
Fayyum-Portrait- 120-140 d.C.
Luigi Manzi Fuorivia Ensemble, Roma, 2013 pp. 90 € 15
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Riprendo, con piccole integrazioni, un articolo già pubblicato in altro blog.
In una discussione svoltasi sul blog moltinpoesia.wordpress.com Laura Canciani mi ha rivolto la solita domanda: «“Che cos’è la poesia?”»; ed io ho risposto: «Una nuova immagine del reale che si aggiunge al reale che già sapevamo, una costruzione di immagini in parole che non avevamo previsto e che non sapevamo». Nel prosieguo della riflessione collettiva, Ennio Abate si chiede che cos’è che fa della «immagine» in poesia una «bella» immagine?. Domanda legittima, che presupporrebbe una estetica e una critica dell’economia estetica, oltre che una critica dell’economia politica, per il semplice fatto che il «bello» non può essere disconnesso, nella mia visione, dalla critica del «bello». Non voglio però sottrarmi alla responsabilità di dare una risposta.
Se leggiamo una poesia di Luigi Manzi tratta dal suo ultimo libro: Fuorivia, ci accorgiamo di quanto la sua poesia sia lontana dai concetti correnti di ciò che si intende per «poesia» ( immediatezza, soggettività, reale, poetico, etc), di quanto sia estranea alla amministrazione da elettrodomestico qual è diventato oggi lo «stile» cosmopolitico della koiné maggioritaria che mescola il privato alla cronaca, la cronaca nera alla cronaca rosa, magari con un quantum di eventi privati, con il colluttorio della chat da telemarket, etc. – Il «soggetto» è scomparso, sostituito dal surrogato alla moda: il «privato». C’è nella poesia di Manzi una trasfigurazione dello Spirito del tempo in qualcosa che sta di al di là del «soggetto», qualcosa di irriconoscibile, quasi che a bordo della macchina del tempo gli abitanti del pianeta terra fossero stati precipitati in pieno Medio Evo:
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Torno dove un tempo ero già stato. Da qui ti chiamo
senza voltarmi; vado incontro all’orizzonte
carico di nubi vorticose.
M’allontano fra le siepi del sambuco tormentato
dalla merla, carico di bacche sanguinose. Il passo
ci divide. Procedo cauto
fra le bisce che succiano i coralli lungo gli argini
e il ramarro disteso nel turchino
a occhi socchiusi.
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Però tu in città salutami gli amici; raccontami
il livore di chi, lungo le strade,
cerca un rifugio disperato
alla piena che travalica i ponti, tracima
dalle caditoie. Dimmi di chi è rimasto
fra i meandri rugginosi;
o si muove guardingo sotto gli ovuli grigi delle cupole;
o nel bianco nitore dei fulmini,
che appaiono e dissolvono,
si contrae esterrefatto
dentro un fotogramma.

Raffaelle Monti, medidados del siglo XIX. Devonshire Collection
L’ultima parola è quella che dà la chiave del componimento: «fotogramma», ovvero, «immagine», riproduzione fotologica del “reale”. Dunque, la poesia è un discorso su un «fotogramma». Guardando dentro il «fotogramma» noi possiamo spiare quello che accade lì dentro e lì dietro: c’è un personaggio, l’io che cammina senza voltarsi indietro (ecco l’eterno mito di Orfeo che cammina ma non deve voltarsi altrimenti perderebbe per sempre Euridice!). Tutto il componimento è fatto da un susseguirsi di «immagini» collegate, immagini indirette che alludono a una natura sconvolta fin nelle fondamenta.
Ora proverò a scomporre la poesia in 4 momenti o brani o fotogrammi in movimento (come se fosse in azione una macchina da presa in lento movimento: 4 lunghe inquadrature) e a ricomporla secondo un diverso ordine di fotogrammi. Manzi è un poeta «musicale», le sue strofe sono orientate verso movimenti musicali: inizia di solito con un «andante», poi prosegue con un «largo», sovente seguito da uno «stretto» e, a volte, da un «allegro». Le sue strofe fotogrammatiche sono quindi movimenti musicali che possono essere smontate e rimontate secondo una diversa successione:
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1) M’allontano fra le siepi del sambuco tormentato
dalla merla, carico di bacche sanguinose. Il passo
ci divide. Procedo cauto
fra le bisce che succiano i coralli lungo gli argini
e il ramarro disteso nel turchino
a occhi socchiusi.
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2) Torno dove un tempo ero già stato. Da qui ti chiamo
senza voltarmi; vado incontro all’orizzonte
carico di nubi vorticose.
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3) Dimmi di chi è rimasto
fra i meandri rugginosi;
o si muove guardingo sotto gli ovuli grigi delle cupole;
o nel bianco nitore dei fulmini,
che appaiono e dissolvono,
si contrae esterrefatto
dentro un fotogramma.
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4) Però tu in città salutami gli amici; raccontami
il livore di chi, lungo le strade,
cerca un rifugio disperato
alla piena che travalica i ponti, tracima
dalle caditoie
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Fayum ANTINOOPOLIS is the site of some of the most spectacular portrait art ever found in Egypt.
La «natura» è passato mentre il presente è quello dove si muove il «soggetto», il personaggio che guida la poesia verso la sua conclusione. Il protagonista può essere Orfeo nelle vesti redivive dell’uomo contemporaneo che si muove in una città immaginaria abitata da un diverso spazio-tempo: l’Evo della Grande Recessione. Ebbene, il poeta romano si muove nell’orbita concettuale e imaginale della Grande Recessione spirituale; è come se nei quaranta anni precedenti di attività poetica si fosse addestrato per scrivere questo libro testamento rivolto ai contemporanei. E certo è che se leggiamo questo libro con gli occhiali del minimalismo saremmo costretti ad archiviarlo come un’operazione bizzarra e fuorivia, se lo leggessimo con quelli dell’esistenzialismo posticcio del «corpo» di moda oggi, non capiremmo niente di questo libro, lo riporremmo nel cassetto dei numismatici. Allora, occorrono altre coordinate concettuali e di pensiero poetico: saper entrare in questa poesia con la circospezione con la quale si entra in un negozio di cristalli di Murano, in punta di piedi, facendo attenzione alle «chiavi» che il poeta dissemina nel libro qua e là, come segnali indicatori del faticoso cammino che il lettore deve intraprendere.
Noi non possiamo (e forse non ne abbiamo neanche il diritto) di chiedere al poeta maggiori lumi su quello che succede in città, «lungo le strade» di chi «cerca un rifugio disperato», più di questo il poeta non può dire, non ne ha il diritto, forse, o, molto più probabilmente, non reggerebbe la nominazione, pena la caduta nel retorico e nel banale. Qui si arresta il poeta, il quale chiede all’oscuro interlocutore: «Dimmi chi è rimasto» fra i vivi. Adesso è chiaro, è un dialogo che si svolge nell’oltretomba, sia il poeta che il suo interlocutore sono già morti. Siamo noi lettori che siamo morti insieme a loro. Ciò che resta di tutto il componimento, dei vivi e dei morti, è nient’altro che un «fotogramma». È tutto lì dentro.
In un altro componimento intitolato «L’ospite» c’è scritto:
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Ti mozzeranno la lingua con un colpo,
la daranno in pasto alle larve senza lingua
per mutarla in altra lingua. Solo i dispersi
ti presteranno ascolto.
O coloro che in silenzio
procedono sul bordo.
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Fayum ritratto di uomo
È chiaro che qui il poeta è consapevole di parlare in un’altra «lingua», che la «lingua» che lui parla la «mozzeranno» «con un colpo»: che non è ammessa, non è consentita; è una lingua straniera parlata da «coloro che in silenzio procedono sul bordo». Ma «bordo» di che cosa? Perché proprio il «bordo»? E in quale direzione procedere? Ma sul «bordo» ci sono solo due direzioni: avanti e indietro, il futuro e il passato, mentre la poesia di Manzi è tutta inchiodata nel presente, in un presente astorico che vive sul «bordo» sottilissimo di ciò che appare. Ma ciò che appare è inconoscibile e irriconoscibile:
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Al mercato il giocoliere
pettina una scimmia lurida fra rossi pagliacci.
Di lato, la baldracca mostra la pancia al lenone
che titilla la catena d’oro
sul riquadro del petto. Un giovane indù
versa albicocche nel cesto,
poi lo solleva e se ne va.
Un rospo attraversa la piazza;
una rondine cuce e scuce
il cielo a zig-zag.
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C’è odore d’acetilene nella cisterna;
gli operai con la testa che penzola
fanno luce sul fondo. Se si osserva bene,
il bimbetto che si sorregge allo sporto
ingoia il filo e riemette
un gomitolo.
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C’è un «giocoliere (che) pettina una scimmia lurida fra rossi pagliacci», una «baldracca che mostra la pancia al lenone», etc. Sembra di guardare un quadro di Chagall dove al posto del violinista che vola per aria c’è un «giovane indù (che) versa albicocche nel cesto». La visionarietà di Manzi oscilla tra Chagall e Bosch, tra la deformazione cannibalica di volti e l’illibata freschezza della natura. Tra natura e cultura si è ormai scavato un solco non più redimibile, per Manzi siamo entrati nell’Evo della Recessione, dove la parola manca e la cosa si sottrae; e allora si tratta di andarla a snidare la parola con gli strumenti di un tempo: con la vanga e il piccone. Occorre ritornare infanti, perché solo così «il bimbetto… ingoia il filo e riemette un gomitolo»; e il gomitolo ci porterà fuori del Labirinto. Non è ancora venuto il momento del ritorno alla infanzia beata, l’uomo deve ancora percorrere la strada sterrata in salita. Il Moderno è un miraggio che si è dissolto come neve al sole.
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Le gru osservano la città dall’alto;
sanguinano nel vespro,
come rosolio in un cucchiaio.
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C’è sempre, nell’aria di «crepuscolo», una vista dall’alto (ma senza prospettiva) e una vista di fronte; c’è il panorama e il minuscolo dettaglio in rilievo, c’è l’arco temporale e l’attimo, c’è il truculento di visioni sanguigne e sanguinose e il candido di immagini attiche, delfiche; una terra chiamata «esarcato» disseminata di «colchici», «giusquiamo», «lemuri», «palissandri», «starne», il «falcocervo», il «fliocorno», «il fischio matematico del merlo», «fiori carnivori»: animali fantastici e uccelli dell’Evo Mediatico si scambiano segnali come i poeti si scambiano segnali su Marte. Ma il gomitolo è piuttosto il batacchio di un «giocoliere» che fa volare le cose su un fondale di cartolina o di cartapesta. E il tutto «ritorna nello specchio» dal quale, forse, un tempo lontano è venuto. È come se fossimo nel bel mezzo di una regressione totale dall’Aufklärung e ci ritrovassimo in una fiaba de-poetizzata che ci narra di quel che un tempo fu: «brividi di perle, barbagli di diamanti».
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Fayyum, ritratto maschile Mummy 120-140 d.C.
Filamenti
Quarto di luna, occhio di pernice, coda di pavone.
Il baio s’impenna – salta
nella tenebra del bosco. Il cavaliere curvo
lo sferza ai fianchi, lo sprona al galoppo:
sul suo viso notturno
brividi di perle, barbagli di diamanti.
Ha le vene gonfie di bile verde, e furente
ogni mucosa del corpo.
Lei porta tra i capelli un nido d’usignolo,
ondula il seno fra filamenti d’astri
e scie di sete.
Il cavaliere, ebbro di sangue, prima di dissolversi
solleva il capo grondante di meteore;
si comprime il petto.
Ritorna nello specchio.
*
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Hybris
Questa è terra d’esarcato,
dominio altero dell’occidente.
Il residuo dei monili rende più fulgido il petto dell’eunuco,
illumina i lembi estremi del volto.
(I colombi ascendono al culmine,
depositano il messaggio)
La lussuria raffigurata nell’encausto
giace reclina sul fianco: col viso che riposa sul palmo,
fissa l’eternità. Il panno immenso
che le avvolge il petto è intriso di vortici,
di azzurre galassie.
Negli interstizi supremi degli astri
lei poggia le braccia sul vuoto cosmico;
le pudende erompono
dai suoi fianchi celesti.
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Memoria
Svelto, più svelto d’un lampo,
nella pianura un destriero scavalca recinti e torrenti.
La donna si volta e l’osserva. Le torna in mente
quando un tempo fu giovane e altera:
ebbe pudore del petto, dell’anca; lasciava nascosta la pelle
come una ghirlanda preziosa.
Il bianco si vela d’opaco.
L’uomo col chiuso mantello cavalca furioso;
oltrepassa la selva, salta nel chiostro. Fu lui un giorno
che la sospinse nel portico
e nel buio le sciolse il nero corsetto.
Il presagio è un tumulto. La memoria
spariglia le carte.
L’uomo notturno cavalca sul cupo destriero;
la donna
è scomparsa.
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L’araldo
Bussa l’araldo. Il messaggio è stato consegnato.
Nel turbine il corsiero si dilegua.
Gli uomini al villaggio leggono nell’apocalissi:
dunque, nella fuga troveranno riparo.
Risalgono i crinali, s’affacciano sui botri.
Li flagella il vento inesorabile.
In cima ci sarà soltanto il buio. In cerchio –
di fronte ai fuochi – patteggeranno con le belve;
gli consegneranno in pasto
alcuni di loro.
Il resto – seppure lo invocano –
è racchiuso
nel rimbalzo dei dadi sul muro,
nel suono metallico
del tempo futuro.

Fayum portrait compared with Picasso’s self-portrait
caro Lucio Mayoor Tosi,
io sono da sempre un ammiratore della poesia di Luigi Manzi… ho faticato non poco agli inizi, circa venti anni fa, quando iniziai a leggere la sua poesia, a recepirla in un mio quadro mentale storico-critico. In seguito, con gli anni, e le ripetute letture della sua poesia anch’io mi sono convinto della assoluta riconoscibilità della sua poesia. Mi piacerebbe fare un gioco: che qualcuno metta in un bussolotto dei cartigli recanti alcune poesie di autori vari, dai più grandi ai meno, e tra di essi inserire una poesia di Manzi; ecco, io credo che non avrei difficoltà a riconoscere la poesia di Manzi per l’unicità del suo lessico, del suo stile, per il combinato disposto di paratassi e immagini immobili, direi per la dialettica di immagini immobili di cui è ricca la sua poesia. Questa immobilità, sottolineata da un lessico desueto e raro (da non confondere con il prezioso!), è accentuata dalla folgorazione dei gesti (degli umani e delle bestie)… i gesti sono come sospesi in attesa di qualcosa che non avviene… non c’è prospettiva escatologica né salvifica in quei gesti, non c’è, oserei dire, neanche una specificità semantica: intendo che non vogliono dire nulla, neanche il significato del proprio esserci semantico: tra semantica e mantica si è così aperto un divorzio assoluto (e non solo nella poesia di Manzi). Un certo chagallismo unito ad una religiosità tutta laica per la gestualità della civiltà contadina, contribuiscono a conferire a questa poesia un’aura di inattualità e di anacronismo. Tutto ciò dà alla poesia di Manzi quel caratteristico colore di immagini pittoriche dove non c’è nulla di pittoresco o di arcadico: le immagini si materializzano appunto già de-materializzate, e in virtù di questa de-materializzazione escono davanti agli occhi del lettore con tutta la loro carica di enigmaticità. E certo questo è un libro di elevata caratura e di intensità straordinaria. Manzi è uno di quei poeti che se potessi decidere io lo chiamerei subito nella collana bianca di Einaudi.
Giorgio Linguaglossa
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Luigi Manzi è nato nel 1945. Vive a Roma. Ha esordito in Nuovi Argomenti nel 1969. Ha pubblicato le raccolte di poesia La luna suburbana (1986), Amaro essenziale (1987), Malusanza (1989), Aloe (1993), Capo d’inverno (1997), Mele rosse (2004), Fuorivia (2013), con note introduttive di Dario Bellezza, Dante Maffia, Giò Ferri, Giacinto Spagnoletti, Cesare Vivaldi, Gian Piero Bona, Gezim Hajdari. E’ stato tradotto in varie lingue. E’ stato antologizzato in Rosa corrosa (2003) traduzione macedone di Maria Grazia Cvetkovska (pref. A. Giurcinova), Il muschio e la pietra (2004) traduzione albanese di Gezim Hajdari (pref. P. Matvejevich). Ha vinto vari premi letterari fra i quali il Premio Internazionale Eugenio Montale per l’edito, il premio Alfonso Gatto, il premio Franco Matacotta, il premio Guido Gozzano. Per l’haiku ha vinto il Chairman’s Prize Of the Organizing Committee nel The World Haiku Contest in occasione del Trecentesimo Anniversario di Okuno Hosomici e, appena recentemente, il Gran Prix Tsunenaga Hasekura riservato alle lingue europee e giapponese, in occasione del Quattrocentesimo Anniversario del viaggio per mare del samurai Tsunenaga Hasekura. Ha partecipato a festival internazionali e italiani, fra i quali il Festival Serate Poetiche di Struga 2001, in Macedonia, e il Festivaletteratura di Mantova. E’ presente in varie antologie, fra le quali Il pensiero dominante. Poesia italiana 1970 – 2000, Garzanti 2001
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Fu grazie a te che conobbi le poesie di Luigi Manzi, non molto tempo fa sul blog di Ennio Abate. E la poesia che hai scelto per l’esperimento è proprio quella che mi conquistò – non da quasi poeta ma da lettore – fin dal primo verso:
“Torno dove un tempo ero già stato. Da qui ti chiamo
senza voltarmi; vado incontro all’orizzonte
carico di nubi vorticose”
e poi
“Però tu in città salutami gli amici; raccontami
il livore di chi, lungo le strade,
cerca un rifugio disperato
alla piena che travalica i ponti, tracima
dalle caditoie” …
La mia fu una scelta emotiva, prima che estetica. Approfondendo, non mi ci volle molto per capire che non avrei mai potuto seguirlo, nel Fuorivia, col fuoristrada che mi sono costruito con evidente povertà lessicale (anche se va). Non mi resta quindi che fare mie le parole di De Robertis, quando avverte dell’importanza dell’emozione; quasi ci fosse, nella pratica del frammento, nel continuo scantonare, il pericolo di un disagio tutto mentale: quello di mancare a qualsiasi scopo. Ma è ancor tutto da dimostrare. Le tue argomentazioni scientifiche, ancorché entusiasmanti, avvalorano la necessità di visioni più ampie rispetto a quelle a cui ci siamo purtroppo abituati. Tuttavia è un richiamo che porta aspettative che pesano sul nulla che abbiamo di fronte quando iniziamo a scrivere. Lo dico provocatoriamente: prefiguriamo la riuscita basandoci sul restyling? Per adesso, sì. Ah, però, come resistere al fascino dal cantiere?
del cantiere
Di Luigi Manzi ho letto l’opera Malusanza. Oggi qui viene presentato un grande poeta!
Caro Linguaglossa, a proposito di montaggio e rimontaggio copio quanto ho aggiunto stamani sul post precedente.
20 aprile 2016 alle 10:29
A proposito di smontare e rimontare i versi è ovvio che ciò è possibile solo se la composizione è nata da frammenti.
Ad ogni modo non è che quando si vogliono ricomporre l’operazione viene fatta a caso. Pensiamo ad un’ anfora andata in frantumi:
http://isoladeipoeti.blogspot.it/
e a quanta abilita occorra per la corretta disposizione e incollatura dei frammenti, anche quelli che a prima vista appaiono insignificanti. L’esito del “restauro” dipende da questa delicata fase. Su un oggetto reale, costituito da una graziosissima ballerina di biscuit, io non ci sono riuscito.
http://nazariopardini.blogspot.it/2016/04/ubaldo-de-robertis-biscuit.html
In generale ha ragione Panetta quando afferma che la poesia è atto unico. (Ubaldo de Robertis)
Ed ora mi permetto di segnalarti quello che ritengo un errore sullo smontaggio della poesia del Manzi.
“Però tu in città salutami gli amici” non deve essere riportato al frammento 4.
Il riferimento alla città deve essere fatto prima (come lo ha ben disposto l’autore) perché esso vale per: raccontami il livore ecc. e…Dimmi di chi è rimasto
Secondo me la seconda parte non può essere smontata. L’ultimo verso suggestivo deve essere quello del fotogramma. Il tutto verrebbe:
1) M’allontano fra le siepi del sambuco tormentato
dalla merla, carico di bacche sanguinose. Il passo
ci divide. Procedo cauto
fra le bisce che succiano i coralli lungo gli argini
e il ramarro disteso nel turchino
a occhi socchiusi.
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2) Torno dove un tempo ero già stato. Da qui ti chiamo
senza voltarmi; vado incontro all’orizzonte
carico di nubi vorticose.
Però tu in città salutami gli amici; raccontami
il livore di chi, lungo le strade,
cerca un rifugio disperato
alla piena che travalica i ponti, tracima
dalle caditoie. Dimmi di chi è rimasto
fra i meandri rugginosi;
o si muove guardingo sotto gli ovuli grigi delle cupole;
o nel bianco nitore dei fulmini,
che appaiono e dissolvono,
si contrae esterrefatto
dentro un fotogramma.
Ubaldo de Robertis
Incontro sempre con gioia la poesia di Manzi,così viva, così intrisa di bellezza e di pensiero.E di fede,anche:la fede laica della parola.Non importa se Manzi entrerà o non entrerà nelle scelte di Einaudi,vincerà o non vincerà i grandi Premi; gli basta essere un grande poeta; saranno i lettori (anche i meno specializzati) a riconoscerlo.
Brava, Anna!
Ubaldo
Quando incontro un poeta, com’è nello specifico Luigi Manzi, cerco di “spogliarmi” prima di leggerlo di qualsiasi infrastruttura di pensiero, aperto anzitutto alle sensazioni e agli echi che, la sua visione di un’altra realtà, diversa dal quotidiano e dalla mia, può darmi. E non importa, come dice Anna Ventura se qualcuno per ragioni di mera opportunità lo decorerà con gli alamari. Ho letto un poeta eccellente oggi, grazie a questo blog.
Caro Ubaldo, la tua approvazione mi gratifica; ho sempre il timore di non essere chiara, di non farmi capire bene; ma mi conforta constatare come, davanti a un grande poeta, quale Manzi, è, non ci siano nè se,nè ma.Ci piace, e basta.
I giudizi di Lucio Mayoor Tosi, di Ubaldo de Robertis, di Anna Ventura, di Flavio Almerighi sulla poesia di Luigi Manzi oggi proposta sono totalmente condivisibili: siamo di fronte a un poeta importante per il quale, volendo ri-scomodare Carlo Diano, la “Poesia è un destino”. E non ha bisogno di inseguire la gloria.
Che essa giunga o non giunga, Luigi Manzi rimane un poeta la cui cifra riconoscibile (indicata chiaramente in suo saggio dal Linguaglossa) risiede nella “castità della sua lingua come risultato della scelta di sostare in una posizione di astoricità. Fuori dalla Storia. Fuori dal Moderno.”
Ma la pagina del blog oggi proposta alle nostre meditazioni non s’incardina sul valore poetico di Luigi Manzi bensì sulla composizione e ricomposizione in brani di una sua lirica.
Interventi sperimentati anche, com’è ormai noto ai frequentatori dell’Ombra, dallo stesso Giorgio L. su un componimento di Mario Gabriele, e da Ubado e Robertis su una poesia di Steven Grieco R. I risultati già ebbi modo di elogiarli.
Ma fare poesia nuova per “frantumi” è altro discorso e Ubaldo de Robertis per me ha ragione: le scomposizioni e le ricomposizioni d’una lirica sono efficaci solo se essa già viene sentita, concepita, scritta per ” frammenti”,
com’è stato fin qui per esempio con “Chiatta sullo Stige” di Giorgio Linguaglossa. ospitata da patria letteratura.
Gino Rago
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Manzi è un gran bravo poeta. Lo stimo e lo leggo. Mi piacerebbe conoscere la sua opinione sull’operazione di smontaggio e riproposizione dei suoi versi.
GP
Gentile Anna Ventura,
ma Manzi ha vinto vari premi letterari, fra i quali il Premio Internazionale Eugenio Montale per l’edito; il premio Alfonso Gatto; il premio Franco Matacotta.
caro Ubaldo De Robertis,
la scrittura poetica per «frammenti» è semplicemente una tecnica, e per la precisione una tecnica di derivazione prosastica, deriva dalla narrativa. Oggi, e non solo da oggi, questa tecnica è ormai talmente diffusa che è superfluo finanche parlarne, e molti poeti la usano anche nella Forma-poesia. Ma, usare una tecnica non significa scrivere automaticamente una bella poesia, la tecnica ti offre la possibilità di esprimere certe cose in un certo modo. È come nel calcio quando i calciatori si sottopongono ad allenamenti fatti solo di esercizi tecnici, di palleggi e di controllo del pallone, ed è proprio il grado di padroneggiamento della tecnica quello che consente a Totti di fare in campo quello che fa senza apparente sforzo, a volte. La tecnica è quindi un presupposto, e nient’altro. E ti dirò di più, non è neanche possibile «pensare per frammenti», o comunque non è sufficiente neanche questa acquisizione per poter scrivere una bella poesia, quello che io, Steven Grieco Rathgeb, Mario Gabriele, Antonio Sagredo, Gino Rago ed altri stiamo cercando di dire è che la semplice tecnica non garantisce, di per sé, la scrittura di belle poesie. Occorre anche altro, ovviamente. Quindi pregherei di non ridurre il mio pensiero ad una semplice formuletta che ti consente di scrivere in un certo modo magari più alla moda, le cose della poesia sono molto più complesse.
Poco tempo fa su queste colonne c’era qualcuno che affermava essere queste cose delle quisquilie, che la poesia da quando è nata è sempre stata “lirica” e altri luoghi comuni. Ma io vorrei ribaltare la questione, e chiedere loro che cosa significa “poesia lirica”? C’è uno statuto in proposito? Ci sono dei Comandamenti? Ci sono delle Regole? C’è un Codice civile che stabilisce che cos’è “poesia lirica”?, e come si debba scrivere una “poesia lirica”?. Vi prego, torniamo ad essere seri.
Osserviamo che cos’è questa tecnica. Guardiamo alla interpunzione di qualche frase di una poesia di Luigi Manzi:
Bussa l’araldo. Il messaggio è stato consegnato.
Nel turbine il corsiero si dilegua.
In due brevi versi si contano tre punti. Il poeta avrebbe potuto scrivere una sola frase senza punti, ma sarebbe stato meno efficace, con l’inserimento dei punti, il verso è stato frantumato in tre parti di diversa lunghezza. In sostanza, il verso è stato soppresso, e quello che è rimasto è un triplice spezzone che ha cancellato il metro sonoro e ondulatorio della tradizione novecentesca. È un metro a-metrico. Semplice, no?
Sì, io direi semplice, a patto di scrivere due versi come questi. E qui interviene il «talento individuale» diceva Eliot.
Auden scriveva negli anni Trenta: «Personalmente, i problemi che mi interessano di più quando leggo una poesia sono due. Il primo è di ordine tecnico: “eccomi di fronte a un congegno verbale. Come funziona?”. Il secondo è, nella sua accezione più ampia, morale: “Che tipo di uomo vive in questo testo poetico? Qual è la sua idea della vita, del bene e del male? Che cosa nasconde al lettore? Che cosa nasconde a se stesso?».
Ecco, io quando leggo un poeta o un romanziere, mi chiedo: Quante difficoltà ha frapposto tra sé e il testo, quante difficoltà ha frapposto tra sé e la verità? Quante difficoltà ha frapposto tra la sua scrittura e i luoghi comuni? Quante difficoltà ha frapposto alla propria opera perché prendesse forma? – Insomma, l’avrete capito, a me non piacciono le opere che hanno avuto una genesi facile. Le opere facili semplificano troppo la vita e sono dannose.
Tra le mie propongo questa:
“La prima parola che viene non ti appartiene. E’ quella
che pensano in molti”.
Ma il bambino vuole spumante.
“Il corpo è nelle mani di un dio fannullone, perché affetto
da handicap nella deambulazione”.
“Pazienza per la casa che è piccola”.
Intanto le tende cadono sul termosifone. Libri e quaderni
dormono raccolti. Si sente lo stridore del freno di una bicicletta.
Poi nulla.
Ai poeti non par vero che le tende siano le vesti da camera
della dama con la bocca rossa che dà baci a chiunque.
“Va a finire che salterà fuori un lupo, naturalmente.
E subito dopo la paura di morire. In mezzo al deserto”.
Brillano i bambini sul vetro dei bicchieri.
Fuori, notte aggrappata alle finestre. Papà fuma la sigaretta.
UH l’ho postata nello spazio di Manzi quasi fosse un solo discorso col post precedente. Capirete.
Il pensiero rivolto a poeti come Luigi Manzi, anche in questa poesia, mi serve per riuscire a tenere insieme quel che altrimenti cascherebbe.
qUESTI SONO ECCELLENTI FRAMMENTI, Lucio, anche così, come semplici frammenti isolati, ci danno per lampi, come in un diagramma, e in diagonale il ritratto ologrammatico di ciò che siamo.
Ah, meno male. Cominciavo a temere di essere l’unico a non averne scritti da tempi immemorabili.
Caro Giorgio Linguaglossa,
di recente in questa Rivista Letteraria si é parlato di suocera e nuora, e voglio sperare che il tuo commento sia stato indirizzato a me in onore del detto: “dire a nuora perché suocera intenda”!
Questo perché ritengo di avere ben chiaro in mente quanto dici, soprattutto sul fatto che la tecnica sia solo un presupposto, sulla questione della poesie ” lirica ” o meno, e sulla necessità che debba intervenire il talento individuale. Questo in tutti i campi. Figuriamoci nell’arte! L’hanno detto in tanti prima di Eliot.
Vorrei sapere quali mie parole scritte ti hanno dato l’impressione che io “volessi ridurre il tuo pensiero a semplice formuletta” circa l’idea della scrittura poetica per “frammenti”.
Saluti.
Ubaldo de Robertis
caro Ubaldo,
forse mi sono spiegato male, e certo la mia osservazione sulla riduzione di quanto andiamo dicendo “ad una formuletta” non era rivolta a te ma a quanti ritengono di liquidare la questione della “Nuova poesia” dicendo che scriviamo cose già conosciute e applicate dai poeti di tutte le epoche. Riducendo tutte le questioni a questo piano il dibattito necessariamente si isterilisce. Per dibattere bisogna almeno essere in due. Il mio era un invito a non semplificare troppo i problemi, ma non era rivolto a te né a nessuno in particolare, non è mia abitudine ridicolizzare il pensiero altrui, non è mio costume.
saluti a te.
Cara Annamaria,certamente Manzi ha avuto dei giusti riconoscimenti; tuttavia, io li considero uno fuori dal “sistema”; come quasi tutti poeti che incontro su questo blog, per fortuna.
Purtroppo questa settimana sono rimasto intrappolato in così tanto lavoro, da non avere più tempo di fare qualche commento qui sul blog. Non ho nemmeno avuto tempo di leggere Manzi, che io non conosco quasi per niente, in modo più approfondito. Posso solo dire che da una prima lettura attenta, prima di tornare subito al mio lavoro, mi sembra di percepire che Manzi è probabilmente un major poet italiano oggi, ossia uno che da solo può trainare la poesia italiana, con il pacato esempio della sua poesia dai contenuti rivoluzionari, fuori dalla sua attuale e decennale incapacità di darsi una reale, forte identità.
Insisto sempre nel dire che questa incapacità si può vedere in tante altre poesie oggi, fra cui sicuramente l’inglese (ivi compresi americana, inglese, ango-indiana, etc.).
In Manzi c’è l’entusiasmo, la visione, l’inaspettato, l’ispirazione, il controllo. assoluto delle parole senza però nessuna coercizione o virtuosismo, o sfoggio di padronanza di tecnica. Soprattutto c’è il senso che la sua voce avanza in modo veloce e coragioso, esplorando quello che sappiamo ma non sappiamo esprimere. In questo senso egli mi sembra un apripista del pensiero poetico.
A questo punto so che comprerò un suo volume, e lo leggerò in modo più approfondito.
Ho trovato la scomposizione-ricomposizione di Giorgio Linguaglossa efficace solo per la prima metà della poesia di Manzi.
Il suo commento alla poesia di questo poeta è a tratti davvero illuminante, sono colpito dalla sua acutezza, dalla sua capacità di leggere così in profondo. Grandi capacità critiche, non c’è niente da dire. Complimenti!
Steven Grieco Rathgeb trova la scomposizione- ricomposizione della poesia del Manzi valida solo per la prima metà. Concorda con ció che ho scritto, motivandolo, nell’intervento delle 11:36 del 20 aprile.
I chimici, strana razza di mortali, conoscono bene le combinazioni!
Ubaldo de Robertis
Il chimico sa combinare le sostanze come il poeta conosce il segreto per combinare le parole. Tanto in poesia che in chimica, ogni volta la maestria sta nel sapere ottenere il composto che si desidera. (Arthur Schopenhauer)
e anche Gino Rago sarà d’accordo.
Ubaldo de Robertis
Sono d’accordo, caro Ubaldo. Ma combinando sempre i fattori cinetici e quelli termodinamici con le stechiometriche quantità delle sostanze reagenti. Altrimenti la reazione va per i fatti suoi.
Esattamente, del resto,com’è con le parole…
E poi meglio di me sai che il chimico ben conosce l’arte dell’analisi (scomposizione o decomposizione) e quella della sintesi
(ricomposizione) nel gioco reagenti – prodotti di reazione.
Ma poi ci sono pur sempre i catalizzatori…
Gino Rago
una volta in un laboratorio di un istituto teconico del sud mescolai fenolftalina e acido nitrico in un provetta che tenevo in mano…la dovetti lasciare per due motivi: dite quali, per indovinello.
Così è la Poesia! I veri poeti la devono lasciar andare, e i non poeti insistono a non lasciarla… vedi Rimbaud, vedi….
Gentile Pasquale Ruffolo,
in tutti gli istituti tecnici per chimici del Sud, del Nord, del Centro della Penisola è ben nota la formula:
DG = DH – TDS
che suggella l’eterno scontro fra entalpia ed entropia dei sistemi.
E’ così anche nell’arte della parola.
Gino Rago
Insegnava Jurij Lotman, insigne studioso di semiotica nella allora sovietica università di Tartu, in Estonia, che “avendo la possibilità di concentrare un’enorme informazione in una superficie molto ristretta, il testo artistico ha anche un’altra specialità: esso trasmette ai diversi lettori una differente informazione, a ciascuno nella misura della sua comprensione; esso dà al lettore una lingua, nella quale è possibile assimilare una successiva porzione di informazione a una seconda lettura.”
Più volte in questo blog è stata posta la domanda. “Cos’è la Poesia?”… non vi è stata una risposta adeguata, ma vi sono dei Poeti che hanno dato un tentativo di risposta esauriente coi loro componimenti. Qui non è questione affatto di scomposizione-ricomposizione, frantumazione, ecc., la Poesia non si spiega e non si piega con/alla Teoria, con/alla tecnica, ecc. La Poesia come afferma Vladimir Holan “ha un terzo cuore”. Oppure Jiri Orten: “La cosa chiamata poesia/quella vorresti fare?. Oppure ancora: “Poesia, avete il certificato di nascita? (A. S.), ecc.
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“
Oddio!! devo concordare con Sagredo stavolta, che quando dimentica certe inconfessate tracce della sua persona è un eccellente poeta e persino un pensatore, col quale condividere molte posizioni. Salvatore Martino
Avevo scritto in precedenza un breve commento colpito dalla poesia di Luigi Manzi davvero rara nel nostro panorama, Mi informerò meglio perché essa richiede un più accurato approfondimento e visto che vive a Roma perché non incontrarci. Mi piacerebbe altresì conoscere la sua opinione circa la scomposizione e ricomposizione dei suoi versi.Nel leggerli io mi commuovo e medito, entro in quel mondo visionario più reale della realtà.Poi mi domando: perché spostare questo INCIPIT meraviglioso?
Torno dove un tempo ero già stato. Da qui ti chiamo
senza voltarmi; vado incontro all’orizzonte
carico di nubi vorticose.
M’allontano fra le siepi del sambuco tormentato
dalla merla, carico di bacche sanguinose. Il passo
ci divide. Procedo cauto
fra le bisce che succiano i coralli lungo gli argini
e il ramarro disteso nel turchino
a occhi socchiusi
Vi leggo persino un ricordo di Orfeo: Da qui ti chiamo senza voltarmi.Il passo ci divide e le bacche trasudano sangue. Verità del sambuco, che ben conosco, e trasfigurazione dell’evento naturale. Tanti versi memorabili.
Aggiungo qui come postilla al dialogo intrapreso sul frammento: Ho riletto peer mera curiosità alcuni miei versi dei primi anni sessanta, che Linguaglossa potrà controllare nel mio “Cinquantanni di poesia”, trovando già in quei testi lontanissimi l’uso della frammentazione. Non ve li propongo per tema di “invasione” barbarica”, ma so che mi credete sulla parola.Certamente un aiuto mentre il lavoro va svolgendosi il poeta lo può benissimo trovare il altra persona da lui stimata competente, Molto spesso mi è avvenuto con i miei allievi di tagliare, variare ,spostare versi in un componimento, ma sempre insieme, magari proponendo e ragionando sulla migliore soluzione. E lo stesso è avvenuto a ruoli invertiti con Donato di Stasi.
L’incitamento alla frammentazione è valido, come mi sembra di capire nel pensiero dell’amico De Robertis, se non è un dettato aprioristico e intellettuale, ma spinto da una esigenza profonda, che anche nel testo finale deve comparire, come esigenza quasi insopprimibile.Mi auguro che la mia inettitudine non mi faccia chiudere prima di avercliccato su commento all’articolo
“Le grandi opere d’arte sono quelle che hanno fatto anticamera” (Adorno Teoria estetica), citato a memoria.
incollo qui lo scritto pervenuto alla mia email di Luigi Manzi:
Gentile Giuseppe Panetta,
purtroppo non riesco ad avere un buon rapporto con la velocità con la quale i blog instaurano dialettica su argomenti importanti, per non dire definitivi. Le questioni poste da Giorgio Linguaglossa, la cui opera di stimolo il rinnovamento della poesia italiana attuale non è ancora apprezzata in modo giusto, a me danno un senso di inadeguatezza perché richiedono riflessioni di lungo respiro. Mi prendo quindi tempo per rispondere più approfonditamente sulla “poetica” del frammento che, per vari versi, riguarda le teorie letterarie nel loro insieme, e la poesia tutta. Posso anticipare però che nella creazione dei miei testi tengo a mente per quanto possibile ciò che diceva Coleridge intorno alla poesia ben riuscita: “Sarebbe quasi più facile estrarre una pietra dalle piramidi con le proprie mani, che non alterare una parola o la posizione di una parola”. Lo dico facendo pure riferimento ad un altro concetto – questa volta in linea con il dibattito che occupa tuttora L’Ombra delle Parole e ricorrendo metaforicamente ad alcune teorie scientifiche contemporanee, suggestive seppure discutibili. Luigi Fantappiè aveva coniato (senza fortuna alcuna e a completamento del concetto di entropia) l’analogo concetto di sintropia: cioè un ordine progressivo che accumula energia e tende a conservarla nel suo stato più complesso, in cui tout se tient. Un testo è efficace – per non dire perfetto – qualora quella energia riesca a comunicarla nel massimo grado possibile attraverso ciascuno degli elementi di cui si compone: anche una virgola, una sospensione del ritmo e persino l’organizzazione grafica (penso a Palazzeschi, il quale ha insegnato moltissimo, senza volersi far comprendere troppo). La proposta avanzata da Giorgio Linguaglossa – cui mi sottopongo docilmente – è sicuramente legittima in sede critica, ma la scomposizione combinatoria per frammenti può – molto frequentemente – andare appunto in direzione… entropica rispetto al testo originale, specialmente se l’esercizio è applicato alla poesia non recente e di livello, facendogli così perdere efficacia comunicativa e infine smarrire le tracce dell’io centrale dell’autore: vale a dire, il suo atteggiamento e genio. In questo senso mi torna alla mente l’esperimento sornione proposto da Montale allorché si chiedeva che cosa sarebbe rimasto di un testo poetico se, traslocato di traduzione in traduzione, di lingua in lingua, fosse ritornato alla lingua d’origine dopo un lungo tragitto… C’è da dire comunque, in favore della provocazione teorica di Giorgio, che la poesia attuale ha perso la gran parte delle ridondanze connotative, le quali risultano pressoché intraducibili in altre lingue. La sprovincializzazione della poesia italiana, e l’immissione di esperienze poetiche europee e internazionali attraverso le molteplici, variegate traduzioni, ha ristretto quasi alla sola struttura significante la poesia che si produce oggi, riducendola al solo versante del minialismo nostrano. Benché questa immissione è proficua di nuove aperture culturali e per giunta assolutamente necessaria alla sopravvivenza della poesia italiana, è pure occasione di decadenza se intesa con superficialità e faciloneria. Certo che allora, se ridotto “all’osso”, un testo può essere scomposto e ricomposto legittimamente, con pari dignità dell’originale, secondo un’arte combinatoria che espropria l’autore quale agente estemporaneo rispetto all’opera malamente riconoscibile; tanto da poterlo dissezionare come su un tavolo anatomico, col rischio tuttavia di ritrovarselo cadavere…
Ringrazio il blog per avermi ospitato e per aver fatto conoscere la mia poesia un po’ fuorivia.
PS A proposito della rilettura poetica, perché non “trasdurre” certi testi aulici di d’Annunzio in una lingua più aggiornata e moderna per apprezzarne pienamente il valore? Nel frattempo, perché non mettere in giusta luce l’opera poetica di Bodini, forse la più significativa degli ultimi cinquanta anni?
Straordinario per la sua lucidissima profondità questo decalogo di saggezze. Grazie Luigi Manzi adesso ammiro anche il tuo dire criticamente estetico e filosofico. salvatore Martino
Vittorio BOdini??? – Prego, òeggete questi versi dedicati… poco prima della sua morte.
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con un gelato di corvi in mano
a vittorio, a carmelo e a me stesso
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regressione salentina
Con un gelato di corvi in mano
torchiavo con le dita il grumo dolciastro di un mosto,
sul capo mi ronzava una corona di gerani spennacchiati.
Crollavano lacrime di cartapesta dai balconi-cipolle,
giù, come vischiosi incensi.
Squamata da luci antelucane l’ombra asfittica
piombata come una bara, scantonava
per la città falsa e cortese su un carro funebre.
Nella calura la nera lingua colava gelida pece!
Schioccavano i nastri viola un grecoro di squillanti: EHI! EHI!
come un applauso spagnolo!
Ma dai padiglioni tracimava il tuo pus epatico, bavoso…
risonava un verde rossastro strisciante di ramarro,
le bende, come banderuole scosse dal favonio, tra quei letti infetti…
e brillava… l’afa!
Scampanava al capezzale delle mie Legioni
quel verbo cristiano e scellerato che in esilio,
invano, affossò – il Canto!
Ma noi brindavamo – io, tu e l’attore – con un nero primitivo,
i calici svuotati come dopo ogni risurrezione,
perché la morte fosse onorata dal suo delirio!
antonio sagredo
Vermicino, 11 marzo – 4 aprile 2008
caro Antonio Sagredo,
perché, per te questa è poesia di alto livello?
Gentile Luigi Manzi, grazie mille della Sua risposta. Devo dire che concordo per gran parte con le Sue affermazioni, in particolare modo sull’energia del testo che contiene in tutto il suo apparato (pensato, creato dall’autore) gli elementi costitutivi.
E’ legittimo fare operazioni di montaggio e smontaggio di un testo, non metto in dubbio che un testo, che sia prosa o poesia, possa liberamente essere usato, vivisezionato, amputato, migliorato, riscritto, ricollocato, “trasdotto”, come Lei indica a proposito di D’Annunzio, (e perché non Dante che ha subito varie trasformazioni? Invece di mettere nelle edizioni le note a piè pagina?)
Libertà, sì, piena libertà. Ma io preferisco l’originale, il testo e/è il suo autore. Altra cosa è dire, fate pure ciò che volete, purché qualcosa facciate.
Legittimo anche questo, certo, anche se di troppa libertà si può anche morire.
Cade a pezzi a quest’ora sulle terre del Sud
un tramonto da bestia macellata.
L’aria è piena di sangue,
e gli ulivi, e le foglie del tabacco,
e ancora non s’accende un lume.
Un bisbigliare fitto, di mille voci,
s’ode lontano dai vicini cortili:
tutto il paese vuole far sapere
che vive ancora
nell’ombra in cui rientra decapitato
un carrettiere dalle cave. Il buio,
com’è lungo nel Sud! Tardi s’accendono
le luci delle case e dei fanali.
Le bambine negli orti
ad ogni grido aggiungono una foglia
alla luna e al basilico.
Vittorio Bodini, da La Luna dei Borboni e altre poesie.
Caro Panetta,bravo per averci offerta una poesia di Bodini. Il poeta si presenta da solo Per saperne di più,cercherò “La luna dei Borboni”direttamente dalla BESA( a Pescara non si trova). Voglio leggere tutto,sono affascinata dalle premesse.
ALLORA COSA FACCIAMO? PRENDIAMO UNA POSIZIONE? ANDIAMO A FARE UN BONIFICO DI 50 CENT A QUESTI POVERACCI DELLA REGIONE SICILIA?????