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DIALOGO A PIU VOCI SU VARI ARGOMENTI: La Nuova Ontologia Estetica, il Frammento, il Dopo Satura di Montale, Fernanda Romagnoli, Poesie di Osip Mandel’stam, Kjell Espmark, Anna Ventura, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Commento di Angelo Maria Ripellino a Osip Mandel’stam, Donatella Bisutti

foto palazzo illuminato

Io, da critico militante (oggi il termine è caduto quasi nel ridicolo), della Nuova Ontologia Estetica, non posso che rivendicare la mia funzione non conciliativa

Giorgio Linguaglossa

16 maggio 2017

[…] Io, da critico militante (oggi il termine è caduto quasi nel ridicolo), della Nuova Ontologia Estetica, non posso che rivendicare la mia funzione non conciliativa, il diritto del critico a non assolvere ad alcuna funzione suasoria e conciliativa e di recitare in pieno la mia funzione di parte, non conciliativa, contraddittoria, che sa di portare in sé una istanza del contraddittorio e del diverso; insomma, per tornare a noi il critico non deve smussare gli angoli e le differenze che intercedono tra la poesia di Luciana Gravina e quella di Fernanda Romagnoli, per dire, ma deve porre la questione come questione problematica, sulla quale operare una scelta, delle scelte, nella consapevolezza che le differenze in poesia non sono un «indifferenziato» agnostico e anomico ma sono il sale della biodiversità della poesia.

onto Fernanda Romagnoli volto

Fernanda Romagnoli, grafiche di Lucio Mayoor Tosi

Anna Ventura

16 maggio 2017 alle 10:25

Altamente lodevole, esemplare, l’attenzione critica che Donatella Bisutti finalmente rivolge ad una voce poetica, quella di Fernanda Romagnoli, trascurata dalla critica di regime,forte della sua stessa ignoranza.C’è tanto oro, nel grigio magma delle parole,oro ignorato e negletto, e che tuttavia talvolta si svena, se c’è qualcuno capace di operare il miracolo.

gino rago

16 maggio 2017 alle 12:06

Condivido in pieno i giudizi di Flavio Almerighi, di Anna Ventura e dello stesso Giorgio Linguaglossa sui finissimi valori di Poesia della Romagnoli e anch’io esprimo ammirazione per Donatella Bisutti per essersene meritoriamente occupata.
Ma in me lavora un tarlo. Che è questo: perché la Romagnoli parla di ‘Oggetti’ e invece Jorge Luis Borges, in un suo componimento tra i più riusciti, parla di ‘Cose’ (“Cosas”)?
L’Ombra delle Parole in più occasioni ha articolato persuasivamente le sue risposte. Ma sarebbero davvero gradite le risposte-meditazioni a questa domandina semplice di Sabino Caronia, di Claudio Borghi, di Salvatore Martino, ma anche degli altri agguerriti lettori del nostro Blog che, di solito, non lasciano commenti.
Non è questione oziosa stabilire ‘una’/ o ‘la’ differenza fra ‘oggetti’ e ‘cose’ nel fare poetico del Novecento lirico non solamente italiano…

egilllarosabianca Kartine

16 maggio 2017 alle 12:24

Avrei voluto non commentare ma, poi perchè no a mio modo Fernanda Romagnoli non é donna non un uomo non una madre si intrattiene molto dentro se e con altro il suo sguardo va oltre, quando lessi “Il tredicesimo invitato”rimasi senza fiato.
Questo é forse il più bell’articolo dell’Ombra per me.
Un poeta tra i grandi la Romagnoli e la Donatella Bisutti affronta argomenti, considerate ancora oggi zone di frontiera dai razionalisti quelli che stanno non solo coi piedi per terra e che nella terra sprofondano fino alla cintola,é questo il regime la linea di confine?

Andrea Margiotta

16 maggio 2017 alle 12:38

Altro critico che ha fatto spesso il nome di Fernanda Romagnoli è Paolo Lagazzi. Ha ragione Giorgio Linguaglossa: due opere poetiche molto lontane, quelle di Gravina e Romagnoli. Personalmente, non saprei per quale “partito” votare. Nei testi critici che contrappuntavano l’opera della Gravina, ho notato il nome di Mario Lunetta (che saluterei, se passasse da queste parti). Ricordo che venne come ospite in un mio programma televisivo, di poeti e cose poetiche, realizzato per la Rai, qualche anno fa. Eravamo praticamente opposti – come idee sulla poesia e, probabilmente, come idee sul mondo o come Weltanschauung – ma riuscimmo a dialogare con lucidità e ragionevolezza (forse perché sono stato, da ragazzo, un militante comunista? Andato via, un paio d’anni prima della caduta del Muro, dunque in tempi non sospetti; e molto prima dell’elegantone Fausto Bertinotti, che – strano scherzo del destino – mi mandò un sms per sbaglio, qualche anno fa…
Dico io: tra tutte le combinazioni numeriche possibili, beccò proprio il mio numero di cellulare?). Che esista un Dio delle cose, un po’ burlone? (Alcuni fisici non credono al caso…). Continua a leggere

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PITTURA E POESIA Rosario La Polla – Gino Rago. Noi siamo qui per Ecuba:   metafora delle vittime – Rimane lei per sempre la Regina, Il figlio d’un eroe spaventa i vincitori, Noi siamo qui per  Ecuba –  Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa e Commento di Mariella Colonna

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Note sulla cartella “Ecuba”- Pittura e Poesia Rosario La Polla – Gino Rago.
Caratteristiche delle opere grafiche della cartella “Ecuba”.
Disegni originali ideati ed eseguiti per il presente progetto editoriale – digitalizzati in base
monocroma nera su cartoncino «Tintoretto» – interamente e singolarmente acquarellati a mano dall’Autore e retouché con matita litografica – Tirati in 75 esemplari – cm 33 x 48

Nota di Gino Rago  

Noi siamo qui per Ecuba:  « metafora delle vittime »

Le liriche dedicate a Troia si basano sul destino dei vinti; meglio, sulla sorte delle donne quando sono ridotte a « bottini di guerra ».

Nelle liriche, l’orrore si focalizza nella prospettiva delle vittime, dei  loro corpi umiliati, spogliati  delle loro identità.

Ilio  in fiamme dunque è da intendere come luogo archetipico del saccheggio, della distruzione, dei crimini di guerra, della  deriva di una terra devastata e di un popolo calpestato.

Il destino dei vinti, né omerico, né euripideo, viene seguito nell’articolazione di una sorta di défilé di tre figure femminili emblematiche: Andromaca, Cassandra e soprattutto Ecuba, su cui incombe il trauma della partenza verso un altrove di schiavitù e miseria, nella certezza che nessun tribunale di guerra potrà mai riparare la catastrofe di queste donne (« Ecco, piego  questo mio vecchio corpo/ e batto la terra con le mani», un esempio della potenza di Ecuba.)

Noi siamo qui per Ecuba è paradigma su cui meditare e modello da riattraversare fino  alle riscritture prossime a noi  a riflettere gli snodi traumatici del Novecento: Troiane di Franz Werfel  (1914 e 1920); Troiane di J.P. Sartre (1964); Troiane di Suzuki Kadasci (1977) in cui  i fantasmi del mito “ripetono e insieme rappresentano le atroci esperienze di vite offese e di corpi violati” (D. Susanetti), al di là dei confini dello spazio e del tempo, perché il mito antico è metodo per dare significato e forma alla caotica, altrimenti  indicibile,  realtà del presente. Da qui, il “metodo mitico”, nel poemetto espresso per “frammenti”.

Ma in quale teatro d’azione Ecuba, Elena e Andromaca  agiscono nelle liriche a comporre il poema/ciclo di Troia “Noi siamo qui per Ecuba”?

Per una attendibile definizione del perimetro, o dello scenario  d’azione delle tre  onne non si può prescindere dalle memorie dello Schliemann, l’archeologo cui viene attribuita la scoperta di Troia come acme d’una vita interamente consacrata a trarre dalla leggenda una  storica verità.

Nelle sue memorie Schliemann scrive: «(…) Secondo Omero, Troia è vicina al mare, di fronte all’isola di Tenedo e il suo orizzonte va dalla vetta di Samotracia – ove ha sede Poseidon –  al monte Ida dove siede Zeus. I Greci sono accampati presso il mare; la città non deve essere lontana; ogni sera i Greci tornano all’accampamento e i Troiani tornano in città. Quando Priamo va al campo greco a riscattare il corpo di Ettore, raggiunge il campo durante la nottata. Tra i Greci e i Troiani scorre lo Scamandro. Ettore una volta oltrepassa il fiume e si accampa dall’altra parte, facendosi mandare dalla sua città le cibarie; e Agamennone sente i suoni di flauto e vede le luci del campo troiano dalla sua tenda. Sotto Troia si udivano scorrere due sorgenti, una fredda e una tiepida. In questo paesaggio soltanto Achille poteva essere in grado di inseguire Ettore tre volte di corsa intorno alla città… Perciò la mia attenzione si fissò sulla collina, assai prossima al mare, detta Hissarlik…»

Il poema “Noi siamo qui per Ecuba” adotta  queste memorie a base del  teatro, dello scenario d’azione in cui Ecuba e le altre agiscono , ancorché  nel tratteggiare Ecuba debba segnalare che non ho mai perso di vista l’Ecuba dantesca del XXX Canto dell’Inferno:

«…Ecuba trista, misera e cattiva,/ poscia che vide Polissena morta,/ e del suo Polidoro in su la riva/ del mar si fu la dolorosa accorta,/ forsennata latrò sì come un cane;/ tanto il dolor le fé la mente torta».

Ecuba, figlia di Dimante, fu la seconda e fecondissima moglie di Priamo, re di Troia, cui diede 19 figli, morti quasi tutti nel corso o appena dopo la guerra contro i Greci. Caduta Ilio, fu schiava di Ulisse.

                                                                                                               Roma,  gennaio 2013

grecia La contesa per il tripode tra Apollo ed Eracle in una tavola tratta dall’opera Choix des vases peintes du Musée d’antiquités de Leide. 1854. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs

La contesa per il tripode tra Apollo ed Eracle in una tavola tratta dall’opera Choix des vases peintes du Musée d’antiquités de Leide. 1854. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs

Rosario La Polla CoverCommento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 Il poeta Gino Rago e il pittore Rosario La Polla «cantano» per volere di Mnemosyne. Ed ecco l’Estraneo che si avvicina e il «mito» che ritorna. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich), le nottole del tramonto singhiozzano. E all’approssimarsi del «mito», il tempo ritrova se stesso dopo l’Oblio della Memoria.

La poesia di Gino Rago proviene da Mnemosyne e dall’Oblio della Memoria, dal periechon (dall’infinito della periferia, e quindi del «divino», secondo il pensiero dei greci), dalla perdita dell’Origine e dalla perdita della Patria (Heimat). La sua poesia è il volto codificato del dolore. Il duplice moto di andata e ritorno dal sacro al profano, e viceversa, caratterizza il nunc e l’hic dell’evento che si dà per noi, nella singolarità di un accadimento irripetibile. La guerra di Troia assume l’aspetto di simbolo di tutte le guerre e di tutti gli eccidi della storia umana. La rivisitazione del mito è fatta dalla parte delle donne, delle perdenti, dalla parte di Ecuba, moglie di Priamo e regina di Troia, madre di 19 figli. Il tum dà profondità al nunc per rifrazione e sedimentazione del tempo, e l‘hic, il qui, rivela la singolarità dell’evento. «Nell’evento lo spazio e il tempo fanno uno, ed è il tempo che è primario, che solo nell’evento rompe la continuità della durata e si rivela come istante, perché solo nell’evento il nunc ha contro di sé l’infinità circoscrivente del semper e fa centro, e il punto non è isolabile se non in una convergenza […] Il tempo circolare è il tempo continuo e infinitamente divisibile del logos, dove nessun istante è isolabile, perché in ognuno il principio coincide con la fine… Ciò è vero anche per il mito dell’eterno ritorno, che fin che è mito, ha sempre valore escatologico… Non appena il logos prevale sul mito, la coscienza religiosa lo sente come un’oppressione e cerca l’evasione nella rottura del ciclo e nell’unione definitiva con l’Uno».1

«Ciò che è Perduto non può essere ritrovato se non nella forma di “frammento”, che non indica il Tutto se non come un tutto frammentato e disperso. Di qui il “dolore” della poesia».

La gestualità statuaria di Ecuba di Rosario La Polla narra il mito, fissato e immobilizzato nell’eternità del tempo del «sacro». Il nunc è il tempo della mancanza, della povertà.  Il mito invece è narrazione del tempo del tunc. Sia La Polla sia Gino Rago sono i cantori delle gesta del «sacro». È qui che la storia prende forma nelle vesti striate e multicolori della figura di Ecuba tracciata dal pittore di Trebisacce.  La «Forma» è nella magia del colore. La «Forma» è ciò che rimane. Con le parole di Gino Rago: «lei per sempre la Regina», Ecuba e tutte le donne violentate e fatte schiave di tutti i tempi della storia umana. Negli occhi della «Regina» il tempo si ferma, si irrigidisce nel volto deformato dal dolore.

1 Carlo Diano Linee per una fenomenologia dell’arte 1968, Neri Pozza, p.36.37

2 Michel Foucault Le parole e le cose 1975 p. 139

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Poesie di Gino Rago
Rimane lei per sempre la Regina

Di fronte a noi si muove il re spartano.
A Telemaco vanta le molte virtù e l’astuzia del padre
per la cava insidia nel cavallo di legno. Fatale
ai Troiani ma che gli Achei sottrasse alla rovina.
Noi non siamo qui per Menelao.
Né siamo qui per Elena.
L’amante fuggiasca
che nonostante i crolli, i lutti, le rovine,
il sangue – per dieci anni a correre
ai bordi d’ogni corpo –
sul trono a Sparta siede ancora da regina.
Noi siamo qui per Ecuba,
la sposa ormai prona al suo destino,
la madre a ignorare l’inganno delle dee. Afrodite,
Era e Atena hanno di Paride fatto inerme preda.
«Eppure in cuor mio un tempo amavo i Greci.
Oggi hanno il fuoco negli occhi. Che fine hanno fatto
il rispetto dei vinti, la pietà, la sosta sulle ceneri dei morti.
Chi più ricorda il gesto moderato. L’armonia delle forme …
Sorelle d’Ilio. Fare senno pure nel male. A ciò tutte vi esorto.
Fare senno anche nella sventura. Conviene
alla calma, alla saggezza dopo la disfatta.»
Così la donna china sulla riva si rivolge a tutte le troiane.
Alle spose ferite nell’onore. (Gli sguardi opachi verso terre ignote).
Alle figlie d’Ilio (nel delirio turpe dei guerrieri vincitori).

Le mura franate. I cadaveri umiliati. Il Palazzo violato.
Priamo sgozzato. Lo scettro del Re frantumato…
Noi siamo qui per Ecuba ora che tutto perde.
Ma pure con il passo incerto sulla rena
rimane lei per sempre la Regina.

.
Il figlio d’un eroe spaventa i vincitori

Ecuba ripudia il vecchio corpo.
Raschia la terra con le mani.
Si lacera il seno di fronte al bimbo morto.
Evoca la voce dei defunti
prima dei giorni della schiavitù.
Noi con Ecuba attendiamo Aurora.
La dea dalle ali bianche diffonde il giorno
chiaro sulla città in fiamme.
Le coste risuonano di morte.
L’urlo di Priamo si strozza nella gorgia
dinanzi alle sue terre a ferro
e a fuoco. Noi siamo qui per Ecuba
già nelle fiamme del rogo finale.
Nuvole di polvere tagliano l’azzurro.
Trono, palazzo, torri merlate:
un tonfo di frantumi su macerie ardenti.
Ilio è un nome scritto sulla cenere.
I troiani senza numero periscono
per i capricci di un’unica donna.
Nemmeno Astianatte viene risparmiato:
il figlio di un eroe spaventa i vincitori.
Noi siamo qui per Ecuba.
Cos’altro ancora manca al suo disastro
perché gli Achei lo sentano completo…
La dimora della Bellezza va in fumo.
La casa dell’amore si sfarina.
La fiamma greca incenerisce Troia.
La Regina sul baratro maledice Atena.
E Thanatos danza
sull’uniforme grido dei frammenti.

 

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Noi siamo qui per Ecuba

Paride amò nel talamo di Troia
senza mai saperlo
forse un’idea. Una chioma di cenere.
Una nuvola di nulla. Un cirro.
Senza carne.
Noi siamo qui per Ecuba. Tutto le fu tolto
per una bolla d’aria. Dissennato
il massacro sull’Acropoli
per la spartana rapita. Una sposa fuggiasca.
Sbarcò da Priamo come il simulacro
della bella regnante di Sparta.
A suo dire mossa dall’Olimpo
come fuoco nel sangue o fremito nei lombi
Elena non è mai giunta a Troia.
Una città mangiata dalle fiamme.
Siamo qui per la saggia compagna del suo Re.
Sconfitta va verso la nave.
Lo sguardo fisso nell’occhio dell’Acheo.
Quasi a sfida delle avverse dee
nel disastro aduna sulle schiave
la gloria d’Ilio. Eterna come il mare.
La donna. Ormai bottino di guerra.
La madre. Sulle ceneri.
La Regina. Sul baratro.
Noi siamo qui per Ecuba.
L’unica a sentire che Ilio è la sua anima.
Giammai sarà inghiottita dall’oblio.
Per tutto il tempo viva.
Di cetra in cetra. Da Oriente a Occidente.
Quel sangue prillerà nel canto dei poeti.
Arrosserà per sempre il porfido del mondo.
L’unghia dell’Aurora è già sull’orizzonte.
Perentoria schiocca la frusta di Odisseo
alla sua vela : « Si vada verso l’Isola…»
L’inno dei forti piega le Troiane. Si stacca dalla costa.
E sulla morte resta il gocciolio dell’onda.

grecia Eveone, Un efebo serve il vino al banchetto. Lato A da una kylix attica

Eveone, Un efebo serve il vino al banchetto. Lato A da una kylix attica

commento di Mariella Colonna

Nell’evocare le vicende di Troia la poesia di Gino Rago è un prodigioso e vertiginoso scorrere di parole – ombra in cui l’assenza dell’evento ormai divorato dal tempo si materializza immediatamente nella presenza “ontologica” dentro il corpo la mente l’anima del lettore, qui adesso: chi riesce a leggerla senza lasciarsi “incantare” dal primo livello di significato delle parole che generano la propria ombra, cioè il mistero che racchiudono, entra nel mondo richiamato in vita dal poeta: chi legge il Ciclo di Troia a cuore aperto è già dentro la città in fiamme, sente l’odore acre del fumo, dei corpi bruciati, brancola nel buio alla ricerca dei sopravvissuti, inciampa nei massi e nelle pietre che si staccano dalle mura e dai palazzi assaliti dalla furia del nemico…poi incontra Ecuba piegata che batte la terra con le mani mentre evoca la forza dei defunti e si ferma a contemplare l’icona statuaria di questa Madre che non teme la morte (come un’altra Madre certamente più cara ma non più drammaticamente “vera” di Ecuba) anzi invoca e quasi richiama indietro i morti con la forza dell’amore che è più forte della morte, sempre sul piano dell’essere dominante nell’epica di Rago, al di là dell’evento storico. Qui adesso, non ieri o l’altro giorno, ho incontrato Ecuba per la prima volta nella mia vita culturale e reale, avrei voluto consolarla, avvolgerla nell’abbraccio dell’amore oltre il tempo ma avrei abbracciato me stessa…ho atteso l’Aurora, la bella dea della luce che esalta la devastazione delle rovine Troia, ma ne fa risaltare la drammatica realtà più forte del tempo e dell’oblio che tutto cancellano: Troia diventa così l’emblema di una civiltà violentata dalla civiltà successiva, da piangere e rimpiangere per la grandezza dei suoi personaggi ed eroi. Ettore, il più grande guerriero troiano, trova la morte per mano di Achille, dopo aver varcato le fontane di fuoco e di ghiaccio presso la torre di Priamo e il suo cadavere viene gettato in pasto agli uccelli. Priamo mortoAstianatte scagliato con furia per le mura d’Ilio / per dare fine alla stirpe troiana…Incendiate le Mura,distrutti i sacri Lari/ perduti affetti e beni“Noi siamo qui per Ecuba”è l’affermazione del poeta, che incide con parole solenni la presenza collettiva (noi) di quelli che provano il suo stesso dolore e la sua meraviglia di fronte al coraggio di una vecchia Regina che ora, nella notte dei secoli, è diventata soltanto se stessa sul piano dell’essere ed è vittima dei più astuti, non dei più forti: una moglie e una Madre in cui si raccolgono coralmente le Madri che sanno amare oltre se stesse e gli affetti terreni, diventando simbolo di tutta la comunità e della terra dove hanno vissuto, messo radici, fatto nascere e pianto generazioni di uomini e di eroi. Questa notte dei tempi che Gino Rago ci fa rivivere nella sua piena e complessa drammaticità ha la potenza di un vulcano che arriva fino a noi in continua eruzione di fuoco lava pietre incandescenti, ci fa sentire nel corpo e nell’anima fino a che punto sia aberrante e assurda la morte in guerra che rende disumani vincitori e vinti: infatti uno dei miti vuole che la stessa Ecuba, che a Troia ci si presenta come una statua di fronte all’eterno, fatta schiava da Ulisse, raggiunto il Chersoneso Tracico, abbia vendicato la morte dell’ultimo figlio Palinuro accecando il traditore Polimestore e facendone uccidere i figli. Questi sono i frutti della violenza folle che spesso rende folli i persecutori  e le vittime. 

Giorgio Linguaglossa su L’Ombra delle parole un anno fa definiva Gino Rago poeta del Mediterraneo: essendo la sua civiltà ideale tramontata per sempre… di qui… nel poeta prende vita la ricerca di una patria ideale da far rivivere con l’ausilio della poesia. E la sua patria Rago la ritrova nel passato mitico della guerra di Troia e nelle sventure delle donne di quella città.

Ma, leggendo altre poesie di Rago ci accorgiamo che, al dramma della civiltà omerica rappresentato nell’Iliade, il poeta associa la consapevolezza di quanto sia generosa oggi la natura della sua terra e di quelli che la abitano…in Fatelo sapere alla Regina: …Siamo ricchi di noi/ dei profumi del sole nelle primavere…Olio e ferite, vino e fatica,/ festa e camicia pulita,/vento fanciullo a danzare/ nell’erba, amore nelle mani/ quando cercano/ altre mani, oblio d’anemoni/ sui nervi delle pietre…

Ecco il contrasto, inciso a colpi di scalpello tra l’ombra profonda del passato con l’epica del dolore che annienta e dell’amore coraggioso che riscatta e la gioia incandescente di sentirsi figlio di una terra dove il sole ha fatto crescere le spighe mosse dal vento, dove si lavora con fatica ma si riprende forza con un bicchiere di vino, dove si è ricchi di se stessi per i canti del cuore/ la saggezza del pane, la quieta/ sapienza del sale:/ per le sciabole/ rosse dei papaveri nel grano. In questa dialettica scultorea tra ombra e luce, tra parole – ombra per evocare e far rivivere il passato e parole – sole e natura  Gino Rago offre in dono al lettore la gioia di esserci, oggi – e senza nostalgie o falsi miti che allontanino dalla meraviglia e dal mistero di esistere.

Gino Rago 3

Gino Rago

Gino Rago nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989),Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Sue poesie sono presenti nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Poeti del Sud (EdiLazio, 2015) Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016)   Email:  ragogino@libero.it

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Mariella Colonna

Mariella Colonna.  Sperimentate le forme plastiche e del colore (pittura, creta, disegno), come scrittrice ha esordito con la raccolta  di poesie Un sasso nell’acqua. Nel 1989 ha vinto il “Premio Italia RAI” con la commedia radiofonica Un contrabbasso in cerca d’amore, musica di Franco Petracchi (con Lucia Poli e Gastone Moschin). Radiodrammi trasmessi da RAI 1: La farfalla azzurra, Quindici parole per un coltello e Il tempo di una stella. Per il IV centenario Fatebenefratelli sull’Isola Tiberina è stata coautrice del testo teatrale La follia di Giovanni (Premio Nazionale “Teatro Sacro a confronto” a Lucca), realizzato e trasmesso da RAI 3 nel 1986 come inchiesta televisiva (regia di Alfredo di Laura). Coautrice del testo e video Costellazioni, gioco dei racconti infiniti in parole e immagini (Ed.Armando/Ist.Luce) presentato, tra gli altri, da Mauro Laeng e Giampiero Gamaleri a Bologna nella Tavola Rotonda “Un nuova editoria per la civiltà del video” ha pubblicato, nella collana “Città immateriale ”Ed.Marcon, Fuga dal Paradiso. Immagine e comunicazione nella Città del futuro (corredato dalle sequenze dell’omonimo film di E.Pasculli), presentato nel 1991 a Bologna da Cesare Stevan e Sebastiano Maffettone nella tavola rotonda sul tema “Verso la città immateriale: nell’era telematica nuovi scenari per la comunicazione”. Nel 2008 ha pubblicato Guerrigliera del sole nella collana “I libri di Emil”, ediz. Odoya. Nell’ottobre 2010 ha pubblicato, con la casa editrice Albatros “Dove Dio ci nasconde”.  Nel febbraio 2011 ha pubblicato, presso la casa editrice. Guida di Napoli “Due cuori per una Regina” / una storia nella Storia, scritto insieme al marito Mario Colonna. Un suo racconto intitolato “Giallo colore dell’anima” è stato pubblicato di recente dall’editore  Giulio Perrone nell’Antologia “Ero una crepa nel muro”; nel 2013 ha pubblicato “L’innocenza del mare”, Europa edizioni; nel 2014 “Paradiso vuol dire giardino”, ed Simple; nel 2016 coautrice con il marito Mario di “Mary Mary, La vita in una favola.”

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Alienazione. Il doppio volto dell’alienazione (Entfremdung). Per una rivalutazione del concetto marxiano di alienazione. La nuova teoria critica di Rahel Jaeggi di GIORGIO FAZIO

fotogramma di un film di Antonioni

fotogramma del film “La Notte” di Michelangelo Antonioni

Negli ultimi anni si è assistito nel dibattito filosofico tedesco a una riattivazione dell’interesse per il concetto di “alienazione”. A procurarlo è stato in particolare il libro di Rahel Jaeggi, Entfremdung, Zur Aktualität eines sozial-philosophischen Problems, uscito nel 2005. In questo articolo Giorgio Fazio spiega in che modo Jaeggi ha provato a riattualizzare questo concetto.

L’ARTICOLO IN PDF

Al pari di altri termini fondamentali della letteratura filosofica del Novecento, anche il concetto di “alienazione” ha subito negli ultimi decenni un processo di progressivo eclissamento dal dibattito teorico e politico, che solo negli ultimi anni sembra, in parte, essersi arrestato. Questo processo di marginalizzazione risulta tanto più evidente quanto più si richiama alla memoria la centralità rivestita da questo concetto nel dibattito filosofico, politico e culturale del XX secolo. La critica dell’alienazione non è stata infatti soltanto uno dei capisaldi teorici del “marxismo occidentale” e della prima teoria critica francofortese, nonché, su un altro versante della filosofia novecentesca, dell’esistenzialismo tedesco e francese. Nella seconda metà del Novecento, questa modalità di critica filosofica delle forme di vita moderne è assurta a vessillo di un’intera stagione politica e culturale. Essa ha costituito la fonte d’ispirazione di opere letterarie, artistiche, cinematografiche ed è divenuta una lente di analisi politica, sociologica e psicologica che è entrata a far parte del linguaggio comune.

Alberto Moravia scrittore dell'esistenzialismo

Alberto Moravia scrittore dell’esistenzialismo

Basti ricordare, a questo proposito, il ruolo di vero e proprio spartiacque che ebbe nella storia del cinema contemporaneo la cosiddetta trilogia dell’incomunicabilità di Michelangelo Antonioni che, con i film L’avventura, La noia, L’eclisse – che videro la luce tra il 1960 e il 1962 – diede veste cinematografica ai temi dell’alienazione e del disagio dell’esistenza borghese, contribuendo a formare quel tipo d’immaginario critico che mise la parola fine alla stagione del neorealismo e iniziò ad irrorare le fonti a cui poi si sarebbe abbeverata la contestazione del ’68. Fu anche, infatti, la critica dell’alienazione dell’uomo della società borghese, filtrata filosoficamente dalla lettura dei testi di Marcuse e di Fromm, lo sfondo a partire da cui fu coltivato il sogno di nuove forme di vita radicalmente alternative, emancipate da una società del lavoro, dei consumi e della famiglia livellante e conformistica, tendente a ridurre l’uomo ad un soggetto «unidimensionale», schiavo di falsi bisogni, inibenti una vita realizzata in tutti gli aspetti e le molteplici potenzialità della natura umana. E’ difficile negare, con il senno di poi, che i tratti di cattiva astrazione che attraversavano quel sogno ebbero un ruolo importante nel mettere in moto quel processo in cui il concetto di alienazione si è prestato progressivamente ad un uso sempre più dilatato, indifferenziato e con il tempo anche inflazionato. Processo a cui ha fatto seguito, come dicevamo, la sua marginalizzazione dal dibattito filosofico e politico, fino al punto in cui oggi la parola stessa a volte sembra suonare con il rimando a una Stimmung politica e culturale lontana, affetta da un tratto d’irrimediabile inattualità. Una parabola, questa, che è corsa in parallelo a quell’«esaurimento delle energie utopiche» (Habermas)[1] che ha accompagnato, come un rovescio negativo, l’affermarsi dell’ideologia neoliberista negli ultimi decenni.

filosofia geworfenheitNegli ultimi anni, nel contesto della Marx Reinassance che è esplosa in concomitanza con la crisi economica globale, questo processo di declino sembra avere incontrato una battuta d’arresto. Specie in Germania, sono molti gli autori che hanno ricominciato a fare uso del concetto di alienazione – anche se in contesti teorici mutati rispetto a quelli che inizialmente lo ospitavano – riconoscendovi un imprescindibile strumento di diagnosi di patologie sociali sempre più diffuse nelle nostre società, e legate a filo doppio alle nuove forme del capitalismo, al suo “nuovo spirito”, come lo hanno chiamato Boltanski e Chiappello, e alle conseguenze che esso ha sui caratteri delle vite personali.[2] Un merito indiscusso in questa ripresa lo ha avuto però un libro, uscito in Germania nel 2005, dal titolo inequivocabile: Entfremdung, Zur Aktualität eines sozial-philosophischen Problems.[3] A riprova di come la critica dell’alienazione fosse effettivamente di nuovo «nell’aria», fin dalla sua uscita questo libro si è rivelato un vero e proprio caso editoriale, conquistando l’attenzione di un pubblico di lettori ben più allargato di quello specialistico universitario.

filosofia Semplice presenzaGrazie all’originalità delle linee teoriche sviluppate in questo lavoro, la sua autrice, Rahel Jaeggi, si è subito profilata come uno degli esponenti più promettenti e più interessanti dell’ultima generazione della scuola di Francoforte, quella per intenderci formatasi all’istituto di ricerca sociale della Goethe Universität di Francoforte sul Meno, durante gli anni della direzione di Axel Honneth. Di Honneth, Jaeggi è stata assistente a Francoforte, prima di assumere la cattedra in Filosofia pratica alla Humboldt-Universität di Berlino, dove attualmente insegna. E’ difficile però non cedere alla tentazione di mettere in relazione l’interesse di questa filosofa per il tema dell’alienazione anche con le sue radici familiari: suo padre è infatti il sociologo marxista Urs Jaeggi, uno dei riferimenti teorici del ’68 berlinese, e sua madre la psicoanalista Eva Jaeggi. Marxismo e psicoanalisi: gli ingredienti perfetti, verrebbe da dire, per riprendere in mano un concetto che ha attraversato in lungo e in largo il Novecento e provare a imprimergli una nuova fisionomia, capace di entrare in comunicazione con tempi ed esigenze mutate, senza disperdere quanto di buono e di necessario esso recava con sé.

Faster, Pussycat! Kill! Kill! Russ Meyer's cult sexploitation movie inspired Cullinan Richards' trip to Scunthorpe Photograph Everett Collection  Rex Features Everett Collection

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Una critica dell’alienazione non essenzialista

La premessa fondamentale del lavoro di Jaeggi è che una ripresa della critica dell’alienazione è oggi non solo possibile ma anche necessaria, e tuttavia, ciò può avvenire solo nella forma, appunto, di una riattualizzazione critica, non di una mera ripetizione di formule e di moduli del passato. Se la critica dell’alienazione è potuta apparire negli anni un’imbarcazione concettuale arenatasi nelle secche ideologiche del Novecento, per Jaeggi, ciò non è dovuto soltanto al repentino mutamento degli orizzonti politici avvenuto negli ultimi decenni e all’affievolirsi di ogni prospettiva di critica radicale della società che questo processo ha portato con sé. Il declino della critica dell’alienazione ha alle sue spalle anche ragioni di ordine filosofico: nell’orizzonte che ha dominato la scena filosofica degli ultimi decenni, questo concetto è apparso gravato da ipoteche filosofiche ingombranti, legate a moduli e paradigmi concettuali che per molte e fondate ragioni si è ritenuto non essere più perpetuabili. Come scrive Honneth nella prefazione del libro, annunciando uno dei temi fondamentali del lavoro: nella sua formulazione classica, tanto in Rousseau quanto in Marx e i suoi eredi, la critica dell’alienazione presupponeva sempre «una determinazione essenziale dell’uomo».

Ciò che veniva diagnosticato come alienato si presupponeva si fosse allontanato da qualcosa, che fosse «divenuto estraneo rispetto a ciò che costituisce l’autentica natura dell’uomo, la sua vera essenza».[4] Di modo che, il ritorno da questa condizione alienata in una condizione non alienata veniva inteso come la riappropriazione di un’originaria unità dell’uomo con sé stesso e con il mondo: un’unità che passando per lo stadio, necessario ma transitorio, dell’estraneazione, giunge infine alla sua piena destinazione e realizzazione storica, laddove la differenza tra proprio ed estraneo è definitivamente tolta e superata. Questi presupposti metafisici erano all’opera tanto nella declinazione marxista della critica dell’alienazione quanto in quella esistenzialista.

Tura Satana, Haji, Lori Williams, ossia Varla, Rosie e Billie come trasformare il deserto del Mojave nel (non) luogo del sesso come pretesto per la violenza

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Se in Marx l’alienazione – o l’estraneazione, per essere più fedeli al termine tedesco, appunto Entfremdung, che compare nei Manoscritti economico-filosofici – era il risultato dell’impedimento, determinato dalla strutture di classe del capitalismo, della riappropriazione delle forze di genere umane oggettivate ed estraniate nel processo della produzione, in Kierkegaard e in Heidegger l’alienazione era il risultato dell’impossibilità dell’individuo di ritornare dall’universalità anonima e livellata del potere sociale reificato del Man, alla propria autentica e auto-scelta individualità. Pur in direzioni (apparentemente) opposte, in entrambi i casi, tuttavia, l’alienazione veniva concepita come «la mancata relazione a quella relazione in cui consiste l’autentica natura dell’uomo, sia questa intesa come cooperazione o come autoriferimento esistenziale». Un presupposto che lo sviluppo filosofico degli ultimi decenni, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, si è incaricato di demolire criticamente. «Nel frattempo noi sappiamo – continua Honneth – che, anche se non dubitiamo affatto di determinati universali della natura umana, non dobbiamo più parlare in un senso oggettivistico di un’«essenza» dell’uomo, delle sue «forze di genere essenziali», dell’originaria posizioni di fini».[5]

Valerio Zurlini le_desert_des_tartares

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Le ragioni che stanno alla base del congedo da questi presupposti sono molte, filosofiche e politiche. In apertura del suo testo, Jaeggi si concentra in particolare sulle critiche del post-strutturalismo e del liberalismo filosofico e politico. Sulle orme della critica althusseriana al giovane Marx, condotta in nome della «rottura epistemologica», Foucault, ricorda Jaeggi, ha estromesso dal proprio vocabolario critico il concetto di “alienazione” per la ragione che esso, poggiando su presupposti essenzialistici, suggerisce l’idea che al soggetto dell’emancipazione sia sufficiente far saltare i meccanismi repressivi dei processi storici, economici e sociali per riconciliarsi con sé stesso e con i prodotti estraniati della sua prassi sociale. Per Foucault, ad essere postulata, nel concetto di “alienazione”, è l’idea che esista una soggettività autentica prima o al di là dei processi di regolamentazione e di normativizzazione dei poteri sociali: come se questi poteri, nella misura in cui assoggettano i soggetti, non li sollecitassero anche a soggettivizzarsi, e come se quindi, proprio l’alienazione – l’estraneazione in ciò che non è proprio – non sia in realtà l’atto inaugurale, e mai definitivamente superabile, delle stesse pratiche di soggettivazione.

Diversa è stata la critica condotta nel quadro del liberalismo filosofico e politico. Qui la classica critica dell’alienazione di matrice hegelo-marxiana è stata presa a bersaglio soprattutto per il suo presupporre una determinazione oggettiva dei fini essenziali dell’autorealizzazione umana: una visione etica sostanziale, inconciliabile con il pluralismo etico e politico, ma anche foriera di un’attitudine paternalistica che contraddice il convincimento fondamentale di ogni società pluralistica liberale, secondo cui a ciascuno deve essere lasciata la decisione sul modo in cui egli vuole dare forma alla propria vita. Ridurre bisogni e interessi soggettivi “integrati” nel sistema capitalistico a espressioni di una «falsa coscienza», immune da questa stessa falsità, come faceva ancora disinvoltamente Marcuse ne L’uomo a una dimensione, vuol dire pretendere paternalisticamente di disporre di un punto di vista valutativo assoluto sulla buona vita, sottratto alle autointerpretazioni pratiche degli individui coinvolti nel “sistema”. E vuol dire anche disconoscere che i bisogni umani mutano e si trasformano storicamente, e che pertanto, se questo mutamento avviene sotto il condizionamento degli imperativi di mercato, ciò non ha per forza il significato di una trasformazione antropologica che mette a repentaglio l’integrità etica e umana dei soggetti.

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Per Jaeggi, qualsiasi ripresa o riattualizzazione della critica dell’alienazione deve mostrare di sapersi porre all’altezza di queste critiche: deve ripartire da esse. Ma come fare a criticare una forma di vita individuale in quanto alienata da sé e dal mondo, senza farsi carico dell’idea che da qualche parte esiste un’autenticità o una trasparenza umana verso cui fare ritorno? Nel corso del volume, Jaeggi sottolinea come con il concetto di alienazione, tanto nella linea marxista quanto in quella esistenzialista, si è sempre voluto fare riferimento a due fenomeni tra loro strettamente correlati, eppure non coincidenti: da una parte la perdita di controllo da parte dei «soggetti – individuali o collettivi – sulle proprie azioni, dall’altra l’impossibilità di questi soggetti d’identificarsi in maniera ricca di senso con ciò che fanno e con coloro con cui lo fanno. Questa irriducibile bidimensionalità del concetto, spiega, è il modo con cui si è tentato di cogliere, anche sul piano fenomenologico, processi di etero-determinazione peculiari, non riducibili a meri rapporti di soggezione ad un dominio esterno, ma piuttosto espressione di paradossali processi d’inversione, in cui si finisce per essere dominati da ciò che è nello stesso tempo proprio ed estraneo.

In gioco, nella critica dell’alienazione, è uno stato d’impotenza rispetto a dinamiche auto-prodotte e la connessione tra questa soggezione e i fenomeni di svuotamento di senso della vita del singolo. Così, nei Manoscritti economico-filosofici del giovane Marx, ricorda Jaeggi, l’alienazione è la conseguenza del fatto che «le proprie azioni e i propri prodotti, le istituzioni e i rapporti sociali che noi stessi abbiamo prodotto, sono diventati poteri estranei».[6] Il lavoratore salariato nel mondo della produzione capitalistica è alienato in quanto «non possiede ciò che ha prodotto: è quindi sfruttato ed espropriato; non dispone e non determina le condizioni entro le quali produce: è quindi senza potere e non libero». E l’effetto di tutto ciò è che questo lavoratore non può realizzarsi nelle azioni in cui pure dovrebbe realizzarsi, è esposto a rapporti privi di senso, perché interamente strumentalizzati, con i quali quindi non si può identificare, dai quali si sente dissociato.[7] Ora, a veder bene, questa diagnosi aveva come presupposto un’idea tutt’altro che ovvia e scontata di libertà: l’idea cioè secondo cui posso essere un attore che si autodetermina, posso essere libero, soltanto in un mondo che posso rendere realmente “proprio”, nel senso di un’identificazione appropriante.

Indagine su un cittadino al di sopra ogni sospetto 1970 Drammatico Florinda Bolkan Gian Maria Volonté Gianni Santuccio Orazio Orlando Salvo Randone Elio Petri

Indagine su un cittadino al di sopra ogni sospetto 1970 Drammatico Florinda Bolkan Gian Maria Volonté Gianni Santuccio Orazio Orlando Salvo Randone Elio Petri

Per Jaeggi, una critica non essenzialista dell’alienazione deve ripartire da qui, da questo concetto positivo di libertà, a cui rinunciano, per ragioni diverse, tanto il post-strutturalismo quanto il liberalismo filosofico e politico. Deve ripartire dall’idea che si dà libertà solo nel confronto con il negativo, nel processo di integrazione di ciò che è inizialmente estraneo: detto diversamente, e in termini hegeliani, che «gli individui si trovano già da sempre in relazioni, la cui realizzazione (in molteplici significati) è il presupposto della loro libertà»[8]. Questo concetto può ancora guidare una critica delle forme di vita sociali dal punto di vista dell’alienazione, a patto però che si abbandoni il presupposto che il superamento del negativo e l’integrazione dell’estraneo coincidano con il definitivo superamento dell’estraneo: con la ri-appropriazione di un’originaria relazione d’identità soggetto-oggetto, già esistente, ma divenuta oscura e dimenticata. Precisamente ciò è quanto veniva presupposto nel giovane Marx, dove a mancare era il riconoscimento che il prodotto della prassi sociale tende a conquistare necessariamente un’autonomia rispetto ai soggetti che lo hanno prodotto. Da questo disconoscimento scaturiva il tratto prometeico del suo concetto di prassi rivoluzionaria, che alla fine portava a immaginare «coscienza di classe», «interesse di classe» e «agire di classe» come attributi oggettivi di un «Subjekt in Grossformat», nella cui dis-alienazione politico-rivoluzionaria, raggiunta attraverso un totale superamento dell’oggettività estraniata e una completa disponibilità sul mondo della produzione, si compiva il senso teleologico della storia.[9]

Una critica non essenzialistica dell’alienazione deve «riabilitare l’estraneo» e uscire fuori dal cerchio magico di un pensiero dell’identità, che equivale sempre a negazione della pluralità e della storia. Il concetto di alienazione deve diagnosticare non la perdita di una determinazione sostanziale, ma «differenti forme di disturbo nei rapporti di appropriazione».[10] Laddove questi rapporti di appropriazione devono essere concepiti in termini produttivi e aperti, non teleologicamente e circolarmente determinati: come integrazione e trasformazione di ciò che è dato, in quanto processi rimessi alla prassi autonoma dei concreti soggetti coinvolti. Soggetti che d’altra parte, solo nel confronto, anche agonistico, con i ruoli e le funzioni sociali date, possono appropriarsi e sviluppare il loro sé, che non esiste prima e al di là di questo stesso processo di sviluppo e d’interazione con i ruoli. Come afferma Jaeggi: il superamento dell’alienazione non coincide con il «superamento della socialità rappresentata attraverso i ruoli, ma con la loro appropriazione e trasformazione». «Un autorapportamento non alienato del sé è possibile solo attraverso un riferimento appropriante alle pratiche sociali che determinano la nostra vita, non attraverso la loro negazione astratta». Questa appropriazione dipenderà certo dalle attitudini soggettive delle persone, ma anche dal carattere oggettivo delle istituzioni: «il superamento dell’alienazione necessita di offerte di ruoli sociali e di istituzioni, che rendono possibili identificazioni e appropriazioni».[11]

Elsa Martinelli in La decima vittima directed by Elio Petri, 1965

Ursula Andress in La decima vittima directed by Elio Petri, 1965

Libertà come appropriazione e trasformazione di sé e del mondo

Il cuore della proposta del libro consiste quindi nell’elaborazione del concetto positivo, ma non teleologico, di libertà come appropriazione. Richiamandosi alla riflessione del filosofo Ernst Tugendhat – ma anche a quella di altri autori contemporanei, come Harry Frankfurt,Thomas Nagel a Charles Taylor – Jaeggi definisce questo concetto formalizzato e processuale di libertà positiva come “capacità di funzionamento della volontà”. Con questa “capacità”, spiega, va intesa la possibilità della persona di potere attribuire a sé stessa ciò che fa e vuole, di potere identificarsi con le proprie azioni, realizzando scopi per essa carichi di valore. Il criterio di libertà così definito è formale e non sostanziale, in quanto non indica possibili contenuti e scopi materiali della volontà. D’altra parte, però, ponendo l’accento sulle modalità di utilizzo e di attuazione della volontà, permette di riconoscere come non tutte le prese di posizione personali sono libere: sono tali solo quelle che dimostrano di essere qualificate, di corrispondere cioè a una volontà verace. Il concetto di alienazione, allora, deve tematizzare proprio «le complesse dimensioni di questo “porsi in collegamento con sé”, “potersi attribuire”, “appropriarsi” le proprie azioni, i propri desideri (e in generale la propria vita), e le molteplici ostruzioni e fonti di disturbo che possono coinvolgere questi rapporti».[12]

Il tutto sul presupposto che non si dà libertà del sé, cioè capacità di volontà, senza un’appropriazione “riuscita” del mondo delle pratiche sociali e delle istituzioni in cui si è coinvolti. In altre parole, riprendersi da uno stato di alienazione non vuol dire tanto riconoscere cosa si è già, quanto attuare processi di riconfigurazione creativa e trasformativa dei significati e delle identità sociali da cui si è già presi, al fine di imprimere su di essi un marchio e uno stile nuovo e inedito. Jaeggi mette alla prova questa proposta nella parte centrale del volume, dove dà origine a un vero e proprio percorso fenomenologico, analizzando situazioni di vita quotidiane caratterizzate da stati personali di stallo, d’irrigidimento, di perdita di riferimento significativo al mondo. L’obiettivo è mostrare come queste patologie sociali della vita quotidiana acquistino piena perspicuità se interpretate alla luce delle categorie determinate in sede preparatoria. La sfida ogni volta è quella di valorizzare momenti centrali della critica dell’alienazione marxista ed esistenzialista, senza assumere però lo sfondo di premesse essenzialistiche in cui esse erano inscritte. In queste pagine, risulta molto ben chiarita la dimensione etica del fenomeno dell’alienazione, ancorata alla innovativa teoria della soggettività umana ruotante attorno al concetto di libertà: non sembra però adeguatamente articolata una riflessione sulle istituzioni, sui contesti oggettivi che devono fornire le condizioni sociali di cui gli individui hanno bisogno per vivere una vita libera dall’alienazione.

 La classe operaia va in paradiso Gian Maria Volontè e Salvo Randone

La classe operaia va in paradiso Gian Maria Volontè e Salvo Randone

Stando alle dichiarazioni di Jaeggi, queste lacune dovrebbero essere colmate nel suo prossimo libro, Kritik der Lebensformen, la cui pubblicazione è stata annunciata per la fine di quest’anno. Questi rilievi, tuttavia, nulla tolgono a un libro che oltre ad essere molto godibile da leggere e ad esibire profondità e creatività teoretica, ha avuto il merito di riaprire una pagina di storia delle idee che sembrava definitivamente consegnata alla «critica roditrice dei topi», come aveva voluto, ironicamente, lo stesso Marx. D’altra parte, si potrebbe osservare, per giungere a criticare le istituzioni sociali, e in primis il capitalismo in quanto “forma di vita”, oggi non sembra esserci altra strada che quella di ripartire dal terreno dell’esperienza soggettiva, ponendosi il problema di come riuscire ad articolare concettualmente le sofferenze sociali, anche quelle senza voce, senza assumere un atteggiamento paternalistico nei confronti dei soggetti coinvolti. Una volta assunta questa esigenza, la stessa critica delle istituzioni non potrà più assumere la forma di un’ingegneria sociale che stabilisce le vie dell’emancipazione e della presunta liberazione, come se queste fossero già tracciate, ancor prima che i soggetti si attivino per decidere autonomamente il modo in cui dare forma, individualmente e collettivamente, alla loro pratiche sociali: il modo in cui appropriarsi, e non riappropriarsi, delle loro vite. Continua a leggere

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