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Mario M. Gabriele, Sulle Antologie di Poesia del secondo Novecento, Retrospettiva storica, da Lirici Nuovi di Luciano Anceschi (1954) a How The Trojan War Ended I Don’t Remember (2019), L’individuazione di una Linea Modernista

Antology How the Troja war ended I don't remember

Mario M. Gabriele

Sulle Antologie di Poesia del secondo Novecento

Retrospettiva storica

Se andiamo a leggere le antologie poetiche italiane, a cominciare da: I Poeti Futuristi, con un Proclama di F.T. Marinetti, Milano, 1912, passando a quelle regionali e alle tante, tantissime pubblicazioni sulla Letteratura italiana, tra repertori e consuntivi, ci accorgeremmo subito di quanti modi, stili e manifesti è segnato il cammino della poesia, assieme al fenomeno delle omissioni, con gravi ripercussioni sull’assenza di molti poeti, condannati dalla storia che procede  per “repressioni, per grandi operazioni di pulizia etnica e quindi per falsificazioni specie quando il discorso critico e la sua soluzione storiografica si traduce in uno schiacciamento  sulla contemporaneità”. (Luigi Baldacci-Novecento, Rizzoli, Gennaio 2000, pp.18-19). L’invisibilità che circonda  gran parte di questi poeti ci ricorda vagamente: Il Cavaliere inesistente di Italo Calvino, e più in specifico, il protagonista Agilulfo Emo Bertrandino  dei  Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, Cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez, pignolo e intransigente paladino che non esiste, dato che nella sua brillante armatura è il vuoto, e per questo è deriso e schernito dai suoi compagni. Tuttavia, Agilulfo è il migliore tra tutti gli armigeri al servizio di Carlo Magno. Sta di fatto che molti repertori, da più di 50 anni, si sono chiusi in uno spazio culturale ben definito e caratterizzato da uno squadrismo letterario che lascia poche possibilità d’accesso a chi ne ha titolo e merito, anche se esistono nelle più lontane periferie, cose valide che, come diceva Pasolini, “non si ha il coraggio di farle venire a galla”, né si può sperare in un intervento della critica poiché essa ha smarrito il legame tra letteratura e società, dopo l’avvento del post-strutturalismo in cui prevalgono le ipotesi decostruzioniste  e neonichiliste  che annientano la testualità letteraria nella sua specificità”. (Romano Luperini, Breviario di Critica, Guida, 2008, pag. 59).

Molti sono i poeti che hanno percorso vie opposte a quelle della  Tradizione, aggregandosi alla realtà dell’intellettuale organico con un work in progress di febbrile spinta avanguardista.

Cosicché la scrittura, comprensiva di ogni sapere, affrontata da Roland Barthes nell’opera Il piacere del testo, ha comportato per alcuni poeti qui presenti, un rinnovamento della forma  con il rifiuto del riflusso, riscoperto come autentica griffe dall’industria editoriale, sempre alla ricerca di “casi” letterari, con tanti curatori, sordi da una parte e ciechi dall’altra, finendo con l’essere essi stessi i promotori  di un razzismo  etnico-culturale, simile a quello degli anni Cinquanta-Sessanta, quando a Torino facevano bella mostra di sé sulle facciate dei portoni e nelle bacheche le famigerate scritte: ”Non si affitta a meridionale!”. Oggi che la biologia molecolare sembrerebbe anche confermare, in qualche modo,  la tesi di Julian Huxley e Alfred Haddon, secondo la quale  il razzismo non è scritto nei geni, ma è un prodotto della nostra cultura, appare ancora più grave tollerare l’odio e l’indifferenza, infatti “I livorosi, non mirano ad un proprio avere, ma al non avere degli altri. Ciò che non sopportano è che gli altri godano di un vantaggio”. (Gunter Anders: Linguaggio e tempo finale. Micromega, 5-2002, pag. 117). Questo è un altro motivo che concorre all’invisibilità dei poeti offuscati da un pregiudizio  meneghino o lombardo-veneto, che vuole, a tutti i costi, “creare  una brutale scissione degli “italiani al di sopra e al di sotto del Quarantesimo Parallelo”. (Giuliano Manacorda, I Limoni, Caramanica Editore, 2001. Non  due ma cinquant’anni di poesia, pag. 12).

La critica di oggi si è creata una propria nicchia, fuori  dalle Grandi Case Editrici, dopo le performance dei Lirici Nuovi di Luciano Anceschi, – Mursia 1954; dei Poeti del Novecento, di Giacinto Spagnoletti –Mondadori 1952; de I Novissimi (poesie per gli anni 60), di Alfredo Giuliani, -Einaudi 1965; di Poesia del Novecento di Edoardo Sanguineti,-Einaudi 1969; de Il Pubblico della poesia di Berardinelli e Cordelli –Lerici 1975; fino alla Parola Plurale, Sossella Editore, 2005 a cura di Andrea Cortellessa con la partecipazione di 8 curatori, tutti serventi dell’ala estrema del linguaggio autonomo, dopo la frattura tra l’Essere e il Nulla. Non è un caso isolato, se dopo la fine di un periodo letterario ne succeda un altro, sostitutivo di forme e scrittura. Tra le tante categorie catalogate non sfugge il concetto di moderno e postmoderno, con valenze diverse, tra incontri culturali, e discussioni accademiche, che hanno  influito sul pubblico dei lettori, indirizzandoli anche nei campi socio-culturali  e filosofici.

Ma è a partire dal 1930 che il postmoderno ha mantenuto le fila di un predominio letterario e tecnologico, esercitando un’azione di diffusione estetica, attraverso l’uso linguistico anglo-americano, con diramazione della critica a partire dagli anni Sessanta con punte di diramazione nel campo sociologico e post-industriale, anche attraverso la diffusione di Riviste Il Verri e Officina.-

Habermas, nei suoi indirizzi operativi, ha colto nel postmoderno una forma di tardo capitalismo come pensiero post-metafisico, a cui poi si aggiunge il pensiero debole di Vattimo, corroborato dall’influsso filosofico di Nietzsche e Heidegger, con le esequie alla metafisica occidentale.

Nel settore letterario molto si è sviluppato tecnicamente. Tutte le edizioni, formato stampa, subirono variazioni estetiche differenti. Ma è dal 1968 che la tecnologia agisce sul postmoderno con  l’elettronica e il software, raggiungendo il “Villaggio Globale”. Il testo poetico subisce variazioni di ogni tipo diventando soggetto-oggetto del poeta, il quale ha anche la libertà di optare per il selfpublishing e le Case Editrici Minori senza alcuna certezza di successo. “Fine ultimo della letteratura è la creazione sintattica, lo stile, il divenire della lingua. Non c’è creazione di parole, non ci sono neologismi che valgono al di fuori degli effetti  di sintassi in cui si sviluppano. Sicché la letteratura presenta giù due aspetti, in quanto opera una decomposizione o distruzione della lingua materna, ma anche l’inversione di una nuova lingua nella lingua attraverso creazione di sintassi” (G. Deleuze. Critica e clinica, Milano 1996). È ciò che un po’ accade nella Nuova Ontologia Estetica la cui prima datazione risale, con molta probabilità nel 2017.

                

Riflessioni sulla poesia

A conti fatti, quello dei critici, è un resoconto linguistico sulle opere esaminate, senza dubbio notevole, con un elettrolux che ha illuminato alcuni spazi, oscurandone altri. Qualsiasi previsione sulla morte della poesia è temporanea, in quanto le proposte linguistiche si  alternano come  ricambi nel tempo. La parola poetica finisce con l’essere particella organica, per diventare separatista e intoccabile con la forza espressiva di un postmodernismo telematico, e l’agglutinazione delle figure retoriche, tra le più diverse come, ad esempio l’allegoria, l’allusione, l’anacoluto l’anafora, per non parlare poi delle diafanie e disfanie, integrate ai testi poetici, e riscoperte ultimamente.

Passato e presente si annullano e si dicotomizzano nella forma, secondo le macerie e le ricostruzioni esaminate dalla linguistica e dallo strutturalismo. C’è stata, col passare dei decenni, una ermeneutica di diversa angolatura, che ha emulato categorie extranazionali, fino ai suggerimenti di altri modelli attraverso le esplorazioni dell’inconscio volute da Freud e da Jung.

Moltissime sono state le ricerche sul piano ontologico, filosofico ed esistenziale,  con distinzioni politiche alla Sanguineti e alla Pasolini, come ultima tappa di alternanza linguistica, dove non sono mancate le esternazioni positive e negative. Si è provato di tutto: dalla Pop Art, alle accumulazioni narrative, tra reviews, fin de siécle, e oggettologia: una sorta di Nouveau  francese.Questa intercomunità culturale ha retto per decenni, a prescindere dallo stato di apnea delle nuove generazioni poetiche, che si sono alternate non pensando più agli strumenti umani e alla comunicazione. Ne sono una dimostrazione le zone d’ombra e gli orrori della lingua “cannibal” degli anni Novanta, con Aldo Nove e  Niccolò Ammaniti.

Tutto questo ha coinvolto, anche se per breve tempo,  “l’architettura moderna con le sue convenzioni, i suoi dogmi, le sue grandi esperienze, il grande modello archetipo, corrotto e tradito nella interpretazione, come una sorta di sacra scrittura, ma pur sempre seguito e obbedito nella letteratura- e sotto processo da lungo tempo-, ma gli attacchi subiti a ondate successive, continua a opporre una barriera fatta di indifferenza e garantita da una  alleanza con il potere.” (P.Portoghesi, Dopo l’architettura moderna).

Le strade della poesia, viste nella loro topografia sono   diverse. Non sappiamo se si debbano considerare chiuse, tanto che “l’umanità ne potrebbe fare benissimo a meno”, come ebbe a dire Montale nel suo Discorso tenuto all’Accademia di Svezia il 12 dicembre 1975. Tuttavia, come Egli ebbe a dire: “non sempre la poesia è cancellabile dalla mente e dal cuore dell’umanità”, essendo espressione di sentimenti dichiarati tra fobie e nevrosi del nostro Tempo, con un linguaggio prevalentemente psicosomatico ed esistenziale, parapsicologico e metasperimentale. Ed è ancora Montale ad affermare che  “La poesia è una entità di cui si sa assai poco, tanto che due filosofi diversi come Croce storicista-idealista e Gilson cattolico, sono d’accordo nel ritenere impossibile una Storia della poesia”.

A conti fatti, la poesia di oggi è alla ricerca di nuovi segni verbali mettendosi in ginocchio a raccogliere i frammenti con una nuova gestione del linguaggio in forma di distici, peritropè e polittici. Qui ne cataloghiamo gli esiti, diversi ed espressivi, come volontà del ricambio della forma e del verbum da parte dei poeti antologizzati. Tuttavia, nonostante queste apprezzabili opportunità estetiche e stilistiche, c’è un ramo nel giardino della poesia, che pur mancante di clorofilla alle foglie, sopravvive e si ripropone come se in questo lasso di tempo tutto fosse rimasto in stand by.

 Oggi siamo di fronte ad una manovalanza estetica che immette nel mercato una poesia mercificata come pannolini da China Town. Ognuno  può scrivere ciò che vuole, pensare come crede, narcotizzarsi ad ogni occasione, tentare perfino di scrivere poesie come favolette per i bambini iperpiretici per farli addormentare. Non c’è più un luogo sociale, esistenziale, storico, pluriculturale dove connettersi. Continuare col Novecentismo linguistico è operazione di enorme spreco, che non ha mai cessato di esistere. Oggi ci troviamo di fronte ad un concerto demagogico e populistico della poesia come fenomeno sempre più diffuso anche nelle diverse categorie generazionali.

È evidente che tutto questo non può che decretare la crisi della poesia, incapace di albeggiare.  Si rischia di rimanere nella stagnazione scivolando nella sciatteria, dimenticando  la progettualità considerata eversiva, proprio perché ritenuta un attacco all’establishement linguistico, dimenticando che ci vuole tanto di senso autocritico del proprio lavoro.

È chiaro che in questi termini la critica ufficiale non può che assentarsi, uniformandosi al culto del replay. Scrive Mario Lunetta in Poesia italiana oggi, Paperbacks poeti- New Compton Editori, 1981, pag. 17 della Introduzione:

”Bisogna operare per la professionalità che non è puro e semplice professionismo, realizzando nel massimo dell’arbitrio il massimo del rigore, operando insomma per e con una letteratura di poesia che contenga sempre al suo interno polisenso la consapevole teoria critica del proprio prodursi”.

Quali siano i frutti di un rinnovamento linguistico non si sa. Ma intanto è lecito proporli salvaguardando le aspettative di un pubblico in attesa di un nuovo panorama storico e linguistico. Il lettore silenzioso, che non esprime giudizi, è un critico che si autoesclude da una dialettica oziosa e ostativa, in attesa di documenti e tempi migliori. Il Novecento ha indubbiamente il suo peso maggiore, senza escludere chi si attiva con le alternanze linguistiche. C’è una idea di come va rifondata la poesia. Ma anche questa va proposta nei limiti della persuasione estetica, badando ad armonizzare il tutto con un impianto pluricostruttivo attraverso i sistemi collaborativi e interdisciplinari.                           Continua a leggere

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Mario M. Gabriele, Una poesia inedita da Registro di Bordo, con un Dialogo tra l’autore e Giorgio Linguaglossa – L’ontologia del frammento e della derelizione – Il Kitsch

 

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Oh Billie, l’hai cantata bene la canzone/ del giorno dopo con The very thought of you!

da http://mariomgabriele.altervista.org/inedito-mario-m-gabriele-registro-bordo-2/

Mario M. Gabriele

Si stava sotto i segni dell’autunno.
Perdersi era l’unica certezza

di chi aveva poca fede nel domani.
Bruciavano radici e sciami di pensieri.

Di un lume si parlò all’ombra del paravento.
Maxuell ha una baita con attico e telescopio.

Cerca altri mondi, la strada per Compostela.
Ho ancora il Libro di Rose del 48,

curato da Giovanni Ferretti.
Nel mese delle rimembranze

pregammo per la madre di Arnold.
C’è un poemetto che mi attende la sera.

Quando Lowell morì in taxi
aveva dedicato tutto a To Mother.

Una notte Daddy mi venne in sogno
con annunci paranormali: la fine di Anthony.

Oh Billie, l’hai cantata bene la canzone
del giorno dopo con The very thought of you!

-Togliete le serrature dalle porte.
Togliete anche le porte dai cardini-.

Non andrò in Africa. Salutatemi Mandela.
A novembre tornano i solisti della UBS Verbier

per un resoconto su Beethoven.
Fotomontaggi e selfie non bastano a ricaricare il giorno.

Clark ha un problema con l’anima.
Non c’è giorno che non perda piume strada facendo.

 

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Clark ha un problema con l’anima./ Non c’è giorno che non perda piume strada facendo

Giorgio Linguaglossa says:

agosto 5, 2018 at 12:52 pm

caro Mario Gabriele,

nel post di oggi dedicato a Franco Fortini, ho parlato dell’opera che chiude il novecento, Composita solvantur (1994). Dopo quest’opera la poesia italiana dormirà un sonno profondissimo costellato qua e là da rapidi e veementi sussulti dei pochissimi poeti che scrivevano contro corrente, penso a Maria Rosaria Madonna con il libro Stige (1992) riproposto quest’anno, 2018, in una edizione completa delle sue poesie: Stige. Tutte le poesie (1990-2002) da Progetto Cultura; penso a Roberto Bertoldo con i suoi libri, Il calvario delle gru (2000), L’archivio delle bestemmie (2006), Pergamena dei ribelli (2011) e Il popolo che sono (2015); penso a Giorgia Stecher con Altre foto per Album (1996), libro postumo per la morte prematura della poetessa siciliana; penso all’opera di Anna Ventura che si può leggere nella Antologia Tu Quoque. Poesie 1978-2013, (2014). La tua opera di questi ultimi anni, già da prima di Un burberry azzurro (2008), Ritratto di Signora (2014), L’erba di Stonehenge (2016 e In viaggio con Godot (2017) si presenta come una operazione monolitica di raccolta degli scartafacci metrici e stilistici, come un cantiere di aforismi e di citazioni, riscrittura di ciò che è finito triturato nelle rotative del nulla della nostra epoca a capitale globale e di minimalismo globale. Un giorno, se ci sarà un giorno dopo questo diluvio di sciocchezze e di banalismi della poesia di oggidì, se uno storico della letteratura vorrà fare un resoconto di ciò che è degno di salvezza dopo questa semina a strascico nella banalità, un giorno, dicevo, non si potrà fare a meno di ritornare ai tuoi ultimi libri, così effervescenti e minimal (se ce lo concede questa seconda epoca di barbarie somministrata) apparentemente leggeri che si possono leggere come acqua minerale in mezzo alle decine di migliaia di selfie degli altri libri di poesia che sono stati pubblicati dalla morte di Fortini ad oggi.

 Mario M Gabriele says:

agosto 5, 2018 at 2:18 pm

caro Giorgio,

puoi ritenerti un critico fortunato nel senso di essere stato a contatto degli esiti linguistici di nuovi poeti, pubblicati dalla Rivista L’Ombra delle parole da cui poi si è venuto a determinare il Progetto NOE, cosa che non può dirsi altrettanto verso la critica di ieri e di oggi, che ha aperto una grande lacuna alle omissioni di opere certamente valide. Scrive Romano Luperini: «La critica letteraria si chiude in se stessa, si isterilisce nell’ambito accademico e del micro specialismo, smarrisce il nesso fra filologia e interpretazione (e, anche all’opposto, aggiungerei, la coscienza della distinzione fra questi due momenti), oppure si subordina alle esigenze del mercato e dei mass -media, diventando chiacchiera impressionistica, mero intrattenimento.» Con buona pace, aggiungerei io, di ogni proposta alternativa, lavoro in progress, e fiducia in ciò che di buono si scrive. Un giorno, negli anni della guerra, era facile imbattersi in un cartello come questo: «Non si affitta ai meridionali», che proiettandolo nel campo della poesia di oggi si potrebbe sintetizzarlo in questo modo: «Non si pubblicano poesie o libri di autori sconosciuti anche se validi», come una sorta di razzismo culturale. È mancata la critica onestamente più sincera e divulgatrice, sempre al servizio del Padrone Editoriale, aprendo il campo alla storia della “parola negata”. Personalmente credo che un buon poeta debba scrivere il meglio di sé, non esibirsi con proposizioni linguistiche di gravame ipertrofico. L’ascesi della scrittura è nel piacere del testo, per dirla con Barthes, ossia in quella leggibilità che fa nascere un nuovo Ente Estetico nel segno dell’Arte e della Poliscrittura. Un caro saluto e grazie.

 

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-Togliete le serrature dalle porte./ Togliete anche le porte dai cardini-

Giorgio Linguaglossa says:

agosto 5, 2018 at 8:04 pm

Scrive Gianni Vattimo:

«Credo sia facile mostrare che nella storia della pittura, o delle arti visive, meglio, e la storia della poesia di questi ultimi decenni non hanno senso se non sono poste in relazione con il mondo delle immagini dei mass-media o con il linguaggio di questo stesso mondo. Si tratta, ancora una volta, di relazioni che in generale possono andare sotto la categoria heideggeriana della Verwindung: relazioni ironico-iconiche, che duplicano e insieme sfondano le immagini e le parole della cultura massificata, non solo, comunque, nel senso di una negazione di questa cultura. Il fatto che, nonostante tutto, oggi si diano ancora vitali prodotti “d’arte” dipende probabilmente da ciò, che questi prodotti sono il luogo in cui giocano e si incontrano, in un complesso sistema di relazioni, i tre aspetti della morte dell’arte come utopia, come Kitsch, come silenzio. La fenomenologia filosofica della nostra situazione si potrebbe dunque completare così, con il riconoscimento che l’elemento della perdurante vita dell’arte, nei prodotti che si differenziano ancora, nonostante tutto, all’interno della cornice istituzionale dell’arte, è proprio il gioco di questi vari aspetti della sua morte… Si tratta di un insieme di fenomeni con cui l’estetica filosofica tradizionale si misura con difficoltà».1]

La tua poesia è l’esatto duplicato di questa situazione, diciamo, aporetica in cui si trova l’arte e la poesia di oggi: che la tua poesia eredita di sana pianta: l’elemento della morte dell’arte e il suo susseguente silenzio; l’elemento del Kitsch; l’elemento delle frequentissime citazioni dai mass-media. Nella tua poesia questi tre elementi si trovano nella promiscuità più assoluta, confliggono e fibrillano creando una contestura semantica febbrile ed effervescente, quella che ho definito l’effetto bollicine dell’acqua minerale.

1] Gianni Vattimo, La fine della modenità, Garzanti, 1985, p. 66, 67

 Giorgio Linguaglossa says:

agosto 5, 2018 at 10:19 pm

La formula di Hölderlin resta sempre valida: «Ciò che rimane lo fondano i poeti» (Kein Ding sei wo das Wort gebricht) «Nessuna cosa sia dove la parola manca». Ma ciò che rimane è polvere, frantumi, frammenti, schegge, pulviscolo di un mondo che li ha prodotti. Dunque è ciò che resta del circuito della produzione e della distruzione che fonda l’«ontologia del frammento e della derelizione», come l’ultima ontologia possibile per un poeta di oggi costretto a raccogliere dalla discarica pubblica le fraseologie spurie che infestano la nostra civiltà. Le fraseologie presenti nella tua poesia sono eloquenti di per sé, eloquenti nel loro affollarsi verso un orizzonte degli eventi dove la parola poetica risulta spuntata, debole, indebolita, irriconoscibile. Ciò che inaugura la tua parola poetica è un mondo irriconoscibile, privo di senso, che ammicca ad un orizzonte destinale che verrà, che annuncia con trombe di plastica e di poliuretano una fine improvvida e ingloriosa.

 

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Una notte Daddy mi venne in sogno/ con annunci paranormali: la fine di Anthony.

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Emilia Barbato Poesie Scelte da Capogatto (puntoacapo, 2016), con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

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«siamo in una poesia del possibile e sperimentiamo l’assenza di peso»

Emilia Barbato è nata a Napoli nel 1971. Laureata in Economia ha pubblicato le raccolte di poesia Geografie di un Orlo (CSA Editrice, 2011), Memoriali Bianchi (Edizioni Smasher, 2014), Capogatto (Puntoacapo, 2016) È presente in diverse antologie.

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«il cuore non devi praticarlo, ha sentieri irrimediabili, carichi di mine»

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Un aspetto che mi ha attratto verso la poesia di Emilia Barbato è questa percezione dei luoghi, il saper inserire l’esistenza, il destino dei personaggi protagonisti delle sue poesie entro le coordinate spazio-temporali; saper «chiudere» i luoghi e il tempo dell’esistenza; saper affidarsi ai cenni, agli invii, agli indizi…

In una nota esplicativa Emilia Barbato ci spiega il significato della parola “capogatto”: «L’espressione ‘far capogatto’ è impiegata in agronomia per indicare la tecnica di riproduzione delle piante a rami rigidi e inflessibili con cui si conduce un ramo della pianta madre nella terra allo scopo di utilizzare la sua capacità di emettere radici dall’apice».

Io tradurrei questo concetto di Emilia Barbato nel senso del capovolgimento, ovvero, impiegare una frase all’incontrario per ottenere un effetto insolito. Di frequente, nei suoi momenti migliori, la poesia della Barbato parte da un punto lontano per arrivare, tramite una denegazione, a quello più vicino: si ha così un fare spazio (making room) per giungere alla «parola» del suo discorso poetico.

Scrive l’autrice: «siamo in una poesia del possibile» in un «tempo che precede la lacerazione», una sorta di «inverno minore» dove

… il cuore
non devi praticarlo,
ha sentieri irrimediabili,
carichi di mine.

Siamo in uno «spazio», o meglio, nel «suo principio», dove avviene «l’espansione originaria della parola / che dimentica la sua condizione / di nucleo primordiale, la sua fragilità. / Questa entità o relazione di entità…

che è lo spazio
di una dimensione dove abbiamo respiro.
Questa sua origine di vuoto
che lentamente si occupa
che è lo spazio di una stanza
dove noi iniziamo.

Apprezzo in particolare in queste poesie l’intelligenza dell’autrice nel fornire quasi una pneumologia e una topologia dello «spazio» e del «tempo», i due attanti-agenti della malattia del nostro modo di vivere. Il mal de vivre montaliano è diventato un «male» prosasticizzato ed elasticizzato, globalizzato, a portata di tutte le tasche e di tutte le generazioni, una malattia dello spirito talmente diffusa ed invasiva che non ci facciamo più caso. È proprio di questo argomento ciò di cui parla il libro, «l’aggressiva / decadenza delle cose, delle case, dei muri, / il progressivo franare dei margini delle strade»; il franamento, la dissoluzione delle «cose» viaggia ormai ad una velocità incontrovertibile… non c’è più nulla a cui poggiarsi, non c’è alcun corrimano, nessuna certezza che duri più di un minuto, la parola diventa un «passaparola», il «vuoto» «è lo spazio di una stanza dove noi iniziamo». La poesia finisce con la parola «iniziamo», ma potrebbe essere anche il contrario, ormai l’esistenza è «un film bianco», dove «non c’è scampo», né un attimo di «tregua», nel quale «scopriamo di essere un volo parabolico», di parlare «con voce adultera», di passare il tempo a guardare film alla televisione: «Guardiamo un film in tv, uno dei pochi sopravvissuti ai canali a pagamento».

Esilaranti sono anche certe descrizioni del nostro mondo:

C’è questo studio e una troupe che gira un film per i camerini,
le luci, gli specchi, i pennelli, i rossetti, i profumi,
le parrucche, i vestiti e tutto è pervaso da una presenza
femminile assente

Qui sembra che non avvenga nulla di veramente importante, tutto appare precario e tutto è precariamente «possibile»; qui sembra di stare in un sogno come dentro la «scatola nera» della tv che emette bianchi fotogrammi in sequenza dove c’è un misterioso personaggio che

 

Si alza dalla poltrona, fruga nella madia, le mani si
spostano freneticamente, i gesti si fanno silenziosi, sequenze
mute di mani tra le tazze, un dejà vu di mani
convulse, mani che finiscono e poi riprendono, movimenti
imprecisi, come quelli di sua madre.

Sono questi i momenti nei quali la poesia di Emilia Barbato riesce indubbiamente efficace. Altro problema è quello della direzione della ricerca della Barbato, di dare uno sviluppo tematico e stilistico alla sua poesia. Prima o poi i nodi verranno al pettine. Farà la Barbato una poesia del Dopo Montale?, sarà capace di tirare le conseguenze dalla situazione della poesia italiana che giustamente è stata definita «post-montaliana»?
Leggiamo quello che scrive un critico «in posizione di terzietà», Romano Luperini:

«La centralità dell’esperienza montaliana nella nostra poesia e persino nella nostra cultura ha contribuito in modo decisivo a determinare i caratteri della poesia lirica italiana del nostro secolo, differenziandola da quella tedesca e soprattutto da quella francese (altra storia ha avuto quella inglese, più vicina alla nostra; e anche qui ha giocato la linea Eliot-Montale). Al posto di Char o di Jabès abbiamo avuto il Sereni di Gli strumenti umani o il Luzi di Nel magma o lo Zanzotto di La Beltà, o, per altra via, l’allegorismo civile di Fortini. Occorrerà attendere gli anni Settanta e Ottanta per trovare una generazione di poeti italiani – quelli della cosiddetta «parola innamorata» – che abbia cercato di ricollegarsi – con scarsi risultati, peraltro – al simbolismo francese e tedesco scavalcando mezzo secolo di storia della lirica italiana e recuperando, al di là di esso, la poetica dell’ermetismo e, ancora più indietro, D’Annunzio, il Campana «orfico» e alcuni aspetti del primissimo Montale (quello di Riviere).

E oggi? Si può parlare ancora di una centralità di Montale? La domanda, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, sarebbe apparsa persino retorica. Montale era infatti considerato il punto d’arrivo di una linea simbolista o ermetica o metafisica, senza che spesso si distinguesse bene fra queste diverse tendenze.

Cerchiamo di rispondere muovendo in prima istanza da una constatazione persino ovvia. La centralità di Montale è intanto quella di un autore che non appare mai bloccato su un’unica linea di sviluppo e si presenta invece sempre disponibile a infinite correzioni, ripensamenti, ritorni all’indietro, contaminazioni di esperienze diverse. Senza essere mai eclettico, e anzi mantenendo sempre un timbro suo inconfondibile, Montale è in qualche modo compartecipe di tutte le tendenze fondamentali del nostro secolo: sembra avvicinarsi alla grande tradizione orfica del simbolismo e subito la controbilancia in direzione prosastica ed espressionista; condivide la cifra ardua e chiusa della poesia ermetica, ma respinge sempre la poesia pura e analogica; approda a un classicismo che intende tutelare la nobiltà e la decenza della forma e immediatamente lo interpreta in senso “modernista”; opta per un realismo basso e comico che presenta diversi punti di contatto con la ricerca delle neoavanguardie degli anni Sessanta e nello stesso tempo lo orienta verso esiti – niente affatto eversivi bensì ironicamente lucidi e citazionisti – che saranno propri delle poetiche postmoderniste.

foto Le biglie

«Si potrebbe prendere un aereo selezionando attentamente gli oggetti da portare»

Questa duttilità va messa sul conto della grande capacità di Montale di confrontarsi apertamente con la storia del suo tempo, riflettendola nella propria poesia e talora persino anticipandola. Per i suoi contemporanei essa ha costituito, soprattutto a partire da un certo momento, un problema critico aperto e persino spinoso. Dopo l’uscita di Satura, infatti, il profilo dell’ autore, e in qualche misura anche la sua stessa identità poetica, sono apparsi alterati o modificati. Le diverse, e per certi versi opposte, stroncature di Fortini e di Pasolini nascono anche dallo sconcerto di lettori che vedono deluse le loro aspettative e che non riconoscono il loro autore».1]

Ecco il punto. Io credo, e mi auguro di sbagliare (e qui condivido il parere di Romano Luperini), che oggi la poesia italiana sia ancora imbrigliata all’interno del quadro di una «poesia post-montaliana», quella narrativizzazione che resiste alla deriva prosastica, come asseriva Montale. Il problema era ed è sempre quello: come si esce da questa pendenza verso la narrativizzazione nutrita di scetticismo e di privatismo? La «nuova ontologia estetica» di cui siamo noi dell’Ombra delle Parole i propugnatori vuole tentare di uscire da questa impasse, emigrare finalmente dalla forma-poesia ereditata dal Montale della seconda serie.

1] https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/11/antonio-riccardi-poesie-scelte-da-gli-impianti-del-dovere-e-della-guerra-garzanti-2004-con-un-commento-impolitico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-23724

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Emilia Barbato

Poesie di Emilia Barbato

Quel modo di essere luoghi

Quello che dovremmo recuperare con cautela
è il nostro modo di essere luoghi,
di raccoglierci e languire riflettendo l’aggressiva
decadenza delle cose, delle case, dei muri,
il progressivo franare dei margini delle strade,
dovremmo ammettere di contenere
la popolazione stanca di una baia
e il fastidio della sua aria salmastra, la noia
dei rami, capire di essere la riva dove si ripetono
le acque tristi e la terra, la solitudine
del bastione di Spa House che resta nell’incuria
e nel romanzo di quell’uomo che amava soltanto i bambini.

Inverno minore

Il tempo che precede la lacerazione
è una bestia docile che tira
fuori la lingua in un inverno minore,
il fiato corto dei minuti condensa,
schiuma paure, il cuore
non devi praticarlo,
ha sentieri irrimediabili,
carichi di mine. Continua a leggere

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DUE POESIE di Mario M. Gabriele (da L’erba di Stonehenge, Progetto Cultura, 2016) con un Commento Giorgio Linguaglossa – Ho un libro sotto mano di Salman Rushdie Imaginary homeland (1999) – Una vecchia fotografia in una cornice a buon mercato pende dal muro di una stanza – Digressioni sulla poesia di Mario M. Gabriele, Aldo Nove, Valerio Magrelli – La pseudo-poesia, la non-poesia, la contro-poesia e la finta-poesia – La poesia dei riflettori mediatici

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Stonehenge

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa 

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Cito dal retro di copertina del libro di Mario Gabriele L’erba di Stonehenge appena pubblicato nella collana da me diretta delle Edizioni Progetto Cultura:

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«L’elemento di distinguibilità della poesia di Mario Gabriele, sta nella rottura con i canoni dello sperimentalismo e con l’eredità della poesia post-montaliana del dopo Satura (1971), vista come la poesia da circumnavigare, magari riprendendo da essa la scialuppa di salvataggio dell’elegia per introdurvi delle dissonanze, delle rotture e tentare di prendere il largo in direzione di una poesia completamente narrativizzata, oggettiva, anestetizzata, cloroformizzata. Di qui le numerose citazioni illustri o meno (Mister Prufrock, Ken Follet, Katiuscia, Rotary Club, Goethe, busterbook, kelloggs al ketchup, etc.), involucri vuoti, parole prive di risonanza semantica o simbolica, figure segnaletiche raffreddate che stanno lì a indicare il «vuoto». Il tragitto, iniziato da Arsura del 1972, e compiuto con quest’ultimo lavoro, è stato lungo e periglioso, ma Gabriele lo ha iniziato per tempo e con piena consapevolezza già all’indomani della pubblicazione del libro di Montale [Satura, 1971 n.d.r.] che, in Italia, ha dato la stura ad una poesia in diminuendo».

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È evidente che nella poesia di Gabriele l’elemento sonoro, fonetico svolga una funzione accessoria: è la continuità ininterrotta delle immagini, dei luoghi nominati, dei toponimi, della nomenclatura ciò che fa una sequenza poetica, non la continuità dei suoni. La tridimensionalità acustica della poesia di Gabriele si comporta come una sorta di megafono della tridimensionalità delle immagini, con raffinati effetti, diciamo, di stereofonia; ma la loro funzione rimane quella servente, quella di accompagnare la tridimensionalità delle immagini in rapida successione. Il loro compito è quello di accompagnare l’immagine, non di suscitarla nella mente del lettore, come accade invece in una semplice poesia performativa orale di tipo narrativo o lirico o anche mimico-teatrale.
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mario gabriele
da  Mario Gabriele da L’erba di Stonehenge 2016 Edizioni Progetto Cultura

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Una fila di caravan al centro della piazza
con gente venuta da Trescore e da Milano
ad ascoltare Licinio.-Questa è Yasmina da Madhia
che nella vita ha tradito e amato,
per questo la lasceremo ai lupi e ai cani,
getteremo le ceneri nel Paranà
dove abbondano i piranha,
risaliremo la collina delle croci
a lenire i giorni penduli come melograni,
perché sia fatta la nostra volontà.-
Un gobbo si chinò davanti al centurione
dicendo:- Questo è l’uomo che ha macchiato
le tavole di Krsna, distrutto il carro di Rukmi,
non ha avuto pietà per Kamadeva,
rubato gioielli e incenso dagli altari di Nuova Delhi.
-Allora lasciatelo alla frusta di Clara e di Francesca,
alla Miseria e alla Misericordia.
Domani le vigne saranno rosse
anche se non è ancora autunno
e spunta il ruscus in mezzo ai rovi.
Un profumo di rauwolfia veniva dal fondo dei sepolcri.
Carlino guardava le donne di Cracovia,
da dietro i vetri Palmira ci salutava
per chissà quale esilio o viaggio.
Nonna Eliodora da giugno era scomparsa.
Stranamente oggi non ho visto Randall.
Mia amata, qui scorrono i giorni
come fossero fiumi e la speranza è così lontana.

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Dimmi solo se a Boston ci sarai,
se si accendono le luci a Newbury Street.
Era triste Bobby quando lesse il Day By Day.
Oh il tuo cadeau, Patsy, nel giorno di Natale!

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(3)

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La notte celò i morsi delle murene.
Tornarono le metafore e gli epistemi
e una folla “che mai avremmo creduto
che morte tanta ne avesse disfatta”:
Wolfgang, borgomastro di Dusseldorf,
Erich, falegname in Hamburg,
Ruth, vedova e madre di Ehud e di Sael,
Lothar e Hans, liutai.
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Questa è la casa: -Guten Morgen, Mein Herr,
Guten Morgen-, disse Albert.
Qui curiamo le piante e le orchidee,
offriamo sandali e narghilè ai pellegrini
in cammino verso Santiago di Compostela.
Sui gradini dell’Iperfamila,
tra stampe di Kandinskij e barattoli di Warhol,
Moko Kainda sognava l’Africa di Mandela.
-“Doveva essere migliore degli altri
il nostro XX secolo”- scriveva Szymborska,
tanto che neppure Mss. Dorothy,
chiromante e astrologa,
riuscì a svelare le carte del futuro,
né Daisy si dolse del sole africano,
ma dei muri che chiudevano
le terre di Samuele e di Giuseppe.
E non era passato molto tempo
da quando Margaret e Jennifer
(che pure in vita dovevano essere
due anime perfette e pie),
volarono in cielo.
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L’alba illuminava gli angoli bui, gli slums.
Era ottobre di canti e heineken
con la foto della Dietrich sul Der Spiegel.
Riapparve la luce,
ed era tuo il lampo sulle colline
bruciate dall’autunno.
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Ma è malinconia, mammy,
quella che ha preso posto nella casa
dove neanche le preghiere ci danno più speranza.
Fuori ci sono il drugstore e il giardino degli anziani,
l’eucaliptus e il parco delle rimembranze,
la guardia medica per il tuo tremore Alzheimer.
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Fra poco la neve coprirà il poggetto.
Ci sarà poco da raccontare
a chi rimane nella veglia,
dove c’è sempre qualcuno
che parla della lunga barba di Dio
come una cometa
nella notte più silente dell’anno,
quando il gufo da sopra il ramo
sbircia il futuro e vola via.
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Salman Rushdie and Actress Olivia Wilde

Salman Rushdie and Actress Olivia Wilde

Ho un libro sotto mano di Salman RushdieImaginary homeland‘ (1999), una raccolta di saggi sulla letteratura dello scrittore indiano. C’è anche un saggio su Italo Calvino. Il libro comincia così:

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“Una vecchia fotografia in una cornice a buon mercato pende dal muro di una stanza dove io lavoro. E’ la foto del 1946 di una casa nella quale, al tempo in cui fu scattata, io non ero ancora nato. La casa è piuttosto particolare – una casa a tre piani con un tetto tegolato e agli angoli due torri ciascuna con un cappello di tegole. ‘Il passato è un paese straniero‘ dice la famosa frase che apre il romanzo di L.P. HartleyThe God-Between?, ‘essi fanno altre cose là’. Ma la foto mi dice di capovolgere questa idea; essa mi ricorda che è il mio presente che è straniero, e che il passato è la casa, una casa perduta nella nebbia di un tempo perduto”.

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Ecco, nella poesia di Rafael Alberti, come anche nella poesia dei poeti modernisti di inizio secolo (poeti s’intende di valore), c’è questa concezione del tempo passato che la poesia può, magicamente, riaccendere come una scintilla accende un fuoco quasi spento; c’è l’idea di una continuità che la memoria può annodare tra il presente e il passato e la mente può riprendere a cantare, cantare spensieratamente. Ma, il canto spensierato è molto pericoloso, lo abbiamo esperito nel corso della seconda guerra mondiale quando sono emerse le incongruenze e gli irrazionalismi di una intera cultura: l’olocausto, gli eccidi di massa, le deportazioni, la terza guerra mondiale, quella fredda, e la quarta, appena cominciata. ecco, io penso che non c’è più spazio per la poesia che canta, come non c’è più spazio per la poesia della sproblematizzazione, per cui non c’è più metafisica, non ci resta altro che consumare il quotidiano tra un tic e una nevrosi come fa la poesia e la narrativa del minimalismo.

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Io non ho nulla incontrario verso la poesia della «nuova» «non-poesia», e qui penso alla «contro-poesia» di un Aldo Nove; eccepisco un a-priori: l’autore milanese fa, consapevolmente, una pseudo poesia, opera una verificazione del messaggio poetico attraverso la falsificazione. Così quando scrive le «anti poesie» di Maria (Einaudi 2012), la sua «anti poesia» scollima con la «pseudo poesia»; voglio dire che fa poesia laterale, da banda larga, dirige i propri strali contro la vituperata «poesia-poesia», opino avverso la poesia lirica. Ma non coglie il bersaglio. E lo manca perché il bersaglio non c’è, e non c’è perché la poesia lirica ormai la fanno le decine di migliaia di aspiranti al podio della poesia; di fatto, essa è scomparsa dopo La camera da letto (1984 e 1988) e La capanna indiana (1973) di Bertolucci. Semplicemente, non è più possibile fare poesia lirica oggi neanche se un redivivo Attilio Bertolucci scrivesse una nuova Camera da letto. In realtà, Aldo Nove e Valerio Magrelli fanno una poesia della sproblematizzazione, interrogano derisoriamente le tematiche e le icone pubblicitarie della civiltà mediatica e della civiltà umanistica; il primo con gli strumenti culturali del capovolgimento antifrastico, strumento retorico tipicamente novecentesco; il secondo con il gioco ironico che oscilla tra accettazione, manipolazione e intellettualizzazione dei temi e degli idoli della civiltà mediatica. Ma siamo ancora all’interno di una cultura della sproblematizzazione.

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salman 10

salman rushdie

Torniamo alla stanza dove pende una vecchia fotografia. Nel romanzo di Rushdie ‘Midnight’s Children‘(1981), c’è la vecchia casa dei genitori. In una mia poesia (Tre fotogrammi dentro la cornice), riprendo il tema da una foto scattata anch’essa nel 1946: ci sono i miei genitori giovani, appena sposati, che camminano in una strada di Roma nel dopo guerra. Mio padre, calzolaio, tornato dalla guerra come soldato semplice, ha perduto il negozio di scarpe che aveva in viale Libia a Roma, ed è disoccupato, e mia madre è in cinta di mio fratello, io non sono ancora nato.

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Giorgio Linguaglossa Three Stills In the Frame 2015
Neanche Rushdie era ancora nato nel 1946. Entrambi (lui nel romanzo, io nella mia poesia) manifestiamo la nostra contentezza per non essere ancora tra i viventi, ed entrambe le foto sono in bianco e nero. E il mondo che sta attorno alla foto, sia io che Rushdie lo immaginiamo in bianco e nero, monocromatico. Ma la realtà non è mai stata monocromatica, è un difetto delle foto che la rappresentano in bianco e nero.
E qui sorge il problema sollevato da Rushdie citando la sentenza di Hartley: ‘Il passato è un paese straniero‘. Ma è un falso ci dice il narratore indiano, è il presente il vero paese straniero, noi non conosciamo il presente, e il passato possiamo conoscerlo solo attraverso la discontinuità e la disorganizzazione dei ricordi. Il rammemorare non è una azione di continuità tra il passato e il presente, ma è una azione di collegamento tra due frammentazioni, e la poesia e il romanzo di oggi non possono che ripresentare in essi queste duplici frammentazioni. Il poeta moderno cerca di dare al passato una rappresentazione immaginativamente vera mediante una iniezione di memoria; ma è un falso, la memoria non è una linea rettilinea ma un insieme di frammenti disorganizzati e casuali dove si può prendere di tutto e si può perdere di tutto.

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Noi, dico noi per indicare noi gli esiliati del mondo moderno, non possiamo prendere dal serbatoio della memoria nient’altro che frammenti e lacerti irregolari, frantumi di quell’antico specchio che è stata la vita. E saranno proprio questi frantumi che ci possono condurre più da vicino al mondo delle simbolizzazioni. I frantumi sono già dei simboli, afferma Rushdie. Ecco perché oggi non c’è più alcun bisogno di alcun simbolismo. Il simbolo è morto ed è stato sostituito dai frantumi. Oggi, un narratore o un poeta non può più porre mano ad un romanzo alla maniera di Proust per ritrovare il tempo perduto; oggi il mondo si è frantumato e non ci sarà nessun Proust che ci potrà restituire quel mondo nella sua compiutezza. Restano i frantumi, ed è da essi che dobbiamo riprendere a tessere le nostre poesie e i nostri romanzi.
Rafael Alberti appartiene a quel genere di poeti e romanzieri alla Proust che cantano per restituire il mondo del passato nella sua interezza. Ma è un falso, come poi ci ha mostrato Eliot ne ‘La terra desolata‘ (1925).

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Quanto all’Ombra delle Parole, caro Steven Grieco, io penso molto semplicemente che una poesia fatta per la luce dei riflettori mediatici, come la «pseudo poesia» di Magrelli sulle gambe di Nicol Minetti (tratta da Sangue amaro, Einaudi, 2015) che abbiamo ripubblicato su questo Rivista, sia di una estrema banalità, punta tutto sulla luce dei riflettori mediatici, è una pseudo poesia di superfici riflettenti che riflettono tanta luce quanta ne ricevono. In questo genere di poesia non c’è ombra, c’è solo luce. Tutto è stato detto. E tutto può essere dimenticato.

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Per ricollegarmi alla questione dianzi sorta se cioè la poesia contemporanea (la migliore intendo, cioè, per essere chiari, quella di Mario Gabriele) debba o no suscitare emozioni, debba emozionare, bene, io penso che con la categoria del «pensiero emotivo» desunto da Hilman non si vada da nessuna parte. La poesia di Mario Gabriele, come quella di Antonio Sagredo, (penso a Roberto Bertoldo e a Luigi Manzi e altri), non va letta con quella categoria (che io ritengo fuorviante e irrazionalistica). Non c’è nulla nella poesia di Gabriele che abbia un contenuto emotivo, e quindi, da questo punto di vista non può destare emozioni, anzi, penso che non deve suscitare alcuna emozione. Teniamoci alla larga, quindi, da questa categoria spuria, a metà tra psicologia del profondo e estetica della buon’ora. La migliore poesia contemporanea è, di fatto, un manufatto “raffreddato”. Che cosa significa? Voglio dire che il poeta contemporaneo reduce da tre guerre mondiali e spettatore impotente della quarta in corso, non ha più intenzione di iniettare nel proprio DNA poetico alcun pensiero estetico emotivo. Il linguaggio di tutti i giorni si è raffreddato, si è surgelato, è diventato una gelatina, e il poeta dei nostri tempi non può che prenderne atto, deve astenersi dall’intervenire sul piano di una psico linguistica (come si diceva una volta con una terminologia abnorme). Non c’è alcuna psicolinguistica da fare, la Lingua maggiore si è de-psicologizzata (e io direi, per fortuna!). Ecco una ragione in più per considerare superata la poesia lirica, superata in quanto è stata circumnavigata dalla Storia. Il poeta contemporaneo ha a che fare con una cosa nuova: il raffreddamento delle parole; le parole non hanno risonanza, le parole del linguaggio poetico tradizionale hanno perso risonanza, e allora al poeta dei nostri giorni non resta altro da fare che costruire dei manufatti a partire dai luoghi, dai toponimi, dai nomi, diventa nominalistica, diventa assemblaggio di icone, assemblaggio di frammenti (Salman Rushdie afferma che i frammenti sono già in sé dei simboli!). La fragmentation è diventata la norma nel nostro mondo contemporaneo; ovunque ci volgiamo vediamo frammenti, noi stessi siamo frammenti, le particelle subatomiche sono frammenti infinitesimali di altri frammenti di nuclei andati in frantumi in quel GRANDE CIRCUITO che è il CERN di Ginevra, là dove si fanno collidere i protoni tra di loro in attesa di studiare i residui, i frammenti di quelle collisioni. Tutto il mondo è diventato una miriade di frammenti, e chi non se ne è accorto, resta ancorato all’utopia del bel tempo che fu quando c’erano gli aedi che cantavano e scrivevano in quartine di endecasillabi e via cantando….
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Valerio Magrelli

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L’igienista mentale:
divertimento alla maniera di Orlan
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La Minetti platonica avanza sulla scena
composto di carbonio, rossetto, silicone.
Ne guardo il passo attonito, la sua foia, la lena,
io sublunare, arreso alla dominazione
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di un astro irresistibile, centro di gravità
che mi attira, me vittima, come vittima arresa
alla straziante presa della cattività,
perché il tuo passo oscilla come l’ascia che pesa
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fra le mani del boia prima della caduta,
ed io vorrei morirti, creatura artificiale,
tra le zanne, gli artigli, la tua pelle-valuta,
irreale invenzione di chirurgia, ideale
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sogno di forma pura, angelico complesso
di sesso sesso sesso sesso sesso.
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Dobbiamo fare un passo indietro.
Per quanto riguarda un poeta che esemplifica bene la mutazione della forma-poesia dagli anni Ottanta ai giorni nostri, devo fare riferimento a Valerio Magrelli. La sua opera d’esordio, Ora serrata retinae, è del 1980, seguita da Nature e venature (1990) a cui fanno seguito Esercizi di tiptologia(Mondadori, 1992) e Didascalie per la lettura di un giornale (Einaudi, 1999), fino al libro del 2014 Sangue amaro (Einaudi).
Bene, è sufficiente leggere i primi due libri per accorgersi che in essi c’era ancora, ed era visibile, una ricerca esistenziale e stilistica. In sostanza, era visibile la crisi dell’«io» nella lettura e decifrazione del mondo. A questo sipario della Crisi avrebbe dovuto fare seguito un ulteriore approfondimento della indagine sulla fenomenologia della Crisi, ma sarebbe occorsa una nuova fenomenologia di indagine e un rinnovamento dello stile. Magrelli, invece, già alla fine degli anni Ottanta intuisce l’esaurirsi di quella miniera stilistica, che il filone aurifero si è disseccato, e invece di proseguire il lavoro di indagine e di scandaglio, pensa bene di ricorrere ad uno stratagemma: d’ora in avanti prende atto dell’esaurimento di un certo punto di vista, diciamo diagnostico e di ricerca della forma-poesia, e abbandona il primo stile di una poesia breve e compatta che rivela un singolo aspetto del reale, per dedicarsi a quella che io ho definito più volte «poesia commento». Il terzo e quarto libro sono infatti eloquenti finanche nel titolo, si tratta di operazioni di «tiptologia», di «didascalie» alla lettura, di «glosse» in margine al «giornale».
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Insomma, si tratta di «finta-poesia». Magrelli con un abilissimo trucco da prestidigitatore, trasforma la «poesia» in «finta-poesia», va incontro alla richiesta del pubblico colto che vuole una poesia poco impegnativa e poco impegnata, una poesia leggera, da intrattenimento ludico-ironico. È tutta la società italiana che dagli anni Ottanta si muove in questa direzione con il debito pubblico che avanza progressivamente a livelli astronomici. È insomma una poesia da debito pubblico alle stelle.
Si intenda, io non esprimo qui una diagnosi di carattere morale, esprimo una diagnosi di carattere estetico: la forma-poesia che si imporrà negli anni Ottanta e Novanta sarà quella del disimpegno (nella punta più intellettualmente arrendevole ci sono Vivian Lamarque e Jolanda Insana, nelle punte di vertice si trova, senza dubbio, Valerio Magrelli).
E qui il cerchio si chiude.
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Quello che molti autori di poesia scrivono e pubblicano dagli anni Ottanta ai giorni nostri sono opere di «finta-poesia», «quasi poesia», «pseudo poesia», «ultra poesia», insomma, sono operazioni che hanno a che fare con la sociologia della poesia e niente con la «poesia». In questo mi sento di dare ragione a Salvatore Martino, ma solo per questo aspetto. Se si va ad indagare che cosa avviene fuori della poesia pubblicata dagli editori maggiori ci sono stati e ci sono poeti che hanno continuato ad esplorare la forma-poesia, ed uno di questi è senz’altro, Mario Gabriele.
Che poi dei critici come Romano Luperini abbiano salutato l’ultimo libro di Magrelli Sangue amaro (2014) come un’opera «rivoluzionaria», è una tesi che illumina piuttosto l’assenza di pensiero critico del critico che non il libro.

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Mario Gabriele volto 1.
Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. In poesia ha pubblicato Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); la tetralogia: Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014). Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento. Si è interessata alla sua opera la critica più qualificata: Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Domenico Rea, Giorgio Linguaglossa, Luigi Fontanella, Ugo Piscopo, Giorgio Agnisola, Mariella Bettarini, Stefano Lanuzza, Sebastiano Martelli, Pasquale Alberto De Lisio, Carlo Felice Colucci,  Ciro Vitiello, G.B.Nazzaro, Carlo di Lieto. Cura il Blog di poesia italiana e straniera Isoladeipoeti.blogspot.it.

 

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