E se fosse un refuso: non nati per soffrire, ma per offrire?»; «La castità è un peccato di arroganza, per giunta solitario»; «non ha scheletri nell’armadio, siede cadavere in salotto»; «Dio è l’incudine su cui forgiamo inutilmente le nostre domande»;  «Il segreto ha la porta d’ingresso serrata, spalancata quella d’uscita»

Silvana Baroni

Silvana Baroni

*

Non desidero che si qualifichi ciò che dipingo” affermava Magritte contro qualsiasi tentativo di catalogazione, di critica che lo volesse imbrigliare. Pur assimilandosi per certi versi al movimento surrealista, nell’aderire alla rottura totale “con le abitudini mentali degli artisti prigionieri del talento”, non fa che ribadire di essere un pittore realista, di dipingere oggetti dai dettagli apparenti, suggestioni provocate dalla loro collocazione in situazioni insolite. Magritte afferma con vigore la propria individualità, non per culto personale ma quale condizione indispensabile per ospitare la prepotente soggettività del mistero dell’opera.

Scrive:

“Ciò che dipingo non implica nessuna supremazia dell’invisibile sul visibile, questo è sufficientemente ricco per creare il linguaggio poetico, evocatore del mistero dell’invisibile e del visibile…La realtà è ciò che tutti vedono, è il mezzo privilegiato per ribaltare il convenzionale nell’enigma e quindi rivelare il mistero che vi è celato”.

magritte rené

magritte rené

E ancora:

“Quando la volontà non è più schiava delle cose e tutto sembra perduto, diventa possibile realizzare immagini di un universo meraviglioso… Siamo diventati talmente seri che niente viene preso sul serio, eccetto la negazione, e così l’evoluzione non si ferma, inizia. Si rasenta spesso l’idiozia, ma non importa, è bello immaginare fino a dove ciò ci può portare.”. Pur non volendo mai sottoporre la sua opera a qualsivoglia lettura psicoanalitica, scrive: “ciò ch’è nascosto è più importante di ciò ch’è rivelato… all’insolito si accede attraverso la dissimulazione…voglio dipingere la dialettica dello sconcertante, oggettivare il soggettivo attraverso la verosimiglianza”.

Forti le ambivalenze che abitano il grande Artista, ma che poeticamente e con vigore coniuga in un’Arte come non mai. Dal serbatoio della esperienza, conscia ed inconscia, emana una visionarietà spregiudicata, intrigante, una sorta di affabulazione di molteplici riferimenti a esplicitazione del non detto. E’ a questa sotterranea appartenenza che mi collego. Non desidero fare critica né indagine psicoanalitica. Tutt’altro.

Mi affianco al lavoro dell’Artista con un mio gesto, che a sua volta mi svela. Tento di raccontare una ipotesi di dolore non sopito nel rispetto totale per entrambi, perché è del mistero dell’Arte che qui si tratta, in azzardo con la realtà, in afflato pudico col rimosso.

(Silvana Baroni)

 

magritte rené

magritte rené

da Criptomagrittazioni 2013, Onix

 

 

 

 

 

1
Il dominio ha perso padrone
non v’è nume in monumento
solo deserto dislocato
assenzio evaporato
bava di lumaca che scivola
sul litorale d’altre galassie.

La vita s’è arresa in ritrosia d’oceano
la bara è vuota
vuota la memoria della bara-

.
2
Il pendolo si è staccato dal muro
il muro dal castello
il tempo è esploso dalla fissità dello spazio.

La regina e il re hanno perso il regno.
Le pedine divelte dalla scacchiera
affogano tra cavalli naufraghi nella corrente.

Eppure a guardar bene lo si vede
l’ultimo alfiere salire ansimante oltre le torri
raggiungere Messner, chiedergli
su quale cima avesse mai incontrato Dio-

.
3
Voi che avete venduto capretti mai nati
tornate alle vostre biciclette
agli orologi che sbadigliano
ai magneti delle vostre cucine, alla giostra
dei geni nella lampada di Aladino.

Basterà un suggeritore per ognuno
che vi esponga la metratura dovuta
così che lo sponsor vi incastoni
nel breviario della giusta taglia.

Tornate nell’ovatta delle case
non giratevi sulle sponde della sera
vi sarà più semplice rimanere.

L’impegno è filtrare sbadigli
sfoderare musica dai pigiami da camera
stirare le grinze sulle nocche delle dita.

Non uscirà sangue
non schizza mai sangue
dal gregge della statistica-

magritte Un an avant sa mort, il composa «Du vert et du blanc », qui représente une vision apocalyptique

magritte Un an avant sa mort, il composa «Du vert et du blanc », qui représente une vision apocalyptique

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

4
A quest’ora avremmo dovuto essere in viaggio verso sud
ma persi i bagagli torniamo in compagnia di civette notturne.

Chi mette fuori la testa per riconoscerci?
Chi lancia un bentornati al di qua del cancello?

La situazione richiederebbe lo stesso approccio da entrambe
le postazioni, riconoscere a menadito la voce
la silhouette dell’altro avviluppata nel sudario familiare.

Nella casa non c’è caminetto acceso né scorta di legna
manca l’istinto della sete, il miagolio famelico
che spalanca e chiude la giornata.

Dietro i cespugli ecco la chiave, entriamo
come d’abitudine ci sdraiamo nel recinto delle zanzariere
decidiamo i turni dell’insonnia, chi debba
tenere a bada il candore opprimente delle nuvole
chi le trappole per topi.

Soltanto a mezzanotte uno di noi strapperà il cuscino
soffierà con foga sulle piume, e tutte voleranno le orfanelle
si spargeranno in ovatta per la brughiera-

5
La mia sediola sul tuo scranno?
oh mio Dio! davvero
un posto a capotavola tutto per me?
qui sul palco del primo giorno
sotto nuvole che entrano ed escono dal letargo?
io, con occhi a calamita a capovolgerlo l’orizzonte
a strappare il mare al deserto?
davvero io a presentire uragani
sul picco dell’infinita arsura?
io, sul trono primordiale
nella luce intermittente tua verde ramarro
in assenza ancora dei tuoi figli
oh mio Dio!
io Adamo, la cavia
a far prove per altri che verranno
a testare lo spazio del vivere
la resistenza umana al vento delle pale
del tuo sacro ventilatore-

6
La donna ha lasciato il calamaro sul piano di marmo
il suo ultimo gemito infarinato sul tagliere
e sopra di lui il ronzio acuto della vespa che gira e s’annida.

Perso il naso nella pozza dell’amnios ha chiuso il rubinetto
no! non vuole figli ma affreschi al lapislazzulo
dentro il vuoto della sua abside.

Dicevano che per avere la parte sarebbe bastata
l’espressione d’aver infranto la sfera
ma il regista non terminerà le riprese
troppi i cavilli concettuali al fondo della sceneggiatura
e troppo il budget per il modesto produttore-

magritte Un an avant sa mort, il composa «Du vert et du blanc », qui représente une vision apocalyptique

7
Senza collo, si sa, cresce il mal di testa
che peggiora poi se non c’è il materasso
né basterebbe il cigolio della rete
a dondolare i sogni sul marmo dell’insonnia
né le scale a consentire la fuga dall’orrenda ossessione.
Inoltre mancano i tarli
a trapanare il turgore della mela
e la fantasia di un abile peccatore a sfrecciare
contro l’insostenibile speranza, a fare esplodere
la vescica delle gocce ammassate
l’accumulo dei rimandi nel cassetto
di un ipotetico comò.
Nessuno sa come forarla questa massa del tempo
come sottrarsi al liquame di così tanta
invasata permanenza-

8
Bosco da parati o stanza nel bosco?
clausura del sublime
bellezza della bestia a tutela dell’umano
o più semplicemente la donna
in uscita dalla città ideale?
Niente panico né rammarico
la romanza è assorbita dal sughero
la ribellione è impensabile
per quegli arti lignei allungati
per quegli occhi a bossolo lucido chiaro.
Giovanna ha deposto arco e corazza
è una donna che ha sete
vuol bere dalla fonte con le mani
sentire l’acqua scorrerle lungo le guance
vorticarle sul collo in rivoli
fino a bagnarle il pizzo della camicetta.
Non è più santa né guerriera, ma filosofa
che procede in odore di cavallinità.
Sa bene, ora, come nascondere
nel trotto l’altra che galoppa-

9
Non dico quel che penso
d’altronde quel ch’è vero è già nel piatto
che se poi devo proprio dirla la messa
finisce che la dico con forchetta e coltello.
Ciò ch’è mio pretendo di sceglierlo da me
ma se volete ritrarmi, niente colori
solo carne e sangue sulla tavolozza.
Ebbene sì
sono ingordo del ritratto ingordo di me
e se mi dipingete, fatelo fino al midollo
così darò l’osso al vostro cane, anzi
sarò il cane stesso che azzanna il vostro ritratto.
Ho venti dita a tensione progressiva
un’arte a elastico che ho appreso
dai miei traffici in India, da quando
son fuggito dalla mente di mio padre
lui che mi lanciava in aria a far l’acrobata
mentr’io nel panico urlavo, temevo
di non tornargli nelle braccia.
Ormai sono al sicuro
l’ostia di mio padre è il pane che mangio
e non ho impegni con l’amore
non ho da confessare a nessuno
quel che teme un uomo-

Linguaglossa Magritte elective affinities 1933

10
Ti piacerebbe saperlo, bello mio!
Scoprire quel che ho nella testa
cosa guardo, perché guardo, se guardo
cosa bacio, se bacio, se ho baciato
quel che sorseggio, se bevo, quando bevo
se ho sete, se sono l’angelo spaesato
come credevi fosse tua madre
se conservo come lei nella borsetta
il tuo gemello morto.
Non temere, il cadaverino è incartato
in plastica spessa così che il sangue
non goccia né può imbrattare la consueta
passeggiata al sole sul lungomare domenicale.
Non guardare mai nei miei guanti
né sotto il cappello, non puoi annusarmi
dietro questi fiori, invece puoi sentirti libero
nei modi e tempi della persuasione
qualora decidessi di parlarmi così
come si fa con le puttane- Continua a leggere

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Manlio Sgalambro LA MORTE DEL SOLE – Il filosofo antisistematico Commento di Giorgio Linguaglossa con stralci dei suoi aforismi “Definisco idea lo scarto tra noi e le cose”, “Il filosofo arriva post mortem”, “Il filosofo brucia progetti, continuamente, come il poeta”.

manlio sgalambro 1 Manlio Sgalambro 2Man­lio Sga­lam­bro, morto il 7 all’età di 89 anni, è stato un filo­sofo non allineato, poi, negli ultimi vent’anni anche paro­liere di musica leg­gera in col­la­bo­ra­zione con Franco Bat­tiato. Negli anni qua­ranta col­la­bo­ra con case edi­trici sici­liane, nel decen­nio suc­ces­sivo collabora con la rivi­sta Tempo Pre­sente diretta da Nicola Chia­ro­monte e Igna­zio Silone. Negli anni Set­tanta orga­niz­za il suo pen­siero attra­verso una tematizzazione forte fondata sulla singolarità. Sga­lam­bro è un teo­rico della cen­tra­lità del pen­siero non sistematico, periferico, dell’impegno critico ab-solutus  opera di una attenzione costante al contemporaneo che si esplica attraverso una forma gnomico-aforismatica: «per l’uomo è l’unica bus­sola nei mari bur­ra­scosi della contemporaneità».

manlio sgalambro 3Il suo primo libro giunge nel 1982, La morte del sole, lo pub­blica Adel­phi alla quale aveva inviato due anni prima il mano­scritto. Il primo di una serie di opere che usci­ranno negli anni seguenti come: Trat­tato dell’empietà, Antaol, Dia­logo teo­lo­gico. L’ultimo, pub­bli­cato lo scorso anno, è Varia­zioni e capricci morali. Mas­simo Cac­ciari, defi­ni­sce la sua filo­so­fia: «Molto leo­par­diana, una filo­so­fia dolo­rosa ma vera. Il suo sguardo spie­tato nei con­fronti delle nostre mise­rie, delle mise­rie della nostra natura. Era spie­tato ma anche disin­can­tato e quindi pie­toso alla fine». Nel 1993 l’incontro con Franco Bat­tiato.

(Giorgio Linguaglossa)

manlio sgalambro

Aforismi di Manlio Sgalambro

Perché mi ostino a definirmi “filosofo” benché né i filosofi mi vogliono né io voglio loro? Perché in questa disciplina, nella sua venerata regola, entrai fanciullo e mai venne meno la mia fedeltà. Per più di cinquant’anni l’ho studiata non distratto da altro. Ne ho carpito segreti e reticenze, ho visto esaltazioni e declini, eccessi e dimenticanze. Filosofi sull’altare e poi scagliati giù. Ho assistito al loro regno, e al dominio delle loro idee, e l’ho studiato più che quello di duci e condottieri. Ho avuto amori duraturi, ho imitato modelli (ma come si può imitare l’Idea, ahimè). Sono invecchiato lì dentro. Di essa conosco tre o quattro cose meglio dei miei contemporanei. Non ho altro da aggiungere.

Nell’uomo politico si incarna lo stato medio di una società – i vizi, le mediocrità, i difetti – come se egli ne assorbisse i mali alla maniera dei vecchi stregoni che succiano la ferita purulenta succhiandone anche il maleficio. Così i loro vizi, le turpitudini, il malaffare, sanno di qualcosa di diverso. È come se essi imbrigliassero tutto ciò che di turpe vi è in una convivenza e ne liberassero gli altri.

La società dovrebbe salvarci dall’universo che ci ingoia. Ma cosa ci salva dalla società?

Ci si trascina di notte per le vie e si parla tra sé. Il dialogo alligna di giorno e risuona dei suoi traffici ignobili. Di notte si monologa. Come dei re.

Ciò che vi è di altro nel bello è il suo effetto distruttore. La felice tensione di una poesia fa scoppiare, se essa entra in te, il tuo povero cuore. Tu ne sei la vittima che accoglie devota l’acuminato coltello con cui il bello si immola.

manlio sgalambro 5Qui vi è il tentativo di costruire una teologia pubblica – anzi, se ci è concesso di mutuare uno stilema a una grande memoria, una teologia pubblica europea. Se l’epoca della teologia appare conclusa, o se ne trascina appena l’ombra, ciò è avvenuto perché gli stinti intelletti che se ne sono occupati (a parte alcune eccezioni) portano in loro il tarlo che aveva roso la disciplina. Come se questa avesse dovuto seguire le sorti della religione a cui la legava la subalternanza. La stessa caduta della religione, ormai solo oggetto di fede e di speranza – squallidi sostegni del nostro incerto destino –, doveva favorirla e sbarazzare il campo da ogni equivoco. Che Dio esista è solo un fatterello sinistro. Niente di più. (Dato come vanno le cose, bisognava aspettarselo)

La teologia naturale, in quanto “disposizione naturale”, appartiene cioè alla cieca spontaneità, alla bruta natura umana. Ma nello stesso tempo sta a ricordare che qui non v’è che il più infimo essente. La stessa cosa implica la cieca formalità del sillogismo disgiuntivo che, se vogliamo dire le cose come stanno, ci conduce ottusamente a concepire l’oltraggiosa idea di Dio. Con questa empietà comincia e finisce la teologia naturale.

Il meglio non è altro che la realtà così com’è. Questo fu il pessimismo di Hegel.

L’arte del filosofare viene alla luce anche grazie al comportamento mimetico di chi la esercita.

Le discoteche sono piccoli nirvana dove il solenne fragore del rock fa assaporare il piccolo nulla al figlio di Siddharta. Non essere per un poco è tutto quello che si chiede. Piccoli ‘niente’ di cui la vita dell’individuo odierno ha bisogno per rinascere e vivere un’altra settimana.

Nella musica ‘industriale’ è immanente l’irreversibilità del tempo. Essa è musica entropica, musica che si distrugge da sé. La musica leggera è la fattispecie dell’autodissolvimento della musica. E tuttavia è l’unica forma di musica che ha senso per tutti. Sul ciglio dell’abisso, Mahler compone Il canto della terra ma canticchia una canzone napoletana.

 manlio sgalambro 4Socrate muore perché ha violato la legge. È sciocco dire che egli era un galantuomo, dice giustamente Hegel. Se filosofo è colui che mette l’individuo contro il mondo non possiamo non provarne ripugnanza, egli aggiunge.

 Definisco il pensare come l’attenzione per tutto ciò che non è se stessi o l’attenzione per se stessi ma come se non lo si fosse. Per gli equivoci che causa, sono propenso a usare invece di “pensare”, “essere attento” e al posto di “pensiero”, “attenzione”. Uno dei benefici sarebbe quello di lasciare “pensiero” all’uso corrente. L’idea di sforzo connessa vi sarebbe ben spiegata dal concetto di attenzione che è implicito in essa. Definisco, poi, idea lo scarto tra noi e le cose. Allibisco quando sento dire che le idee e le cose sono identiche. È il potere di questo scarto che definisce la capacità di pensare.

 Depreco egualmente il trionfalismo di Kant e in genere di quelle filosofie che, trovando necessario partire dall’io, inneggiano ad esso come se fosse una grande conquista e non invece la miserabile sorte che ci è toccata.

 Il compito della teodicea fu assolto nello stesso momento in cui essa scomparve, non per averlo fallito ma per esserci riuscita in pieno. In ultima analisi essa fece sparire la nozione stessa di male.

 

dall’intervista di Renato Minore a  Manlio Sgalambro “Il Messaggero” del 4 aprile 1982 ripresa da larecherche.it

 

“La competenza del filosofo la vedrei proprio qui. Lui arriva post mortem, come medico legale, come l’anatomista. Spicca il suo volo al crepuscolo, quando cioè tutto è finito, non c’è più niente da fare. C’è da vivisezionare. Non è una scienza protagonista, è una specie di lamentazione, forse”.

Ma oggi tutti parlano di ritorno alla filosofia: lei stesso, con il lancio che le si prepara, è dentro il fenomeno?

“C’è un innegabile protagonismo della filosofia, ora. Lo spirito del mondo gioca i suoi scherzi e chiunque vi è messo dentro. In ogni caso è necessario che la filosofia ritorni a essere quello che deve essere, con un ruolo minore, monologante, di commentatore. Non come forma di comunicazione. Perché il rischio è di tramutarsi in ideologia. Una volta, forse, la filosofia informava: su Dio, sul mondo. Nell’ambito del sistema medioevale Dio è un mezzo di comunicazione di massa perché comunica, aggrega, costituisce fonte di notizie e d’informazione per il conducimento della propria vita. Ma guai al filosofo che si traveste da ideologo. Il filosofo è un piccolo aggeggio che si mette nell’ingranaggio e tenta di disturbarlo: non perché voglia disturbare ma perché questa è la sua funzione. È il parassita molesto della prassi che, in ogni momento, che ogni giorno, ogni notte, si agita e si riposa travestita da milioni di uomini, per riprodurre le cose”.

Tra tanti che tornano a parlare di filosofia, sente di avere dei compagni di viaggio?

Ogni filosofia è sola. Il filosofo brucia progetti, continuamente, come il poeta.

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