
fotogramma film anni Settanta
D’origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa. Nel 1966 ottiene il Secondo Premio per una raccolta di poesie intitolata Ombres (Prix des Poètes de l’Est, organizzato dalla Società dei Poeti e Artisti di Francia con pubblicazione su una antologia ad esso dedicata). In quegli anni alcune sue poesie vengono pubblicate sulla rivista Art et Poésie diretta da Henry Meillant, mentre contemporaneamente disegna, dipinge e realizza collage. La prima mostra e lettura dei suoi testi vengono effettuate al Consiglio d’Europa durante una manifestazione del “Club des Arts” organizzato da lei e alcuni colleghi di quell’organizzazione.
Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate, poi Roma dove vive attualmente. Oltre alla scrittura, negli anni ’80 riprende la sua ricerca artistica, disegno, collage e fotografia (incoraggiata in quell’ultima attività da Mario Giacomelli e André Verdet), con mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Comincia a scrivere direttamente in italiano.
Ha pubblicato: La Sicilia negli occhi, fotografia, Editori Riuniti, 2004, Diario di un addio, poesia, Passigli Ed., 2007, prefazione di Vittorio Sermonti. Tu capiresti, fotografia e poesia, Ed. Il Bisonte, 2007, L’oltre andare, poesia, Manni Ed., 2008, prefazione di Ugo Ronfani. Nella notte un treno, poesia bilingue, Ed. Il Salice, 2009, Nodi sul filo, racconti, Manni Ed. 2011. Lo specchio, romanzo, Felici Ed., 2012. Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013, Lingue e linguacce, poesia, Ginevra Bentivoglio Ed., 2013, A pennello, poesia, Ed. La Vita Felice, 2013, Cellule, poesia bilingue, Passigli Ed., 2014, Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi Ed., 2014, Incontri e scontri, poesia, Fermenti Ed., 2015,Trivella, Genesi, 2015, Come se niente fosse Fermenti, 2016; La parola alle parole Progetto Cultura, 2016. Dieci sue poesie sono state pubblicate nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo Progetto Cultura, Roma, 2016, pp. 352 € 18.
Ha curato: Pagine sparse di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007, prefazioni di Pasquale Chessa, Umberto Giovine e Mario Pirani. La maison des souffrances, Diario di prigionia di Geneviève de Hody, Ed. du Roure, 2011, prefazione di François-Georges Dreyfus.

Commento di Luigi Celi
Cellule, di Edith Dzieduszycka, edito da Passigli, prefato da Stefano Gallo e Franҫois Sauteron, è un testo di poesie e un campo memoriale in cui, nota Sauteron, “non è necessario introdursi con effrazione”. Tuttavia nella sua scarna limpidezza, con versificazione verticale, dura, icastica, a cui non pone rimedio iconico l’enjambement, il testo scolpisce nel marmo delle pagine la drammaticità dell’esperienza, dominato, com’è, a monte, dal ricordo della morte del padre a Mauthausen, da quello della madre imprigionata e, certo, dal lutto per la perdita del marito. L’opera trascende l’esperienza del poeta e ci coinvolge. Ferite non rimarginabili partono dall’infanzia e governano, per freudiana “coazione a ripetere”, l’insistita rivisitazione allegorica del trauma, in uno sguardo sbarrato sulla storia e sul mondo. “L’ora del bivio” (p.63) è l’evento temuto e sempre rievocato della Weltanschauung di Edith – prospettiva e Ground luttuoso di ogni sua esperienza di relazione – crudamente comunicato con “Voglia di raccontarsi e desiderio di nascondere” (p.87). “Ianus” è “il doppio gemello obliquo” che crea maschere e trasparenze” (ivi), e come ogni double è Unheimlich, perturbante.
A partire da questo nucleo esperienziale e proiettivo, mnesicamente luttuoso, ma ambivalente nel suo porsi positivamente all’origine della scrittura, la poesia mostra il suo scenario tragico così che ogni elaborazione, ogni tentativo di convincersi del contrario è nuova trafittura dell’anima che fa sanguinare. Parlare della tragedia, a proposito di Cellule, non è andare fuori tema, ma cogliere il perno di tutta l’opera, la sorgente e la foce della versificazione. Tutto converge ad alimentare l’esperienza traumatica e quest’ultima, a sua volta, sta alla radice inconscia della tragedia. Parleremo dunque del tragico, perché non si può intendere questo libro se non si riflette sul tragico e perché, nella cultura contemporanea se ne è persa consapevolezza storica e filosofica. La poesia tragica e il teatro greco hanno posto alcuni cardini al tragico: uno è Ananke, la Necessità. Ananke non può essere oggetto di preghiera, perché non muta, essa governa uomini e dei. L’altro cardine è l’invidia degli dei per la felicità dei “mortali”; ancor più è castigo ineludibile la morte violenta e il dolore per la tracotanza (ybris) di coloro che “non stanno ai limiti”. La letteratura moderna, tranne in alcune eccezioni altissime – penso tra tutte all’opera di Shakespeare – non ha quasi mai inteso riproporre il tragico, se non nel “corpo cavernoso” del grottesco, gli ha preferito la commedia, e ancor più la parodia.
Oggi assistiamo alla volgarizzazione del tragico nel noir di cassetta, nel cinema horror, o all’insensata tracimazione di violenze esibite dalla televisione e dal cinema. In tutto ciò manca la Coscienza e il Pensiero del tragico. La poesia e i poeti come la Dzieduszycka possono farci recuperare questa coscienza, costringerci a riflettere. Se nel mondo greco il tragico ha fondo metafisico, nell’orizzonte ebraico cristiano, se pensiamo all’inferno, la tragedia è trasferita nell’eternità di Dio. Dove infatti starebbe l’inferno se tutto è in Dio?, “in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo”(Atti degli Apost. 17,28), e se fuori dalla sua volontà ogni esistente cade nel nulla da cui deriva? Tuttavia il Dio creatore, onnipotente e onnisciente, non prova invidia, è un Dio d’amore e di giustizia. Per la Cabbalàh luriana la creazione nasce dal volontario ritrarsi di Dio, il Tzimtzum; Dio, così facendo, fa il vuoto e da quel nulla crea. L’esistenza degli enti è ex nihilo e anche la libertà dell’uomo è possibile grazie al Tzimtzum. Ma è l’abuso della libertà, il tradimento del suo intrinseco tendere al bene, che rende fattibile il peccato e il male; anche questo è tragico, che il bene della libertà possa comportare il suo rovesciamento assoluto… “Per invidia del diavolo, la morte è entrata nel mondo – scrive il libro della “Sapienza” -; Dio ha creato l’uomo per l’immortalità” (Sap. 2,23-24).
La questione del senso della vita – oscillante “tra un punto interrogativo/ e un altro punto interrogativo” (p. 117), scrive Edith – è ricorrente quando ci imbattiamo nel male. Si impongono da sé le domande: perché il male? Il mondo è creato da un Dio buono e onnipotente, o da un “regista/ oscuro/inafferrabile (…)/ dalla sua torva regia”? (p. 21). Qui ritroviamo un’eco Cartesiana: il “dio malvagio”, metodologicamente ipotizzato da Descartes nel “dubbio iperbolico”, che comporta la riflessione metafisica sull’idea di Dio da parte del filosofo e che lo conduce a rovesciare il dubbio nella certezza del Cogito, per cui Dio diviene il garante della Ragione matematizzante. Invece Edith canta il tormento metafisico dell’uomo tout court che “Si stupisce di non sapere/ si arrabbia di non capire/ piange/ si sente abbandonato/ perché Dio/ perché?”(p. 55). Il mondo è prodotto da un’evoluzione casuale, “antico giuoco/ sempre ricominciato/ duro cieco” (p. 37).
Ci chiediamo se il suo andare per tentativi, per orrori ed errori non ci lasci sospesi su un baratro di sofferenza, per dirla con Leopardi e Schopenhauer, e quindi ci obbliga a tendere a “un punto omega”, a un porto di salvezza. Come è stato possibile l’ordine planetario, l’equilibrio dinamico che lo governa e che pur è innegabile, o la fisiologia dei corpi naturali e umani, a cui la stessa patologia ci riporta? Come è possibile l’uomo stesso, la civiltà, la cultura, la bellezza, l’aspirazione al bene, alla giustizia, in un mondo incivile, disumano, brutto, ingiusto? La contraddizione ci insidia, ma non ci impedisce di pensare, di operare, di lottare, di soffrire della nostra impotenza: “nudi/ patetici/ ci depone/ il mare/ su scogli inospitali… nel freddo gridiamo” (p. 23). il “grido” e le incalzanti domande coincidono con altre che riguardano sempre più radicalmente il “chi siamo noi, da dove veniamo, dove andiamo”. La crisi della metafisica, a partire dall’illuminismo, ha “gettato” l’uomo nel Dasein, ne ha fatto “un esser-ci per la morte”. L’esistenza dunque è soglia spalancata sull’abisso, sul nulla. Gli “dei sono fuggiti”, diceva Hölderlin; “Dio è morto”, gli fa eco Nietzsche; l’Essere, che non sia ridotto all’ente, come nella metafisica, secondo Heidegger, è obliterato.
Quest’ultimo filosofo si pone la domanda: “perché i poeti?”, e risponde che il valore della poesia consiste nel rendere possibile la domanda fondamentale sull’Essere, e ancor più nell’evocarlo, in contrasto al Ge-stell, all’imposizione della tecnica, e con ciò essa sola, il “pensiero poetante” riapre i “sentieri interrotti” dalla metafisica occidentale. … A meno che…, potremmo aggiungere noi, con la psicoanalisi – e ciò riguarda da vicino la poesia di Edith – la ferita traumatica, non consenta più il Denken, il pensare autentico, né di scrivere poesia, come sosteneva Adorno, e tanto meno, nel “dopo Auschwitz – con Primo Levi – di “credere in Dio”…, e l’uroboros, il drago, il grande serpente si morde la coda e diviene protagonista. È questa la posizione tragica di Edith Dzieduszycka. Il suo canto e il suo grido, come quelli di Paul Celan, si dibattono nella “tetra tela”, ne “fili vischiosi” del “ragno invisibile” (p. 65), in una elaborazione coercitiva del lutto. Cambia pelle, Edith, come cambia pelle il serpente, ma non cambia la sostanza, il corpo doloroso della cosa. Edith depone “numerose/ le cellule morte della sua scorza”, nel “nascondiglio” segreto, nella “camera oscura”, nel “labirinto” dei propri versi (p. 31), ma l’uroboros, il drago, l’ossessione traumatica che governa l’inconscio e la coscienza, ritorna su se stesso, “nel cerchio imperfetto” la cattura tra le sue spire, la rende tragicamente un tutt’uno con la coscienza lacerata del mondo.
Dalla “breccia” del cerchio si coglie solo “un azzurro vuoto”, fugge”ogni linfa” finché “giace/ solitaria/ una carcassa pallida” (p. 103). La vita è dunque per Edith quel “viaggio” infernale (p. 65 e p. 121-123), quel “percorso” (p. 69 e p. 121) e “traversata” (p. 121) che è un “cercare la chiave/ di porte/ sempre chiuse” (p. 57), in cui “non ci è dato scegliere” o sperare salvezza, “una porta miraggio” (p. 137), per quanto “Si protesero tutti/ verso un sogno/ un’idea di salvezza” (p. 139). Emblematica icona è il treno, nel bellissimo lungo testo poematico che inizia a p. 121, testo metaforico che ha grande forza rappresentativa. Il treno che porta i deportati nei campi di sterminio nazisti è simbolo della vita di ognuno, del “viaggio” senza destinazione e perché. Il linguaggio di Edith, in queste poesie, è quanto mai puntuto e tagliente, come si addice ad una rappresentazione dal vivo della sofferenza mortale dei deportati. Non riesco, perciò, a non rivisitare la domanda dell’Inno a Zeus dell’Agamennone di Eschilo, “soffrire per comprendere”, e a non chiedermi se essa sia riportabile alla ossimoricità del dolore e dell’orrore che abita questa raccolta. Come per Omero nell’Iliade, per Edith, l’”accecamento che rende insensati”, non è più “punizione della colpa”, ma è, come per il filosofo Paul Ricoeur, “la colpa stessa” e “l’origine della colpa”.
Edith Dzieduszycka da Cellule (2014)
Se da qualche parte
lontano
nascosto dalle nubi
qualche regista
oscuro
inafferrabile
contempla la scena ove
mosse dai fili inestricabili
della sua torva regia
effimere
vagano
strane marionette
forse si sta pentendo
del capriccio improvviso
che dando loro alito
ha socchiuso le porte
del recinto nel quale
prigioniere ancor
ancor inoffensive
ma pronte a muoversi
minacciose
frementi
aspettano
della recita l’ora.
.
*
.
Piangenti
fradici
fendenti aria e luce
senza fior
né pugnale
né memoria futura
della mano amica che
d’un taglio pietoso
la nostra barca
libera
nudi
patetici
ci depone
il mare
su scogli inospitali
isole brulicanti ove
a bocca aperta
polmoni dispiegati
nel freddo
gridiamo.
.
*
.
Lavagne immacolate
sulle quali all’istante
terreno vergine
violato subito
calano cifre lettere
s’incollano etichette
s’attaccano piastrine
si tracciano confini
s’infilano divise
volano volantini
a milioni si spargono
per non capirsi
parole
consumate dal tempo
che di nuovo
belanti nudi patetici
al niente ci riconsegna.
*
Ad ognuno
subito
il suo bagaglio
nascondiglio
camera oscura
ripostiglio segreto
labirinto solitario
dove a poco a poco
deporre
numerose
le cellule morte
della sua scorza
incrostazioni
scarti
peccati
rifiuti
altri residui
del suo terrestre corso
che senza quei pozzi fondi
ove poterli buttare
sprofonderebbe
sotto un peso
di grave densità
d’intensa gravità.

Patrick Caulfield was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, ‘I’ve only the
A miei figli
Pesci rosa e lisci
senza lische né scaglie
nel mio grembo guizzati
una notte di luna
pinne minute dita
bussando all’improvviso
alle tese pareti
della conca profonda
alghe del mio giardino
seminate in segreto
tale dono imprevisto
all’ombra del mio seno
viaggiatori diretti
ormai senza ritorno
a varcare il Cap Horn
di mari sconosciuti
al tocco di primavera
a mezzanotte estiva
con forza proiettati
voi foste nella luce
fuori dall’antro chioccia
con grida lacrime
nel sangue d’una madre
e del mare il sale
a voi soli ormai
la sbarra
il timone
la bussola
le stelle
per una scia unica
solitaria avventura
dell’ancora da lama
reciso il cordame.
*
Gli amanti d’una volta
hanno la schiena stanca
dal peso di tanti abbracci
sospesi ai fili
tesi
della memoria
spalla contro spalla
in silenzio
lentamente
camminano
su sentieri segreti
paralleli
qualche volta
raramente
si girano
sorpresi
sfogliano degli album
sfiorano delle foto
non eravamo male
ci piacevamo tanto
sulle ombre tenue
di bersagli trasparenti
hanno occhi rovesciati
gli amanti d’una volta.
.
*
Cera molle sulla quale
non scriveranno più
tiepido tra di loro
s’insinua il silenzio
vaga distesa bigia
ove ondeggia
fragile
un’ombra di tenerezza
filamenti perlati
ancora sulle pelle
luccicano
tracce d’antichi giuochi
s’inarcano le bocche
quando strascicano
torpide gocce
parole anodine
e si scava il solco
ove s’interranno
brandelli
nebbia leggera
sudario di ore colte
ai giardini d’estate.
.
*
Si erige una porta
e stupita
la carne
ricorda oceani
e fiumi dilaganti
quando lontano
tremano
dormienti superficie
sulle quali ostinato
vibra un soprasalto
sopra pianure arse
dal vento abbandonate
si allungano solchi
che nessun soffio
attizza
spiraglio ora socchiuso
avanza un’ombra
fredda
a coprire il rumore
d’un convoglio in partenza
cacciando a tastoni
nel sonno prossimo
sfumature e contorni
in quell’attesa grave
sull’orizzonte spento.

Si stupisce di non sapere
si arrabbia di non capire
piange
si sente abbandonato
perché Dio
perché?
equilibrista
senza bilanciere
cammina
sopra stretti sentieri
per strade sconosciute
tra fondi precipizi
così s’inventa
cordami
parapetti
versetti
litanie
ai quali aggrapparsi
dèi a lui somiglianti
dai molteplici volti
d’amore
di perdono
divinità voraci
di offerte mai sazie
a tratti si rivolta
più spesso si rassegna
impotente e rinuncia
a cercare la chiave
di porte
sempre chiuse.
.
*
.
L’ora del bivio
la sapremo riconoscere
incolore
sornione
quando più numerose
sono le cose
che non c’importano
di quelle seducenti che
un tempo ci turbavano?
l’ora del bivio
la sentiremo suonare
prima impercettibile
leggera un soffio appena
espirato al quadrante
dell’orologio infallibile
tocco ben presto stridulo
imperioso richiamo
alle nostre carcasse
tremolanti e grigie?
.
*
.
Nell’intrico tracciato
fra gli squarci
sugli infimi raggi
vibranti di rugiada
si ferma
il nostro viaggio
insensibili ciechi
insetti derisori
dai sussulti mortali quando
rinserra la mossa minima
lungo fili vischiosi
la rete che ci avvolge
paziente immobile
nascosto in un angolo
il ragno
invisibile
di quel lauto festino
assapora l’attesa
presto potrà saggiare
la preda tant’agognata
pronta a soccombere
nella trappola tesa
dalla sua tetra tela.

Sulla riva dei tuoi sogni
approda una galera
vele estenuate
dopo lontani viaggi
d’una linea imprecisa
tra orizzonti e sensi
leggera
scivola
e scava una faglia
se poca la difesa
sprofonda tra le ossa
lungo canali oscuri
perigliosi e profondi
che percepisci appena
nella penombra blu
della sua scia tomba.

Archi sospesi
d’un ponte imprevedibile
frecce sparpagliate
dall’ignoto percorso
impreviste banali
temute forse sperate
alcune scadenza
sulla schiena dei giorni
a cavallina giocano
pulci insopportabili che
che sulla pelle lasciano
il rigonfio osceno
di un avido morso
e fedeli punteggiano
la strana partizione
da ampia sinfonia
a mesto ritornello.
.
*
.
Voglia di raccontarsi
desiderio di nascondere
dilemma senza risposta
alle intime mosse
della nostra essenza
Janus
figura d’ombra
come l’altra di luce
doppio gemello obliquo
sparso quanto segreto
maschere trasparenze
per celare ferite
che alla luce
libere
si tenta di guarire
duri blocchi di lacrime
che diamanti aguzzi
si tenta di tagliare
e regalare a chi
li saprà cogliere.
Alterna oscillazione
fuga
sottomissione
resa o
rifiuto
a meta strada pendolo
d’un incerto orologio
sul quadrante del quale
si contano febbrili
alcune ore nude
mentre senza più voce
straziate tacciono
le loro sorelle
sull’altra riva
andate.
*

Edith Dzieduszycka Cinque-cinq, edizione bilingue, Genesi, 2014
Nel cerchio imperfetto
s’è aperta una breccia
e gli occhi interiori hanno mosso
lo sguardo verso un azzurro
vuoto
vibrante di silenzio
da quella faglia
lenta
a poco a poco
sono fuggite
la scorza
e poi la linfa
fuggite nella penombra
ove giace
solitaria
una carcassa pallida.
.
*
.
Futuro
presente
soprattutto
passato
degli antenoi nati
eterna trinità
dovrebbe pure
la mia anima
– ma si è rifiutata –
di qualche briciola
il ricordo
serbare
perché
senza memoria
né coscienza di sé
un giorno non un altro
scattò la mia scintilla
da uno strano niente
anime senza vita
prima di noi andate
avete forse scoperto
in quale dove sta
il raccordo celato
il passaggio segreto?

Si dibatte
l’io mio
si gira
e rigira
nel cavo più profondo
dell’introvabile letto
che lo stringe e trattiene
qual fodero la spada
vorrebbe volar via
verso verdi contrade
senz’odio
né memoria
ove leggero stendersi
e librarsi sereno
al di là delle ruote
dei roghi delle forche.
.
*
.
Del più o meno breve intervallo
tra un punto interrogativo
e un altro punto interrogativo
qual è il più bizzarro
l’intervallo
nostra strana presenza?
la nostra lunga assenza
passata e
futura?
ad intervalli me lo chiedo
ma fino alla fine del giorno
ostinato rimane
il punto interrogativo.
.
*
Viaggio
percorso
traversata
la vita
nel tempo epoca
nello spazio luogo
non ci è dato scegliere
neonati incoscienti
saliamo o piuttosto
veniamo accatastati
sul treno che ad un punto
arbitrario o no
arriva
ci si ferma davanti
in quel momento
nella stazione
di quella contrada
entriamo nello scompartimento
e scopriamo compagni
di viaggio che come noi
si trovano lì
in quel momento
su quel treno
fermato in quella stazione
non li possiamo scegliere
come neanche loro
ci dobbiamo conformare a
lingue credi usanze
che ci hanno lasciato
i tanti saliti prima
e già scesi ieri
o tempo fa
lingue credi usanze
che diventano nostri
ci sembrano ovvi
gli unici possibili
ci stupiamo perfino se altri
saliti in stazioni più lontane
precedenti o successive
non li condividono
se si conformano e adottano
lingue credi usanze
che ci sembrano strani
spesso vogliamo imporre i nostri
spesso pretendono
altri d’imporci i loro
il viaggio allora diventa terribile
succedono scontri
il treno costeggia precipizi
penetra dentro buie gallerie
dalla lunghezza imprevedibile
a volte si ferma nella neve
lanciando sbuffi di fumo
che appestano il cielo
numerosi quelli buttati giù
lungo le scarpate
che non si rialzano
altri tentano di riparare
ingranaggi e scambi
il treno allora riparte
verso altre stazioni
sempre ignote
nessuno sa gli orari
non ci sono cartelli
né destinazione
né tempi di percorrenza
possiamo soltanto dal finestrino
guardare il paesaggio
che davanti agli occhi si srotola
sempre uguale eppur diverso
desolato o splendido
possiamo anche chiudere gli occhi
per non vedere più
ma il paesaggio sfila lo stesso
e il treno ci porta
insieme nella notte
verso quello che
senza pensarci
senza capirlo
flusso inarrestabile
siamo soliti chiamare
caso o destino.

luigi celi
Luigi Celi è nato in Sicilia, in provincia di Messina, ha insegnato per trent’anni nelle scuole superiori di Roma. Esordisce con un romanzo in prosa poetica L’Uno e il suo doppio, e un breve saggio filosofico/letterario, La Poetica Notte, per le edizioni Bulzoni (Roma, 1997). Pubblica diversi libri di poesia: Il Centro della Rosa, (Scettro del Re, 2000); I versi dell’Azzurro Scavato (2003); Il Doppio Sguardo (2007); Haiku a Passi di Danza (Universitalia, 2007); Poetic Dialogue with T. S. Eliot’s Four Quartets, con traduzione inglese di Anamaria Crowe Serrano (Gradiva Publications, Stony Brook, New York, 2012). Quest’ultimo testo, già tradotto in francese da Philippe Demeron, è in pubblicazione a Parigi. Sue poesie edite e inedite e suoi testi di critica si trovano su Poiesis, Polimnia, Studium, Gradiva, Hebenon, Capoverso, I Fiori del Male, Pagine di Zone, Regione oggi, Le reti di Dedalus ( rivista on line).
È del 2014 un saggio filosofico-letterario su Kikuo Takano per l’Istituto Bibliografico Italiano di Musicologia. Dieci sue poesie sono presenti nella antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa Progetto Cultura, 2016
Presente in numerose antologie, tra gli studi critici a lui dedicati ricordiamo: Cesare Milanese su Il Centro della Rosa, nel 2000; Sandro Montalto, su Hebenon, nel 2000; Giorgio Linguaglossa, su Appunti Critici, La poesia italiana del Tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (2002; La nuova poesia modernista italiana (Edilet, 2010); Dante Maffia in Poeti italiani verso il nuovo millennio, (Scettro del Re, 2002); Donato Di Stasi su Il Doppio Sguardo (2007). Hanno scritto di lui tra gli altri: Domenico Alvino, Lea Canducci, Antonio Coppola, Philippe Démeron, Luigi Fontanella, Piera Mattei, Roberto Pagan, Gino Rago, Arnaldo Zambardi. Con Giulia Perroni ha creato il Circolo Culturale Aleph, in Trastevere, dove svolge attività di organizzatore e di relatore dal 2000 in incontri letterari, dibattiti, conferenze, mostre di pittura, esposizioni fotografiche, attività teatrali. Ha organizzato incontri culturali al Campidoglio, un Convegno su Moravia, e alla Biblioteca Vallicelliana di Roma.