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Gezim Hajdari, Poesie, Alzati Gesù, prendi la frusta, Chiodi dell’esilio, da Cresce dentro di me un uomo straniero, testo albanese a fronte, Ensemble, Roma, 2020, pp. 168 € 15 Lettura di Giorgio Linguaglossa

Gezim Hajdari nel suo studio

[Gezim Hajdari nel suo studio]

Lettura di Giorgio Linguaglossa

in Essere e tempo di Heidegger (1927) l’esserCi è caratterizzato dalla reciproca e intima connessione di tre «esistenziali»: Befindlichkeit (come ci si trova), Verstehen (la“comprensione”, cioè l’orientamento in cui ci si trova), Rede (il “discorso”, il mondo di parole in cui ci si trova). Queste dimensioni dell’esistenza nel loro insieme costituiscono l’apertura del «mondo» (l’autoaprentesi) in cui l’esserCi (l’uomo) si trova radicato nella «terra» (l’autoschiudentesi). Ora, la terza di queste dimensioni coappartiene alle altre due, il che implica che l’esserCi è «gettato» nel mondo ed è costretto ad orientarsi in un universo di parole che non conosce e che gli sono estranee. Ma è mediante le parole che i «fenomeni» possono essere esperiti in quanto sono portati dal linguaggio. Ad esempio, la parola «sedia» non solo pre-orienta il nostro rapportarci alla «sedia» ma anche la cosa stessa ci viene incontro tramite la parola, cioè la «sedia». Noi dunque non facciamo mai esperienza di «cose» che poi interpretiamo in un secondo momento a partire da un orizzonte linguistico dato, questa infatti è la concezione che ha l’ermeneutica, ma abbiamo sempre a che fare con «cose» in quanto sono dette, parlate, hanno un nome. Infatti, se mancano le parole la «cosa» diviene sfuggente, letteralmente ci sfugge.

Ora, di fatto, nella poiesis la parola «manca», è destino della parola mancare, esser mancante, altrimenti non ci sarebbe poiesis, ci sarebbe il plenum, la plenitudo dei mistici che è altra cosa che qui non interessa. Questa negatività (data dalla mancanza) predispone la parola ad una pre-comprensione, che è già in sé un destino nel senso di un tramandamento in quanto ogni parola porta con sé la negatività del suo non essere completa, e porta con sé l’erranza delle parole in quanto erranee, frutto di erranza e di errore. È questa la ragione per cui molti poeti soffrono, a livello esistenziale e linguistico, di erranza e di errore, proprio in quanto essi vengono trascinati verso queste configurazioni esistenziali, proprio in quanto infirmati dalla negatività originaria delle parole.
Il tramandamento delle parole trascina con sé il tramandamento delle cose nella memoria degli uomini e nell’orizzonte degli eventi. E, con il tramandamento, inizia la storia.
La poiesis narra questo tramandamento, questo errare nel tramandamento.

Questo è il caso esemplare di Gezim Hajdari, la sua poesia ha sempre seguito il corso del tramandamento storico dell’erranza e dell’esilio della parola. Hajdari è un poeta albanese in auto esilio, giunto in Italia all’inizio degli anni novanta è qui che ha trovato una nuova patria. Ha fatto tutti i lavori per sostentarsi, anche i più umili, ma con la fronte ben alta e la schiena eretta. È sempre stato un fiero oppositore politico della demoKratura vigente in Albania, la sua patria. Ma, si sa, l’Italia non ama gli uomini coraggiosi, non ama gli oppositori dei regimi totalitari e delle demoKrature e, tantomeno ama i poeti, per cui un duplice disinteresse ha sempre mostrato verso il poeta albanese in esilio: troppo ingombrante, non addomesticabile, imprevedibile e, quindi, inaffidabile. E poi la sua poesia è troppo dissimile dal linguaggio stereotipato della poesia maggioritaria in vigore in Italia da tanti decenni, intimamente ingovernabile e riottosa ad ogni addomesticamento e ad ogni accomodamento. E così il destino di Gezim Hajdari è stato segnato: il disinteresse ed il silenzio generale.

Come per ogni esule, com’è avvenuto per Brodskij, la storia si è fermata nel momento dell’esilio, di lì ha avuto un nuovo inizio. La poesia di Hajdari segna il riinizio della storia del suo paese, segna una cesura e una ricucitura, è un ponte interrotto perché crollato e non più ricostruito. E così il canto dell’esule è diventato il canto di una nazione, l’espressione di una lingua sotto il peso della umiliazione e dell’angoscia. Hajdari è forse l’ultimo poeta europeo guidato da una visione tragica della storia e dell’esistenza, è l’ultimo poeta europeo che fa poiesis dai tratti epici, contrassegnata da stacchi acutissimi e da arditissime metafore ed iperboli. È la poiesis di un ponte rotto e non più riparato, perché quelle ferite non sono ormai più sanabili e il poeta albanese è costretto a portarsi dietro, nel tramandamento, la valigia delle aspirazioni e dei sogni traditi. È l’atto della storicizzazione dell’arte, è da qui che la storia può prendere un nuovo inizio, grazie alla poiesis.

Heidegger scrive che

«Quando l’arte si storicizza, si ha nella storia un urto, e la storia inizia o riinizia. Qui“storia” […] è il risveglio di un popolo ai suoi compiti, in quanto inserimento in ciò che gli è stato affidato. […] L’arte è storica e come tale è la salvaguardia fattiva della verità in opera. L’arte si storicizza come Poesia. La Poesia è instaurazione nel triplice senso di donazione, fondazione e inizio».1

L’arte viene così ad indicare il luogo originario in cui abita l’uomo. Riprendendo un verso di Hölderlin in cui il poeta dice: «Pieno di merito, ma poeticamente, abita / l’uomo su questa terra», Hajdari con le sue parole esprime l’impossibilità per la sua poiesis di uscire fuori da questo sortilegio che la vede relegata nel suo destino di abitare «poeticamente» il mondo dell’indigenza dello spirito e della povertà.

Intorno al 1919 Osip Mandel’štam scrive il famoso saggio Sull’Interlocutore, centra la sua attenzione critica sul problema ignorato dai simbolisti: «Con chi parla il poeta?». Ecco, non avendo una risposta soddisfacente, vorrei fare la stessa domanda ai lettori: Con chi può parlare un poeta come Gëzim Hajdari  in esilio?

1  M. Heidegger,  L’origine dell’opera d’arte in Sentieri interrotti, cit., p. 60

Gezim Hajdari a Venezia
Gezim Hajdari a Venezia

Intervista di Alida Airaghi

https://www.sololibri.net/Intervista-Gezim-Hajdari-poesia-impegno-esilio.html

Tratto dalla recensione di Fulvio Pezarossa, pubblicata sulla rivista Insula europea.

 “Morire in altra lingua”. Nuovi versi dall’esilio di Gëzim Hajdari

20 Aprile 2020 Fulvio Pezzarossa

‘’Stimola contraddizioni la lettura del nuovo e rilevante contributo che Gëzim Hajdari ha da poco offerto alle nostre lettere, a quelle europee e non solo, con la raccolta bilingue Cresce dentro di me un uomo straniero / Rritet brenda meje një njeri i huaj, Roma, Ensemble, 2020. Nel volume in immediato si rintracciano la certezza di punti fermi, la caparbietà di un progetto a lungo termine, l’ostinazione a credere in valori millenari filtrati dalla invenzione scritta, persistenti a fronte di un mutamento epocale di paradigma, che tutto appiattisce, frammenta, disconosce e distrugge, proprio a far capo dallo status che l’autore porta, esibisce, coltiva: quello di esule, migrante, rifugiato, altro e diverso, nello spazio e nel tempo.’’

Gezim Hajdari Siena 2000
Gezim Hajdari, 2000

Gezim Hajdari da Cresce dentro di me un uomo straniero / Rritet brenda meje një njeri i huaj). Edizioni Ensemble 2020

Alzati Gesù, prendi la frusta

C’era una volta un paese oltre l’Adriatico,
si chiamava Arbëri ,
l’antica stirpe shqiptar ,
erede legittima dei Pelasgi,
benedetta dalle Ore
protetta dalle Zana
nutrita di leggende,
baciata dalla gloria.
Guerrieri valorosi
uomini di besa,
del Kanun delle Montagne,
gente generosa,
fiera fino al sangue.
Onoravano l’ospite,
usanze e il loro dio,
pane e giuramento,
sale e cuore.
Cinquecento anni
al suon della lahuta ,
guidati dai prodi,
Gjeto Basho Mujo
Gjergj Elez Alìa.
Custodi di frontiera
delle Bjeshkëve të Nëmuna ,
rispettosi sposi,
teneri padri di famiglia,
mai al nemico temibile
mostrarono le spalle,
in difesa della patria,
delle loro donne,
Belli, gagliardi
di nobili virtù,
che Lord Byron esaltò
nel Pellegrinaggio di Childe-Harold.

C’era una volta un paese oltre l’Adriatico,
si chiamava Arbëri,
il valore degli uomini
non era nella ricchezza
ma nell’onestà.
Un ottimo contadino
valeva quanto un principe,
per chi era servo
e per chi era Re.
Principi gloriosi
e semplici montanari
rifiutavano la schiavitù,
i loro veri capi erano
gli uomini saggi.
gli shqiptar si alzavano
persino dalla tomba
per mantenere la besa,
la parola data.

C’era un paese oltre l’Adriatico,
si chiamava Arbëri,
con il saluto più bello al mondo:
“T’u ngjat jeta! ”
Terra di Scanderbeg ,
impregnata di drammi,
ossa e sangue,
nel corso della storia
per la sopravvivenza della stirpe albanese.
Patria dei rapsodi
senza pari nella regione,
lahuta e çiftelia ,
accompagnava l’arco della vita,
dalla nascita alla morte.

C’era un paese oltre l’Adriatico,
si chiamava Arbëri,
onorata come una sposa
dai padri fondatori,
cantata dai bardi,
illuminata dai mistici.
Poeti, sacerdoti, bektashi ,
uomini d’onore,
spesero la loro vita,
con la penna e il fucile,
in difesa dei suoi lidi.

C’era un paese oltre l’Adriatico,
si chiamava Arbëri,
paese di burrnija
popolo epico, sovrano
come nessuno nei Balcani,
parlava la lingua
più antica del globo,
con donne splendenti
come i raggi del sole,
che l’occhio umano
mai vide sulla terra del Signore.

C’era un paese oltre l’Adriatico,
si chiamava Arbëri,
paese delle aquile,
cantato nei secoli
da Virgilio, Catullo e Orazio.
Conviveva da millenni
con i popoli vicini,
di tutte le etnie,
in tempo di guerra
in tempo di pace
nella gioia,
e nel dolore.

Gezim Hajdari, Siena 2000 (2)

C’è un paese oltre l’Adriatico,
si chiama Albania,
mai un pentimento
per i crimini del comunismo.
Governano insieme,
da ventisei anni,
‘i democratici’
e i boia della lotta di classe;
rubano insieme,
distruggono insieme,
si drogano insieme,
stuprano insieme,
uccidono insieme,
festeggiano insieme,
amoreggiano insieme,
si ubriacano insieme,
vomitano insieme,
le loro ubriacature
porci e ratti di fogna.

C’è un paese oltre l’Adriatico,
si chiama Albania,
paese castrato,
misero e dannato,
con le donne sgualdrine,
gli uomini codardi,
perfidi e malvagi,
figli trafficanti,
assassini spietati,
killer a pagamento.
La nuova Albania sorta
sui crimini, droga,
corruzione , ruberie,
denaro sporco,
traffici umani,
contrabbando di armi.
Coloro che alzano la voce,
vengono costretti all’esilio,
condannati al silenzio,
sepolti vivi.

C’è un paese oltre l’Adriatico,
si chiama Albania,
con la memoria corta,
adora i tiranni,
ieri, sulle piazze di ogni città
ergeva la statua del dittatore Hoxha,
oggi la statua di un re fantoccio-massone,
ladro, rozzo e sanguinario,
uccise i padri della nazione,
cent’anni fa
vendette l’Albania,
agli usurai.

C’è un paese oltre l’Adriatico,
si chiama Albania,
Colombia dell’Europa,
dove crescono ovunque
più piante di cannabis
che foglie d’erba.
paese degli scandali,
intrighi internazionali.
I politici corrotti
vengono eletti
dai loro padroni
come premier
e presidente della Repubblica.

C’è un paese oltre l’Adriatico,
si chiama Albania
gettato nel fango
dai Poteri oscuri

d’oltre Oceano,
con la benedizione
dei politici mafiosi di Tirana;
appoggiati dall’orda
di pseudo-intellettuali,
giornalisti,
opinionisti,
professori,
preti,
muftì,
che succhiano il sangue
della povera gente;
i loro stipendi
odorano di crimine,
si nutrono di carogne.

C’è un paese oltre l’Adriatico,
si chiama Albania,
abbaia come cagnolina,
in cima all’immondizia,
all’ombra delle statue
di George Bush , junior
e Hillary Clinton ,
due sanguinari,
criminali di guerra.

C’è un paese oltre l’Adriatico,
si chiama Albania,
con poeti, scrittori, artisti
corrotti e fottuti
dalla A alla Z,
hanno venduto all’asta
la patria e le loro madri.
Per avere un incarico governativo,
timorosi di dio,
sputano Allah,
baciano la croce,
portano al collo
catenine d’oro
con i chiodi insanguinati
di Gesù Cristo.
I poeti di Tirana
prostituti spirituali,
si sono venduti felicemente
ai governanti di turno,
a basso costo,
in cambio dello stupro
premi di carriera:
Penna d’oro,
Penna d’argento,
Onore della nazione,
pubblicazioni all’estero,
inviti dalle Fondazioni,
residenza di scrittura,
borse di studio,
per sé, i loro figli
e le amanti.
Premiati dal presidente della Repubblica,
allo stesso giorno,
alla stessa ora,
sia il boia del regime di Enver Hoxha
che la sua ‘vittima perseguitata’
di Spaç .

C’è un paese oltre l’Adriatico,
si chiama Albania,
dove i poeti di Tirana:
piccoli tiranni,
eletti ministri, ambasciatori,
godono dallo Stato
stipendi d’oro,
pensioni e case,
poltrone al governo,
alla televisione,
al parlamento,
consulenti-servi
dei capi di Stato fantoccio,
dei premier ladri.

C’è un paese oltre l’Adriatico,
si chiama Albania,
cancrena per i Balcani,
pericolo per il continente.
Alzati Gesù,
prendi la frusta,
caccia gli usurai fuori dell’Albania,
con le buone o con la forza,
liberaci dai tiranni di Tirana.

Gezim Hajdari foto di Piero Pomponi 1
foto di Piero Pomponi

Chiodi dell’esilio

La mia stirpe di rapsodi muore di venerdì.
Venerdì, gli antichi romani usavano eseguire le condanne a morte.
Di venerdì è morto anche Gesù Cristo, crocifisso al posto di un assassino.

Mio padre Riza una mattina di venerdì chiamò mia madre
e le disse:
‘’Oggi morirò!
Chiama Agìm, voglio dargli l’ultimo saluto!’’. – Così è di abitudine in Darsìa.
Agìm è mio fratello più grande.

In punto di morte aggiunse:
‘’Io sto per morire, amanèt vostra madre Nur,
senza pensione e malata;
la casetta umida, quando piove, gocciola dal tetto;
amanèt anche Gëzim in esilio, solo e lontano,
oltre il mare negro dell’Europa, vecchia puttana viziata!’’

Poi, guardando dalla finestra spalancata, aggiunse ancora:
‘’Lavatemi il corpo con l’acqua fresca del pozzo all’ombra del gelso rosso,
e fatemi seppellire nella tomba di mia madre, Kadife,
morì giovane sposa lasciandomi orfano a sei mesi.
Lascio questa penna di sambuco come ricordo
per il vostro fratello
che scelse la strada del poeta,
strada maledetta.’’

Chiese la besa ad Agim che avrebbe pagato il debito al panettiere
del quartiere, salutò Nur,
e si spense.

Era la penna con la quale scrisse il diario della vita
durante gli anni di terrore della lotta di classe,
quando tornava dalla campagna come pastore dei buoi,
strappato poi da mia madre per paura che fosse sequestrato dal Sigurimi .
Con i fogli del suo diario lei accendeva il fuoco per riscaldarci,
cinque bambini intorno al focolare nelle notti fredde d’inverno,
nella casetta di pietra focaia in cima alla collina buia, in Darsìa .

Riza era lo scrivano del villaggio,
durante le domeniche,
scriveva le lettere per i figli dei contadini che facevano il militare.

Da quando confiscarono i nostri beni di famiglia durante il comunismo,
noi siamo nati e cresciuti nelle casette seminterrate, umide e fredde,
la povertà non ci si è mai tolta di dosso.

Di venerdì è morto mio nonno paterno Velì,
rappresentante dei bektashi in provincia.
I suoi avi provenivano da Bjeshkët e Nëmuna ,
trasferitosi in Darsìa per motivi di vendetta
prevista dal Kanun delle Montagne.

Velì aveva sposato in seconda nozze Zyrà,
guaritrice di morsi di serpenti velenosi,
molto più giovane di lui,
chiamava suo marito: ‘’Mio signore!’’,

Anche Zyrà morì di venerdì
in una giornata di fulmini e pioggia
di fronte alla collina di Harbor.

Di venerdì è morto Zybèr, cugino di Velì,
investito da un tronco di salice alla riva del torrente di Çapok.
Ho visto con i miei occhi questa scena terribile,
avevo sei anni, mi portava spesso con sé,
piangevo disperato chiedendo aiuto ai passanti.

Di venerdì è morta sua moglie Mynevèr,
donna giunonica e veggente.
Aveva occhi a mandorla,
sapeva leggere il pensieri dei contadini del villaggio.
Mynever era anche una sciamana, comunicava con kecka e gli xhin.
annientava le fatture che gli xhin facevano ai contadini,
facendo una controfattura,
con la luna piena.

Di venerdì è morto Osman, il fratello di Zyber,
ucciso da hasmi durante la notte delle nozze,
sul letto matrimoniale:
hasmi entrò nella stanza degli sposi dal tetto della casa.

Quella notte i familiari non fecero sapere nulla dell’accaduto,
gli ospiti festeggiavano, bevevano e ballavano allegri.
L’indomani il padre di Osman si rivolse agli ospiti:
‘’Illustri ospiti, ieri abbiamo festeggiato il matrimonio di mio figlio,
oggi vorrei che celebrassimo insieme il suo funerale!’’

Di venerdì è morta Meje,
sorella più grande di Velì,
si svegliava di notte, si vestiva di bianco, e andava al torrente del villaggio,
parlava con le spose notturne.

Di venerdì è morta Lidia, l’altra sorella di Velì,
sposata oltre sette monti e sette fiumi.
Tra mio nonno e lei
non scorreva buon sangue.
Si diceva che avesse calpestato gli xhin all’una di notte.

Di venerdì è morto Sabrì, nella città di Lushnje,
fratello maggiore di mio padre,
condannato a centouno anni dal regime di Enver Hoxha
per aver combattuto durante la guerra nelle file
del Partito Fronte Nazionale Albanese.

Chiese di essere portato nel villaggio natale
per vedere per l’ultima volta la collina, gli ulivi,
baciare la terra d’origine, prima di scendere nella fossa.

Quando vide la lepre selvatica correre tra i cespugli,
gli uccelli neri su rami incurvati degli ulivi
e l’erba selvatica cresciuta al muro della vecchia casa,
pianse a nenia come un bambino.

Di venerdì è morto Mustafà, il fratellastro maggiore di Riza,
menò sua moglie Hurmà nel cortile di casa,
perché dopo aver partorito sette femmine,
voleva che nascesse un maschio.

Di venerdì è morto Hysein, ubriaco di grappa, fratello di Mustafa,
quel giorno aveva litigato con mia madre
per futili motivi,
fu travolto da una macchina sul boulevard della città.

Anche Hakì, il fratello di Hysen e Mustafa è morto di venerdì,
bevendo rakì e discutendo del Diritto Romano,
sperava che lo Stato postcomunista avrebbe restituito
una piccola parte dei beni rubati dal Partito del Proletariato
alla nostra famiglia.

Di venerdì è morta anche Fatimè,
l’unica sorellastra di mio padre,
impazzita.

Di venerdì morirò anch’io,
crocifisso mani e piedi con i chiodi dell’esilio
sulle spalle il peso di tutti i venerdì mortali
di una stirpe severa.

gezim hajdari 5

JEZU, MERR KAMZHIKUN!

Na ishte njëherë një vend përtej Adriatikut,
me emrin Arbëri,
fisi i lashtë shqiptar,
trashëgimtar legjitim i Pellazgëve,
bekuar nga Orët,
mbrojtur nga Zanat,
mbrujtur me legjenda,
puthur nga lavdia.
Luftëtarë të vyer,
burra të besës,
të Kanunit t’Malsisë,
njerëz bujarë,
krenarë gjer në gjak.
Nderonin mysafirin,
zakone, zotin e tyre,
bukë e betim
kripë e zemër.
Pesëqinde vite
nën tingullin e lahutës,
udhehëqur nga kreshnikët
Gjeto Basho Muji
Gjergj Elez Alìa.
Roje kufitare
të Bjeshkëve të Nëmuna,
dhëndurrë të respektuar,
baballarë të dhimshëm familjar,
kurrë armiku mizor
s’ua pa shpinën,
në mbrojtje të atdheut,
e grave lidhur kurorë.
Të pashëm, gazmorë,
me virtyte fisnike
që Lord Bajroni lëvdoi
në Shtegtimet e Çajld Haroldit.

Na ishte njëherë një vend përtej Adriatikut,
me emrin Arbëri,
vlera e njerëzve
s’matej me pasurinë
por me ndershmërinë.
Një fshatar babaxhan
vlente sa një princ,
qoftë shërbëtor
qoftë mbret.
Princa të lavdishëm
e malsorë të thjeshtë
s’pranoin skllavërinë,
kryetarët e tyre ishin
burra të mënçur.
Shqiptarët çoheshin
përderi dhe nga varri
për ta mbajtur besën,
fjalën e dhënë.

Na ishte njëherë një vend përtej Adriatikut,
me emrin Arbëri,
me përshëndetjen më të bukur në botë:
“T’u ngjat jeta!”
Toka e Skënderbeut,
ngjizur me drama
eshtra dhe gjak,
për mbijetesë kombëtare
në kohë të egra.
Atdheu i rapsodëve
pa shoq në treva,
lahuta e çiftelia
përcillnin harkun e jetës
nga lindja te vdekja.

Na ishte njëherë një vend përtej Adriatikut,
me emrin Arbëri,
nderuar si një nuse,
nga baballarët e kombit,
kënduar nga bardët,
përndritur nga mistikët.
Rilindas, priftërinj, bektashi,
burra nderi,
shuan jetën e tyre,
me penë dhe pushkë,
në mbrojtje të vatanit.

Na ishte njëherë një vend përtej Adriatikut,
me emrin Arbëri,
vendi i burrnisë,
popull heroik, sovran
si askush në Ballkan,
fliste gjuhën
më të lashtë në glob,
me gra hyjnore,
si rreze dielli,
që syri njerëzor
kurrë s’kish parë në tokën e zotit.

Na ishte njëherë një vend përtej Adriatikut,
me emrin Arbëri,
vendi i shqiponjave,
kënduar ndër shekuj
nga Virgjili, Katuli e Oracio.
Bashkëjetoi prej mijëra viteve
me popujt fqinj ndëretnikë,
në kohë lufte,
në kohë paqe,
në gëzime
e hidhërime.

Na është një vend përtej Adriatikut,
me emrin Shqipëri,
kurrë s’u pendua
për krimet e komunizmit.
Njëzet e gjashtë vite
udhëheqin tok
‘demokratë’
dhe xhelatë të luftës së klasave.
Vjedhin bashkë,
shkallmojnë bashkë,
drogohen bashkë,
dhunojnë bashkë,
vrasin bashkë,
gostisin bashkë,
dashurohen bashkë,
dehen bashkë,
shurrosen bashke,
vjellin bashkë,
dehjet e tyre
kërma dhe mij haleje.

Na është një vend përtej Adriatikut,
me emrin Shqipëri,
vend i tredhur,
mjeran i djallosur,
me gra të përdala,
burra kodosha,
të pabesë e zuzarë,
bijtë trafikantë,
vrasës të pamëshirshëm,
killer me pagesë.
Shqipëria e re ngritur
mbi krimin, drogën,
korrupsion, grabitje,
para të ndyra,
trafikantë të njerëzve,
kontrabandistë armësh.
Kush guxon ta ngrejë zërin,
detyrohet të ikë në syrgjyn,
dënohet me heshtje,
varroset përsëgjalli.

Na është një vend përtej Adriatikut,
me emrin Shqipëri,
kujtesëshkurtër,
adhuron tiranët.
Dje në sheshe të çdo qyteti
ngriheshin shtatore të dikatorit Hoxha,
sot kufoma e një mbreti dordolec, mason,
kusar, horr e katil,
njëqind vite më parë
vrau baballarët e kombit,
ua shiti Shqipërinë
fajdexhinjve.

Na është një vend përtej Adriatikut,
me emrin Shqipëri,
Kolumbia e Europës,
ku rriten kudo
më shumë degë kanabisi
sesa fije bari,
kryeshteti i skandaleve,
intrigave ndërkombëtare.
Politikanët e korruptuar
zgjidhen nga padronët e tyre
kush kryeministër,
tjetri presdient Republike.

Na është një vend përtej Adriatikut,
me emrin Shqipëri,
zhutur në baltë
nga Pushtetet e errëta
përtej Oqeanit,
me bekimin e politikanëve
mafioze të Tiranës,
mbështetur nga hordhia
e pseudo-intelektualëve:
gazetarë,
opinionistë
profesorë,
priftërinj,
hoxhallarë
e myftinj
që thithin si shushunja
gjakun e njerëzve të gjorë;
rrogat e tyre
bien erë krim,
ushqehen me kërma.

Na është një vend përtej Adriatikut,
me emrin Shqipëri,
leh si këlyshe
majë plehut me bajga,
nën hijen e shtatoreve
të Xhorxh Bushit
dhe Hillari Klinton,
dy gjakësorë,
kriminelë lufte.

Na është një vend përtej Adriatikut,
me emrin Shqipëri,
me poetë, shkrimtarë, artistë
të korruptuar e batakçinj
nga A-ja te Zh-ja,
e nxorën në ankand
atdheun dhe nanën e tyre.
Për një emrim qeveritar
gjyhnaqarë te zoti,
pështyjnë Allahun,
puthin kryqin,
mbartin në qafë
zinxhirë të artë
me gozhdët e gjakosura
të Jezu Krishtit.
Poetët e Tiranës
prostitutë shpirtëror,
u shitën lumturisht,
me çmim të ulët,
qeveritarëve të radhës,
Si shpërblim përdhunimi
çmime karriere,
Pena e artë
Pena e argjendtë,
Nderi i kombit,
botime jashtë vendit,
ftesa nga Fondacione
rezidenca shkrimtarësh,
bursa studimi
për vete, bijtë e tyre
dhe dashnoret.
Vlerësohen me çmime
nga presidenti i Republikës,
në të njëjtën ditë,
në të njëjtën orë,
xhelati i regjimit të Enver Hoxhës
dhe ‘viktima e persekutuar’
e Spaçit.

Na është një vend përtej Adriatikut,
me emrin Shqipëri,
ku poetët e Tiranës,
tiranë të vegjël,
gëzojnë nga shteti
rroga të arta,
pensione e shtëpi,
ministra, diplomatë,
kolltuqe në qeveri,
në televizion,
parlament,
këshilltarë të përunjur
të kryetarëve të shtetit- kukull,
kryeministrave rezilë.

Na është një vend përtej Adriatikut,
me emrin Shqipëri,
gangrenë për Ballkanin,
rrezik për kontinentin.
Ngrihu Jezu,
merr kamzhikun,
dëboi sarafët, jashtë nga Shqipëria,
me hir e pahir,
na çliro nga tiranët e Tiranës.

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Gino Rago conversa con Letizia Leone sulla Antologia AA.VV. Alla luce d’una candela, in riva all’oceano, a cura di Letizia Leone, L’Erudita Ed., Roma, 2018 – Testi di Edith Dzieduszycka, Steven Grieco-Rathgeb, Gëzim Hajdari, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Davide Cortese, Lidia Popa, Giuseppe Tacconelli, Flaminia Cruciani, Rossella Seller, Giacomo Caruso

letizia leone antologia1- Gino Rago:

Di recente hai curato per l’editore romano Giulio Perrone l’Antologia poetica Alla luce d’una candela, in riva all’oceano. Quali motivi ti hanno spinto verso la realizzazione di questo ambizioso e ben riuscito progetto poetico?

Letizia Leone:

In verità ho approfittato dell’invito dell’editore Perrone a curare un progetto antologico per i tipi dell’Erudita, convogliando la meditazione poetica degli autori su un tema vincolato alla contemporaneità, esilio e migrazione. Tema politico incandescente e strumento potente di propaganda dei nuovi populismi nelle nostre democrazie occidentali che cercano capri espiatori per il fallimento delle politiche economiche neo-liberiste o per l’incapacità di affrontare l’enorme complessità delle problematiche a livello globale. Ad esempio i leader populisti in Ungheria e Polonia stanno promuovendo una tipologia di democrazia illiberale e come sottolinea M. Kisilowski della Central European University, gli elettori di questi paesi «potrebbero arrivare a considerare la stagnazione economica come un prezzo sociale accettabile da pagare per ciò che maggiormente desiderano: un mondo più familiare in cui lo Stato garantisca un senso di appartenenza e dignità a un gruppo chiuso dominante, a spese di “altri”». Ma il populismo si presenta anche come un problema linguistico: semplificazione, manomissione, impoverimento della lingua. Pensiamo alla lingua nel Terzo Reich. Una lingua quella nazista costruita sui luoghi comuni, gli slogan, le frasi fatte e ci ammonisce Klemperer «proprio le frasi fatte si impadroniscono di noi.» Inutile sottolineare come la parola meditata e lenta della poesia, anche dalla sua postazione di retroguardia, rappresenti la grande sfida immunologica in questo momento. Significa riappropriarsi dei tempi lenti della lettura e del pensiero, un tornare a riflettere, a meditare sulle cose. La sfida di una convocazione a scrivere su Esilio e Migrazione in un libro collettivo come questo è proprio quella dello sfondamento del muro della retorica mediatica imperante.

2 – Gino Rago:

In copertina leggiamo AA. VV. che suggerisce la presenza di autori vari. Quali criteri ti hanno guidato nella scelta dei poeti da antologizzare?

Letizia Leone: è stato un lavoro fatto in sinergia con l’editore, da una parte l’invito alla collaborazione con tutti quegli autori che seguono i progetti culturali della casa editrice; dall’altra una mia personale cernita tra poeti impegnati in una continua ricerca estetica e stilistica. Tenendo sempre presente la libertà, il sistema aperto delle proposte. Certo il legame con la realtà poteva risultare condizionante (dato il tema e l’urgenza del contingente) ma al di là di una «fedeltà-concretezza alla terra», come direbbe Nietzsche, si è cercato di far muovere ogni autore liberamente (sul piano metafisico o ideologico o emozionale…) alla costruzione di un testo. Certamente nella chiamata a scrivere era implicito un principio di responsabilità e condivisione.

3 – Gino Rago

Tanti gli elementi che emergono dalle poesie presenti nell’antologia. Ne vuoi sottolineare qualcuno in particolar modo legato a nuovi fenomeni linguistici?

Letizia Leone:

La varietà e la qualità dei testi ha arricchito di senso questa esperienza di scrittura comunitaria. Ciò che emerge nello svariare delle scritture, è l’accertamento dell’esilio quale parametro esplicativo della contemporaneità, e della precarietà e disperazione come tratti nuovi della condizione umana. Se il mare resta il vero e proprio Leitmotiv che attraversa i testi, mare indifferente dei naufragi o del viaggio per acqua di un’epica contemporanea, e a volte specchio cosmico e interiore della percezione di sé, lo spaesamento spaziale o psichico si fonde ad un senso di estraneità (“Mancata appartenenza” di I. M. Clementi) e a questo si aggiunge spesso anche l’oblio della memoria in molti autori. Ampie inoltre sono le variazioni ritmiche e stilistiche sulle linee maestre dell’esilio e della migrazione: l’exilium (dal lat. Ex, Fuori e Solum, Suolo) è centro, ad esempio, della meditazione poetica del sonetto metricamente perfetto di Francesca Farina, o dell’esilio archetipico di Giuseppe Gallo che lentamente trasfigura in condizione intima e interiore. E poi la migrazione e le sue isotopie, il nomadismo, l’erranza, la de-territorializzazione: la migrazione di Giacomo Caruso fissata nell’immagine degli ampi e precari arabeschi delle rondini.

Ma l’esilio diventa anche forma-ipostasi di un’immagine extratemporale. Evento: là dove l’assetto epico immunizza il testo da scontate commozioni elegiache e trasforma fatti e frammenti classici in un portato sincronico di significazioni. Alcuni autori della Nuova Ontologia Estetica esemplificano nei loro testi una scrittura per frammenti, dislocazioni spazio-temporali, locuzioni ellittiche o traslate… Eliot aveva parlato di “metodo mitico” capace attraverso il paradigma storico di ordinare il caos della contemporaneità, esemplificato in questo caso dall’Ecuba di Gino Rago, archetipo di donna vinta che sembra uscita da pagine di cronaca. Oppure le rifrazioni, quasi astrazioni nell’impermanenza de I sottili lineamenti tribali, le mille piste/che si biforcano nel deserto di Steven Grieco-Rathgeb. O ancora le irradiazioni della Storia da un vaso cretese, impercettibili e mortali, di Giovanna FreneGiorgio Linguaglossa nel suo testo In nomine lucis mette in atto un neo-allegorismo infernale carico di figurazioni limbiche, sospese tra sur-reale e iperrreale, tra oggetti estranei e frammenti incistati nella carne dell’immaginario più remoto: Di notte viaggiano i vagoni merci carichi di morti, oppure: Il buio partorisce un uovo dal quale escono i pipistrelli ciechi…Quasi una discesa agli inferi, come nei versi di in Edith Dzieduszycka o di Francesco Di Giorgio dove la specie umana in toto assume una parvenza diabolica. L’esilio si palesa come dissociazione, malattia mentale, emarginazione sociale nei versi di Rossella Seller, La fata ora è scomparsa nelle sere/ fredde dei ponti tesi sulla testa…, o nell’affondo psichico e antropologico (se l’inconscio è lo straniero che abita in noi) di F. Cruciani,…nella giacchetta/ stretta e le scarpe sfondate/con passi gridati hai osato le costellazioni rovesciate…

4 – Gino Rago:

Una idea-guida cui ti sei magnificamente ispirata nella stesura della Prefazione è stata quella della «condizione di esilio» cara a Josif Brodskij. Credo che meriti, anche come viatico alla giusta lettura dell’antologia poetica da te curata, di essere bene approfondita…

Letizia Leone:

Si, la stessa antologia è suggellata da un verso del poeta russo esule nel 1972 dopo l’accusa di parassitismo sociale, alla luce d’una candela in riva all’Oceano. Un verso che in questo caso può essere esperito quale veglia simbolica davanti al mare, il mar Mediterraneo di questo secondo millennio divenuto tomba d’acqua per migliaia di profughi. Topos della letteratura universale, l’esilio in questa nostra modernità di guerre e migrazioni assume anche una valenza metafisica per Brodskij. L’abitare è la parola chiave mancante e il focolare, archetipo psichico del centro, dei legami comunitari e parentali e una parola vecchia, accantonata, dismessa. Smarrimento delle radici ed erranza sono la condizione attuale di un uomo decentrato, per così dire, fuori di sé: cuffie, cellulari, computer lo tengono immerso in una esteriorità liquida, al livello superficiale della chiacchiera. Al contrario lo scrittore è un esule privilegiato grazie al suo mondo interiore. «La tua capsula è il tuo linguaggio» ribadisce Brodskij, «per uno che fa il mio mestiere la condizione che chiamiamo esilio è, prima di tutto, un evento linguistico: uno scrittore esule è scagliato, o si ritira, dentro la sua madrelingua. Quella che era per così dire la sua spada, diventa il suo scudo, la sua capsula». Ne consegue che l’esilio post-moderno, quale dimensione ontologico-esistenziale, esula dalla sola sfera politica ma configura una condizione di estraneità, disadattamento, precarietà, marginalità dove il linguaggio, la poesia, l’arte e la cultura possono funzionare da «scudo immunologico» anche per chi è geograficamente stanziale. Non dimentichiamo inoltre che i poeti antichi erano maestri dell’abitare poeticamente la terra e citando da un prezioso volumetto di Emerico Giachery (Abitare poeticamente la terra): «I versi sono esperienze. Per scriverne anche uno soltanto, occorre aver prima veduto molte città, occorre conoscere a fondo gli animali, sentire il volo degli uccelli, sapere i gesti dei piccoli fiori…», queste sono le parole di Rilke che oggi potrebbero risultare anacronistiche. Ormai immersi come siamo nel rumore, negli spazi spogli e cementificati, nelle luci violente quanta di questa sacra spazialità è stata sottratta al nostro io? Siamo un poco tutti esuli da qualcosa di profondo, sicuramente dal silenzio…

5 – Gino Rago:

Erranze-dislocazioni-esilio stanno imponendo un nuovo fenomeno linguistico con il quale bisogna cominciare a fare i conti: il translinguismo. Vuoi dirci su questo il tuo pensiero?

Letizia Leone:

Il translinguismo letterario, fenomeno oggi molto diffuso, può rivelarsi un’occasione creativa per la lingua di un poeta e di uno scrittore. Mi piace pensare che sebbene per uno scrittore esule o emigrato la propria madrelingua possa rappresentare una sorta di «capsula» o «scudo», questi sa bene che deve immettersi anche nel flusso vivo della lingua che esperisce quotidianamente: «ed è il momento in cui il futuro della lingua interviene nel proprio presente e lo invade». Così almeno per Brodskij, scrittore bilingue dopo l’esilio. Ma non dimentichiamo che realizza una sorta di translinguismo anche chi è costretto a rifiutare per orrore la propria madrelingua come Paul Celan, il quale costretto nel tedesco dei carnefici articola nei suoi testi un lingua oscura, ermetica, simbolicamente blindata … Comunque un poeta deve mettere a dimora i semi di un’altra lingua, di un altro mondo affinché l’emigrazione non sia solo una dislocazione spaziale.

6 – Gino Rago:

Hai qualche altro progetto a breve o a lungo termine, un progetto-desiderio a te particolarmente caro…?

Oltre allo scrivere, sto organizzando un seminario sull’esperienza del dolore nella letteratura (Il pathos è poesia). Nella socializzazione dei laboratori poetici la poesia celebra la sua funzione conoscitiva e realizza connessioni profonde tra le persone. Strumento prezioso di riflessione lenta, meditazione laica e amplificazione della coscienza. Aveva ragione Brodskij: la poesia è un’astronave.      

Letizia Leone:

“[…] Di fronte a smarrimento delle radici ed erranza un poeta come Brodskij eleva l’esilio a condizione metafisica di «resistenza attiva». E se l’«abitare» è la parola chiave mancante per chi è costretto ad abbandonare la casa, il proprio paese o l’idea stessa di patria, a questo sorta di sradicamento lo scrittore da esule privilegiato, grazie al suo mondo interiore, può opporre lo spazio del linguaggio. «La tua capsula è il tuo linguaggio» ribadisce Brodskij, «per uno che fa il mio mestiere la condizione che chiamiamo esilio è, prima di tutto, un evento linguistico: uno scrittore esule è scagliato, o si ritira, dentro la sua madrelingua. Quella che era per così dire la sua spada, diventa il suo scudo, la sua capsula[…]”

Gino Rago

 

L’esilio è un fatto linguistico

Era d’inverno. Il villaggio dormiva più del solito,
ombre corte dai monti e dalla neve.

Una donna sognava di diventare un’altra persona.
Bisognava lasciare il villaggio, abbandonare la casa.

Sfidare il lago, attraversarlo dimenticando le sponde,
concentrandosi unicamente sull’altra sponda,

la più vicina. Agota diventò un’altra persona
ma non abbandonò il villaggio né sua madre.

Aveva intrapreso il viaggio in un’altra lingua.
La nuova lingua accolse la donna

come la nonna che ti attende e che ritrovi al di là dell’oceano.
La condizione che chiamiamo esilio è solo un fatto di lingua

[si può essere in esilio anche nel proprio villaggio,
nella lingua della madre, fra le ossa dei padri ]?

Agota ora scrive nuovi versi. L’esilio è in ogni lingua
che ti nega la parola esatta.

Edith Dzieduszycka

I senza nomi

In giacche d’ombra
e visiere di fango
arrancano
letali
i senza nomi
Sul ciglio del sentiero
su scogli e strapiombi
senza meta
a blocchi aggrovigliati
Le loro armature sono di pelle nuda.
Hanno perso la voce
la lingua
forse la voglia
Dai rovi
sornione s’alza
la brigata dei corvi iene sciacalli
L’orizzonte è fuggito
È andato lontano
dietro
più dietro ancora
Una mantella cupa
lo ricopre.

Gëzim Hajdari

Dove vanno questi uomini insanguinati
giunti all’alba? Hanno occhi sbarrati dal terrore.
Dicono che provengono dal Delta del Niger
e non vogliono tornare indietro.
Che ne sarà dei loro destini?
Fuggono lungo il confine
insieme alle bestie impazzite
in balia delle dimore ignote
e delle voci dei defunti.
(da Delta del tuo fiume, Edizioni Ensemble, Roma, 2015.)

Foto Saul Steinberg Masquerade

Steven Grieco-Rathgeb

I sottili lineamenti

I sottili lineamenti tribali, le mille piste
che si biforcano nel deserto:
la fine trama di logore sete,
il rosso e l’oro di vesti principesche:
tutto abbiamo visto vanificarsi, svanire
come un raggio di luce nei terreni incolti;
il volto del mondo perdere i suoi connotati,
gli stivali chiodati del Male assoluto
i pesanti cingoli nel fango
portare in offerta distanze ravvicinate.

E dalle fessure dei nostri muri disumani
spiamo quelle catapecchie a perdita d’occhio,
i mille fuochi sporchi per le vie:
gli arruffati capelli irti di polvere e ira
riavviati dalle mani materne,
i capelli sottili come seta
riavviati dalle ruvide mani materne.

Giorgio Linguaglossa

In nomine lucis

Di notte viaggiano i vagoni merci carichi di morti.
Di giorno grandi specchi ustori semoventi montati su camion

danno la caccia agli uomini che hanno ingoiato la luce.
Fuggono la luce, si giustificano, si sbracciano.

Dicono di aver bevuto luce a sazietà.
Si riparano sotto le tegole,

sotto le mensole, nelle bettole del dormiveglia,
si infilano sotto le saracinesche abbassate,

si nascondono tra le masserizie
e i rifiuti, lungo gli argini del fiume del dolore,

sotto gli alberi spogli.

[…]

Scavano fosse nella terra e ci mettono la testa.
Dicono di aver bevuto a sazietà.

Gridano: «Eloì, Eloì lema sabactani!».
E bestemmiano. Bestemmiano il nome di Dio…

– Tigri fosforescenti con passo elegante
ci ringhiano contro, divaricando orribilmente le fauci…

– Dicono di aver bevuto tanta luce.

[…]

La notte, durante il coprifuoco, gendarmi
con berretti a visiera di feltro verde

in tuta bianca portano a spasso frotte di lupi al guinzaglio.
Rifiutano la luce.

[…]

La notte, gemella dell’oscurità, partorisce il buio.
Il buio partorisce un uovo

dal quale escono i pipistrelli ciechi
che sbattono contro i fili dell’alta tensione

e copulano con gli angeli gobbi
caduti dal cielo azzurro…

Foto fuga nel corridoio

Gino Rago

Noi siamo qui per Ecuba

Paride amò nel talamo di Troia
Senza mai saperlo

Forse un’idea [una chioma di cenere.
Una nuvola di nulla. Un cirro. Una forma senza carne].

Noi siamo qui per Ecuba.
Tutto le fu tolto per una bolla d’aria.

Senza senno il massacro sull’acropoli
per la spartana fuggiasca, una sposa rapita.

Sbarcò da Priamo come il simulacro
della bella regnante di Sparta

[a suo dire mossa dall’Olimpo].
Come fuoco nel sangue o fremito nei lombi

Elena non è mai giunta a Troia.
Una città mangiata dalle fiamme.

Noi siamo qui per la saggia compagna del suo Re.
Ora sconfitta va verso la nave

[lo sguardo nell’occhio dell’acheo].
Quasi a sfida delle avverse dee

Nel disastro aduna sulle schiave
La gloria d’Ilio, eterna come il mare.

La donna. Ormai bottino di guerra.
La madre. Sulle ceneri.

La Regina. Sul baratro.
Noi siamo qui per Ecuba.

L’unica a sentire che Ilio è la sua anima.
Giammai sarà inghiottita dall’oblio.

Per tutto il tempo viva
[Di cetra in cetra da Oriente a Occidente

Quel sangue prillerà nel canto dei poeti,
Arrosserà per sempre il porfido del mondo].

L’unghia dell’aurora è già sull’orizzonte.
Perentoria schiocca la frusta di Odisseo

Alla sua vela: «Si vada verso l’Isola…»
L’inno dei forti piega le Troiane.

Si scolla dalla costa.
E sulla morte resta il gocciolio dell’onda.

Flaminia Cruciani

Hello Charlie

Resta una lapide oggi
fra i ragazzi distratti che giocano a palla
dove si è alzato il sipario sulla tua vita
nel carrozzone della regina degli zingari
dove tu da bambino correvi gli angoli del buio
nell’accampamento che sapeva di brodo di pollo
fra domatori di animali
mangiatori di fuoco, girotondi di sogni sdentati
nel regno d’albume dell’infanzia.
Con il bastone di bambù, nella giacchetta
stretta e le scarpe sfondate
con passi gridati hai osato le costellazioni rovesciate
hai digrignato i denti all’assurdo
nella pantomima inaudita dell’umano
coi suoi altari primitivi imbanditi di carcasse di vermi.
Svegliatevi uomini!
Se non ce la fate ad ardere voi stessi
e non vi togliete la maschera d’ossigeno
sparata dall’ostia nuda che recita il mondo
la morte vi ricompenserà ballando nel suo tutù
e tagliandovi via come unghie.
Quando l’ossame assaggerà il vostro cranio
passandolo da una bocca all’altra
non vi sarete accorti di essere stati
tenuti a galla dalla vostra controfigura
che rischia di sopravvivervi.
Dove siete rimasti fermi tutta la vita
mentre il mondo vi viaggiava intorno.
Non tornerete a casa
se non ridete in faccia alla tragedia
prima che la rappresentazione finisca
senza applausi.
 
Lidia Popa
Sentire il pianto della terra
In quest’attimo sconvolgente d’inerte esilio nell’eternità
Il cielo migra, capovolto nella trasparenza della biosfera.
Sulla sabbia scolpita tra fili secchi d’erba, gode l’inverno.
Sotto la coltre di neve, il grano si nutre dalle nuove radici.
Affonda il vecchio tempo nel fertile suolo dorato.
Secondi inafferrabili di granelli di sabbia mobile,
Scorrono dalla clessidra del cielo nel fine febbraio. 
Lasciano impronte cancellabili sulla terra deserta.
Tu, Uomo ascolta in silenzio il pianto di questa terra.
Se ti commuovi è perché non hai fatto abbastanza.
La terra vive e si ribella, arroventa il fiume di magma.
Tu, Uomo se ti commuovi, senti quando piange la terra.
La terra oppressa sotto il cemento come una tomba.
Vive e si ribella, facendo nascere la vita ovunque.

[Nota autrice: Questi versi sono la visione differente del migrante sconvolto dal suo esilio urbano, abituato a vivere in stretto legame con la Madre Natura, al quale dona considerazione e rispetto perché rappresenta la continuazione della vita, l’ossigeno per respirare e nutrimento]

Rossella Seller

Rossella Seller

Ultimo gradino

Hai preso una coperta come casa
all’ultimo gradino dell’indifferenza umana,
ma sei stato bambino anche tu
e morbido di pieghe.
Hai avuto una madre e sogni da spendere
confusi ormai nel puzzo d’alcool
che ti frana addosso.
Dov’è buio e zuppe corre alle mense
aveva mani tonde di latte, lei
gentile guida ai primi passi.
Ti guardano i fuggiaschi delle strade
disprezzo e calci alla polvere
non come ti amava lei.
La fata ora è scomparsa nelle sere
fredde dei ponti tesi sulla testa.
Un pallido ricordo ti siede accanto,
qualcuno passa, una moneta rotola e tintinna.
Come farò ad accettare il tuo saluto
e non rispondo
come farai a perdonarmi?

Giacomo Caruso

Rondini

ci sono le rondini, ti scrivo
come ogni anno alla metà d’aprile
anche se un poco hanno tardato
anche se in realtà sono rondoni
– un’altra specie proprio, dice la rete provvida al riguardo –
e gridi e voli e guizzi e salti
riempiono l’aria tiepida al mattino
e al tramonto
m’illudo che sia tutto come sempre
eternamente mutevole e cangiante
un altro anno, un cambio di stagione
e avverto un’ombra scura che sovrasta
e mai più m’abbandona
ma spero che non tutto sia perduto
se ancora e ancora tornano
le rondini
è d’altre migrazioni ora affannoso
pensiero fisso, struggente, doloroso
d’anime vive in fuga dalla guerra
dalla miseria, dall’intolleranza
tenace inconsistenza organizzata
degli stati sovrani e dei governi
impotenza, inerzia, inettitudine
incapacità complessiva e strutturale
di prevedere, predisporre, fare
di pensare, risolvere, cambiare
s’aggiunge l’egoismo e l’ignoranza
dei singoli individui, della gente
non torna la ricchezza della mente
ma spero che non tutto sia perduto
se ancora e ancora tornano
le rondini
anche se in realtà sono rondoni
come ogni anno alla metà d’aprile
ci sono le rondini, ti scrivo.

foto gunnar smoliansky - stockholm-1958

Giuseppe Tacconelli

Terra di Dio, terra di disperazione

Partiti verso le tenebre.
Coartati alla diaspora,
intrisi d’angoscia.
Con le tasche rigonfie di povertà
o dei ruggiti di letali ordigni.  
Grida di dolore strozzate in gola,
scagliate per anni come secoli.
Uomini lapidati da pensieri di morte,
lungo un’incolore esistenza.
Mani giunte alzate al cielo
implorando risposte dalle stelle.
Oltre gli astri verso il proprio Dio,
affinché riesca a scuotere l’inesorabile,
con possente spallata obliqua.
Instillando acqua tra piagate labbra.
Le ali vennero tranciate di netto
ai soggiogati da mercenarie divinità.
La caduta fu rovinosa
cedendo ad irresistibile peso.
Strappando ciò che rimarginava.
Il silenzio dilagò attorno.
Spalla a spalla con i fratelli
con i quali intonare preghiera sommessa,
nella marcia a capo chino.
Svegliarsi ogni giorno e sognare
una nuova terra fertile d’amore,
dove chiamar le stelle con voce universale.
Invocando ardentemente il Dio dei popoli.
La luna li guarderebbe con occhi invidiosi,
correre ridendo
inseguiti dalle nuvole.
Sempre più veloci,
fendendo vento e stormi di uccelli.
In armonia con il disegno celeste.
Davide Cortese
Sembra che da oriente
migri verso occidente
il sole,
per portare lontano
un nuovo inizio.
Migra verso la terra
il frutto maturo
per portare un seme
che rinnovi la storia.
Migrano, carovane di nuvole,
per portare lontano una pioggia.
Migrano, i miei pensieri,
per tornare con in dono un ricordo.
Migra, la nostra vita,
dal primo pianto
all’ultimo rantolo.
Ogni attimo è migrante.
Lo è  ogni cosa qui tra gli uomini.
Migra, la gioia,
e da remoti approdi mi scrive
che ha portato in salvo
la nostalgia che ha di me,
sigilla il messaggio nella bottiglia
e lo affida a onde di lacrime salate.
Una rondine è il mio sorriso.
Ed io so che tornerà.

Letizia Leone Viola NorimbergaLetizia Leone è nata a Roma nel 1962. Ha pubblicato: Pochi centimetri di luce, 2000; L’ora minerale, 2004; Carte Sanitarie, 2008; La disgrazia elementare, 2011; Confetti sporchi, 2013; Rose e detriti (2015); Viola Norimberga(2018). Tra le numerose antologie si segnalano: Antologia del Grande Dizionario della Lingua Italiana, UTET, Torino, 1998; La fisica delle cose, a cura di G. Alfano, Perrone Editore, Roma, 2011; Sorridimi ancora, a cura di Lidia Ravera, Giulio Perrone editore, Roma 2007, dal quale è stato messo in scena lo spettacolo Le invisibili, Teatro Valle, 2009; Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di G. Linguaglossa, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016. E’ presente in Dopo il Novecento, a cura di G. Linguaglossa, Società Editrice Fiorentina (2013) e in Critica della Ragione Sufficiente di Giorgio Linguaglossa, Edizioni Progetto Cultura (2018). Redattrice della Rivista Internazionale L’ombra delle parole e della Rivista Il mangiaparole (Edizioni Progetto Cultura). Organizza Laboratori di lettura e scrittura poetica a Roma.

Laboratorio 30 marzo Gino Rago legge_1Gino Rago,nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili diragno(1999), L’arte del commiato (2005). Sue poesie sono presenti nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Poeti del Sud(EdiLazio, 2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo(Progetto Cultura, Roma, 2016).  È nella Redazione de L’Ombra delle Parole. Collabora con la Rivista cartacea Il Mangiaparole, trimestrale di poesia, critica, contemporaneistica.

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 Gëzim Hajdari, Poemetto inedito in albanese e italiano, Alzati Gesù, prendi la frusta!, con un Appunto di Giorgio Linguaglossa

 

Gezim Hajdari nel suo studio

Gezim Hajdari nel suo studio

Appunto di Giorgio Linguaglossa

Gëzim Hajdari è nato nei Balcani di lingua albanese nel 1957. È il maggior poeta vivente albanese e uno dei maggiori poeti presenti in europa, bilingue, scrive in albanese e in italiano. Nell’inverno del 1991 è tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, partiti d’opposizione, e viene eletto segretario provinciale per i repubblicani nella suddetta città. Nello stesso anno è cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës (Il momento della parola), nel quale svolge la funzione di vicedirettore. Nelle elezioni politiche del 1992 si presenta come candidato al parlamento nelle liste del PRA. Nel corso della sua intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione in Albania, ha denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, la corruzione, gli abusi e le speculazioni della vecchia nomenclatura comunista di Enver Hoxha e dei recenti regimi mascherati post-comunisti. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce subite, è stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal proprio paese. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia. Ha scritto anche libri di viaggio e saggi e ha tradotto in albanese e in italiano vari autori. È vincitore di numerosi premi letterari. Dal ’92 è esule in Italia.

In una recente intervista così si esprime il poeta albanese:

«Scrivere in due lingue è uno stimolo in più, è la liberazione definitiva. Significa misurarsi con il mondo, senza però dimenticare la lingua materna, “il parlare materno” come diceva Dante. Per me è stato uno sforzo sovrumano, trovandomi costretto ad abbandonare il mio paese, dovendo affrontare lavori massacranti, per poi seguire gli studi universitari, scrivere sia in albanese che in italiano, e fare tutto questo con il peso della pessima immagine dell’Albania, senza il minimo sostegno dello Stato albanese… Ma c’era anche una ragione pragmatica. In Italia vivono 500 mila albanesi ma nessuno legge i miei libri, tutti i miei lettori sono europei e di diversi paesi del mondo, ma non sono albanesi. Quindi avendo bisogno di lettori, ho dovuto iniziare a scrivere in italiano. La seconda e la terza generazione degli albanesi inizierà sicuramente ad occuparsi di cultura e di identità, i loro genitori sono troppo occupati a dispensare alla sopravvivenza materiale. Non poca responsabilità è da attribuire allo stato albanese, che non è stato in grado di costituire un istituto di cultura in Italia. In Albania il mio scrivere in italiano in molti mi hanno chiamato traditore e nemico della cultura albanese. Bisogna educare la gente alla tolleranza. Nei Balcani sono nati gli dei, i miti, è un luogo fatalista, patria dei despoti e dei misteri, e si continua tuttora a soffrire di malattie puerili come il nazionalismo. Ma l’Albania c’è anche nel mio stile, in cui tra l’altro cerco di seguire i principi dell’epica albanese, in alternativa alla poesia minimalista occidentale. Spesso gli scrittori albanesi in Italia scrivono come gli italiani, quelli in Francia come i francesi. Invece sarebbe molto meglio se un poeta albanese scrivesse come un balcanico, intrecciando le culture, ma apportando il suo carattere».

Ha scritto il filologo Ferdinando Milone:

«Ciò che agli occhi nostri  di più di ogni altra cosa qualifica il popolo albanese è la lingua che essi parlano. Questa è che, conservandosi mirabilmente, ad onta delle cause forti e molteplici che si opponevano alla sua esistenza, ha impedito che quel popolo si perdesse, come di molti avvenne, andando a confondersi nel seno di altri popoli prevalenti su di lui.

È l’albanese un altro esempio della lingua considerata come potente elemento conservatore di nazionalità, anche allora quando le nazioni, politicamente considerate, abbiano perduto la loro nazionalità e la loro indipendenza».

I linguisti non sono tutti d’accordo circa l’origine e l’autonomia della lingua albanese. Secondo i più deriverebbe dall’antico illirico; secondo altri sarebbe continuazione del trace e non dell’illirico. Certo è una lingua che ha subito forti influssi esterni e tra questi il maggiore è stato quello derivatole dal latino. Né mancano parole derivate dal greco antico, ma assai più frequenti sono quelle derivate dal medio greco, limitate però al dialetto tosco. Notevole pure è l’influenza slava e quella turca, mentre non è trascurabile l’influsso delle altre lingue balcaniche.

Così conclude Milone: «La lingua albanese, pur così arricchita e modificata, conserva la sua forza e costituisce oggi il più saldo vincolo nazionale».

Gëzim Hajdari è forse l’ultimo bardo di un popolo antico che è entrato dall’età della pastorizia a quella del moderno mondo postindustriale; per tanti anni fiero oppositore del regime postcomunista di stanza a Tirana, Gëzim è stato ricambiato dal regime da un odio e da una campagna intimidatoria volte a circondare di silenzio l’opera e le azioni del poeta albanese. Alla prosaica Europa dei nostri giorni, un poeta come l’erraneo Hajdari è davvero indigesto, e certo l’Italia non è stata munifica né riconoscente verso il poeta della resistenza civile albanese che si è scagliato ripetutamente in tutti questi venticinque anni contro il corrotto governo di Tirana; così ad Hajdari non è rimasto altro che andare ramengo alla ricerca di una riscossa che provenisse dal suo paese, o dall’Italia, paese fratello. Sono ormai venticinque anni che la sua erranza in Italia non ha requie, la sua voce si è alzata, solitaria, contro l’oppressione del suo paese ad opera di una ristretta cerchia di oligarchi politicanti, senza che mai venisse accolta dal governo italiano. Ma, ancora una volta e sempre di nuovo, la voce di Gëzim Hajdari si alza per indicare la sua contrada maltrattata, Arbëri, quel «paese oltre l’Adriatico» abitata dalla «antica stirpe shqiptar/ erede legittima dei Pelasgi». Il canto fiero, appassionato e potente risuona come un epinicio e una invettiva, il poeta albanese si rivolge a Gesù affinché prenda la frusta e fustighi i tiranni e i parassiti che governano la sua amata patria vicina ma lontana alla quale il poeta si rifiuta di tornare se non quando cesserà il dominio di una stirpe di demagoghi e di nemici del suo popolo.

Per tanto tempo ho atteso che anche in Italia ci fosse un poeta italiano che alzasse la sua voce contro gli oligarchi e i demagoghi della politica e dei costumi italiani, l’ho atteso in tutti questi ultimi cinquanta anni… adesso ho smesso di attenderlo… forse è stata una mia illusione, una mia piccola sciocca illusione.

Gëzim Hajdari in croce

ALZATI GESÙ, PRENDI LA FRUSTA!

C’era una volta un paese oltre l’Adriatico
si chiamava Arbëri,
l’antica stirpe shqiptar,
erede legittima dei Pelasgi,
benedetta dalle Ore
protetta dalle Zana
nutrita di leggende,
baciata dalla gloria.
Guerrieri valorosi
uomini di besa,
del Kanun delle Montagne,
gente generosa,
fiera fino al sangue.
Onoravano l’ospite,
usanze e il loro dio,
pane e giuramento,
sale e cuore.
Cinquecento anni,
al suon della lahuta,
guidati dai prodi,
Gjeto Basho Mujo
Gjergj Elez Alìa.

Custodi di frontiera
delle Bjeshkëve të Nëmuna,
rispettosi sposi,
teneri padri di famiglia,
mai al nemico temibile
mostrarono le spalle,
in difesa della patria,
delle loro donne,
Belli, gagliardi
di nobili virtù,
che Lord Bayron esaltò
nel Peregrinaggio di Childe-Harold.

C’era una volta un paese oltre l’Adriatico,
si chiamava Arbëri,
il valore degli uomini
non era nella ricchezza
ma nell’onestà.
Un ottimo contadino
valeva quanto un principe,
per chi era servo
e per chi era Re.
Principi gloriosi
e semplici montanari
rifiutavano la schiavitù,
i loro vero capi erano
gli uomini saggi.
I shqiptar si alzavano
persino dalla tomba
per mantenere la besa,
la parola data.

C’era un paese oltre l’Adriatico,
si chiamava Arbëri,
con il saluto più bello al mondo:
“T’u ngjat jeta!”
Terra di Scanderbeg,
seminata di drammi,
ossa e sangue,
durante la storia albanese.
Patria dei rapsodi
senza pari nella regione,
lahuta e çifteli,
accompagnava l’arco della vita,
dalla nascita alla morte.

C’era un paese oltre l’Adriatico,
si chiamava Arbëri,
onorata come una sposa
dai padri fondatori,
cantata dai bardi,
illuminata dai mistici.
Poeti, sacerdoti, bektashi,
uomini d’onore,
spesero la loro vita,
con la penna e il fucile,
in difesa dei suoi lidi.

C’era un paese oltre l’Adriatico,
si chiamava Arbëri,
paese di burrnija
popolo epico, sovrano
come nessuno nei Balcani,
parlava la lingua
più antica del globo,
con donne splendenti
come i raggi del sole,
che l’occhio umano
mai vide sulla terra del Signore.

C’era un paese oltre l’Adriatico,
si chiamava Arbëri,
paese delle aquile,
cantato nei secoli
da Virgilio, Catullo e Orazio.
Conviveva da millenni
con i popoli vicini,
di tutte le etnie,
in tempo di guerra
in tempo di pace
nella gioia,
e nel dolore.

C’è un paese oltre l’Adriatico,
si chiama Albania,
mai un pentimento
per i crimini del comunismo.
Governano insieme,
da ventisei anni,
‘i democratici’
e i boia della lotta di classe;
rubano insieme,
distruggono insieme,
si drogano insieme,
stuprano insieme,
uccidono insieme,
festeggiano insieme,
amoreggiano insieme,
si ubriacano insieme,
vomitano insieme,
le loro ubriacature
porci e topi di fogna.

C’è un paese oltre l’Adriatico,
si chiama Albania,
paese castrato,
misero e dannato,
con le donne sgualdrine,
gli uomini codardi,
perfidi e malvagi,
figli trafficanti,
assassini spietati,
killer a pagamento.
Un paese sorto
sui crimini, droga,
corruzione, ruberie,
denaro sporco,
traffici umani,
contrabbando di armi.
Coloro che alzano la voce,
vengono costretti all’esilio,
condannati al silenzio,
sepolti vivi. Continua a leggere

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 Giuseppe Talìa  Poesie da La Musa Last Minute (Progetto Cultura, 2017), Sestine per Alfredo de Palchi, (Giove), Antonio Sagredo, (Marte), Giorgio Linguaglossa, (Urano), Salvatore Martino, (Saturno),Ubaldo de Robertis, Anna Ventura, Annamaria De Pietro, Antonella Zagaroli, Gëzim Hajdari, Steven Grieco-Rathgeb, Letizia Leone, Sabino Caronia, Giuseppina Di Leo, Donatella Costantina Giancaspero, Patrizia Cavalli, Patrizia Valduga, Maurizio Cucchi, Roberto Bertoldo, Valerio Magrelli, Nanni Balestrini, Franco Buffoni, Gian Mario Villalta

 

Gif paesaggio onirico

Il risultato è una confezione poetica esplosiva, derisoria, caustica dove Talia fa poesia sulla poesia e iperpoesia, poesia sui singoli personaggi della galleria letteraria, confondendo gli stili e plaudendo alla «Musa last minute», poesia «low cost»

Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta) nasce in Calabria, a Ferruzzano (RC), nel 1964. Vive a Firenze e lavora come Tutor supervisore di tirocinio all’Università di Firenze, Dipartimento di Scienze dell’Educazione Primaria. Pubblica le raccolte di poesie, Le Vocali Vissute, Ibiskos Editrice, Empoli, 1999; Thalìa, Lepisma, Roma, 2008; Salumida, Paideia, Firenze, 2010. Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano, I sentieri del Tempo Ostinato (Dieci poeti italiani in Polonia), Ed. Lepisma, Roma, 2011; Come è Finita la guerra di Troia non ricordo, Edizioni Progetto Cultura, 2016. nel 2017 pubblica la silloge Thalìa edizione bilingue, per Xenos Books – Chelsea Editions Collaboration, California, U.S.A., traduzioni di Nehemiah H. Brown, nel 2018 pubblica La Musa Last Minute con Progetto Cultura di Roma. Ha pubblicato, inoltre, due libri sulla formazione del personale scolastico, L’integrazione e la Valorizzazione delle Differenze, marzo 2011, curatela; AA. VV. Progettazione di Unità di Competenza per il Curricolo Verticale: esperienze di autoformazione in rete, Edizioni La Medicea, Firenze 2013 

Prefazione di Giorgio Linguaglossa

Negli anni Settanta Robert Escarpit scriveva che «la tipografia ha fatto della scrittura un mezzo di comunicazione di massa». Ecco, giunti nel 2017, oggi lo sviluppo dei social media e di internet credo abbia accentuato questo aspetto, diciamo, comunitario, nel senso che la letteratura è ciò che transita attraverso la rete, la rete fabbrica la letteratura nel senso che è ad un tempo il medium e l’editore di riferimento di un testo; oserei dire che un enunciato è tale solo se transita nel web. Oggi non c’è più alcun bisogno di alcun legame extratestuale tra il lettore e l’autore, entrambi sono opzioni del web, entrambi sono terminali di una comunicazione segnica, informazionale o letteraria quale che sia. Nelle nuove condizioni del web il rapporto tra autore e lettore diventa più che mai una lotta di segni, di significanti, «ma una lotta ha senso soltanto se viene condotta tra avversari che hanno una certa consapevolezza l’uno dell’altro», scrive sempre Escarpit, il quale prosegue: «è necessario almeno che tale consapevolezza ci sia nel momento della produzione del testo».1 Ecco, proprio questo è il punto: una scrittura poetica come questa di Giuseppe Talia nasce senza che vi sia alcuna relazione reciproca tra l’autore e il lettore, è il web che determina il comune terreno di scontro e/o incontro, è il web che decide il medium, è il web che decide il messaggio. Leggendo queste strofe ironiche, istrioniche e ilari di Giuseppe Talia possiamo comprendere in che misura il supporto e la destinazione del web abbiano avuto un ruolo nel determinare la scrittura di questi pensieri aforistici, innanzitutto perché gli interlocutori ai quali viene appiccicata e dedicata ogni singola poesia, sono quei medesimi interlocutori che transitano, in maniera diretta o indiretta, tra le pagine della rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com dalle quali l’autore Giuseppe Talia ha tratto gli spunti e le occasioni scrittorie. Poesie che uniscono un fare sarcastico e un andamento ironico-scettico, un passo canzonatorio e tonalità derisorie, un mix lungimirante e desiderante di stilemi disparatissimi, del piano basso del linguaggio parlato e dei piani alti delle circonlocuzioni forbite ed euforbiche. Il risultato è una confezione poetica esplosiva, derisoria, caustica dove Talia fa poesia sulla poesia e iperpoesia, poesia sui singoli personaggi della galleria letteraria, confondendo gli stili e plaudendo alla «Musa last minute», poesia «low cost», derisoria, dicevamo, che rovescia, parodisticamente, la montaliana poesia d’occasione e la poesia progetto dello sperimentalismo, la poesia minimal e quella massimalista, quella personalistica e quella privatistica, tutti conglomerati ed emulsionati degli odierni simulacri letterari.

Epperò, bisogna anche dire della sapienza con cui Talia sa entrare nelle maglie della poesia di ogni singolo autore, cogliendone le ubbìe e le mitopoiesi con grande sagacia ermeneutica e caustica ironia. Talia coglie un tratto essenziale del post-contemporaneo: che ormai viviamo in mezzo ad un guado permanente, che siamo lontanissimi da ogni approdo ed egualmente lontani dalla riva di partenza, una situazione esistenziale permanentemente instabile, un quadro psicologico «debole». Ecco, siamo arrivati alla parola chiave che mondi ci può aprire sulla nostra contemporaneità; quella «debolezza» della nostra condizione ontologica sulla quale Talia erige la «debolezza» della sua poesia ontologicamente destrutturata. È questo il suo punto di forza, aver saputo capovolgere la condizione ontologica di «debolezza» in una nuova condizione di «forza», l’aver capovolta la «clessidra dell’esistenza che si capovolge sempre di nuovo», come scriveva Nietzsche centocinquanta anni or sono.

Giuseppe Talia Cover

Nel 1999 Talia pubblica con Ibiskos Le Vocali Vissute, un libro di svolta che segna la presa d’atto della crisi della forma-poesia, lo scoppio e la polverizzazione delle «vocali». Scrive in proposito l’autore: «Un pomeriggio del 1992 ho acceso una miccia ed ho fatto esplodere il Logos nelle Vocali Vissute. Non so quanto quel gesto iniziale fosse consapevole. Come un bambino che sfrega lo zolfanello sulla superficie ruvida per accendere un petardo, così, quel pomeriggio in Calabria, io capii, o forse solo percepii, che le strade erano due: l’epigono, «la morta gente, o epigoni, fra noi… (Carducci), oppure il sommovimento dell’Io, la ribellione.

La creta della poesia era nel bivio, bisognava solo plasmarla, darle forma. Gli ingredienti c’erano tutti, letture, studio, poeti conosciuti, allora altisonanti pubblicati dallo Specchio, circoli letterari viziosi e viziati, premi letterari con tasse di lettura (allora come ora), antologie sciatte e furbe. C’erano tutti gli ingredienti, bisognava solo shakerarli e versare nelle coppe un nuovo cocktail, «Se giro e mi rigiro/mimando le correnti /Se mi rannicchio a nuvola/ o mi distendo carico di pioggia».

La deflagrazione delle «vocali vissute» porta con sé la necessità di trovare una nuova forma della poesia. Talia impiegherà più di tre lustri per giungere a questa sistemazione della sua forma poesia, un equilibrio «imperfetto» che consentirà all’autore di conservare quanto della tradizione era conservabile in frigo e quanto invece doveva essere tradito e collocato in un nuovo universo stilistico e simbolico. L’incontro con la teorizzazione e la pratica della «nuova ontologia estetica» praticata dalla redazione de L’Ombra delle Parole, è stato risolutivo, è stato un incontro fruttuoso.

Particolarità di questi «medaglioni» è che la forma-poesia ha raggiunto una sua stabilità nella instabilità generale, ormai la deflagrazione delle «vocali vissute» è stata digerita, siamo entrati nella stabilizzazione della instabilità permanente; occorreva prendere atto della necessità di trovare un punto di equilibrio, e Talia l’ha trovato nella forma tellurizzata di queste sestine improprie.

Robert Escarpit L’écrit et la communication, Presse Universitaires de France, 1973 trad. it. Scrittura e comunicazione, Garzanti, 1976 p.  61

 Retro di copertina della edizione americana di Thalia:

Ha scritto Giuseppe Talia: «un pomeriggio del 1992 ho acceso una miccia ed ho fatto esplodere il Logos nelle Vocali Vissute»; e le vocali sono esplose in una congestione di significanti e di significati disconnessi. Le parole sconnesse sono andate alla ricerca di un nuovo luogo da abitare, di una nuova patria delle parole. Una «nuova poesia» richiede sempre una nuova metafisica, una nuova patria delle parole nella quale le parole possano albergare. E questo cos’è se non pensare nei termini di una nuova metafisica? Se non pensare nei termini di una «nuova ontologia estetica»?

Una volta preso atto di ciò, un poeta non può che dimorare presso la nuova «patria» delle sue parole. È quello che ha fatto Talia in quest’opera, ha disegnato la cornice della sua nuova patria linguistica.

 Appunto dell’autore

 L’alterazione paradossale che sottolinea la realtà attraverso la simulazione, l’interrogazione, per mezzo di un procedimento speculativo nei sistemi estetici, come quello di K.W. Solger, viene solitamente considerata costitutiva dell’arte. L’antifrasi e l’eufemismo significano ribaltare, per sopravvivenza fisica e mentale, l’ironia in autoironia, distaccarsi dall’estetismo per una dimensione più etica.  Ecco, questo è uno dei tanti profili che mi rappresentano.

Ma qual è stata la molla di questi frizzanti schizzi a Voi dedicati, care amiche e amici dell’Ombra delle Parole? Un cadeaux, una semplice come complessa traslitterazione di fatti analitici, psicoanalitici, qualche volta una semplice foto o l’impressione di un verso letto e che è rimasto nel substrato inconscio della comunità poetante di cui mi sento parte.

E come un artigiano che si rispetti ho dispiegato gli arnesi giusti su un piano geometrico adeguato e tessuto l’ordito: per ognuno di Voi, amiche e amici, sei versi, forme chiuse e forme variabili, citazioni, carattere, un qualche segno indelebile impresso nell’anima, una tradizione e un simbolo cosmologico abbinato che penso vi rappresenti nell’almagesto dell’unicità.

Questo gioco semi-serio, in cui si possono rilevare tracce di Palazzeschi, Stecher, Szymborska come di altri, l’ho iniziato con l’intento di omaggiare i Poeti costituenti del momento, Alfredo de Palchi (Giove), Antonio Sagredo (Marte), Giorgio Linguaglossa (Urano), Salvatore Martino (Saturno), per continuare con gli amici con cui tengo una corrispondenza, Ubaldo de Robertis, e con le Poete e Poeti che stimo, Anna Ventura (nodo ascendente), Annamaria De Pietro, Antonella Zagaroli, Letizia Leone, Sabino Caronia, Giuseppina Di Leo, Donatella Costantina Giancaspero (nodo discendente), anche se non sempre i miei commenti a riguardo, lasciati sul blog dell’Ombra delle Parole, sono stati gratificanti: ubi maior minor cessat.

Sono tante costellazioni più una, misteriosa, che in ogni gioco che si rispetti tocca al partecipante indovinare a chi è dedicata e perché. Con i miei migliori Auguri per un poetico e sempre più comunitario 2017. Evviva (è viva) la Poesia.

(Giuseppe Talìa)

Gif gli orologi

INDICE

Alfredo de Palchi 15
Milo De Angelis 16
Patrizia Cavalli 17
Valerio Magrelli 18
Patrizia Valduga 19
Maurizio Cucchi 20
Nanni Balestrini 21
Franco Buffoni 22
Guido Oldani 23
Gian Mario Villalta 24
Roberto Bertoldo 25
Luigi Manzi 26
Mario M. Gabriele 27
Giuseppe Conte 28
Salvatore Martino 29
antonio Sagredo 30
Giorgio Linguaglossa 31
Tomas Tranströmer 32
Kjell Espmark 33
alberto Pellegatta 34
Steven Griego-Rathgeb 35
Silvana Baroni 36
Gino Scartaghiande 37
Donatella Bisutti 38
Claudio Damiani 39
Mario Lunetta 40
Luigi Fontanella 41
Erri De Luca 42
Carla Saracino 43
Giuseppina Amodei 44
Gabriele Pepe 45
Gëzim Hajdari 46
Sabino Caronia 47
Giorgia Stecher 48
Anna Ventura 49
Gabriele Fratini 50
Gino Rago 51
Lucio Mayoor Tosi 52
Guglielmo aprile 53
Renato Minore 54
Claudio Borghi 55
Tommaso Di Dio 56
Antonella Zagaroli 57
Annamaria De Pietro 58
Giuseppina Di Leo 59
Letizia Leone 60
Ubaldo De robertis 61
Costantina Giancaspero 62
Franco Marcoaldi 63
Alfredo Rienzi 64
Francesca Dono 65
Adam Vaccaro 66
Autoepigramma 67
Germanico 68
Paolo Ruffilli 69
Nacht und Nebel 70

Gif Astronauta che sogna

Questo gioco semi-serio, in cui si possono rilevare tracce di Palazzeschi, Giorgia Stecher, Wislawa Szymborska come di altri,

A Alfredo de Palchi

Cielo d’agosto e Zefiro che lucida l’occhio concavo
Lo sputo delle stelle per un’ora d’aria nel periplo della pena
Le unghie spezzate nel quadrilatero dell’Ades*
Tra sessioni scorpioni e paradigmi la gatta Gigì incatena
Una Storia più grande degli anni e della stessa presenza
Che pone l’Essere nella forma di una galassia antenna

*Adige, e non solo

A Steven Grieco-Rathgeb

Vorrei tanto essere un mistico. E ci ho provato.
Sono stato in India. Ho tentato di controllare
La pressione e il battito del cuore. Il cuore,
il cuore mi tradisce sempre. Da bollywood, inorridito
scappai in Rajasthan, lungo la valle dei fiumi,
per finire in una perla come un cuore che tradisce.


A Anna Ventura

Nella costellazione di Eridano vi è una corposa nebulosa
La testa di una Strega ascendente nella selva circumpolare
E allatta Coefore massicce con l’alamaro quando uno zio
Coniglio (sorta di ricordo fotoevaporante o stella brillante)
Con Torquemada Tauri icastico e mostrino lavora di fino
E al je m’en moque dell’aguzzino oppone un tu quoque (?)


A Antonio Sagredo

Bayer ti diede il nome o forse solo il suo cognome
Figlio di una costellazione inconsueta come
La Nave di Argo nel coelum dei frangiflutti
Con una Nereide dissipata in un soprannome
Spoliazione della Colchide e dei suoi frutti
Smembrata senza rotta e con i remi asciutti


A Letizia Leone

Summa creata e sola virtute della cometa nera
Tra un debole Cancro e una vasta Venere eclittica
Chi dona speranza dona vita alle stelle bambine
Della costellazione madre di tutte le galassie
Con poche mandorle per confetti d’un matrimonio
Nei primordi mai consumati del Tutto in un granello

A Giorgio Linguaglossa

I frantumi dei giganti gassosi del Tempo e del Padre
Bande magnetiche di stelline soffiate dalle Parche
Graie con stami fusi e cesoie gli ombelichi mortali
Corpi minori negli editoriali di una qualche cometa
E rari ammassi di luce nelle effemeridi siderali
I transaturniani evoluti imprevedibili e rivoluzionari

A Antonella Zagaroli

Fortilfragile volpina nell’eterno presente sei Cassiopea
Della via Lattea e Anfitrite ti tagliò i lunghi capelli biondi
Da allora come ora riesci dal tempo e ti ritrovi Gilania
Una Venere minima a cui il dono del silenzio è condanna
O forse manna di Psiche il respiro che serra a ventaglio
L’Abito immaginario per il corpo nudo pieno d’anima

A Gëzim Hajdari

Rerum novarum oppure rerum causas? Chi di domanda ferisce
Di domanda perisce sanciva Hoxha e il canto del gallo nell’esilio
Dell’alba, nel ritmo circadiano come un muratore le stigmate di calce
Il Kanun della coscienza universale, gli infiniti esseri e gli illimitati èpos
In un delta profanato dalla storia e riparato in una preghiera laica
Di un contadino che ara stornelli “e il tutto spia dai rami irti del moro”.*

*Giovanni Pascoli-Arano

Gif Uccellino

A Salvatore Martino

Nella tua prigione, o stella blu, i bracci delle galassie
Trovano ammassi aperti di giganti nel disco galattico
D’una vita dedicata alla gravitazione di pregiate malvasie
Da cinquant’anni e oltre l’almagesto nell’atto catartico
Dal locus amoenus del Capricorno a est del Sagittario
Tu, cancellazione, sfera ideale, nutri il marmo erbario

A Annamaria De Pietro

Con te non è certo facile solleticare il carapace
Si dice rimario abbecedario binario come glossario
Certo Annamaria di miracoli ne fai stella arancione Tauro
o Aries che infila le perline e di parole ne fa Pietra
Conservazione tālis-qualis dell’ordine del multiverso
Una cera persa nello stampino del creato creatore

A Ubaldo De Robertis

Chi pensa sia semplice tracciare il moto delle Pleiadi
Non sa che ammassi di leggende l’astro occulta
Nella crepa segaligna della parti d’un discorso
Poetico l’anfora sussulta nelle spore gravitazionali
Delle Naiadi con le geramiadi e lo spartito sferico
Del re minore incompiuto o del minotauro che ausculta

A Giuseppina Di Leo

Quanta bellezza e quanta gioventù lontano nel sole
Una stella ancora nell’infanzia prima del monossido
Quando solo ghiaccio e rocce e una firma spettroscopica
Segnavano il passaggio d’una cometa dialogante a più voci
Una lunga notte la più lunga che si ricordi in un inedito
Una parola impronunciata rimbalzata sul muro invisibile

A Sabino Caronia

Tolomeo s’era perso nell’Acquario tra stelle variabili
Ad eclissi controllata quando Copernico scoperchiava
Sfere omocentriche nell’accelerazione degli specchi di Borges
E l’amore che ne veniva sopperiva lo Stato gassoso dei Blazar
Nei minuscoli idilli di astroparticelle delle galassie ospitanti
Con l’apparenza del Zommo Pontescife pe’ castiga’ li bbuggiaroni

A Donatella Costantina Giancaspero

Da un presagio d’ali la casa di latte nella costellazione familiare
Di Stern stempera la tempera verbale esigua del Circinus
Nella periferia dell’universo con Iperoni e Neutrini a far
Piastrelle per il selciato domestico del sole pomeridiano
A Torre Spaccata nell’atonale pungiglione di luce
Con la Lira e il contrappasso per una musica di carta e di cielo

Patrizia Cavalli

È un teatro aperto la precessione della luce della stella faro.
La magnitudine apparente, testa di serpente e calamaro
Non salva il mondo dal compost della stella tripla Ethical
Treatment, a caccia con i cani di Orione di Sadalsuud-Sadalmelik
Nel cerchio massimo dell’equatore e del suo punto spettrale
Con lo scafandro da palombaro e una compagna in orbita bisessuale.

Gif Manichino 2

Valerio Magrelli

Da bambino erano un codicino di nature e venature
I Dockers Kahaki Pants salenti e discendenti la grande
Échelle disgrafica e dislessica o più semplicemente
Manomessa dalla stella binaria dei pioli del carcerato
Che batte il Lexicon della rotativa sorgiva tatuata
Nella carne condominiale del codice fiscale come dell’ISBN.

A ?

Lingua di lotta e lingua di luna la luna
Che non parla che non possiede che l’umano
Occhio il sovrumano splendore d’albume
Battente con un cuore di colibrì e chicchirichì
Mite chiarore aneliti brevi falce calante
Sterili economie allunate di messi mancanti

Patrizia Valduga

Un requiem per una subrette
Un soundtrack di paillette
Una Gilda de’ poeti O Mame
Una sessa strafatta pour femme
Mia Sirventes o mia Servente(s)
Solo per me le tue tette.

Maurizio Cucchi

Argo Panoptes è il disperso degli anni luce
Alla ricerca del vello d’oro, con una barchetta di carta
Immersa nel gradiente salino di Malaspina
Ossessionato dal sosia more uxorio
Come dell’antinfiammatorio da topografia
Del tramonto dell’Idra e dell’antitossina.

Nanni Balestrini

Sei pronto? Che faccio, scatto? Ecco, sì, scatto!
Ma no, ti sei mosso! Ma che fai, ti muovi come le masse?
Allora, dai, scatto. Fermo. Le Capital qui FIAT la guerre!
Forza, che ti pixello, ti taggo, ti bloggo, ti ritocco.
O nanni, e stattene un po’ fermo! Ora ti blocco!
Click. Ce l’ho fatta! Te la dedico: “Alla neoavanguardia
permanente”.

Gif Manichino

Franco Buffoni

Che nome di casata la Musa edulcorata
Che spaccia i lacerti al mercato degli Eoni
Ai giurati crapuloni che filmano gli snuff movie
Con il giro vita pettorina di Narciso e Boccadoro,
Carta straccia igienica tedesca interstellare
Di nuovissima e caldissima carne da abusare.

Gian Mario Villalta

Una certa Musa non dovrebbe calzare stivali da mattatoio
Non dovrebbe nemmeno pensare ai pubblici dialettali
Al Maternato che con un minimo sindacale scalza i rivali
Gli squali mortali, illegali, con occhiali eccezionali
Bufale aziendali e pettorali soprannaturali, havel havalim,
Una certa Musa direbbe: vieni, ti insegno a scrivere mentre muoio!

Roberto Bertoldo

Hebenon o non Hebenon è forse il tuo tema natale
Ma semper fidelis all’anarchia logica della mente
Tra costellazioni bioetiche fenomenognomiche alla Bernstein
Con un che di fisionomico come di ergonomico o di titanico
Magari di nullismo leptosomico e sempiterno del Mythos
del Logos postcontemporaneo dell’umana (in)coscienza.

 

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GIUSEPPE TALĺA: LA MUSA LAST MINUTE. QUINDICI SESTINE TASCABILI E SATIRICHE. I MEDAGLIONI DEI POETI CONTEMPORANEI – Mario M. Gabriele, Patrizia Valduga, Patrizia Cavalli, Valerio Magrelli, Milo De Angelis, Luigi Manzi, Giorgio Stecher, Maurizio Cucchi, Steven Grieco Rathgeb, Gino Rago, Roberto Bertoldo, Franco Buffoni, Gëzim Hajdari, Gian Mario Villalta,, Lucio Mayooor Tosi

Testata politticoGiuseppe Talia 4 marzo 2017

Giuseppe Talia, Roma 4 marzo 2017

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Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta), nasce in Calabria, nel 1964, risiede a Firenze. Pubblica le raccolte di poesie: Le Vocali Vissute, Ibiskos Editrice, Empoli, 1999; Thalìa, Lepisma, Roma, 2008; Salumida, Paideia, Firenze, 2010. Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano: Florilegio, Lepisma, Roma 2008; L’Impoetico Mafioso, CFR Edizioni, Piateda 2011; I sentieri del Tempo Ostinato (Dieci poeti italiani in Polonia), Ed. Lepisma, Roma, 2011; L’Amore ai Tempi della Collera, Lietocolle 2014. Ha pubblicato i seguenti libri sulla formazione del personale scolastico:Integrazione e la Valorizzazione delle Differenze, M.I.U.R., marzo 2011;Progettazione di Unità di Competenza per il Curricolo Verticale: esperienze di autoformazione in rete, Edizioni La Medicea Firenze, 2013. È presente con dieci poesie nella Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2016.

Laboratorio 30 marzo Platea_2

Laboratorio di poesia Roma, 30 marzo 2017 Libreria L’Altracittà

 

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Commento di Letizia Leone

Una sorta di performance controcorrente questa di Giuseppe Talìa che grazie alla strategia della sestina, forma breve di limitata trasmissione storica, fissa una galleria di ritratti satirico-giocosi della variegata società poetica contemporanea. Il giro rapido della strofa, affondo e compendio biografico-poetico giocato sul filo dell’ironia, della dissacrazione, dell’omaggio o della critica, è centrato su un quid impressionistico: trattasi di un verso, “l’impressione di un verso letto e che è rimasto nel substrato inconscio della comunità poetante di cui mi sento parte” ci dice il poeta, oppure di un dettaglio personale, letterario o di ilare psicologia e psicoanalisi.

In effetti la sestina, detta anche sesta rima per distinguerla dalla sestina lirica, alle sue origini viene attestata come metro del repertorio laudistico o metro prevalente della poesia scenica fino agli endecasillabi de “Gli animali parlanti”, poema favolistico-satirico in 26 canti di sestine di Giambattista Casti (1803) o alle “Favole esopiane” dell’abate Gian Carlo Passeroni (1823). Ma in questo caso si rivela strategia comunicativa molto efficace: momento di “sottrazione di una tensione” (se volessimo prendere in prestito le parole di Bergson sul riso e il comico), di rottura della seriosità e solennità letteraria ma anche di stimolo alla socialità, dove la contrazione del linguaggio richiesta dallo schema ridotto di una forma chiusa valorizza la forza epigrammatica del testo.

Mottetti estemporanei, Musa pop e consumistica “last minute”, rutilante rotocalco di fulminanti icone poetiche in un corpo a corpo con la personalità posta, di volta in volta, sotto la lente d’ingrandimento.  Talìa è uno di quei poeti ai quali è congeniale l’epigramma, oppure un tipo di poesia satirica di mercuriale velocità e leggerezza.

L’osservazione ludica soprattutto si rivela modo nuovo d’interpretare, una vera e propria alternativa critica basata sul gioco comico sottile e sfuggente.

Alla lettura viene definendosi l’ironia di una poesia ermeneutica che critica scherzando. L’analisi accurata in punta di verso imposta una sorta di dialogo a distanza, una pungente colloquialità circolare tra il poeta che viene letto, interpretato e riscritto in versi da un altro poeta.

Medaglioni post-moderni, istantanee che fanno il verso a secoli di idealizzazione del poeta-Vate, alla solennità dell’afflato poetico o all’idea romantica dell’ispirazione, satireggiando sulla presenza “irrilevante” del poeta oggi che, seppelliti definitivamente aura e aureola, non ha più né identità, né collocazione sociale nella nostra contemporaneità:

Patrizia Valduga

Un requiem per una subrette
Un soundtrack di paillette
Una Gilda de’ poeti O Mame
Una sessa strafatta pour femme
Mia Sirventes o mia Servente(s)
Solo per me le tue tette

E se è vero che lo humour o il comico appartengono ad un genere letterario minoritario e spesso marginalizzato, proprio tale subalternità permette di sfuggire all’alienazione di codici linguistici e koinè poetiche a rischio di stallo espressivo, oltre al fatto che questa rappresentazione straniata se letta in chiave freudiana si polarizza di vis caricaturale che aggira le censure e le rimozioni.

Se prendiamo per buona la definizione di fisiognomica come “scienza quasi divina, indiziaria e profetica, fondata sulla leggibilità del tegumento sensibile…nel presupposto di un corporeo onnisignificativo come condizione del manifestarsi dell’autenticità dell’uomo” (AA.VV. Esercizi fisiognomici, Sellerio, 1996), allora questi particolari esercizi di “fisiognomica poetica” degli attori messi in campo si modellano sullo studio dei lineamenti linguistici. Là dove   il corpo è sostituito dalla lettera, dai segni, dai segnali dello stile, essendo la lingua della poesia nella sua verità stilistica un “modo dell’Essere”.

E poi, al di là del processo di individuazione che si va definendo nelle dediche profane e intuitive di Giuseppe Talìa, aleggia l’aura di un presagio o di un’interrogazione enigmatica, effimera ma incisiva, sul destino di ogni poeta consegnato al giro di giostra di una sapiente e vivificata sesta rima.

Giuseppe Talia Roma 4 marzo 2017 Roma

Giuseppe Talia, Roma 4 marzo 2017

 

L’ALMA e il GESTO

Appunto dell’autore

L’alterazione paradossale che sottolinea la realtà attraverso la simulazione, l’interrogazione, per mezzo di un procedimento speculativo nei sistemi estetici, come quello di K.W. Solger, viene solitamente considerata costitutiva dell’arte. L’antifrasi e l’eufemismo significano ribaltare, per sopravvivenza fisica e mentale, l’ironia in autoironia, distaccarsi dall’estetismo per una dimensione più etica. Ecco, questo è uno dei tanti profili che mi rappresentano.

Ma qual è stata la molla di questi frizzanti schizzi a Voi dedicati, care amiche e amici dell’Ombra delle Parole? Un cadeaux, una semplice come complessa traslitterazione di fatti analitici, psicoanalitici, qualche volta una semplice foto o l’impressione di un verso letto e che è rimasto nel substrato inconscio della comunità poetante di cui mi sento parte.
E come un artigiano che si rispetti ho dispiegato gli arnesi giusti su un piano geometrico adeguato e tessuto l’ordito: per ognuno di Voi, amiche e amici, sei versi, forme chiuse e forme variabili, citazioni, carattere, un qualche segno indelebile impresso nell’anima, una tradizione e un simbolo cosmologico abbinato che penso vi rappresenti nell’almagesto dell’unicità.
Questo gioco semi-serio, in cui si possono rilevare tracce di Palazzeschi, Stecher, Szymborska come di altri, l’ho iniziato con l’intento di omaggiare i Poeti costituenti del momento, Alfredo de Palchi (Giove), Antonio Sagredo (Marte), Giorgio Linguaglossa (Urano), Salvatore Martino (Saturno), per continuare con gli amici con cui tengo una corrispondenza, Ubaldo de Robertis e con le Poete e Poeti che stimo, Anna Ventura (nodo ascendente), Annamaria De Pietro, Antonella Zagaroli, Letizia Leone, Ambra Simeone, Sabino Caronia, Giuseppina Di Leo, Donatella Costantina Giancaspero (nodo discendente), anche se non sempre i miei commenti a riguardo, lasciati sul blog dell’Ombra delle Parole, sono stati gratificanti: ubi maior minor cessat

Mario Gabriele e Antonio Sagredo

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Mario M. Gabriele

Ramsay disse che alla ciambella mancava il buco nero
James appese il cappotto di Gogol mentre Godot
En attendant discettava col sarto Petrovič sul modello
Senza cuciture dei collant Stonehenge di Eveline
Servirò dunque il pudding and pie direttamente sulla pietra
Ollare, pensò Patsy, per i nuovi convitati di Georgie Porgie

*
Patrizia Valduga

Un requiem per una subrette
Un soundtrack di paillette
Una Gilda de’ poeti O Mame
Una sessa strafatta pour femme
Mia Sirventes o mia Servente(s)
Solo per me le tue tette

*
Valerio Magrelli

Da bambino erano un codicino di nature e venature
I Dockers Kahaki Pants salenti e discendenti la grande
Échelle disgrafica e dislessica o più semplicemente
Manomessa dalla stella binaria dei pioli del carcerato
Che batte il Lexicon della rotativa sorgiva tatuata
Nella carne condominiale del codice fiscale come dell’ISBN

*
Patrizia Cavalli

E’ un teatro aperto la precessione della luce della stella faro
La magnitudine apparente testa di serpente e calamaro
Non salva il mondo dal compost della stella tripla Ethical
Treatment a caccia con i cani di Orione di Sadalsuud-Sadalmelik
Nel cerchio massimo dell’equatore e del suo punto spettrale
Con lo scafandro da palombaro e una compagna in orbita bisessuale

*
Milo De Angelis

La somiglianza è un addio di lavagne come di montagne
Di ossessioni di cancelli di metal detector privi di stelle luminose
Corridoi più che cortili e quel clangore di ferri allucchettati
Nei millimetri delle vene di Milano, sì Milano lì davanti
Col sangue in bocca annebbiata e una marea di navigli
Come scompigli o Sicari di una battaglia di sicura rinascita Continua a leggere

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Donika Dabishevci (1980) Il dissidio cosmico tra eros e thanatos (Amore e Morte) Introduzione e traduzione di Gëzim Hajdari – L’amore in Albania al tempo della stagnazione – la poesia femminile albanese

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Donika Dabishevci (1980) si è laureata in letteratura Albanese all’Università di Prishtina, dove è nata. Nel 2013 ha conseguito un dottorato in Letteratura albanese all’Università Statale di Tirana. Ha pubblicato tre raccolte poetiche. Ha lavorato alla televisione pubblica del Kosovo, ora insegna in un’università privata a Prishtina.
«La tua robinja», a cura di Gëzim Hajdari, è la prima traduzione in italiano delle poesie di Donica Dabishevci.
«La tua robinja/ Robnesha jote» è la sua prima raccolta tradotta in Italia, la cui pubblicazione è prevista nel 2017 con la casa editrice romana, Ensemble.

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Introduzione e traduzione dei testi
di Gëzim Hajdari

Il dissidio cosmico tra eros e thanatos (Amore e Morte) ha ispirato per millenni filosofi, artisti e cantori dall’antichità ad oggi, da Esiodo e Safo a D’Annunzio. Il mistico San Giovanni della Croce sosteneva che la “morte può essere amore”. Mentre Leopardi, dall’alto de “Il colle dell’Infinito” di Recanati, affermava: “Due cose belle ha il mondo, “Amore e Morte”. L’eros è la vera essenza divina, energia vitale e forza creatrice della vita, il sentimento più intimo del nostro io, lo spirito del nostro essere, che nel corso della storia è diventato fonte d’ispirazione e di tormento per i poeti di ogni epoca.
Basti pensare al celebre poeta latino Catullo, «Vivamus mea Lesbia, atque amemus /Viviamo, mia Lesbia, ed amiamo». Versi struggenti che racchiudono il mistero dell’esistenza umana.
Il tema di eros e thanatos percorre con una forza dirompente i versi della raccolta «La tua robinja » della poetessa kosovara Donika Dabishevci. Quarantasette poesie che parlano delle passioni amorose ed erotiche, della sensualità, della vita, dello scorrere del tempo, del tormento e della morte. Scritte con un linguaggio scarno e lapidario, i versi esistenziali della Dabishevci, voce singolare della poesia albanese del Kosovo, restano scolpiti nella memoria del lettore.
La raccolta si apre con un testo-preghiera in cui la giovane fanciulla invita il suo uomo a non aver paura, ma di unirsi a lei per condividere insieme il desiderio d’amore. Il suo corpo maturo frema, la sua anima vibra. È il momento più atteso per l’amata inebriata di desiderio ed eros, che gioisce e soffre allo stesso tempo. Porta nel sangue il fuoco, simbolo del vigore e della giovinezza. E sogna l’attimo sublime in cui lui versi in lei la linfa vitale, come testimoniano questi versi:

«Non aver paura,
versati in me come un ruscello di sangue.

Entra nelle mie vene,
brucia il mio corpo,
le mie labbra,
accogli la mia preghiera
di donna».

Solo nelle braccia dell’amore ci si rende conto del valore della vita e del senso dell’esistenza dell’essere umano sulla Terra. Il vero amore è riempirsi del sé con gioia per poi condividerla con l’amato senza rimpianti e nostalgia. Donare all’altro quello che si è, suggerisce Donika. Del resto, ‘siamo nati per amare, non per odiare’, detto con le parole di Sofocle. L’eros nei suoi versi viene vissuto non soltanto come stato fisico ma anche come esperienza interiore, celebrazione dell’amore e della quotidianità:

«La vita sembra un soffio
quando mi perdo in te,//
doniamo a noi stessi
ciò che siamo».

L’autrice non ha paura di svelare la sua ‘nudità, le sue passioni erotiche e di vivere la sua libertà spirituale. «La cosa più bella è ciò che si ama», scriveva Saffo più di duemila anni fa’. È per questo che si rivolge al suo uomo con queste bellissime parole:

«Voglio che tu sia maschio,
senza veli nel corpo,
che mi scavi a fondo,
giunco incendiato
che si scioglie
nelle mie acque».

La donna desidera essere amata come solo un uomo vero può amare. La sua pelle trema. Colma di sete d’amore, vuole essere posseduta dalle braccia del dio eros. Immagina l’istante in cui il destriero del suo uomo si immerge nel desiderio e si tinge del rosso della sua ‘ferita’: vuole sentirsi donna tramite il piacere carnale. Tutto questo viene espresso con una passione travolgente:

«Vieni,
prendimi,
toccami,
amami,
fammi impazzire,
entra dove sai entrare solo tu,
fammi sentire donna».

(Donika Dabishevci)

È proprio questo forte dualismo esistenziale che seduce il Verbo di Donika Dabishevci. Eros e thanatos, con-presenti e conflittuali nella sua poesia, creano delle atmosfere erotiche intense e di straordinaria sensualità:

«Lasciami scavare follemente in te//
Voglio bagnare le labbra incendiate,
risalire alla tua sorgente
e inebriarmi di te».

Sono versi erotici del tutto nuovi per la poesia femminile albanese contemporanea. Durante la dittatura di Enver Hoxha, in Albania, i temi esistenziali e metafisici erano proibiti. Le parole: “toccare”, “baciare”, “eros”, “fare l’amore”, “thanatos”, “sangue della prima notte”, “follia” erano considerate tabù per la censura del regime comunista. Il valore di un’opera si misurava in relazione alla sua forza nel servire il partito, le masse e il socialismo reale. Lo slogan del cosiddetto “realismo socialista” era: «Il poeta dev’essere l’occhio, l’orecchio e la voce della classe proletaria». Si amava in nome del Partito, l’eros e il piacere carnale erano espressione che appartenevano alla morale e l’estetica borghese dell’Occidente reazionario.
È solo dagli anni’90 in poi che la poesia femminile albanese ha iniziato a scoprire le emozioni del corpo e dell’anima, i sensi e il piacere femminile tramite l’amore, come percorso di conoscenza e verità di vita, come pace interiore e libertà. L’amore coinvolge tutte le virtù del mondo spirituale e guida l’uomo verso la pienezza dell’essere, verso l’eternità. Eros significa bellezza del corpo e dell’anima, ricerca sull’animo umana, elevazione mistica.
Il sentimento erotico esalta il corpo femminile e il culto del piacere, ma non sempre rende felicità e pace interiore. Rimpianti, nostalgie e tormenti creano inquietudine nell’anima umana costringendola a vivere tra ragione e follia. Più la donna ama, più l’ombra del thanatos incombe sul suo amore. La nostra poetessa si rende conto che amare significa: gioia e panico. «All’amore – diceva Esenin – non si chiedono giuramenti/ Con l’amore si conoscono gioie e sventure».È una dura lotta quotidiana, ed è questo il lato divino e crudele del dramma umano:

«Maledetto possa essere
l’attimo che generò
questa selvaggia seduzione,
pura follia».

Amare per Dabishevci significa dare la besa al desiderio, per lei l’amore è la vera patria degli umani. Il sentimento amoroso è più forte della morte, e quest’ultima non può placare il bisogno di donarsi:

«Hai seminato radici di gioia
e di morte in me,
mio amore: dolore,
eros e lutto per me”.

«Più forte della morte
è il mio desiderio per te».

La sua forza trasforma in cenere e fiamme ogni minaccia del thanatos:

«Il mio fuoco trasformerà in cenere
e fiamme ogni tuo desiderio».

Nonostante la dura lotta quotidiana in questo dissidio cosmico: «Non riesco a placare le grida delle mie ferite», per la poetessa del Kosovo vale sempre la pena accettare la sfida del destino alla conquista della vera dimensione poetica, spirituale e intellettuale.
Dabishevci sceglie l’eros per far allontanare la morte come una sfida: «Voglio che tu fugga da me». Consapevole del fatto che “la sorella morte” ci accompagna tutti i giorni, la sua poesia può essere letta anche come un dialogo tra l’amore, la vita e thanatos. Amare significa vivere per l’autrice, ma amare significa anche piacere e sofferenza che oltrepassa la sua sfera personale diventando così un’esperienza spirituale e cosmica. Solo chi percepisce questa dimensione può scoprire nella poesia la vita, e nella vita l’amore che unisce e proietta nel futuro, per poi dissolversi in suono, voce, fuoco sacro e canto sospeso nel tempo e nello spazio, quindi morire per vivere e amare diversamente:

«Un giorno, io e tu,
non ci saremo in questo verde,
ci dissolveremo
nel vuoto del tempo».

Viene un momento in cui l’amore terreno diviene amore cosmico, come parte della totalità e dell’origine. È l’atto supremo dell’integrità dell’amore umano. Allora tutto è compiuto come appagamento spirituale dell’anima, come metafora dell’unione universale, in cui ognuno di noi, nella solitudine cosmica, si sente un po’ robinjë :

«È come allora,
nulla è cambiato in me,
ma ora è tardi,
in questa valle
parliamo la lingua degli alberi».

Ciò che distingue i versi di Donika Dabishevci è l’aspetto carnale dell’amore, sa comunicare con il proprio corpo e con la propria femminilità. La poetessa kosovara possiede un’enorme potenzialità creativa. Il suo linguaggio poetico, avvolto da un fascino orientale, è prepotente e suggestivo, senza cadere in un volgare erotismo, e mira la bellezza come punto di arrivo. È da notare che i testi in albanese sono stati scritti in dialetto gegë dell’Albania del Nord.
Quest’opera in bilingue: in albanese e italiano, la cui pubblicazione è prevista per il prossimo anno con la casa editrice romana, Ensemble, rappresenta la prima pubblicazione di una vera voce femminile del Kosovo in Italia.

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[1] Robìnjë: fanciulla che veniva presa viva dalle mani dei guerrieri vincitori, andava ai signori di guerra come trofeo.
[2] Besa: parola data per gli Albanesi.
[3]. Robìnjë: fanciulla che veniva presa viva dalle mani dei guerrieri vincitori, andava ai signori di guerra come trofeo.

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N ON AVER PAURA

Sei quello che sei.

Perché taci,
pietra tombale il tuo silenzio

Ho nelle vene il sole,
non gli abissi.

Maledetto possa essere
l’attimo che generò
questa selvaggia seduzione,
pura follia.

Perché ti spaventi?

Un giorno, tu ed io,
non ci saremo in questo verde,
ci dissolveremo
nel vuoto del tempo.

Tu diverrai una palude,
io una lava vulcanica,
tu, un torrente infuriato,
io una scia di luce
di arcobaleni e pioggia.

Non aver paura,
versati in me come un ruscello di sangue.

Entra nelle mie vene,
brucia il mio corpo,
le mie labbra,
accogli la mia preghiera
di donna.

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EPITAFFIO

Meravigliosi
il tuo respiro e il tuo corpo.
Voglio ricordarti
come l’uomo della mia ferita,
vigoroso,
malvagio,
uomo – quercia.

Hai seminato in me
radici di gioia e di morte,
amore e dolore,
eros e lutto per me.

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SENTO IL TUO PROFUMO

Sento il tuo profumo,
il mio corpo trema,
la mia anima sussulta,
non tardare
a venire,
la mia anima si spezzerà
se non mi raggiungi,
più forte della morte
è il mio desiderio per te.

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DIVENTERAI CENERE

Splende il tuo corpo,
ma il tuo orgoglio un giorno si spegnerà,
diventerai cenere,
come una quercia spaccata dalla tempesta;
cadrai per terra
sciogliendoti in granelli di polvere.

Il mio fuoco trasformerà in cenere
e fiamme ogni tuo desiderio,
sono pronta a incendiarti,
come una belva feroce e docile
.ti donerò segni di ferita.

VOGLIO AVERTI

Voglio averti
in un luogo lontano,
in un deserto infinito,
o su un’isola nel mare
dove posso consegnarmi
al tuo destriero
e alle tue bianche acque
su una pietra bianca e liscia,
sotto gli astri e la luna.

Ti amo
come non ti ho mai amato
in questa valle,
amiamoci
senza parole e gesti,
solo gemiti.

Sei il mio signore
senza le briglia,
ed io fremo di desiderio,
non temo nulla
in questa vita vuota,
toccami,
niente parole,
amiamoci
fino all’eternità.

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LA VITA SEMBRA UN SOFFIO

La vita sembra un soffio
quando mi perdo in te,

la stanza si stringe,
si riempie di uccelli
giunti dai mondi.

Non voglio altro da te,
né tu da me,
doniamo a noi stessi
ciò che siamo.

Respiriamo il mosto
della vita senza ritorno.

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VOGLIO CONCEDERMI ALLA TUA NOTTE

Voglio concedermi alla tua notte
come la luna al buio,

senza parlare,
senza nessun pegno,
nessuna condizione.

Voglio che tu sia maschio,
senza veli sul corpo,
che mi scavi a fondo,
giunco incendiato
che si scioglie
nelle mie acque.

E sentirmi felice
esserci in questo mondo
con te
almeno per un attimo,
lottare fino all’ultimo respiro.

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LA TUA ROBINJA

Sono la tua robinja
folle di te
mio signore.
Ho amato me stessa
guardandomi nei tuoi occhi,
voglio sentire nel mio centro
le tue morbide dita.

Vieni,
prendimi,
toccami,
amami,
fammi impazzire,
entra dove sai entrare solo tu,
fammi sentire donna.

Che le grida e i gemiti
diventino tutt’uno,
voglio domarti
con la mia brama d’amore

Vieni,
voglio saziarmi di te.

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AMIAMOCI

Lasciami scavare follemente in te
e di nuotare dentro di me
per sentirci sospesi sull’erba.

Amiamoci stasera,
c’è tempo per odiarci.

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IN TE

Ti ho rubato i sogni,
in te abitano
solo i tormenti.

Ho dato vita ai tuoi giorni,
in te ho bevuto
senza mai saziarmi,
poi ti ho lasciato volare,
in pace,
senza baciarti gli occhi
e stringerti al mio petto.

Sento la tua assenza,
ti ho cercato nel mio volto,
tra le piogge delle mie mani
le tue strade.

È come allora,
nulla è cambiato in me,
ma ora è tardi,
in questa valle
parliamo la lingua degli alberi.

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EVVIVA IL CANTO DEL GALLO NEL VILLAGGIO COMUNISTA RROFTË KËNGA E GELIT NË FSHATIN KOMUNIST – Slogan dell’Albania di Enver Hoxha – Cura e traduzione di Gëzim Hajdari

Gezim Hajdari foto 8

Inserisci una didascalia

 

Rama è padre di Edi Rama, segretario nazionale del Partito Socialista d’Albania, ex-PCA, nonché premier del paese dal 2013.

Besa Editrice, 2013

Questi slogan agghiaccianti, proposti per la prima volta al lettore occidentale, appartengono al regime stalinista di Enver Hoxha, una delle dittature comuniste più spietate del XX secolo. Accanto alle persecuzioni, alle condanne, alle prigionie, alle torture, ai lager, alle fucilazioni, alle impiccagioni, ai lavori forzati, gli slogan enveristi hanno esercitato, per mezzo secolo, un terrore psicologico impressionante sulla mente dei cittadini albanesi, un vero e proprio lavaggio del cervello, tale da condurre alla pazzia uomini e donne, giovani e anziani.

«Il cervello del compagno Enver è anche il nostro!» era all’ordine del giorno.

      Negli slogan è racchiuso mezzo secolo della lotta di classe condotta da Enver Hoxha, e proprio la lotta di classe era uno dei principi su cui basava la sua feroce tirannia.

I primi slogan comparvero già durante la guerra partigiana guidata dai comunisti bolscevichi. Per ogni attività della vita sociale, politica, economica, culturale e spirituale erano stati approntati degli slogan, che inneggiavano alle masse, al Partito e al dittatore Hoxha, al rimanere uniti per costruire e rafforzare il comunismo e per sconfiggere i nemici interni e quelli stranieri.

      Gli slogan venivano ripetuti a memoria fino all’ossessione, giorno e notte, non soltanto dai cittadini liberi, ma anche dai detenuti, che spesso venivano costretti a recitare ad alta voce la retorica comunista.

      «Erba mangeremo e i principi comunisti non calpesteremo!» era il principio cardine dell’ideologia suicida del dittatore albanese. Ancora più emblematico lo slogan in cui si richiedeva di «innestare cervelli e cuori nel tronco comunista».

      Molti furono coloro che finirono dietro le sbarre per non aver accettato di declamare slogan pro regime durante le manifestazioni organizzate dal Partito comunista “fondato su ossa e sangue” e dal dittatore. «Le spade della dittatura del proletariato, sempre sguainate» contro i nemici della patria!

     Un destino più atroce, invece, spettava a coloro che esprimevano rabbia e odio contro i versetti della “liturgia rossa”. Gli slogan «Addio compagni, abbasso la dittatura!», «Evviva la libertà!», «Abbasso il comunismo!», «Abbasso il tiranno Enver Hoxha!», «Abbasso il Partito comunista!». «Libertà!», «Evviva l’Albania libera!» e «Basta con gli schivai del comunismo!», venivano ripetuti spesso e ad alta voce nei tribunali e nelle carceri albanesi.

 Gezim Hajdari foto 15Tutto questo faceva parte del Terrore di Stato, dell’assurdità, della patologia criminale perpetrata contro l’umanità dal regime totalitario di Tirana durante gli anni 1941-1990.

     Gli slogan enveristi inneggiavano al Partito, alla dittatura del proletariato e al dittatore Enver Hoxha, al fine di inculcare nelle masse la coscienza rivoluzionaria e il fervore ideologico, come nella Cina maoista. Lo scopo principale di questa allucinazione collettiva era quello di poter diffondere le massime e le direttive del tiranno e quello di tenere viva la famigerata lotta di classe, che causò decine di migliaia di morti nel “Paese delle aquile”, sia tra i civili che tra i detenuti nelle prigioni o nei campi di internamento sparsi in tutta l’Albania.

     Gli slogan apparivano ovunque: ai margini delle strade, in cima alle montagne, nelle piazze, sui muri delle case, agli ingressi delle fabbriche e delle miniere, negli stadi, negli uffici, negli asili, nelle scuole, nelle università, nei libri, negli ospedali, lungo il confine, nei porti, sulle spiagge, nei parchi, nelle camere da letto, nelle ninne nanne, nei manicomi, addirittura nei cessi pubblici. Persino l’amore doveva essere dedicato alla causa comunista: «Dobbiamo innamorarci in nome del Partito e del compagno Enver!»

     Erano gli anni della pianificazione della nuova estetica di Stato e dell’affermazione del njeriu i ri, l’“uomo nuovo” del socialismo, plasmato dal Partito e temprato sotto l’incudine della classe operaia, “l’uomo muscoloso e stakanovista” che vigilava giorno e notte per difendere le vittorie e la patria dai nemici.

«Dobbiamo seppellire da vivi i nemici del popolo!» recitavano i megafoni nelle piazze ogni domenica.

   Ancora oggi alcuni di questi slogan, scritti con vernice rossa, si intravedono sbiaditi sui muri.

 

 Se gli slogan del Libretto Rosso di Mao Tse-Tung erano 286, quelli di Enver Hoxha erano più di 1200. Il dittatore albanese, per aumentare l’influenza ideologica delle sue massime, aveva assoldato le cosiddette “Guardie Rosse”, sparse in ogni angolo del Paese, che diffondevano i comandamenti comunisti e denunciavano i nemici del suo Libretto Rosso. Gli slogan penetravano nella vita quotidiana degli albanesi non soltanto tramite il Sigurimi (la polizia segreta del regime di Enver Hoxha), ma anche attraverso gli scrittori del realismo socialista, che servivano il Partito nell’educazione comunista del popolo.

    Alcuni di questi slogan sono tratti dagli scritti di celebri poeti asserviti al regime, i quali non mancavano di osannare la folle dittatura con versi del tipo: «Con l’acqua del comunismo ci siamo purificati!» oppure «Proiettili terribili lanceremo, nel petto del nemico piombo fuso verseremo».

     In ogni scuola, asilo, fabbrica, università o villaggio, si recitavano gli slogan inneggianti al partito e al compagno Enver Hoxha prima di cominciare a lavorare o a fare lezione.

Dopo Epicedio albanese, in cui racconto il massacro di cui sono stati vittime poeti e scrittori albanesi dal 1920 al 1989, Slogan dell’Albania di Enver Hoxha è un altro frammento della memoria collettiva del mio Paese. Ho deciso di pubblicare questa raccolta per confrontarmi con la verità storica del passato e per non dimenticare, affinché il Parlamento di Tirana condanni i crimini commessi contro l’umanità durante la dittatura comunista.

  1. Gëzim Hajdari                                                                       

 Tratti da «EVVIVA IL CANTO DEL GALLO NEL VILLAGGIO COMUNISTA» Besa, 2013

 Gezim Hajdari foto 1

All’Albania finalmente è nato un figlio: il compagno Enver Hoxha!

Il cervello del compagno Enver è anche il nostro!

Evviva il Partito Comunista Albanese con il compagno Enver Hoxha, la nostra guida!

Evviva la dittatura del proletariato!

Il Sigurimi dello Stato è un’arma preziosa nelle mani del Partito!

Innestare cervelli e cuori nel tronco socialista!

L’opera più preziosa del Partito: la creazione dell’uomo nuovo!

Erba mangeremo e i principi comunisti non calpesteremo!

Dobbiamo innamorarci in nome del Partito e del compagno Enver!

Evviva la lotta di classe!

Gezim Hajdari foto 2

Compagno Lenin, Tu non sei morto e mai morirai finché ci saranno albanesi sulla Terra!

Le spade della dittatura del proletariato, sempre sguainate!

Il Partito Comunista Albanese è fondato su ossa e sangue!

Beato chi trova nel cielo la stella che brilla sull’Albania!

Con te, mio Partito, mi sento alto come le montagne, senza di te, mi sento piccolo come una formica!

Schiacciamo la testa al nemico di classe!

Quanto è fortunata l’Albania rossa!

Tutto il mondo ci invidia!

Le radici delle nostre vittorie sorgono nel sangue!

Non è la Bibbia che parla ma il Partito!

Gezim Hajdari foto 12

In tutta l’Albania vi erano 21 statue dedicate a Stalin.

Morire in nome del Partito è un grande onore!

Doniamo i nostri figli al Partito!

I capitalisti possiedono le armi, noi il pensiero del compagno Enver!

Gli insegnamenti del compagno Enver: più forti della bomba atomica!

Doniamo al Partito anche l’ultima gocce di sangue!

Collettivizziamo le pecore, le capre e le vacche nelle stalle comuniste!

Guerra alla mentalità borghese!

Continueremo ad oltranza la lotta di classe!

Doniamo i nostri cuori al compagno Enver!

I nemici ci guardano tramite la canna del fucile, noi guardiamo loro tramite la canna dei cannoni!

L’Albania è l’unico baluardo del comunismo nel mondo!

Che ogni spiga di grano sia un proiettile per il nemico!

L’Albania, l’unico Paese al mondo senza scioperi!

Gezim Hajdari foto 3

Il Partito è stato fondato su ossa e sangue dei nemici di classe!

Vendetta e sangue contro i traditori!

Noi comunisti albanesi danziamo felici nella tana del capitalismo!

Evviva il compagno Mao Tse-Tung!

Due leoni esistono oggi: Mao Tse-Tung in Asia e Enver Hoxha in Europa!

Faremo cenere e polvere di coloro che oseranno torcerci anche un solo capello!

Doniamo al Partito la luce dei nostri occhi!

Il nemico di classe non sfugge all’occhio del Partito!

Quando parla il compagno Enver il mondo trema!

Di Enver Hoxha ne è venuto al mondo solo uno!

Proiettili terribili lanceremo, nel petto del nemico piombo fuso verseremo!

Gezim Hajdari Slogan 1

Gli scrittori e gli artisti sono grati al Partito e al compagno Enver!

L’eroe comunista deve essere al centro di ogni opera letteraria e artistica!

Facciamo nostri i preziosi insegnamenti del compagno Stalin su arte e letteratura!

Questo mio canto per te, Partito, sia come una rosa rossa sulla canna del fucile!

L’amore per il Partito e per il compagno Enver viene prima di tutto!

Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista!

Evviva la sposa comunista!

Evviva lo sposo comunista!

Evviva padre Stalin!

Il popolo albanese è assetato per la letteratura del realismo socialista!

Abbasso la donna borghese!

Evviva il latte comunista!

Evviva la lana comunista!

 

Ciò che dice il Partito, fa il popolo, ciò che dice il popolo, fa il Partito!

L’opera del padre Stalin: grande esempio per il Partito e il compagno Enver!

Alla forca i nemici del Partito!

Per il Partito e il compagno Enver, daremo la nostra vita!

Gli scrittori: leve del Partito per l’educazione comunista della gente!

Siamo soldati fedeli al Partito-padre!

Gli scrittori e gli artisti sono grati al Partito e al compagno Enver!

All’epicentro di ogni opera letteraria ed artistica ci deve essere l’eroe positivo comunista!

Interiorizziamo gli insegnamenti preziosi del compagno Stalin sulla letteratura e le arti!

Donare al Partito il nostro sangue!

Dedicare al Partito e al compagno Enver la propria vita!

 Abbasso gli scrittori cattolici reazionari!

Abbasso gli scrittori mistici musulmani!

Il nostro eroe positivo deve essere comunista ogni momento: nella vita quotidiana, in famiglia, in amore, nelle preoccupazioni, nella gioia e nel sangue!

Il giorno in cui è nato il Partito, è nato il nostro sole!

La teoria di Freud: disgrazia per la letteratura del realismo socialista!

Abbasso i poeti e gli scrittori sentimentali e mistici, seguaci di Nietzsche e di Freud!

La letteratura del realismo socialista: letteratura della classe operaia!

Le opere del compagno Enver e quelle dei classici del marxismo-leninismo sono l’unica arma contro l’arte decadente e revisionista!

Gezim Hajdari foto 6

Guerra contro le influenze straniere e le teorie reazionarie di Freud!

L’opera di J. V. Stalin: sempre attuale!

Abbasso gli scrittori traditori sovietici, cechi, bulgari, francesi, irlandesi e americani!

Abbasso i servi della degenerata società occidentale come Kafka, Joyce, Sartre, Kamy, Roger Garaudy, Natalie Sarraute, Rob Grijene, Mishel Bytorit, Klod Simon, Solgenitsin, A. Kuznecov A. Demetjev, Tvardovskij, Xhon Hers e L. Andrejev!

Evviva la letteratura e le Arti sotto la luce del Partito!

Freud è la causa di un’epidemia mai vista nella cultura mondiale!

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La sua teoria sta divenendo sempre più pericolosa e sta contagiando, una dopo l’altra, le letterature e le generazioni di scrittori e di artisti!

Evviva gli insegnamenti del compagno Mao Tse Tung per i problemi della Letteratura e delle Arti!

Noi poeti e artisti siamo legati più che mai al Partito e al marxismo-leninismo!

L’arte comunista è l’arte della sublimazione della Rivoluzione!

Siamo filgii di Stalin!

Ciò che è importante nella vita dei giovani comunisti non sono gli amori, ma la fedeltà al Partito!

La lotta di classe deve guidare la nostra Letteratura!

La Rivoluzione Culturale Cinese è una grande ispirazione per noi Albanesi!

Gezim Hajdari foto 12

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Gezim Hajdari Siena 2000

Gezim Hajdari Siena 2000

Gëzim Hajdari è nato nei Balcani di lingua albanese nel 1957. È il maggior poeta vivente albanese, bilingue, scrive in albanese e in italiano. Nell’inverno del 1991 è tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, partiti d’opposizione, e viene eletto segretario provinciale per i repubblicani nella suddetta città. Nello stesso anno è cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës (Il momento della parola), nel quale svolge la funzione di vicedirettore. Nelle elezioni politiche del 1992 si presenta come candidato al parlamento nelle liste del PRA. Nel corso della sua intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione in Albania, ha denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, la corruzione, gli abusi e le speculazioni della vecchia nomenclatura comunista di Enver Hoxha e dei recenti regimi mascherati post-comunisti. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce subite, è stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal proprio paese. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia. Ha scritto anche libri di viaggio e saggi e ha tradotto in albanese e in italiano vari autori. È vincitore di numerosi premi letterari. Dal ’92 è esule in Italia.

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Il “Poema dell’esilio” del poeta italo-albanese Gezim Hajdari, Atto di accusa contro il regime postcomunista in vigore in Albania – “Nell’Albania comunista di Enver Hoxha vennero imprigionate 30 mila persone, 60 mila internate nei campi dei lavori forzati, 17.900 condannate per motivi politici, 5500 uccise come avversari politici del dittatore Enver Hoxha, 9052 morirono nelle prigioni, 408 rimasero invalidi mentali a causa delle torture disumane subite, 7022 morirono nei campi dei lavori forzati. Furono fucilate o sono morte nelle varie prigioni 148 tra intellettuali, artisti, scrittori, poeti, politici, filosofi, giuristi, traduttori e professori di latino e greco. Mentre 4500 persone sono sparite e ancora oggi non si sa dove giacciono i loro resti”

Besnik Violenza-a-Tirana_1990

Manifestazione a Tirana, 1990

Negli ultimi giorni, la stampa italiana e quella mondiale ha più volte richiamato il caso dell’Albania come la nuova Colombia d’Europa per quanto riguarda il suo ruolo cruciale per la produzione e il commercio della droga. Inoltre il paese, ogni giorno, è all’epicentro di scandali politici, corruzione e traffici illegali. Notizie clamorose del genere non sono del tutto casuali. La corruzione, gli omicidi, i traffici illegali, gli intrecci tra mafia e governanti sono stati e continuano ad essere all’ordine del giorno sin dal 1992.
Prendendo spunto dalla cronaca più recente, pubblichiamo alcuni tratti scelti dalla raccolta Poema dell’esilio del poeta italo – albanese Gezim Hajdari che ha avuto il merito di denunciare già anni fa’, quasi profeticamente, le tragiche vicende sia del regime comunista di Enver Hoxha che quelle dei regimi postcomunisti di oggi. Ma purtroppo, in Albania come in Italia, nessun quotidiano ha dato spazio a questa denuncia pubblica e storica di Hajdari, anzi, il suddetto libro, come del resto anche l’autore stesso, non a caso, sono stati ignorati per ben 24 anni di seguito dalla stampa ufficiale albanese e italiana.
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Gezim Hajdari cop inglese
Gëzim Hajdari
Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit
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I° edizione, Fara Editore, 2005
II° edizione ampliata, Fara Editore 2007

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«Perché mai sono uscito dal seno materno per vedere tormenti e dolore e per finire i miei giorni nella vergogna?»
Geremia (L’antico Testamento. Libro dei Profeti)
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«Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario».
(George Orwell, La fattoria degli animali)
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“…Eppure – chissà – là dove qualcuno resiste senza speranza è forse là che inizia la storia umana, come la chiamiamo, e la bellezza dell’uomo!”
Ghiannis Ritsos
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Police breaks up violent protest in Tirana

Manifestazione a Tirana

Nell’Albania comunista di Enver Hoxha vennero imprigionate 30 mila persone, 60 mila internate nei campi dei lavori forzati, 17.900 condannate per motivi politici, 5500 uccise come avversari  politici del dittatore Enver Hoxha, 9052 morirono nelle prigioni, 408 rimasero invalidi mentali a causa delle torture disumane subite, 7022 morirono nei campi dei lavori forzati. Furono fucilate o sono morte nelle varie prigioni 148 tra intellettuali, artisti, scrittori, poeti, politici, filosofi, giuristi, traduttori e professori di latino e greco.
      Mentre 4500 persona sono sparite e ancora oggi non si sa dove giacciono i loro resti.
      Per motivi politici sono stati confiscati e imprigionati 19.250 ricchi latifondisti e commercianti. La dittatura comunista di Hoxha condannò 310 alti prelati religiosi, distrusse 220 istituzioni religiosi. Fucilò 95 cittadini del Kosovo e imprigionò 250 cittadini stranieri, tra questi 38 donne di nazionalità non albanese. Ma la cosa peggiore è che l’elenco dei nomi dei cittadini fucilati senza processo durante gli anni 1944-1955, non esiste in nessun archivio. Forse questo elenco non si troverà mai. Nelle prigioni e nei campi di internamento albanesi hanno sofferto le pene dell’inferno anche cittadini italiani, greci, tedeschi, austriaci, polacchi, russi, ecc. ecc. Nell’Albania di Enver Hoxha vi furono 40 prigioni e 50 campi di internamento.
      Gli artigli del regime stalinista di Hoxha non risparmiarono nemmeno le donne albanesi.
      Il regime ne condannò ben 7367, delle quali 308 impazzirono a causa delle torture macabre. Morirono nelle prigioni 45 e furono fucilate 450. Nei campi di internamento furono rinchiuse 46.790, morirono per le fatiche e gli stenti 5118 donne e 320 bambini di fame e malattie.
      La costruzione di una vera democrazia in Albania doveva basarsi su due pilastri: uno rappresentato dalla decisione politica di fare luce sui  crimini della tragedia comunista e il secondo fondato sulla restituzione dei beni agli ex proprietari. Sono trascorsi ben venticinque anni dal crollo della dittatura di Hoxha e nessuna di queste due questioni  è stata mai affrontata.
      Anzi, l’Albania è l’unico paese dell’Europa dell’Est che non ha aperto fino ad oggi gli archivi della polizia segreta di Enver Hoxha. L’ultimo tentativo ci fu alcuni anni fa’, ma la Corte Costituzionale, presidiata da Femi Avdiu si oppose. Femi Avdiu è stato il presidente del tribunale di Enver Hoxha responsabile della condanna all’impiccagione, avvenuta nel 1988, del poeta dissidente Havzi Nela. Questo giudice criminale comunista, dopo il crollo del regime rosso di Tirana, divenne deputato dei postcomunisti (PSA), nonché presidente della Corte Costituzionale della Albania “democratica”! Mentre l’ordine per l’esecuzione del poeta Havzi Nela fu firmato da Kristaq Rama, vice presidente del parlamento di Enver di Hoxha. Kistaq Rama è il padre dell’attuale premier dell’Albania, Edi Rama!
      Pertanto, ancora oggi i responsabili di questo massacro ricoprono alte cariche politiche nell’Albania postcomunista in tutti i segmenti della vita politica, economica, culturale e spirituale facendo di tutto per seppellire la memoria di quanto è successo. Loro non vogliono che la verità storica sia resa pubblica, né in Albania né all’estero. Coloro che tentano di far luce sugli efferati crimini commessi durante il regime di Enver Hoxha, come nel caso di chi scrive, sono considerati dei nemici e condannati perciò al silenzio. dalla mafia politica e culturale di Tirana.
      Il Terrore era un sistema, il principio su cui si basava la dittatura stalinista.
      Finché il Parlamento di Tirana non riconoscerà il Terrore di Stato come un crimine contro l’umanità, non ci sarà pace nelle coscienze dei cittadini e una vera democrazia in Albania. Il 25 gennaio 2006 l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha approvato la risoluzione 1481 in merito alla “ Necessità di una condanna internazionale dei crimini dei regimi del totalitarismo comunista” in cui si condannano le violazioni di massa dei diritti umani commesse dai regimi totalitari comunisti. Inoltre, tale risoluzione stigmatizza il fatto che gli autori di questi crimini non siano mai stati portati in giudizio di fronte alla comunità internazionale e, di conseguenza, ne deriva una scarsa presa di coscienza pubblica sui crimini del totalitarismo comunista.
       Dal 1991 ad oggi il Parlamento albanese, nonostante questa risoluzione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, non ne ha mai tenuto conto. Il Passato si identifica solo con le vittime e si dimenticano i commissari che progettarono tale carneficina. Fino ad ora la tragedia del genocidio albanese non ha avuto nessun responsabile; non c’è stata una condanna, nemmeno morale. I governi post-comunisti attendono che scompaia la generazione dei perseguitati e, insieme a loro, ogni testimone oculare, ogni testimonianza, ogni ricordo vivente della tragedia storica.
      I familiari delle vittime attendono la verità su ciò che è accaduto nelle stanze del Sigurimi (polizia segreta di Enver Hoxha) e sperano che il Parlamento di Tirana condanni finalmente le atrocità perpetrate durante quell’epoca. Il paradosso è che, l’anno scorso il governo postcomunista di Edi Rama, ha premiato decine di ex-alti funzionari della nomenklatura del regime di Hoxha, in quanto ideatori ed esecutori del Terrore di Stato, per aver servito con devozione la patria comunista di ieri! L’Albania si è trasformata in un cimitero sepolto e rivelato: ogni giorno viene scoperta una fossa comune con resti di uomini, donne e bambini considerati nemici della dittatura del proletariato.
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Gezim Hajdari colline di Fondi, 2006

Gezim Hajdari colline di Fondi, 2006

      Se fino a ieri, il Paese delle Aquile è stata vittima del regime sanguinario di Enver Hoxha, dal ’91 fino ad oggi, è diventato il paese più corrotto dell’Europa e la terra dei misteri, degli scandali politici inquietanti e degli intrighi internazionali diventando così un pericolo non solo per la sua gente ma anche per i Balcani. I due partiti politici, i democratici e i socialisti, che hanno governato il paese, scambiandosi il potere a vicenda dal 1991 ad oggi, sono nati dallo scisma dello stesso partito comunista di Enver Hoxha. Nella mia Albania, il paese della besa, dell’onestà, dell’ospitalità, dell’amicizia dell’epica; l’Albania dei padri del Rinascimento, della grande tradizione orale e mistica, nulla è cambiato. Anzi, la mia Albania continua a sprofondare ogni giorno di più nella corruzione e negli affari sporchi facenti capo alla nuova oligarchia, caratterizzata spesso da lotte interne spietate per il dominio e il potere. Responsabili di tutto questo disastro economico, sociale, morale, politico e culturale sono gli stessi politici della vecchia nomenklatura di ieri del regime comunista, divisi in clan mafiosi potenti e molto pericolosi, che tengono in ostaggio lo Stato e la vita dei cittadini.
      L’Albania e gli albanesi di oggi gestiscono il traffico internazionale della droga, delle armi, della prostituzione, degli esseri umani e del denaro sporco. È da venticinque anni che in Albania è in atto una distruzione generale, mai vista prima e ininterrotta, che pervade tutti gli angoli della vita, dell’ambiente, delle tradizioni e del patrimonio spirituale albanese creato con sacrifici dai nostri antenati nel corso dei secoli. Proprio  dall’Albania e dal Kosovo parte la maggior parte dei mercenari usati per arruolarsi nelle file del Daesh con lo scopo di rovesciare dei governi legittimi come si è tentato di fare recentemente in Siria. L’Albania e il Kosovo, con il voler della CIA americana,  hanno ospitato carceri di tortura dove sono stati torturati cittadini stranieri. Negli ultimi tre anni, sempre con il volere della CIA, l’Albania ha ospitato nel suo territorio 2500 cosiddetti ‘mujaheddin’iraniani, addestrati per destabilizzare paesi e nazioni e per seminare nuove guerre e morte in Iran e in varie parti del mondo in nome di quella che ormai è entrata nei manuali di strategia militare sotto l’appellativo di “Strategia della tensione”.
      La mia ‘nuova’ Albania, sorta sui crimini e sui traffici mafiosi, secondo un progetto dei ‘Poteri Oscuri’ dall’oltreoceano, con il consenso vergognoso dei politici mercenari di Tirana, è diventata il paese più pericoloso d’Europa. Sono stati proprio questi poteri oscuri che hanno portato al potere il dittatore Enver Hoxha, che hanno difeso e appoggiato la sua sanguinaria politica per mezzo secolo a Tirana. Sono stati proprio questi  poteri oscuri che hanno eliminato gli oppositori del regime comunista sia in Albania che all’estero. Sono stati proprio questi poteri oscuri che hanno portato al potere con la loro benedizione i postcomunsiti di Sali Berisha, Fatos Nano e di Edi Rama. Sono stati proprio questi poteri oscuri che tengono ancora oggi sotto la loro protezione i responsabili della tragedia comunista. Stranamente molti di questi boia oggi vivono tranquilli negli Stati Uniti. Sono stati proprio questi poteri oscuri che hanno voluto che la nuova Albania venisse costruita proprio sui crimini, sulla droga e sui traffici loschi.
      Sono stati proprio questi poteri oscuri che hanno programmato e innescato lo scontro etnico in Kosovo, la distruzione della convivenza balcanica innalzando muri di odio tra i nostri popoli vicini, che nei secoli scorsi, nel male e nel bene, hanno condiviso lo stesso destino. Sono stati proprio questi poteri oscuri che hanno costituito uno Stato fantoccio come quello del Kosovo, gestito ancora oggi da loro, non per il bene di quest’ultimo e del suo popolo, ma piuttosto per i loro interessi personali politici ed economici.
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      Il Kosovo, usato come carne da macello dai  poteri oscuri, se fino a ieri è stato la culla dell’albanesità, oggi sta diventando la tomba dell’Albania. Sono proprio questi poteri oscuri che stanno tentando di destabilizzare oggi la Macedonia con l’aiuto degli albanesi macedoni. E non si fermeranno qui. Ma la cosa peggiore è che nell’arco di venticinque anni nessun politico, intellettuale, giornalista, partito o un’associazione albanese ha mai denunciato tutto questo. Nessuno. Anzi, sono pronti a vendere la propria madre in segno di devozione a questi poteri oscuri per avere in cambio di favori, carriera, donne, potere e soldi.
      I sedicenti intellettuali, scrittori, analisti, giornalisti, opinionisti, oppositori i quali trascorrono il tempo tra comparsa televisive, caffè e osteria di Tirana, è da venticinque anni che fanno finta di disputarsi tra di loro, ricevendo però premi letterari, titoli, alte cariche, onori e denaro dal potere criminale di Tirana. I loro stipendi, le alte cariche e i loro onori sanno di marcio, di crimine, di prostituzione, di sangue e non arrivano a comprendere che finché l’Albania sarà sotto le grinfie dei poteri oscuri di oltreoceano, non ci sarà mai pace, democrazia, prosperità e una sana sovranità per l’Albania e gli albanesi, ma solo un suicidio collettivo.
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      I poteri oscuri, i quali hanno usurpato il mio paese nel lontano 1922, hanno fatto dell’Albania e del Kosovo una zona franca per poter far passare gli affari più sporchi, e la società albanese è la più incriminata d’Europa al cui interno fanno la legge gli assassini a pagamento. In Albania crescono più piante di droga che di erba. Oggi la mia Albania, è l’unico paese al mondo che ha eretto delle statue gigantesche  a due criminali di guerra come G. Bush jr e H. Klinton, come se non bastasse ciò che è stato detto fin qui. L’Albania e il Kosovo, e quest’ultimo ospita la più grande base militare statunitense in Europa, sono diventati delle portaerei di questi poteri oscuri.
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A proposito della base militare americana in Kosovo, proprio in questi ultimi giorni, a Tirana, ha avuto luogo un’Assemblea della NATO nella quale, tra le altre cose, la Ministra albanese della difesa, M. Kodheli, ha dichiarato con fervore e passione perversa postcommunista che « la NATO rappresenta una comunità caratterizzata dalla democrazia, la libertà individuale, i diritti dell’uomo e lo stato di diritto (…) e che essa è l’incarnazione dei valori democratici di questa alleanza». Signora Ministra, la NATO, come ha dimostrato la storia, non è altro che un’organizzazione criminale in mano ai poteri oscuri che sin dalla sua nascita non ha fatto altro che seminare guerre, morti, crimini e lutto ovunque nel mondo.
Si fa presente alla Signora Ministra Kodheli che la “primavera araba” non si è trasformata in un “inverno arabo”, come pretendete Voi, ma è nata proprio come un “inverno arabo” programmato appunto dai poteri oscuri. E dietro il “diavolo della violenza estrema”, si nascondono sempre gli stessi poteri oscuri; e che sempre dietro al cosiddetto Stato Islamico, oppure DAESH, e gli altri gruppi terroristici”, o ancora “i mercenari da tutto il mondo”, i quali si arruolano e combattono per conto di questi gruppi criminali, come avete dichiarato Voi, si nascondono i poteri oscuri, i quali non solo minacciano “il Medio Oriente e l’Africa del Nord”, come affermate Voi, ma l’Europa intera e oltre ancora. E per di più dietro “l’ondata biblica di rifugiati nelle nostre case o nei paesi vicini” covano i programmi diabolici di questi poteri oscuri. Anzi sono gli stessi che hanno fatto da regia ai conflitti sanguinosi in Afganistan, Iraq, Libia, Siria, si tratta sempre della mano degli stessi poteri oscuri, Signora Ministra.
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Con la caduta del Muro di Berlino, sono venute a mancare le condizioni sociali, politiche e ideologiche per mantenere in vita la NATO. D’ora in poi, è più che ragionevole creare un Blocco militare regionale europeo di difesa. Una proposta del genere sarebbe dovuta partire dai politici intelligenti e visionari davanti all’Assemblea della NATO a Tirana. Ma lo squallore insopportabile e isterico postcomunista dei politici-criminali di Tirana non si accontenta di questo. L’invito del Primo Ministro Edi Rama davanti all’Assemblea della NATO a Tirana, per la creazione di una base militare in Albania, è tanto spaventoso quanto pericoloso, e d’altronde può avere delle conseguenze nefaste per il paese, l’ambiente e il futuro dell’Albania.
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Si fa presente al lettore che oltre alla Ministra bambola, M. Kodheli, hanno presenziato all’Assemblea della NATO  a Tirana anche: il Presidente del Parlamento albanese, Ilir Meta, accusato di corruzione come anche Milo Djukanovic, Presidente del Montenegro, accusato di corruzione. Quest’ultimo, per sfuggire alla giustizia, ha accettato di vendere il proprio paese alla NATO. Solo l’Assemblea della NATO poteva accettare di trafficare con questi personaggi incriminati sulle spalle dei loro popoli.
Sono trascorsi dei giorni ormai dalla dichiarazione di Kodheli, Rama, Meta e Djukanovic davanti all’Assemblea della NATO a Tirana, ma purtroppo nessuna reazione vi è stata da parte di cittadini, politici, intellettuali, scrittori, giornali, associazioni ecc. ecc. per opporsi a queste pericolose iniziative in campo militare. Un silenzio degno di un atteggiamento tipico della prostituzione spirituale e intellettuale.
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L’Albania e il Kosovo hanno ceduto la sovranità nazionale a questi poteri oscuri, i quali gestiscono ogni angolo della vita politica, economica, militare, culturale e spirituale del paese, e non solo. E tutto ciò peserà a lungo sul destino e il futuro della nazione ma anche su quello dell’intera area balcanica. L’Albania e il Kosovo, che attualmente si trovano in un vicolo cieco, hanno una storia, meglio una ControStoria, tutta da riscrivere.
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Gezim Hajdari a Venezia

Gezim Hajdari a Venezia

Gëzim Hajdari
Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit
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Ho contribuito al crollo della dittatura albanese
e alla ricostruzione democratica della patria,
perché aspiravo alla libertà e alla bellezza, ma vincitrice
è stata la nomenklatura di ieri, macchiata di sangue e crimini di Stato.
È per questo che sono in esilio, amici miei.

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Ho partecipato alla fondazione del Partito Democratico all’una di notte e,
mesi dopo, anche a quella del Partito Repubblicano nella città di Lushnje,
entrambi partiti d’opposizione, quando tutti tremavano dalla paura e nessuno
credeva ed immaginava la caduta e la sopravvivenza della dittatura rossa.
È per questo che ho scelto l’esilio, amici miei.

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[…]

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Nel 22 marzo ’92, ho concorso al parlamento albanese nella città di Lushnje,
ma ha vinto colui che l’indomani è divenuto Ministro degli Esteri
e vice premier di Berisha , appoggiato dalla mafia di Tirana.
Mi sono chiuso in casa per tre giorni di seguito.
È per questo che soffro l’esilio, amici miei.

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«Ma il peggio deve ancora venire!»

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Due anni dopo, il popolo di Lushnje, prese in ostaggio allo stadio
il suddetto signore, T. Shehu, cioè il Ministro
e gli mise il porro nel culo,
perché non mantenne le promesse elettorali.
È per questo che mi trascino in esilio, amici miei.

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Ora l’ex-ministro degli esteri, nonché ex-vice primo ministro di Berisha,
è vice rettore della nuova Università di Tirana,
fondata dalla Congregazione italiana “I figli della Signora Immacolata”!
Che la Signora Immacolata salvi l’anima macchiata del suo figlioccio!
È per questo che mi annullo nell’esilio, amici miei.

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Dopo la tragica sconfitta della Democrazia
sono stato costretto ad abbandonare la patria, di notte,
sotto la pioggia, senza una stretta di mano,
perché minacciato di morte.
È per questo che mi perdo nell’esilio, amici miei.

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«Ahimé, djemtë e shqipes a migliaia se ne vanno!
Miseri noi per la vostra sorte!»

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La mia unica colpa è stata di non aver accettato compromessi,
denunciando gli abusi e i crimini del vecchio regime
e quelli del nuovo regime di Berisha
sulla stampa locale e nazionale.
È per questo che mi sento felice in esilio, amici miei.

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[…]

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Nella sede del Partito Democratico di Lushnje,
un suo militante mi ha colpito buttandomi a terra
perchè avevo scritto sul giornale, che i suoi, durante la dittatura,
avevano torturato gente innocente.
È per questo che mi rabbuio in esilio, amici miei.

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Nel “Bar Blerimi”, a Lushnje, il figlio di un direttore “democratico”,
criticato da me sul settimanale Ora e fjalës (di cui sono stato uno dei fondatori
nonché vice direttore dello stesso), mi ha colpito in mezzo alla gente,
mentre stavo per prendere un caffè. Non era la prima volta che venivo aggredito.
È per questo che vivo in esilio, amici miei.

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[…]

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Nella sede del Partito Repubblicano, nel quale ero segretario
per la mia provincia, spararono. Fu una vera minaccia. Avevamo perso.
Non c’era più posto per me in patria. Sono fuggito sconfitto e disperato
in una notte di pioggia, senza una stretta di mano.
È per questo che raggiungo me stesso in esilio, amici miei.

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«Che voi non possiate dimenticare la terra degli avi! Eravate la speranza!»

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Gli “amici del Partito democratico” di Lushnje, dopo la mia fuga,
presero l’appartamentino fatto di una stanza, una cucina e un bagno,
dove abitavo e lo vendettero alla zia del sindaco ‘democatico’ della città,
mettendo per strada i miei genitori e migliaia di volumi di libri.
È per questo che grido in esilio, amici miei.

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Oggi mia madre è malata, lo Stato albanese non le ha concesso
una pensione minima; invalido è anche mio padre, ex-partigiano
della resistenza. Tutti e due vivono in una baracca umida e fredda, senza luce,
né acqua, senza telefono. Non si sono mai sdraiati su di un letto caldo e asciutto.
È per questo che mi prostro nell’esilio, amici miei.

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Mia madre non è riuscita ad avere il terreno di suo padre. L’hanno esclusa
dall’eredità, perché in Albania la giustizia è malata e corrotta; mia madre,
Nur, che compie 77 anni, non ha soldi per corrompere gli avvocati e i giudici.
Mia povera vecchierella, da una vita continua a chiedere prestiti ai vicini
per passare il mese!
È per questo che vigilo in esilio, amici miei.

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Gli avvocati che difendono la causa di mia madre sono gli stessi che confiscarono
il terreno alla sua famiglia, e a quella di mio padre, durante il comunismo.
I funzionari di ieri sono i funzionari dello Stato albanese di oggi; hanno cambiato
solo colore, uffici e tessere di partito. Dietro le maschere si nascondono i loro volti
di sempre.
È per questo che denuncio in esilio, amici miei.

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La stessa sorte ebbero anche i beni di mio nonno ad Hajdaraj , che da proprietario
terriero divenne kulak . Sul quotidiano del dittatore «Zëri i popullit»
(La voce del popolo), 23 giugno 1953) mio padre venne chiamato nemico
del popolo. Fu licenziato come geometra e ragioniere, per essere mandato
a pascolare i buoi della cooperativa dello Stato.
È per questo che affido il mio corpo all’esilio, amici miei.

.

Dopo essere stati confiscati di tutti i loro beni, i comunisti obbligavano i kulak
a salire sugli asini, con il volto rivolto all’indietro. Al collo di ogni kulak,
il segretario del partito appendeva dei campanelli. Li facevano “passeggiare”
per le strade dei villaggi e delle città, umiliandoli e insultandoli a furor di popolo.
È per questo che guardo in faccia l’esilio, amici miei

.

«Canta la lahuta la sciagura shqiptare!»
[…]
Gezim Hajdari Poema dell'esilio COPERTINA FARAGezim Hajdari Cop Poema dell'esilio 2png
L’ex-presidente Berisha vendette i beni dello Stato, cioè del popolo,
ai trafficanti e alla mafia per pochi soldi e diede ordine che venissero bruciate
le documentazioni delle privatizzazioni vergognose,
legalizzando pubblicamente il furto!
È per questo che adoro l’esilio, amici miei.

.

«Investite i vostri soldi nelle banche (fantasma)», – consigliava l’ex-presidente
dalla sua televisione di Stato; la gente vendette case, terreni, animali, per investire
il ricavato nelle casse dei ladri democraticimafiosi di Tirana. Solo l’ex-direttore
della polizia A. Shehu ha fatto scomparire 63 milioni di dollari!
È per questo che non rinuncio all’esilio, amici miei.

.

Migliaia di famiglie furono distrutte, si suicidarono anziani, giovani e donne,
ingannati dal loro governo; altri annegarono nell’Adriatico per la disperazione,
l’umiliazione e la fame. 1 milione e 600 mila cittadini albanesi hanno perso
nelle banche truffa 1.4 miliardi di dollari ! Berisha dovrebbe essere giudicati
per la tragedia che hanno causato al popolo albanese.
È per questo che impazzisco in esilio, amici miei.

.

I politici delinquenti albanesi sono responsabili della morte di migliaia di donne,
bambini e giovani, annegati e sbranati dai pescicani nel mare Adriatico;
mentre loro hanno fatto affari con gli scafisti e le banche fantasme. Il pesce
che viene mangiato dagli italiani e dagli stessi albanesi durante il pranzo
e la cena, si è nutrito con la carne di quei miei poveri connazionali!
È per questo che abbraccio l’esilio, amici miei.

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«Mio dio, sentiamo cose inaudite!»

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Il “democratico” Berisha pestò gli ex-perseguitati politici
seppellendo una volta per sempre le speranze della Democrazia,
perché chiedevano i propri diritti, mentre i kulak rimasero
per sempre ingannati dalla sporca riforma di Berisha e da quella di Nano.
È per questo che mi ubriaco di esilio, amici miei.

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L’ex-presidente Alia , nel 1991, approvò la legge 7501 che distribuiva la terra
ai contadini albanesi, secondo il numero dei membri delle famiglie.
Berisha mise in pratica la legge di Alia, dando la terra e il diritto di proprietà (i tapì)
ai contadini, mentre gli ex-proprietari terrieri rimasero con le mani in tasca.
È per questo che sopravvivo in esilio, amici miei.
[…]

Gezim Hajdari, Siena 2000 (1)

Gezim Hajdari Siena 2000

Oggi, la squallida opposizione albanese del trafficante S. Godo “raglia” che venga
applicata la legge della proprietà sulla terra degli ex-proprietari. Ma la terra è stata
venduta e comprata per l’ennesima volta! Giochi sporchi sulla pelle di quelli
che non hanno preso nemmeno un metro dei loro beni confiscati dalla dittatura!
È per questo che sogno in esilio, amici miei.

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«Che le fiamme dell’Inferno possano giudicare gli uomini perfidi!»

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[…]

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Dov’è andato a finire il patrimonio della Banca Nazionale o le riserve d’oro
dello Stato albanese, cioè del popolo? Ci hanno detto che erano stati rubati
da un contadino di Kërraba che girava con l’asino. Li rubarono, invece,
i comunisti di ieri, che sono gli attuali socialisti di Nano, e li chiusero
nelle casseforti delle banche europee.
È per questo che spero in esilio, amici miei.

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Chi ordinò di aprire le caserme stracolme di armi in Albania? Milioni di armi
e munizioni sono state rubate e vendute all’estero ai trafficanti. La maggior parte
di queste armi sono andate a finire in Bosnia e in Kosovo durante la guerra.
Chi ha approfittato della vendita delle armi albanesi? Mai un’ inchiesta su quanto
è accaduto!
È per questo che urlo in esilio, amici miei.

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I beni dello Stato albanese sono stati venduti agli stessi impiegati di Hoxha,
a prezzi irrisori. L’Albania martoriata è stata ingannata per l’ennesima volta.
I pochi intellettuali finirono per strada a vendere banane o fuggirono all’estero.
Perché non s’indaga sul patrimonio economico ed artistico albanese rubato?
È per questo che sono pensieroso in esilio, amici miei.

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Radio, televisioni, giornali nazionali privati (con programmi e scritti surrogati),
si trovano nelle mani di ragazzini, che fanno i dirigenti e ne sono proprietari!
Le loro sedi sono superlussuose, costano miliardi.Dove hanno trovati i soldi?
Radio e televisione statali sono trasformate in stamberghe che non incidono più
nella vita del Paese!
È per questo che mi preparo in esilio, amici miei.

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Sono i soldi del povero popolo albanese, quelli che i politici gestiscono
attraverso i parenti e gli amici dando loro dei soprannomi. Chi si nasconde dietro
le sedi televisive che sorgono come i funghi?! Nessun altro paese europeo
possiede 80 sedi televisive come l’Albania, con centinaia di impiegate
e giornaliste improvvisate, in quanto amanti dei boss e dei politici.
È per questo che infango ogni giorno l’esilio, amici miei.

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Dietro le televisioni e i giornali albanesi si nascondono le imprese edilizie,
dietro agl’imprenditori, gli appalti dello Stato, le tangenti, la mafia, la cupola
del potere politico di Tirana. Non si è mai indagato sui patrimoni dei governanti,
dei politici di ieri e di oggi, degli scafisti, dei trafficanti, dei criminali…
È per questo che prego ogni giorno l’esilio, amici miei.
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Il dittatore Hoxha stuprò l’Albania e gli albanesi mille volte,
mentre Berisha lo stuprò più di mille volte più cento, riducendola merda e piscio.
Perché non s’indaga sul denaro rubato dai “socialisti” e dai “democratici”?.
Gli albanesi stanno uccidendo la madre Albania!
È per questo che maledisco il mio esilio, amici miei.
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«Che mallkìm è caduta su questo Paese!»
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Le città, sotto la guida di Berisha, iniziarono a diventare pollai, a puzzare di fogna;
le piazze e i parchi vennero riempiti di bettole e cessi. Le case vennero modificate
a proprio piacimento, senza rispettare alcuna legge. In caso di terremoto i palazzi
albanesi crolleranno tutti. La costa è invasa dalle ville dei berishiani e dei naniani..
È per questo che mi incanta l’esilio, amici miei.
.
Nel pieno centro delle città sorgono come i funghi palazzoni orribili rifiniti
con marmi pregiati e con i rubinetti d’oro. Ogni sindaco appena eletto,
costruisce il suo grattacielo nell’area urbana che più desidera, senza rispettare
alcuna regola! Fiumi di denaro illecito entrano ed escono
dall’Albania! I prezzi sono dieci volte più alti che a Londra!
È per questo che giudico me stesso in esilio, amici miei.
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Oggi il nuovo ministro del governo Berisha legalizza ufficialmente le costruzioni
illegali, dichiarando che con questa legge il nuovo governo realizza
una delle più maestose promesse elettorali! D’ora in poi noi dobbiamo subire
anche un altro crimine territoriale e urbanistico!
È per questo che dò conto solo all’ esilio, amici miei.
.
Sotto i governi di Berisha e Nano il territorio albanese è stato massacrato.
I luoghi turistici, la costa adriatica e quella jonica sono stati occupati dai politici
e dalle loro mafie, per quattro soldi. All’epoca del dittatore Hoxha,
tutto questo veniva difeso per legge. I governanti albanesi sono la peggior
specie umana.
È per questo che sorgo nell’esilio, amici miei.
.
«Che ne sarà di noi o Zana ?»
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[…]
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Gezim Hajdari Siena 2000

Gezim Hajdari Siena 2000

Il mio libro Antologia della pioggia non fu accettato per cinque anni
dai re-censori S. B., e A. I. e dalla redattrice S. A. nonché dal direttore-censore
di “N. Frasheri” F. K., e fu scritto: “Che poesia è questa?!”
Uscì solo due mesi prima del crollo della dittatura.
È per questo che attraverso l’esilio, amici miei.
.
Ma A. I. e S. B., sono diventati democratici della prima ora e Berisha
li ha nominati direttori generali della Televisione di Stato, nonché ambasciatori
d’Allbania in Occidente! Durante l’inaugurazione dei vari negozi, i poeti di Tirana
si notano accanto ai loro padroni, sorridenti come eunuchi.
È per questo che converso con l’esilio, amici miei.
.
Addirittura lo pseudopoeta A. I. fu per otto anni direttore del gabinetto
dell’ex-premier Nano; egli usava sei numeri di cellulari con una spesa senza limiti.
Mentre il suo capo solo in un mese spendeva 27 mila euro con il suo cellulare.
Povera mia patria, per otto anni (dal 1997 al 2005) fu gestita da un’altra banda
di ladri e criminali.
È per questo che percorro le strade dell’esilio, amici miei.
.
[…]
.
Ho studiato come un cane per tutta la vita, lavorando come operaio per 15 anni,
senza aver avuto mai una borsa di studio,
sia in patria che in esilio.
Con le mie deboli mani ho sopravvissuto e ho affrontato la vita, senza sottomettermi.
È per questo che sto per innamorarmi dell’esilio, amici miei.
.
[…]
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Con una lettera aperta ho chiesto al governo albanese una borsa di studio.
Nel frattempo frequentavo l’ Università: “La Sapienza” di Roma e lavoravo
come pulitore di stalle. Un certo tizio Gjergji File del Ministero mi rispose
con due righe: “Non abbiamo fondi per dare borse di studio all’estero”.
È per questo che fuggo di esilio in esilio, amici miei.
.
Mi sono rivolto al Ministro albanese con queste parole: “Aiutatemi a fare
qualcosa per la cultura del nostro tragico paese”. La lettera aperta fu pubblicata
sul quotidiano Republika il 14 agosto del 1997. Nemmeno un saluto,
una telefonata o un augurio dal mio Partito per il quale mi sono sacrificato!
È per questo che lavoro in esilio, amici miei.
.
Nel 1997 Berisha buttò l’Albania nella guerra civile. Solo a Valona,
sono state uccise 2000 persone! E pensare che a quell’epoca il ministro
degli interni era un poeta, H. SH. Ma nessun poeta-deputato del suo Partito
denunciò la cosa. Nessuno di loro abbandonò il parlamento, perché Berisha
gettò loro, poveri servi, qualche osso di potere e altri favori.
È per questo che mi sacrifico in esilio, amici miei.
.
«Chi ora governerà questi lidi?!»
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In quell’anno sono stato invitato al Campidoglio, a Roma, per leggere
i miei testi assieme ad altri poeti provenienti da vari paesi. Ho detto
ad un mio caro amico, politico di spicco: «L’Albania sta bruciando,
dimettiti e denuncia ciò che sta accadendo!» «Assolutamente no,
dobbiamo difendere Berisha», mi ha risposto.
È per questo che ho aperto la porta dell’esilio, amici miei.
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[…]
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I poeti di Hoxha sono diventati i politici di oggi, i politici di ieri
sono diventati i poeti di oggi. Quelli che giurarono in nome del realismo
socialista, sono diventati trafficanti e simboli della nuova Albania castrata.
I poeti albanesi sono gli uomini più ricchi del paese
più povero d’Europa. Il cinismo dei poeti albanesi non conosce limiti.
È per questo che mi hanno costretto all’esilio, amici miei.
.
Fino a ieri è stata l’Albania a imprigionare i poeti, oggi sono i poeti
a imprigionare l’Albania. I poeti albanesi sono uomini di potere,
in quanto consulenti della presidenza, segretari di partito, sottosegretari
dei servizi segreti, diplomatici, ambasciatori. Chi ha osato denunciare
l’immoralità della nuova casta dei poeti è stato licenziato,
come i giornlaisti I. J. B. K. e Sh. K.
È per questo che odio la razza dei poeti in esilio, amici miei.
.
Il dittatore Enver Hoxha inventò una sua morale perversa staliniana
da condannare all’inferno, ma questi pseudodemocraticimafiosisocialisti
non si sa di che merda siano fatti e stuprano il paese davanti e dietro.
La mia Albania sta diventando una vera minaccia per l’Europa.
È per questo che raccolgo i frutti dell’esilio, amici miei.
.
«Dovevamo vivere per vedere con i nostri occhi tutto quest’orrore?»
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È dal 1992 che in Albania vige “la legge del sangue”, il Kanun.
Oggi in Albania 2500 famiglie del nord sono inchiodate nelle case
perché non possono uscire, per paura della vendetta. I montanari
delle Alpi albanesi hanno perso fiducia nelle leggi giuridiche dello Stato.
È per questo che mi arricchisco in esilio, amici miei.
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Una famiglia, da 10 anni, non ha varcato la soglia della porta di casa;
il capo famiglia è paralizzato, la figlia imbraccia il kalashnikov giorno
e notte alla finestra. Da mangiare e da bere viene portato loro da parenti
e amici. Il nord del Paese vive una vera e propria tragedia!
È per questo che scrivo in esilio, amici miei.
.
«Dimmi, Kanun , è vero ciò che sentiamo?»
.
[…]
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Gezim Hajdari, Siena 2000 (2)

Gezim Hajdari, Siena 2000

Da sempre, la storia della cultura albanese è stata fatta dai dissidenti,
dagli esuli, dai migranti denigrati, umiliati e divorati impietosamente
dalla madre-patria. I politici non hanno fatto altro che rubare e distruggere
l’Albania. Oggi a fianco dei politici mafiosi si schierano i poeti e gli scrittori
di Tirana.
È per questo che mi meraviglio dell’esilio, amici miei.
.
L’Albania fa nascere i poeti. Poi li umilia, li mette in prigione, violenta
le loro anime, li manda in campagna per essere “rieducati”, li condanna
al silenzio, li fa fucilare, li lascia senza tomba, li fa impiccare, li tortura,
per salvare in seguito il loro ricordo. L’Albania è come Medea: divora
i propri figli .
È per questo che mi difende l’esilio, amici miei.
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«Ogni zolla di questi lidi goccia sangue e gemiti
[…]
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Dove ha lasciato Berisha, ha continuato l’oligarca Nano, il quale dichiara
«Sono Fatos Nano e mi seguirà la (vergogna) Storia»! Cioè, finché sarò
al potere continuerò a scoparvi la madre. Albania vuol dire vergogna,
è il paese più corrotto d’Europa, pieno di misteri e umiliazioni.
È per questo che mi avvolgo d’esilio, amici miei.
.
«No, figliolo, con parole pesanti stai infamando colei che ti ha allattato!»
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Il governo di Nano e quello di Berisha accettarono di mettere nel territorio
albanese le carceri segrete, in cui gli agenti della CIA torturavano i cittadini
stranieri, calpestando i diritti umani. Tali carceri di tortura sono state scoperte
anche in Kossovo. In Albania abitano i misteri più mostruosi dell’ Europa
di oggi. Non fidatevi dei criminali politici di Tirana.
È per questo che non si separa da me l’esilio, amici miei.
.
Quando il segretario generale del Consiglio d’Europa, Terry Davis,
ha chiesto al governo attuale di Berisha un rapporto più dettagliato
sulle carceri di tortura in Albania, il suo ministro di giustizia. A. Bumçi
ha risposto in modo vago e senza dire la verità. I politici albanesi
sono dei mercenari, che hanno servito con devozione, il padrone
e la sua violenza.
È per questo che la mia patria è l’esilio, amici miei.
.
Se cercate un paese in Europa dove regna un nepotismo mai visto,
è l’Albania. L’amministrazione dello stato albanese è fatta dai clan familiari
del presidente A. Moisiu e dei suoi governanti. I figli, i fratelli, i cognati,
i generi, i parenti, gli amici dei politici mafiosi hanno usurpato la patria.
Un altro colera sta insanguinando il Paese dell’alba.
È per questo che insegno a tutti l’esilio, amici miei.
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Nelle Istituzioni pubbliche albanesi domina la cultura dei clan e della mafia.
La politica ha forti legami con il crimine e con i trafficanti di droga.
I giovani devono ribellarsi contro la feccia che ha guidato l’Albania finora
e prendere in mano il destino del Paese, che si trova sull’orlo del disastro.
È per questo che mi confesso davanti all’esilio, amici miei.
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I partiti albanesi gestiscono aziende, fabbriche, banche, appalti e altri affari
loschi. Nessuno ha mai indagato su dove sia finito il finanziamento pubblico
ai partiti. Non c’è una legge che sancisce i rapporti tra l’economia e la politica.
Manca l’etica politica. Ci vorrebbe un patto sulle istituzioni per dividere
la politica dagli affari.
È per questo che mi prendo cura dell’esilio, amici miei.
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L’Albania non vuole entrare in Europa, perché una volta entrati
nella Comunità Europea, non ci saranno più traffici e affari loschi tra mafia,
politici e letterati di corte. Lo slogan quotidiano è: «Chi ruba di più!»
L’Albania è la tana dei più grandi ladri e criminali d’Europa.
È per questo che vivo alla giornata in esilio, amici miei.
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Solo un ex-vice ministro e il direttore generale della polizia di Stato rubarono
3 milioni di dollari con i passaporti! Il caso fece molto clamore, ma nessuno
ha pagato per questo fino ad oggi! Nessun responsabile è stato consegnato
alla giustizia perché sono loro stessi i super mafiosi del vertice dello Stato
albanese.
È per questo che tocco il fondo in esilio, amici miei.
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«Dove sono gli uomini di besa ?»
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Il premier Nano e Rama –
tutti e due socialisti dell’ex-corte di Hoxha –
oggi fanno a gara per essere fotografati come fantocci,
insieme al “satana” dell’imperialismo americano Bush.
È per questo che mi rabbuio di nuovo di esilio, amici miei.
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Rama è stato accusato di essere il capomafia dei ladri e dei multimiliardari,
si nasconde dietro le grandi imprese edilizie e dei grattaceli. Per ogni licenza
di costruzione
nelle piazze delle scuole di Tirana, ha usufruito la sua percentuale d’oro.
Per sfuggire alle indagini, i soci hanno elleto R. segretario!
È per questo che abbatto muri in esilio, amici miei.
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Il sindaco sceriffo-texano, ex-scultore delle statue del dittatore
(che solo la rivista inglese Time poteva includere tra i 35 eroi europei del 2005!),
si vanta in Europa, perché ha colorato vivacemente le facciate dei palazzi
della capitale, come fa lo zingaro con l’asino . Ma nessuna vernice
può mascherare i veri volti dei tiranni di Tirana!
È per questo che mi batto per l’esilio, amici miei.
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Tirana adora i tiranni. Gli albanesi, secondo un sondaggio, hanno scelto Rama
come l’uomo dell’anno! Gli altri prescelti sono Nano,Gjinushi, Berisha,
nonché il più importante poeta del realismo socialista: il figlioccio
del Babbo Enver. Gli albanesi sono un popolo bue.
È per questo che non tradisco l’esilio, amici miei.
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«Qui non cresce né l’erba, né l’assenzio!»
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A Tirana vengono venduti passaporti falsi di tutte le nazionalità.
Nei laboratori si fabbrica qualsiasi cosa: permessi di soggiorno, visti per l’estero,
banconote false. In Albania si produce e si vende clandestinamente di tutto:
sigarette, birra, succhi di frutta e altre bevande…
È per questo che mi raccolgo in esilio, amici miei.
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Gli scafisti della costa albanese hanno commesso crimini orribili.
Hanno caricato sui loro gommoni, uomini e donne, promettendo loro di portarli
sulla costa italiana. Una volta intascati i soldi del viaggio, li hanno gettati
in mare con la forza! Gli scafisti collaborano con la polizia.
È per questo che mi identifico in esilio, amici miei.
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«Non possiamo credere a queste cose macabre, al diavolo! Chi sei?»
.
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Besnik Scontri-a-Tirana 2001

Scontri-a-Tirana 2001

L’Albania è un Eldorado. Fa parte della lista nera, accanto ai paesi
del cosiddetto terzo mondo. In Albania ci sono 2100 criminali latitanti.
Che disgrazia vedere il mio Paese governato dai soliti Nano, Gjinushi,
Mejdani, Moisiu, Ruçi, Majko, Dokle, Xhuveli, Bufi, Fino, Ruka, Malaj, Rama…
È per questo che dichiaro la mia libertà nell’esilio, amici miei.
.
Nella mia Albania chi uccide non viene carcerato e chi vuole uccidere qualcuno,
basta che paghi. Vogliono trasformare il paese meno inquinato d’Europa
in basi militari e costruire pericolose industrie chimiche. Agli albanesi
non interessa l’ecologia e lo scempio del territorio, ma solo l’arricchimento
ad ogni costo.
È per questo che lotto in esilio, amici miei.
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Essere direttore di un carcere in Albania è un affare d’oro. Spesso, come tali,
vengono nominati gli amici e i parenti dei politici e dei governanti.
Un prigioniero, criminale o ladro che sia, può godere della libertà, pagando
direttamente il direttore. Fare il direttore di un carcere, nel mio paese,
è una tombola; i fortunati fanno soldi
a palate.
È per questo che il mio credo è l’esilio, amici miei
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In Albania, 120 aziende pubbliche, dal ‘70 ad oggi, usano materiali radioattivi
che minacciano la vita dei cittadini. Tutti i generi alimentari, le bevande
che vengono importate dall’estero non vengono controllati alla dogana.
I miei connazionali che vivono in Albania sono gonfi; il loro gonfiore
è dovuto ai cibi transgenici e agli ormoni dannosi.
È per questo che scavo trincee in esilio, amici miei
.
Molti alimenti vengono prodotti in Albania clandestinamente, in condizioni
poco igeniche, usando sostanze pericolose per la salute. Tali cibi vengono
venduti alla gente come se fossero dei prodotti importati dall’estero!
Dal ‘91 in poi, gli albanesi non sanno quello che bevono e che mangiano.
È per questo che trema il mio esilio, amici miei.
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Mia madre, visto che in Italia le medicine costano di più che in Albania,
è andata in farmacia per comprare delle aspirine per me. Nessuna
delle confezioni aveva la data di scadenza. Quando sono andato dal farmacista
I. n. per reclamare, il dottore, con tranquillità, mi ha detto:
«Le può usare senza paura, non ha importanza la data di scadenza!”
È per questo che brindo con l’esilio, amici miei.
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Ultimamente, tornando dall’Albania, al porto di Valona mi hanno fermato
dei poliziotti. Non mi lasciavano imbarcare, perché secondo loro, l’origano
che portavo nella mia borsa era cannabis! Ho ribadito che era l’origano
che la mia Nur aveva raccolto sulle colline di Darsìa. Non mi hanno creduto
e hanno iniziato a insultarmi.
È per questo che non riesco a scrollarmi di dosso l’esilio, amici miei.
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«Miseri noi, orbi di voi! Esuli e mërgimtarë non smettete di pensare vatanë !»
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Ora Berisha chiama gli scolaretti che hanno studiato all’estero per dirigere
lo stato albanese; sono i nipoti dei potenti che erediteranno il potere.
Cosa ci si può aspettare da un premier che controlla l’operato del suo governo
attraverso i messaggi(?!) e alla vigilia delle elezioni amministrative 2007
distribuisce la corrente elettrica solo alle città di destra, lasciando al buio
quelle di sinistra!
È per questo che fremo in esilio, amici miei.
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Per avere un posto sicuro al parlamento di Tirana, oppure per candidarsi
come sindaco, basta pagare centinaia di migliaia di euro, sottobanco ai segretari
di partito, durante le elezioni. Così la mafia politica avrà di nuovo libero
accesso al potere. I candidati di Nano e di Berisha vogliono il potere,
non per servire la nazione e la povera gente, ma per i propri affari.
È per questo che sono rimasto “immacolato” in esilio, amici miei.
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[…]
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A. e i suoi ministri dichiarano pubblicamente che vogliono Nano alla presidenza
della repubblica nel 2007! Come è possibile? Invece di chiedere alla giustizia
di processarlo per le ruberie sul patrimonio del paese, per i traffici loschi,
per la svendita del territorio albanese… per tutto ciò che è accaduto sotto il suo
governo dal 1997 al 2005.
È per questo che prego l’esilio di non riconoscermi più, amici miei.
.
Tutto questo fa parte di un patto segreto tra i politici di Tirana per scambiarsi
i poteri e favori. Nessuno li fermerà! Ah, che danno morale, economico e culturale
sta causando al paese questa stirpe maledetta degli ex-comunisti! Sarà lungo
e atroce l’Inferno shqiptar! Nano e Berisha regneranno a vita! Ahimè, piango
per la mia Albania, un tempo il paese della besa e dei cantori epici senza pari!
È per questo che mi insegue ovunque l’esilio, amici miei.
.
[…]
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Alcuni miei amici, veri democratici, che fecero politica con me a Lushnje,
vennero uccisi in pieno giorno. Sono 149 le persone uccise nella mia città
dalle bande più feroci del paese e non hanno un uccisore. Gli assassini girano
liberi e fanno affari con il giudice A. Gj., perché a Lushnje il potere
è di nuovo nelle mani dei comunisti di Hoxha.
È per questo che sono accecato di esilio, amici miei.
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Chi condannerà gli uccisori delle vittime della mia città? A. Gjermëni,
ex-giudice del regime, oggi presidente del tribunale, ha usurpato dei terreni
con la forza, costruendo campi da calcetto, dove vengono a giocare governanti
e ministri da Tirana! Come compenso, i politici socialisti, ultimamente
lo hanno eletto membro dell’Alta Consulta di Giustizia albanese!
È per questo che chiedo la giustizia in esilio, amici miei.
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E pensare che il suddetto membro dell’Alta Consulta di Giustizia, mentì
quando denunciò il suo patrimonio, nascondendo milioni di euro guadagnati
con affari sporchi, con bande criminali di Lushnje. Non a caso, lo hanno eletto
tale, per salvarlo da un’eventuale condanna, dandogli l’immunità!
Il governo di Berisha ha tentato di condannarlo, ma non ci è riuscito.
È per questo che guardo dritto negli occhi solo l’esilio, amici miei.
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Mi ricordo che, nel ‘97, alcuni spietati criminali di Lushnje entravano nei bar
della città con la testa di un giovane tra le mani. Ogni tanto la prendevano a calci,
poi le aprivano la bocca per versarci la grappa, ridendo! Non scorderò mai la testa
di quel giovane, che somigliava alla mia, e mi venivano i brividi.
È per questo che fuggo di esilio in esilio, amici miei.
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Gezim Hajdari delta-del-tuo-fiume cop
«Chi chiuderà gli occhi ai nostri figli nel përmatanë ?
Chi laverà i loro corpi per l’ultima volta?»
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È stato un anno di atrocità inaudite. Sul boulevard della città giacevano corpi
Insanguinati dalla mattina alla sera. Nessuno osava avvicinarsi per paura di fare
la stessa fine della vittima. Mentre, davanti ai corpi, gli uccisori brindavano.
Ma c’era di peggio: i criminali provavano piacere nell’inchiodare le loro vittime
ai tronchi degli ulivi della città!
È per questo che non trovo la via del ritorno in esilio, amici miei.
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La maggior parte degli imam delle moschee della mia città sono individui
insospettati. Al tempo della dittatura facevano i ladri e i delinquenti, oggi predicano
il Corano ai fedeli! Tutti gli aiuti destinati alla gente, sono andati a finire
nelle loro tasche. E pensare che i musulmani devono pregare cinque volte
al giorno davanti a certa gentaglia!
È per questo che prego il dio dell’esilio, amici miei.
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Il Comune di Lushnje ha conferito la cittadinanza onoraria a cani e porci
alla vigilia di ogni elezione. In Albania conferire la citadinanza onoraria ai pedofili
e alle persone senza meriti, è diventata una moda . I sindaci corrotti di Lushnje
continuano a massacrare il piano urbanistico della città. Mai una protesta dai membri
del consiglio del comune di Lushnje!
È per questo che non vedo speranza in esilio, amici miei.
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Coloro che sono stati eletti sindaci di Lushnje hanno sfruttato il proprio mandato
per rubare e fare solo soldi. I primi cittadini della mia città (sia di destra che di sinistra)
sono dei ladroni. Dopo essersi saziati, sono scappati negli Stati Uniti o nei paesi esotici.
Chi è stato sindaco a Lushnje è diventato miliardario con il volere dei cittadini.
I leader politici di Lushnje sono dei trafficanti e dei mafiosi.
È per questo che faccio da guardia all’esilio, amici miei.
.
[…]
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L’Albania è il paese dove entrano e escono cani e porci. Coltivare piante di droga
è normale. In Albania si può riciclare tutto. I giudici costruiscono le ville
con il compenso dei criminali assolti. L’ex-onorevole socialista L. H., che rubò
3 milioni di dollari truffando gli albanesi fece solo tre mesi di carcere! Ammazzare
in Albania non è un crimine.
È per questo che parlo con la mia Ombra in esilio, amici miei.
.
«Non sei altro che un folle! Basta! Basta!»
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[…]
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faslli_gezim hajdari

Gezim Hajdari

Per qualsiasi cosa, gli albanesi richiedono consulenti stranieri: giudici, avvocati,
procuratori, costituzionalisti, architetti, ingegneri, medici, agenti segreti, sacerdoti…
Dove sono andati a finire i miliardi di dollari che lo stato albanese ha speso
per i propri figli e nipoti, mandandoli a studiare nelle migliori università straniere?!
È per questo che ammetto solo l’esilio, amici miei.
.
Nello stesso tempo, vengono onorati e premiati i poeti mediocri, gli imprenditori,
i business trufaldini, i politici senza scrupoli, i giornalisti lecca culo, i militanti
di partito, gli ex-agenti segreti e i carnefici della dittatura di Hoxha. In Albania
esiste solo una legge
santa e sacra: uccidere, rubare, stuprare, distruggere, per arricchirsi a tutti
i costi. È per questo che rendo autentico il mio esilio, amici miei.
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In Albania, tutto fa brodo.
Sui quotidiani albanesi può scrivere e pubblicare chiunque passa per strada.
Alle televisioni albanesi vengono intervistati cani e porci.
Manca una vera politica culturale.
È per questo che mi rende uomo l’esilio, amici miei.
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[…]
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In Albania, i figliocci del Babbo hanno inventato dei premi letterari quali
La penna d’oro, La penna d’argento.; al posto dei premi De Rada, N. Frasheri,
Noli, Fishta, Konica, Prennushi, Migjeni, Poradeci, Bilal Xhaferri.
Vengono premiati ogni anno gli stessi poeti di Tirana, sia quelli che hanno
celebrato la dittatura di Hoxha, sia quelli di oggi, che applaudono
la demo(ne)crazia di Berisha e di Nano.
È per questo che resisto alla punizione dell’esilio, amici miei.
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Mentre la presidente della giuria dei premi letterari, presso il Ministero
della Cultura è D. Ç. È un nome lugubre nella memoria dei poeti albanesi.
Al tempo delle purghe si divertiva, denunciando i poeti come nemici
del socialismo, presso la polizia segreta. Questa signora ha trascorso
la sua vita inneggiando agl’insegnamenti di letteratura staliniani!
È per questo che sprofondo in esilio, amici miei.
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La pseudo-scrittrice D. Ç. è stata nominata dall’ex presidente albanese
R. Mejdani, presidente delle Donne albanesi, in quanto cugina di sua moglie.
Ironia del destino: D. Çuli. è stata eletta onorevole al parlamento, proprio
nei villaggi dove sono nati i poeti G. L. e V. B., fucilati dalla dittatura perché
accusati da questa signora!
È per questo che sto scoppiando in esilio, amici miei.
.
Gli incarichi di questa prediletta signora non hanno fine; inoltre, è presidente
di varie associazioni nazionali e rappresentante dell’Albania per la cultura,
presso alcune commissioni internazionali, rappresenta la donna albanese
negli organismi balcanici e mediterranei! Tutto questo sui dolori e sulle ferite
delle sue vittime.
È per questo che onoro l’esilio, amici miei.
.
Oggi, la signora in questione viene invitata in Italia e in Europa per parlare
delle donne albanesi e per presentare i suoi romanzi surrogati. Tempo fa,
mi è capitato di sentire da un direttore di una biblioteca italiana, che la suddetta
signora, aveva fatto un fax a tutte le biblioteche italiane, per presentare
le sue “opere”.
È per questo che dò retta all’esilio, amici miei.
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[…]
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Con il sudore e con il sangue, in piena povertà umana, ho scritto i miei libri.
Mai un invito dalla patria-gorgone, perché la mia poesia fa paura ai poeti
di partito, che già hanno fissato i propri posti nel Pantheon d(e)i Tiran(ni)a.
È da anni che non vado più a Tirana. Andrò a Tirana solo quando sarà liberata
dai tiranni!
È per questo che non torno indietro in esilio, amici miei.
.
Ogni anno, gli editori albanesi, partecipano alle fiere del libro sia in patria
che all’estero. I miei libri non compaiono mai negli stands albanesi.
Sono il poeta che è stato ignorato nella maniera più cinica dalla mafia politica
e letteraria di Tirana, anche se la mia opera rappresenta un contributo molto
importante nella poesia contemporanea europea.
È per questo che mi hanno massacrato di esilio, amici miei.
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[…]
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Gezim Hajdari a Udine 2011

Gezim Hajdari a Udine 2011

Purtroppo, io e la mia opera, siamo stati sconfitti e umiliati per l’ennesima volta
dalla mafia politica e culturale albanese. Non ho mai cantato ai tiranni,
ma all’Uomo. Vado avanti, lottando contro i falsi oracoli, perchè la letteratura
ha valori universali ed io, come ospite dei mondi, lotto per creare valori letterari
eterni per l’umanità, impegnandomi sia con l’opera che con la vita.
È per questo che ho regalato la mia vita all’esilio, amici miei.
.
Una volta, mia madre Nur, (una donna semplice come la madre terra) mi ha detto:
«Qui ad Hajdàraj non ti conoscono come poeta. Ho detto ai contadini che tu
hai scritto anche sul nostro villaggio». Ma loro mi hanno risposto: «Signora Nur,
mai visto suo figlio alla televisione di Tirana!» E lei: «Non so se vivrò
così a lungo da vedere le donne del villaggio leggere le tue poesie!»
È per questo che mi fa tenerezza l’esilio, amici miei.
.
Ma io non ho amici politici, amici ministri o segretari di partito,
perché non diventerò mai il loro servo. Alcuni giornalisti di Tirana non vogliono
sentire il mio nome. Spesso hanno corretto gli articoli della stampa estera,
togliendo gli epiteti che sono stati usati dai critici europei sulla mia opera
letteraria. È incredibile!
È per questo che sono servo dell’esilio, amici miei.
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La poesia è come il grano, Nur, ti ricordi quando lo coltivavamo sulla nostra
collina? Prima aravamo la terra, poi seminavamo i chicchi. Ci alzavamo
ogni mattina di buon’ ora. Sotto la pioggia, nei meriggi di ghiaccio
e di vento tagliente, ci prendevamo cura delle nostre piante.
Dovevamo aspettare l’estate per raccogliere le spighe dorate di sole.
È per questo che io faccio il contadino in esilio, amici miei.
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La poesia è come i nostri ulivi secolari sulla collina di Darsìa,
mia vecchierella. Quelli che li hanno piantati, sapevano già di non avere
la gioia di godere i loro frutti, ma li hanno piantati lo stesso,
per noi e per gli altri che verranno dopo di noi. Come è duro il mestiere
di tuo figlio, Nur!
È per questo che nascondo l’esilio a mia madre, amici miei.
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In Albania è crollata la dittatura di Hoxha, ma non è crollata la cultura
comunista di Enver. È questa la peggiore tirannia che regna oggi
nel mio Paese. Per fare carriera letteraria, devi essere onorevole,
ministro del petrolio, consulente del presidente della repubblica
o portavoce dei segretari di Partito, oppure un ex-comunista.
È per questo che vengo schiacciato dall’esilio, amici miei.
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Non andate a mangiare nei ristoranti dei mafiosi, perché il boccone
vi andrà di traverso; non comprate le case dei mafiosi, perché di notte
sentirete i gemiti delle vittime; non andate a bere un caffè nei bar dei mafiosi,
perché il caffè diverrà veleno nero; non accettate l’invito delle televisioni
dei mafiosi, perché diventerete complici dei crimini.
È per questo che consulto l’esilio, amici miei.
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Per essere più esatto, l’Albania è il secondo paese al mondo,
dopo l’Afganistan, per il commercio della droga. La droga in Albania
viene trasportata con elicotteri dai centri di produzione.
Ministri e onorevoli albanesi vanno a spasso con macchine da 200.000 mila
dollari, mentre il 68 % degli albanesi vive di assistenza.
È per questo che scherzo con la mia povertà, in esilio, amici miei.
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Gezim1

Gezim Haidari

Nel mio Paese la ricchezza dei nuovi ricchi gronda sangue e gemiti.
Cosa ti puoi aspettare da un paese in cui un ministro di Nano P. K.
viaggiava con macchine rubate all’estero! È stato anche fermato dalla polizia
greca. Quello che hanno fatto i miei connazionali in Italia, lascia senza parole!
È per questo che chiamo l’altra costa dall’esilio, amici miei.
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[…]
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L’Albania gestisce il traffico dei bambini e il traffico degli organi umani.
Un tempo regalava al mondo sapienti, condottieri, artisti e santi; oggi esporta
droga, armi, prostitute e denaro sporco verso il mondo! L’Albania si è trasformata
in una banda legalizzata di ladri. In Albania i trafficanti comprano bambini
per 3000,00 euro, per essere venduti poi nei mercati di Atene!
È per questo che ho vinto l’esilio, amici miei.
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«Tutto questo nella terra shqiptare ?!»
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Durante quest’anno si è aperto un nuovo traffico macabro. Nei villaggi
e nelle campagne albanesi, molti contadini vanno a caccia di vecchie salme!
Riesumano le osse di ignoti dai cimiteri antichi e le vendono alle famiglie
dei soldati greci, spacciandole come ossa dei loro cari! Mio dio
come si è ridotto questo popolo, un tempo fiero e tra i più rispettati nei Balcani!
È per questo che sono partito in esilio, amici miei.
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Quando un giornalista londinese A. A. Gill, denunciò sul Sunday Times la mafia
albanese, durante una sua visita nel mio paese, una marea di eunuchi isterici
gridarono vendetta, reclamando la sua testa su di un vassoio.
Per loro sono stati sporcati l’(orrore) onore e l’identità della propria nazione.
È per questo che rispetto l’esilio, amici miei.
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Sono loro stessi responsabili della tragedia albanese. Hanno distrutto il paese
e il popolo per 66 anni di seguito. So che farò la fine del sig. Gill;
quando leggeranno questo libro, le “belve” mi sbraneranno e diranno:
«Infame, come ha osato infangare la sua patria?»
Le belve si nascondono dietro la visione mitica di una volta dell’ Arbëria .
È per questo che mi bagna la pioggia dell’esilio, amici miei.
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Così ingannavano la gente anche ieri nella dittatura, facendo credere
che l’Albania fosse il paese più bello del mondo e gli albanesi il popolo
più felice della terra. Se qualcosa non andava, il rimprovero collettivo era:
«Non dobbiamo fare contenti i nemici
della nazione, oppure non ci faranno entrare a far parte dell’Europa!»
È per questo che mi trovo per strada in esilio, amici miei.
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La stessa cosa accade anche oggi quando qualcuno osa criticare i figliocci
del babbo Enver e lo sfascio in cui si trova il paese. Dopo il crollo
del comunismo, gli ex-comunisti giocano con i sentimenti del popolo,
nascondendosi dietro il ridicolo nazionalismo.È una pratica già conosciuta
dei tiranni.
È per questo che schiaffeggio l’esilio, amici miei.
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«Ahi! Ahi! I nostri grembi non hanno partorito uomini, ma mostri!»
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Si è dimenticato l’insegnamento di Platone: «Non ci si può conoscere
se non ci si specchia negli occhi dell’altro». Gli albanesi non vogliono
saperne dell’OSBE che classifica l’Albania come uno dei paesi
più corrotti del mondo, al pari della Nigeria e della Sierra Leone.
La giustizia albanese è complice dei crimini.
È per questo che ho conosciuto me stesso in esilio, amici miei.
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È incredibile! In Albania solo ai mafiosi, ai trafficanti, ai politici ladri…
è concesso, per legge, il diritto e l’onore di rappresentare la vera morale
della nazione! Mentre a noi, che lavoriamo onestamente e che vogliamo
rappresentare il nostro Paese in Europa, attraverso la nostra arte, è proibito!
È per questo che parto alla ricerca della verità in esilio, amici miei.
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Nano appare alla televisione pubblica come un ciarlatano, ubriaco, cena
con i gangsters, si diverte nelle discoteche europee, gioca d’azzardo
spendendo miliardi, si rilassa nelle ville degli sceicchi arabi ed organizza
traffici e congiure nell’arena della politica albanese senza politici. I due
balordi dichiarano: “Il popolo ci vuole come leader perché ha fiducia in noi!”
È per questo che riconosco il mio popolo in esilio, amici miei.
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I ministri corrotti di Nano hanno le famiglie negli USA, mentre loro,
con passaporti americani, fanno i pascià e gli affari loschi sulle spalle
del popolo più povero e più stremato d’Europa. Ogni mattina, la televisione
statale, apre le trasmissioni con questo augurio al popolo albanese:
«Amate la patria come l’Albania ama gli Stati Uniti d’America!»
È per questo che mi sfiorano le notti dell’esilio, amici miei.
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«Mërgìm , che possa sparire il tuo nome, stai invecchiando i nostri figli!»
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Se n’è andato il mostro Nano, è tornato di nuovo Berisha! Due balordi
che tengono in pugno come despoti l’Albania. In Albania non esistono
i Partiti, ma i clan tribali. Un giovane ministro trentenne di Berisha,
ha denunciato un reddito di quasi 1 milione di dollari! Dove li ha trovati?
Naniani e berishiani stanno spartendo il territorio albanese come se fosse
una preda di caccia.
È per questo che subisco l’esilio, amici miei.
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D’altronde non può essere diversamente: la figlia di Berisha A. M.,
nell’arco di cinque anni ha guadagnato 800 mila dollari e possiede
8 conti bancari! Inoltre, possiede sei appartamenti nella capitale, una villa,
un negozio e altri terreni nella località turistica di Priskë, ma nessuno
di questi Ben di dio è stato registrato al catasto; tutto questo per non pagare
le tasse al Governo di suo padre!
È per questo che conto i giorni in esilio, amici miei.
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Perché in Albania non esiste una legge approvata dal parlamento che vieta
agli indagati, agli ex-segretari di partito, agli ex-deputati, agli ex-ministri
e a tutti gli ex-funzionari di Hoxha, di Berisha e di Nano di candidarsi
o di rappresentare il governo e lo Stato. Chi approverà una tale legge
di mani pulite, gli stessi criminali e i mafiosi ex?! Il popolo albanese
non può vivere senza gli ex!
È per questo che dubito dell’esilio, amici miei.
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Un ex dirigente della CIA, T. R. per arrotondare lo stipendio,
è giunto dagli Stati Uniti per lavorare a Tirana, presso lo staff
del premier Berisha, come “consulente”! Nel mio paese gli impiegati
dell’amministrazione, i funzionari dello stato, i segretari di partito,
i sindaci, possono essere nominati o rimossi in qualsiasi momento,
secondo i desideri e gli interessi dei politici.
È per questo che mi sono trasformato in esilio, amici miei.
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Da sedici anni il paese vive sull’orlo del baratro, ma da parte
degli uomini di buona volontà non è stata presa nemmeno
un’iniziativa per fermare il disastro. Non si sono resi conto che,
per salvare l’Albania, dovrebbero mandare via Nano e Berisha:
i due kmer rossi che hanno occupato lo Stato. Ahimè! Ahimè!
È per questo che mi sono appoggiato all’esilio, amici miei.
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L’indomani della vittoria di Salì Berisha, nell’lezioni politiche
del 2005, i capi dei gabinetti dell’ex-premier Nano, sono passati
come capi del gabinetto del nuovo premier! È accaduta la stessa cosa
anche con i direttori dei ministeri, con gli alti funzionari politici
delle istituzioni, con i giornalisti, con i poeti che hanno cambiato
all’improvviso padrone!
È per questo che sono convinto dell’esilio, amici miei.
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Gli ospedali sono stamberghe, se non paghi non ti curano.
L’assistenza pubblica è scomparsa! Che paradosso, al tempo del faraone
le cure erano gratis. Le medicine sono scadute, come i cibi.
Non ci sono controlli alla dogana; le dogane lavorano per il partito di Nano.
I comunisti più zelanti di ieri, oggi sono diventati estremisti di destra.
È per questo che mi fa male l’esilio, amici miei.
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Faslli Haliti con Gezim Hajdari

Gezim Hajdari con Faslli Haliti

Una volta, assieme a mia madre, ho accompagnato in ospedale di Lushnje
mio padre ammalato, quasi in fin di vita. Era notte fonda. Appena il medico
di turno l’ha visto, mi ha detto che non c’era niente da fare e di portarlo a casa.
Tutto questo, senza visitarlo. Li ho pregati di fargli una flebo.
Da quella notte sono passati diversi anni e mio padre è ancora vivo.
È per questo che condivido la solitudine con l’esilio, amici miei.
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Più tardi, ho saputo che quel medico di turno, non voleva fare la flebo
a mio padre, per interesse personale. Se mio padre fosse deceduto,
il dottore non avrebbe guadagnato niente, in quanto, negli ospedali albanesi
le medicine e le prestazioni mediche vengono pagate dai pazienti
agli stessi medici. E chiaramente, se ci scappa il morto, nessuno paga.
È per questo che sono in cerca di qualcosa che non trovo in esilio, amici miei.
.
Più tardi, ho saputo che quel medico di turno, non voleva fare la flebo
a mio padre, per interesse personale. Se mio padre fosse deceduto,
il dottore non avrebbe guadagnato niente, in quanto, negli ospedali albanesi
le medicine e le prestazioni mediche vengono pagate dai pazienti
agli stessi medici. E chiaramente, se ci scappa il morto, nessuno paga.
È per questo che sono in cerca di qualcosa che non trovo in esilio, amici miei.
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Come mai i poeti di Tirana non sono scesi mai in piazza a protestare
contro una cosa del genere, alzando la voce contro lo squallore
e la catastrofe in cui si trova la patria che loro amano così tanto?
Ovviamente i poeti di Tirana non possono alzarsi contro loro stessi
perché fanno parte del sistema cantato da loro stessi.
È per questo che mi sono ammalato di esilio, amici miei.
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Ricordo ai poeti di Tirana che per gli arabi, il termine sufi (mistico)
indica un gruppo di “puritani”, insorti contro la corruzione del potere.
È accaduto nel 821 d. C., in Alessandria d’Egitto.
«Vedi questi ignoranti (e trafficanti), dominano il mondo.
Se non sei uno di loro, ti chiamano infedele», diceva Khayyam.
È per questo che inseguo l’esilio, amici miei.
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«Rondini che partite, tanti saluti ai djemve tanë përmatanë !
Ci hanno divisi da vivi!»
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Anzi, gli ex-dirigenti del Partito di Hoxha, nonché i boia di ieri,
a richiesta dell’amministrazione americana, sono stati chiamati a risiedere
negli States(!), lasciando lo zio Marx in uno ospizio. Tengono conferenze
contro il comunismo, giurando fedeltà al capitalismo. Li insegue l’ombra d
ei dossier e del sangue guastato in patria.
È per questo che credo solo all’esilio, amici miei.
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Del resto, furono proprio l’America e l’Inghilterra ad appoggiare la nascita
della dittatura comunista di Hoxha nel mio paese, come testimoniano
i documenti degli archivi. Questi alleati divisero anche il territorio albanese
in zone d’influenza, ma gli albanesi, chiamano padre, quelli che scopano
la loro madre.
È per questo che colloquio con l’esilio, amici miei.
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Nelle prossime elezioni politiche del 3 luglio 2005 gli americani già stanno
trafficando per riportare al potere di nuovo Berisha! In Albania per mungere
una mucca nel villaggio o per nominare un usciere del comune,
ci vuole il parere dell’ambasciatore americano a Tirana!
Mio dio, al mio popolo hanno messo il cervello dell’asino!
È per questo che inneggio all’esilio, amici miei.
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Una sera, a casa dei miei, mentre seguivo il telegiornale albanese,
sono rimasto allibito all’immagine di un contadino del nord del Paese
che chiedeva aiuto al suddetto ambasciatore americano, per avere alcuni
sacchi di farina; in quanto il suo villaggio, non era raggiungibile a causa
della neve e lui era rimasto senza provviste.
È per questo che mi sono fermato al confine dell’esilio, amici miei.
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I politici albanesi sono i servi ubbidienti dei giochi loschi.
Passeranno alla Storia con la vergogna. Gli intellettuali albanesi
sono cani bastonati che non abbaiano più. Le facce senza pudore
dei politici sono le più brutte d’Europa; i volti degli pseudo-intellettuali
albanesi sono maschere tragi-comiche di se stessi.
È per questo che mi rispecchio nell’esilio, amici miei.
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Mai provata una vergogna più grande quando sento i miei connazionali
parlare di intellettuali albanesi! I veri intellettuali albanesi sono stati tutti
imprigionati o fucilati per ordine di Hoxha, oppure morti nel lager. Forse
è stato questo il crimine più orribile di Hoxha. Quelli che applaudono i tiranni
di Tirana oggi, hanno perso l’opportunità di divenire dei veri intellettuali.
È per questo che viaggio in esilio, amici miei.
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Si è sempre abusato di questo nobile termine. Per i britannici,
l’unico intellettuale esemplare è stato Orwell, perché gli altri sono nati
a Vienna. Essere intellettuale, ci insegna T. Gartonash, è una vocazione,
non un marchio di fabbrica. Vuol dire essere generoso, onesto, lottare
per il bene comune, per la libertà e per i diritti umani, contro ogni dittatura,
per la crescita culturale del Paese..
È per questo che trascorro le notti ascoltando l’esilio, amici miei.
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Nel mio paese il malgoverno è intoccabile. Chi ha osato denunciare
le malefatte, è stato messo a tacere o punito duramente. Vivere in Albania
è un brivido. Quei pochi che resistono sono isolati dalle ombre
degli ex-servizi segreti. Basta ricordare il libro di P. Kolevica fatto sparire
dalla tipografia, di notte, da uomini misteriosi!
È per questo che conosco il rischio che corro in esilio, amici miei.
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Oggi l’Albania è invasa da “fondazioni” ed “associazioni” straniere;
la maggior parte di esse porta ombre e misteri. Grandi interessi si nascondono
sotto il potere del Don Chisciotte Nano. Ahimè, mia Patria, arena di affari
loschi! Nessuno controlla l’attività delle società e delle “banche” occidentali!
È per questo che mi pongo domande in esilio, amici miei.
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Vorrei sapere chi ha gestito la fondazione Soros e altre ancora? Chi sono stati
i loro direttori? Quale è stata la destinazione dei loro denari?
Chi ha approfittato dei soldi spesi nell’arco di 16 anni di “democrazia” albanese?
Quale beneficio ha portato al paese e alle istituzioni la suddetta fondazione?
Vorrei sapere se qualcuno ha esercitato un controllo su tutto questo?
È per questo che insulto l’esilio, amici miei.
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I servizi segreti albanesi hanno creato uno Stato parallelo a quello attuale,
pericoloso per gli interessi della nazione! I servizi segreti albanesi
non dipendono dal Ministero degli Interni del governo. Chi comanda i servizi
segreti del mio Paese?! Come mai nessuna interrogazione in parlamento,
da parte dei deputati-poeti, per questa gravità?
È per questo che condivido la stanza sgombra con l’esilio, amici miei.
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Lo stato parallelo dei servizi segreti albanesi porterà seri problemi al paese,
alla libertà dei cittadini e alla vita politica. Il governo e lo stato devono
intervenire in tempo, affinché non sia troppo tardi. Altrimenti sarà un danno
irrimediabile per il futuro. Nel mio Paese si nascondono misteri spaventosi.
È per questo che chiede conto a me l’esilio, amici miei.
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Un ingegnere di Hoxha che ieri aveva progettato un milione di bunker
per “difenderci” dai nemici imperialisti, oggi è diventato il presidente
del Paese delle aquile. Stava giocando a carte in una bettola con i pensionati
di Tirana, quando ha saputo della sua nomina. Uno altro più grezzo come lui,
non si poteva trovare.
È per questo che non mi sottometto all’esilio, amici miei.
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Besnik Tirana_Skenderbeu

Tirana Skenderbeu

«Piangete o donne, i nostri esuli-argatë alle porte dell’Occidente!»
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Berisha, in un anniversario, ha conferito la medaglia del secondo premio al poeta
martire della dittatura Havzi Nela; mentre il presidente albanese A. Moisiu
(un rospo con due occhi sulla fronte), ha conferito la medaglia d’onore
a Femi Abdiu., colui che firmò l’ordine di fucilazione del suddetto poeta.
È per questo che alzo la voce in esilio, amici miei.
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Il presidente albanese Moisiu appoggia il procuratore generale della giustizia
Th. Sollaku, accusato di esseee la cupola della criminalità organizzata in Albania.
Il presidente Moisiu deve essere consegnato alla giustizia popolare,
per aver imprigionato, per mezzo secolo, un popolo intero nei bunker. Invece,
continua a difendere il crimine e ad ostacolare le riforme dello Stato.
È per questo che squarcio l’esilio, amici miei.
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[…]
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Tutti i politici del mondo ingrassano normalmente, i politici albanesi ingrassano
alla testa e alla nuca. Sono brutti come il peccato; sono porci, bestie spietate,
cannibali che succhiano il sangue di un popolo martoriato e insecchito. L’Albania
sprofonda ogni giorno nella corruzione e nella lotta per il potere e il dominio.
È per questo che mi abbellisco di esilio, amici miei.
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L’Albania ha mandato i soldati in Iraq in nome di una guerra sporca.
Quelli che creano i Saddam, li armano, fanno affari sporchi, poi vengono
a rompere i coglioni, dicendo sono dittatori! Per giustificarsi, inventano
lo scontro tra le civiltà e l’esportazione della “Democrazia”!
È per questo che mi sento campana di mare in esilio, amici miei.
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[…]
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Anzi, il popolo di sinistra di Berat ha dichiarato pubblicamente alla televisione
Albanese è pronto a stare anche senza corrente elettrica, senza acqua,
e se c’è bisogno anche senza fare l’amore. A condizione che l’unità del partito
di Nano non venga spaccata dai correntoni interni! È un popolo che vive
amorosamente il passato.
È per questo che scambio il mio nome con quello dell’esilio, amici miei.
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I militanti sinistrini di Berat mi fanno ricordare le parole dell’ex-dittatore
Enver Hoxha: «Erba mangeremo, i principi marxisti non li calpesteremo!»
Mentre alcuni alunni delle scuole elementari – plagiati dai testimoni di Geova
– si suicidano, impiccandosi, per raggiungere la vera vita nell’aldilà!
È per questo che ho nostalgia dell’esilio, amici miei.
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«O vaporrë , un amanèt ai nostri esuli: nelle tombe non si scioglieranno
le nostre anime!»
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È dovere del parlamento di Strasburgo di fare pressione presso l’attuale
governo, affinché avviino le riforme istituzionali, per inserire la mia nazione
nella Comunità Europea. E inoltre non bisogna più appoggiare i responsabili
della tragedia albanese. Solo la famiglia europea potrà salvare l’Albania!
È per questo che non abbandono l’esilio, amici miei.
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I diplomatici che rappresentano l’Albania all’estero sono militanti di partito,
commercianti e trafficanti che curano affari loschi. Hanno venduto migliaia
di passaporti agli albanesi migranti, guadagnando miliardi.
Gli ex-ambasciatori albanesi a Roma ed all’estero, sono figure losche
e trafficano in Italia. I diplomatici albanesi all’estero sono gli stessi
del tempo di Hoxha.
È per questo che mi chiudo ogni giorno nell’esilio, amici miei.
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Il governo albanese ha nominato ambasciatori, addetti culturali e consoli:
gli ignoranti, i delinquenti e i trafficanti che hanno isolato l’Albania dal resto
del mondo. Oltre a sopravvivere e competere con il mondo, noi altri dobbiamo
affrontare anche le porcherie dei diplomatici albanesi e dei loro nipoti.
È per questo che mi ribello in esilio, amici miei.
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[…]
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Besnik tirana_square

Tirana square

Alcuni ex-ambasciatori albanesi a Roma, dopo la scadenza del loro mandato,
non sono rientrati a Tirana; oggi lavorano come titolari di agenzie
di compra-vendita di case. Altri, controllano da Roma, la merce che entra
in Albania, oppure sono diventati alti dirigenti presso l’Istituto Mediterraneo
di Bari (AMB), o consulenti presso la FAO, l’Ifad e l’Unops.
È per questo che rigurgito l’esilio, amici miei.
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Gli ambasciatori albanesi all’estero nominano come “Ambasciatori della cultura
albanese nel mondo” danzatori di quartiere, umiliando i veri artisti che creano
valori culturali universali ed eterni. In 60 anni di comunismo, l’Albania
non ha mai dato all’Europa né un pittore, né un regista, né un compositore,
né un architetto, né uno scienziato, né un poeta, né un attore, né un cantante,
né un narratore, né…
È per questo che mi consumo insieme all’esilio, amici miei.
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E quando capita che un albanese onesto, ma offeso e umiliato di fronte
agli occhi del mondo, “cambia” cittadinanza e passaporto, gli squallidi politici
di Tirana, lo chiamano infedele, traditore e venduto! In uno Stato democratico,
onesto, acculturato, progredito e rispettato, nessun cittadino sente il bisogno
di chiedere la cittadinanza. Andrò a Tirana solo quando sarà liberata dai tiranni!
È per questo che mi imbestialisco in esilio, amici miei.
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«Ahimè, burrnia dhe ndera del nostro fis shqiptar!»
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[…]
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I poeti albanesi cantano solo ai tiranni, sia ieri che oggi; vanno in esilio (asilo)
dopo la caduta del padrone e ragliano come asini a Parigi contro il comunismo
che li ha incoronati con il potere e la fama; sono responsabili dell’isolamento
dell’Albania e della letteratura albanese dal resto del mondo.
È per questo che cresco in esilio, amici miei.
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I poeti albanesi che sono stati spie e servitori devoti della dittatura
e hanno servito con obbedienza di cane il proprio padrone, inneggiandolo,
oggi gridano al complotto degli stranieri contro l’Albania.
Così faceva anche il loro faraone Enver Hoxha ieri.
È per questo che mi sciolgo in esilio, amici miei.
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[…]
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besnik Polizia di tirana

Macchina della Polizia di Tirana

Essere poeta a Tirana vuol dire stare con Nano o con Berisha.
Essere un letterato in Albania vuol dire servire Berisha o Nano.
Sono Nano e Berisha quelli che decidono sui valori dei letterati,
secondo la devozione e il servizio che gli uomini di cultura dimostrano
nei loro confronti! Un esercito di eunuchi al servizio dei loro padrini!
È per questo che smaschero l’esilio, amici miei.
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«O cantori shqiptar, perché per tutta la vita siete rimasti asqèr e nizàm !»
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Ho saputo che ieri ha chiuso l’ultima libreria nella città di Kukës.
A Kukës, città delle Alpi albanesi, non c’è più una libreria.
Un’intera città senza libri! Mentre i poeti di Tirana scrivono a pagamento,
libri per gli imprenditori ladri e per i mafiosi. Come ricompensa,
gli imprenditori donano terreni e ville ai poeti di Tirana!
È per questo che abito nel sud dell’esilio, amici miei.
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Il 2 agosto 2006, nella città di Korça alcuni ignoti hanno rubato la statua
di bronzo di N. Veqilharxhi, uno dei padri del rinascimento albanese;
l’autore del primo abbecedario albanese. Il suo bronzo, trascinato,
in pieno giorno per la città , è stato venduto al mercato per pochi euro!
È per questo che prego che l’esilio abbia cura di me, amici miei.
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Ma tempo fa è stata rubata da ignoti un’altra statua famosa,
quella di un personaggio storico del rinascimento albanese: Th. Gërmënji.
Non è una casualità. Lo scopo è quello di colpire i simboli di un popolo,
le opere d’arte, la cultura. In Albania è in atto un progetto per distruggere
la memoria e l’identità di una nazione.
È per questo che affido anche il mio destino all’esilio, amici miei.
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Una brutta fine l’ha fatta anche la statua di Lasgush Poradeci.
Le sono stati segati gli arti, perché non entrava nella cassa usata dai ladri
per portarla via. Che ne poteva sapere, questo grande poeta delle violenze
che avrebbe subito la sua scultura nella città natale!
Ahimè! Sarà questa la fine che toccherà ad ogni vero cantore albanese?!
È per questo che ingurgito l’esilio, amici miei
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I poeti albanesi hanno affermato: «Prima dobbiamo formarci come nazione,
cioè come Albania etnica, poi dobbiamo integrarci in Europa!
Ai poeti è cresciuto il gozzo e stanno diventando gli uomini più pericolosi
per il futuro del Paese e dei Balcani. Sogno un giorno Tirana liberata
dai tiranni e dai poeti tiranni.
È per questo che mi consolo in esilio, amici miei.
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«Oh! Oh! Mai così in basso è caduta l’antica stirpe di Scanderbeg !»
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Mentre nei testi scolastici regnano ancora le stesse opere del realismo
socialista, colme di fedeltà alla vecchia dittatura e di nemici di classe!
Coloro che curano i libri per le scuole e per le università albanesi
sono sempre gli stessi. Gli stessi, gli autori antologizzati, gli stessi,
gli insegnanti, i presidi e i docenti universitari, gli stessi, i rettori delle facoltà.
È per questo che dono la mia voce all’esilio, amici miei.
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Come mai nessun premio letterario a Kasëm Trebeshina? Fu il primo grande
scrittore dissidente con il coraggioso promemoria contro il dittatore nel 1953,
rivolgendosi a lui con queste parole: “Enver, ti stai comportando
come Luigi XIV!” Fu denunciato dai suoi colleghi scrittori. Come mai nessuna
pubblicazione della sua opera? Un quotidiano di Tirana scrive
che non interessa la questione Trebeshina!
È per questo che mi copro di esilio, amici miei.
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Come mai il Partito Democratico non ha denunciato questo atteggiamento
della mafia culturale di Tirana nei confronti di Trebeshina! Oggi il suddetto
scrittore sopravvive isolato nella capitale, in mezzo agli sciacalli e ignorato
dalle istituzioni, rinunciando persino alla cittadinanza albanese. Sicuramente,
un domani, il Padre eterno chiederà conto anche a me di tutto questo.
È per questo che non trovo pace in esilio, amici miei.
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[…]
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Gezim Hajdari nel suo studio

Gezim Hajdari nel suo studio

Oggi il figlioccio del Babbo(I. Kadaré) per far contenti i membri
delle accademie europee e di quelle nord americane, ha creato un’altra
invenzione perversa, quella di mettere i cristiani albanesi contro
i musulmani, chiamando quest’ultimi, con disprezzo, “turchi e ottomani”!
Come se non bastassero le sofferenze che sta attraversando l’Albania!!
È per questo che svergino l’esilio, amici miei.
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Quest’uomo diabolico nel 2006, ha dichiarato che, nel 1989, aveva suggerito
al dittatore R. Alia (l’erede di Hoxha), di aprire le chiese cattoliche
e quelle ortodosse per far indebolire l’identità islamica. Un suggerimento
da terrorista, pericoloso, cinico e irresponsabile. Quest’uomo sta tenendo
in ostaggio il paese e la cultura albanese.
È per questo che ho sacrificato me stesso in nome dell’esilio, amici miei.
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Molto tempo fa, ha dichiarato all’agenzia Kossovo Pres che i musulmani
albanesi sono “bislacchi, rozzi e ignoranti”. Quest’affermazione Èstata
una delle tante che il figlioccio ha usato per prendere la patente di militante,
nella lotta contro il terrorismo islamico. I veri scrittori sono dei profeti,
artefici del dialogo, della convivenza e della fratellanza tra le culture.
È per questo che ho deciso di dire la verità all’esilio, amici miei.
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Come è possibile che uno scrittore cerchi di sottolineare violentemente
l’identità cristiana degli albanesi?! Il credo religioso è un sentimento intimo
e personale e come tale, deve essere vissuto. Un’ affermazione del genere
è aggressione, è guerra.Un’affermazione del genere presuppone
una divisione che finisce per mettere gli uni contro gli altri.
È puro integralismo.
È per questo che mi riconosce l’esilio, amici miei.
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«Tu non rispetti né gli uomini, né la legge delle Bjeshkët e Nëmuna !»
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Un’affermazione del genere vuol dire intolleranza. L’identità che lui appoggia,
è un’ identità che uccide, da crociato e il suo nazionalismo è patetico
e pericoloso, sciovinista. La ricchezza della cultura albanese è proprio
l’interazione secolare tra le religioni e le loro culture. La teoria del figlioccio
del Babbo Enver è razzista, perché prevale una religione sull’altra.
È per questo che divento altro in esilio, amici miei.
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Che vergogna! Coloro che hanno distrutto, massacrato, violentato, stuprato
per mezzo secolo la vera identità del paese, sostituendola con quella dell’ uomo
nuovo plasmato dalla dittatura, oggi si dichiarano difensori della morale,
dei diritti umani e dell’identità nazionale! Prima di negare il comunismo
e Hoxha, essi devono negare le opere politiche dedicate al terrore rosso.
È per questo che cerco i veri poeti in esilio, amici miei.
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L’Albania non è né cristiana, né musulmana, ma nello stesso tempo è cattolica
e musulmana, ortodossa e dervìsh, laica e atea, ebrea e budhista. Del resto,
l’identità di una nazione, non s’identifica con la religione. “La patria
è la sapienza”, scriveva S. Agostino. Per far tornare l’Albania un paese normale,
dobbiamo liberare la cultura albanese dai falsi miti, da una mentalità feudale.
È per questo che ho riscoperto l’umanità in esilio, amici miei.
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Non esiste la “purezza” delle lingue, delle culture o delle nazioni.
La singolarità non è un valore, la pluralità è un valore. In tibetano essere umano
vuol dire “viandante” e per gli arabi, “abitatore” di tende. La bellezza
delle nazioni, delle loro culture e delle loro religioni è la mescolanza;
lo scambio è interazione reciproca.
È per questo che cammino sulle orme di Abramo in esilio, amici miei.
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L’Albania è un paese esemplare, dove hanno sempre convissuto cattolici,
ortodossi, musulmani ed ebrei in pace tra di loro da secoli,
scambiandosi le preghiere. Nei poemi epici albanesi, i personaggi hanno il nome
cattolico e il cognome musulmano, come Gjergj Elez Alia e viceversa!
È straordinario! Fermate questo figlioccio delirante del Babbo Enver,
sta spaccando il paese.
È per questo che mi metto sulla croce e prego Allah in esilio, amici miei.
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L’Europa come unità culturale non esiste, è fatta di diverse Europe. Nel mito,
nasce come la bella principessa d’Oriente rapita da Zeus, cioè dalla migrazione.
Ogni europeo proviene da qualche parte. Nelle nostre vene scorre sangue
“impuro”. Èquesta la forza dell’Europa. «La diversità de las criaturas»,
ci consigliava Borges.
È per questo che brucio nelle fiamme dell’esilio, amici miei.
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Non a caso, nella Costituzione della Comunità Europea non sono accentuate
le radici cristiane dell’Europa. Nell’Iliade e nell’Odissea di Omero,
troviamo tracce di civiltà arabe e indiane. D’ora in poi dobbiamo,
più che sottolineare le differenze, celebrare le somiglianze.
Ahimè, non si farà mai l’Albania con certi sanguinari!
È per questo che insegno l’arte del dialogo in esilio, amici miei!
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Chi lo fermerà? la massa dei poeti-eunuchi di Tirana che fanno a gara
per essere i suoi amanti? dei giornalisti mafiosi e ubbidienti di Tirana
che sognano di bere la sua piscia? i poveri lettori albanesi frustrati e plagiati
dal metodo del cosiddetto realismo socialista? oppure il governo Berisha
che spenderà mezzo milione di dollari per ristrutturare la sua casa natale?!
È per questo che ubbidisco all’esilio, amici miei.
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Gezim-Hajdari,-Foto-di-Piero-Pomponi

Gezim Hajdari, Foto di Piero Pomponi

Anzi, ogni volta che il sosia del Babbo si arrabbia, i suoi sudditi
gli conferiscono un premio! Più il sosia li frusta, più li considera mediocri,
più sputa loro in faccia, più li calpesta, più i suoi servi si inchinano
davanti a lui. Lo adorano come la patria. Lo amano più delle proprie mogli.
Nel mio villaggio c’è un detto: “Come se lui avesse messo nelle loro orecchie
il veleno per i topi”.
È per questo che obbedisco all’esilio, solo all’esilio, amici miei
.
L’ortodossia del tiranno è cinismo e crudeltà. Secondo i tiranni stessi,
gli altri non sono altro che eunuchi e sabotatori della sua opera.
«La piazza del Cremlino era sempre al buio, solo la luce della finestra di Stalin
era sempre accesa, perché lui lavorava e pensava al popolo russo».
Si vestiva sempre nello stesso modo. Aveva creato un mito.
È per questo che sputo in faccia ai falsi miti in esilio, amici miei.
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Questo fatto mi riporta alla mente i versi del figlioccio dedicati al Babbo Enver:
«Dal gran boulevard / si scorgevano le finestre del Comitato Centrale/
illuminate fino a notte fonda». Anche lui, come Stalin, lavorava e pensava
al popolo albanese e agli altri figliocci di Tirana.
È per questo che non seguo luci fatue in esilio, amici miei.
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«Sei un inquisitore!»
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È lo stesso che fino a ieri negò i poeti e gli scrittori cattolici: V. Prenushi,
Gj. Fishta, E. Koliqi, chiamandoli reazionari, nemici del Partito Comunista
di Enver Hoxha e della dittatura del proletariato. Nemmeno le autorità
religiose albanesi hanno osato creare una divisione pericolosa tra i fedeli
albanesi. Che delirante follia!
È per questo che navigo nel mare dell’esilio, amici miei.
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È colui che ha scritto: «Ti hanno stordito il timpano/ i sacerdoti e gli imam»,
(il timpano del Partito). E ancora: «Uomini dalle tuniche nere./…/
Ma le masse del popolo vi soffocarono/ E i poeti ribelli divorarono
con le unghia le loro tuniche».Gli albanesi hanno un detto: «Frusta,
se vuoi che ti chiamino Babbo!»
È per questo che bevo l’assenzio dell’esilio, amici miei.
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Oggi il çuni Babës fa il pellegrinaggio in Kossovo come missionario cattolico,
predicando il Verbo del Vangelo. Cercando di evangelizzare i kossovari
smarriti. Nel novembre del 2006 ha chiesto al presidente Sejdiu di costruire
una cattedrale a Prishtina. Oh, salavteci da quest’uomo senza volto e senza
principi.
È per questo che l’esilio non mi tradisce, amici miei.
.
«Neghi perfino i sacramenti e il nostro Creatore?!»
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[…]
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Un vero scrittore deve insegnare a tutti ad essere migranti e stranieri
e l’arte del dialogo…Un vero scrittore deve essere un distruttore di identità,
di confini e di bandiere. Ogni giorno io creo una nuova patria, in cui muoio
e rinasco. La mia patria è il mio corpo, Gëzim è la mia identità. Per me l’Albania
è la lingua albanese. Un vero scrittore deve essere ospite dei mondi.
È per questo che condivido il mio essere con l’esilio, amici miei.
.
[…]
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gezim hajdari_foto

Gezim Hajdari

Si parla molto dell’apertura dei dossier dei politici in Albania.
Ma chi aprirà i dossier?! Gli stessi che fino a ieri li hanno scritti?!
È una farsa politica; I democratici e i socialisti hanno fatto sparire i dossier
che volevano, lasciando quelli dei pesciolini, che ora li ricattano!
È per questo che ammonisco l’esilio, amici miei.
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Sono gli stessi scrittori che hanno firmato le accuse contro altri poeti durante
la dittatura. Mentre loro erano alti funzionari di Stato e legislatori
del parlamento di Hoxha, poeti straordinari venivano fucilati o deportati
nei campi di rieducazione per essere temprati nell’incudine della classe
operaia e contadina.
È per questo che mi santifico di esilio, amici miei..
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«Invochi l’Inferno e i demoni!»
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I dossier non si apriranno mai. I dossier sono stati manipolati sia dai socialisti
di Nano, che dai democratici di Berisha. Oggi accade il contrario: vengono
celebrati e decorati gli ex-torturatori di ieri! È incredibile! Il popolo albanese
non vuole l’apertura dei dossier della polizia segreta. Il popolo albanese
è un popolo bue, adora la dittatura, non la democrazia.
È per questo che abbatto il muro dell’esilio, amici miei.
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Forse non c’è bisogno di aprire i dossier. Basta pubblicare in un grande
volume tutti i nomi e il lugubre destino di quelli che sono morti nelle galere,
oppure sono stati fucilati o internati nei lager, spariti senza lasciare tracce.
Il suddetto volume andrebbe consegnato ad ogni famiglia albanese e studiato
nelle scuole, per non dimenticare.
È per questo che mi ascolta dio in esilio, amici miei.
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Come è possibile che la radio La voce libera d’America, con sede a Washington,
sulla questione dei dossier albanesi, intervista soltanto gli scrittori-servi
della dittatura di Hoxha e mai Kasëm Trebeshina?! È incredibile!
Ma tutto questo fa parte dei misteri albanesi. I nemici degli ex-perseguitati
dalla dittatura di Hoxha sono gli ex-perseguitati stessi!
È per questo che dubito dell’esilio, amici miei.
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Non è colpa loro, purtroppo vivono la sindrome di Stoccolma.
Decenni trascorsi nelle galere più spaventose d’Europa, alcuni ex-perseguitati
albanesi si sono innamorati dei loro carnefici. Nella mente dei loro boia,
i superstiti vivranno sempre come nemici del popolo e del comunismo sconfitto.
È per questo che si vogliono così bene tra loro.
È per questo che perdòno l’esilio, amici miei
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«Pratichi il culto del diavolo!»
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Nel mio paese, i poeti di Tirana nutrono un disprezzo profondo
per le vittime della dittatura comunista e un amore viscerale per i boia di Hoxha.
I poeti di Tirana sono onorevoli, direttori dei ministeri, sottosegretari…,
ma nessuno di loro ha alzato la voce per condannare (almeno moralmente)
i crimini del comunismo.
È per questo che mi vergogno in esilio, amici miei.
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In Albania sono passati sedici anni e non esiste nemmeno un museo che raccolga
le sofferenze e le memorie di tutti coloro che hanno subìto la dittatura più feroce
che ci sia stata in Europa. Nessuna fondazione, per raccogliere le opere
dei martiri e di quelli che subirono l’inferno dello stalinismo di Hoxha,
come testimonianza per i giovani.
È per questo che non rinuncio all’esilio, amici miei.
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Il passato non interessa più a nessuno, né alla giustizia, né al governo.
Per i miei cittadini, il passato dell’Inferno di Spaç o di Burrel , è come
se non fosse mai esistito. Nulla viene ricordato. I giovani devono sapere i crimini
commessi contro l’umanità, per contribuire a costruire uno Stato democratico
basato sul diritto.
È per questo che non dimentico in esilio, amici miei.
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[…]
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Gezim Hajdari 3 davanti la sua casa natale, nel villaggio Hajdaraj, povincia di Darsìa, Lushnje, Albania 2012

Gezim Hajdari davanti la sua casa natale, nel villaggio Hajdaraj, povincia di Darsìa, Lushnje, Albania 2012

Nella mia città di Lushnje, alla piazza centrale, s’innalza ancora,
sin dai tempi del dittatore, il monumento che celebra la collettivizzazione
forzata dei contadini! Ma non c’è nulla che ricordi le vittime del comunismo,
visto che in questa regione c’era una delle più terribili prigioni
per i perseguitati politici e 11 lager su 19 di tutta l’Albania!
È per questo che mi comprende l’esilio, amici miei.
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Ho visto L. Radi messo alla berlina, nel lager di Savra. È successo
il 20 ottobre 1982, al palazzo di cultura, in presenza di 600 persone.
Le persone al seguito del segretario di partito P. N. lo hanno insultato
e gli hanno sputato addosso, tirandogli sassi. Ma lui, fermo come una statua
non ha mosso ciglio, sfidando le pietre con la sua parola.
Tra le mani stringevo la mia pietra colma di rabbia.
È per questo che non posso vivere senza l’esilio, amici miei.
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Si è alzato un collaboratore della dittatura R. B. gridando: “ Lazer Radi,
vogliamo sapere, perché continui a parlare male del comunismo?
Che male ti ha fatto il potere del proletariato?” Fiero e coraggioso Lazer
ha risposto: «Mi ha condannato a 10 anni di carcere e a 30 anni internati
nel lager; questo per me non è un male che mi ha fatto il potere del proletariato!»
È per questo che sono diventato esilio, amici miei.
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Era un uomo alto, bello, con i capelli bianchi, laureato in Letteratura
e filosofia a “La Sapienza” negli anni ’30. Lasciò Roma per contribuire
alla crescita culturale del suo paese. Tutti i suoi amici e compagni
che avevano studiato all’estero, finirono sotto il plotone d’esecuzione
o morirono nelle terribili prigioni della dittatura enveriana.
È per questo che divento un testimone in esilio, amici miei.
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«Ciò che dici è un omaggio a Satana!»
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Da prigioniero, Lazër, accompagnato dai poliziotti, veniva portato spesso
alla biblioteca nazionale di Tirana per tradurre dei volumi
per il Ministero degli Interni. Conosceva numerose lingue. Un suo illustre
professore del liceo, rimase sgomento, quando lo vide incatenato
in mezzo ai carcerieri, mentre traduceva.
È per questo che non mi dà tregua l’esilio, amici miei.
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Negl’ultimi anni della sua vita, Lazer, scriveva giorno e notte.
Copiava i suoi manoscritti riesumati dal giardino della baracca
del lager di Savër, dove li aveva seppelliti durante gli anni del terrore.
Si trattava di poesie giovanili e traduzioni da varie lingue, compreso Platone.
È per questo che mi interrogo in esilio, amici miei.
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Non scrisse mai niente sulle sofferenze passate nei lager e nelle prigioni
per 40 anni. Preferì raccontare i bei ricordi degli anni giovanili, quando
frequentava il liceo e l’università. Lazer morì nel ‘98, ma la sua vita si fermò
al ‘41, anno dell’evento del comunismo che avrebbe segnato la sua vita.
È per questo che sono sgomento in esilio, amici miei.
.
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V. Kolevica di Korça, un mio amico con il quale ho fatto il militare a Poliçan,
mi ha raccontato che suo padre, pittore, è stato condannato perché nemico
del popolo. Ogni volta che si avvicinava il compleanno di Hoxha,
la vittima-pittore, per ordine dei dirigenti del partito, doveva fare il ritratto
al dittatore!
È per questo che mi fa da guardia l’esilio, amici miei.
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«Tu credi nel demonio!»
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Le colpe dei genitori le hanno subite anche i figli. Frequentavo l’ultimo anno
del Ginnasio di Lushnje, quando il mio carissimo amico di banco J. Radi,
figlio di Lazer, è stato espulso dalla scuola, solo perché figlio del “nemico”
di classe. Il resto della sua vita l’ha trascorsa nei lager albanesi per 40 anni.
È per questo che incendio l’esilio, amici miei.)
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Nel 1982 la raccolta poetica di Jozef, scritta nel fango delle paludi di Tërbuf,
non venne accettata dall’editore statale N. Frashëri di Tirana,
perché figlio del nemico del popolo. Sia lui che suo padre, hanno dovuto
aspettare più di mezzo secolo per pubblicare le loro opere!
È per questo che imparo la lingua dell’esilio, amici miei.
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Nemmeno un incontro organizzato dalle scuole o dal comune, per ricordare
tutti coloro che morirono o passarono i più begl’ anni della loro vita nelle paludi
della Myzeqese . Nemmeno un giorno in segno di lutto dedicato a coloro
che si sacrificarono per la libertà. Nei testi di scuola della, e nella mia città
non esistono tragedie, crimini e vittime della dittatura!
È per questo che spezzo la penna in esilio, amici miei.
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Sono passati sedici anni dal crollo dello stalinismo, ma nulla è cambiato.
Nessun problema è risolto, né la legge della terra, né l’apertura dei dossier,
né la mea culpa per i crimini del passato, né il problema della giustizia
e della corruzione, né la disoccupazione, né quello dell’ordine,né i problemi
culturali ed etici, degli stipendi e delle pensioni, né i problemi dell’ecologia…
È per questo che stringo i denti in esilio, amici miei.
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Alcuni poeti di Tirana (dopo 16 anni?!) insistono che vengano allontanati
i politici dell’ex-regime che ordinarono la preparazione dei dossier
e che oggi, sono al vertice della politica e dello stato albanese.
Penso che insieme con quest’ultimi, debbano essere allontanati anche i poeti,
in quanto braccio destro della dittatura. Perché le loro opere hanno cantato
al dittatore, al suo partito e al terrore.
È per questo che mi nutro di esilio, amici miei.
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Non c’è nessuna differenza tra coloro che obbligarono i cittadini a divenire
delle spie e gli scrittori che aizzarono il terrore e la violenza contro
il loro popolo. Sono stati complici di uno Stato e di una ideologia criminale.
Il crimine che hanno commesso gli scrittori della corte è stato un micidiale
veleno che ha alimentato la macchina del terrore, per mezzo secolo.
È per questo che è sacro l’esilio, amici miei.
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Il nostro popolo ha avuto più che mai bisogno dei poeti nei momenti bui
della propria storia. Il nostro popolo, negli anni della violenza e del terrore rosso,
aveva bisogno di sogni, di speranze e di immaginazione, che solo i poeti
potevano dare con i loro versi. Invece, sono stati proprio questi versi a negare
anche la più piccola emozione.
È per questo che è vergine l’esilio, amici miei.
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È per questo che i poeti di Tirana sono diventati eunuchi che, per padre,
per amante, per padrone, conoscono solo il figlioccio del Babbo Enver.
È per questo che un esercito accecato di lettori albanesi considera il tiranno
dei tiranni di Tirana, padre dell’Albania tiranna! Sembra che l’agonia
del mio paese non avrà mai fine!
È per questo che rinasco in esilio, amici miei.
.
Stanno facendo di tutto per imporre lui, agli albanesi e all’Occidente, come
l’icona del paese! Berisha gli diede il titolo “Onore della Nazione”, i comuni
delle città di Gjirokastra e quella di Tirana gli hanno conferito la cittadinanza
onoraria. Una volta a Roma, un poeta delle sue milizie, durante un convegno,
disse che la voce del figlioccio è la voce dell’Albania! Mio dio!
È per questo che la mia voce è la voce dell’esilio, amici miei.
.
Come mai Tirana non ha mai conferito la cittadinanza onoraria a Trebeshina,
a P. Gjeçi e a F. Reshpja? In 16 anni di democrazia albanese, tra i governi
di destra e di sinistra, solo un ex-perseguitato politico P. Arbnori ha fatto parte
delle istituzioni dello stato albanese. Tutti i ministri e le più alte cariche
dello stato sono stati rappresentati dagli ex-comunisti facenti parte d
ella ex-nomenklatura. mici miei.
È per questo che cerco una risposta in tutti questi anni in esilio, a
.
Che strano paradosso: chi osò ribellarsi alla dittatura, chi protestò nelle piazze
in nome della democrazia, mettendo in pericolo la propria vita e chi usurpò
il potere in Albania! Gli ex-perseguitati dalla dittatura di ieri ancora oggi
sono visti come nemici del popolo! Nel mio paese, le speranze della democrazia
sono state uccise, una volta per sempre, il 22 marzo 1992.
È per questo che la mia stanza sgombra si riempie d’esilio, amici miei.
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«Chi li coprirà con la savanë ?
Chi metterà un pugno di terra sulle loro tombe?»
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I poeti di Tirana stanno vivendo un periodo di ascesi. Hanno deciso
di non scrivere più, di non essere chiamati più con i propri nomi,
di non parlare più, di autocastrarsi per non fare più l’amore,
di vivere in anonimato, di identificarsi in lui. È impressionante!
È un tentativo assai disperato fare lo scrittore e il poeta oggi in Albania!
È per questo che è puro l’esilio, amici miei.
.
«Sei un infame! Vuoi soddisfare solo i tuoi desideri perversi!»

gezim2

gezim hajdari

Non è la sua opera che ha fatto di lui uno peudosantuario, ma è il suo fascino
di tiranno. Gli albanesi, dopo la morte del dittatore, non riescono a vivere
senza tiranni. L.Myftiu, F. Lubonja, K. Myftari, E. Tase, P. Kolevica, A. Klosi,
I.Jubica, B.Kraja, R. Elsie, A. Dule, S. Fetiu, H. Ibrahimi, conoscono bene
il “mal di tiranno” degli enveriani. Nessun altro popolo in Europa adora
i tiranni come il mio popolo.
È per questo che lancio l’allarme dall’esilio, amici miei.
.
Dopo la morte di Hoxha, il figlioccio del Babbo si presenta come il padre
padrone della nazione. Come tutti i tiranni, pretende che anche il Paese e il popolo
diventino la sua opera e l’Albania s’indentifichi in lui! È un fantasma
del passato, circondato da altri fantasmi che abitano la sua coscienza.
È per questo che raggiungo me stesso in esilio, amici miei.
.
[…]
.
Tempo fa è uscito a Tirana il libro monografia Vilsoni dhe Genci,
che parla di due giovani poeti di talento, fucilati dalla dittatura comunista
nel 1977. Solo perché amavano la poesia e avevano osato tradurre Baudelaire,
Rimbaud, Mallarme, Hugo, D’Annunzio. E pensare che la prefazione
della suddetta monografia è stata scritta da colui che odiava i poeti “reazionari”!
È per questo che insulto me stesso in esilio, amici miei.
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Non c’è da stupirsi. Il manoscritto Vilsoni e Genci è stato rifiutato
da tre case editrici di Tirana! Il curatore è stato chiamato “vecchio rimbambito”
e il suo manoscritto considerato una minaccia per coloro che accusarono
i due promettenti poeti della città di Librazhd! Alla presentazione di questo libro,
a Tirana, c’era poca gente e quasi nessun poeta!
È per questo che l’esilio è il domani, amici miei.
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Per non parlare di Musine Kokalari che trascorse 20 anni in prigione
e 20 nei campi di concentramento. L’eterna sign.na Kokalari lasciò Roma
negli anni ’30, dove si era laureata alla Sapienza, per aiutare il suo Paese.
È stata scrittrice ed anche fondatrice del Partito Socialdemocratico. La donna
più acculturata dell’Albania, ma gli artigli del regime la chiusero in galera.
È per questo che vedo oltre l’esilio, amici miei.
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Kokalari morì sola nei campi di concentramento, malata, le fu negato
il ricovero in ospedale, in quanto “nemica” del popolo! Per legge, nessuno
poteva avvicinarsi a lei. Prima di essere sepolta, è stata trainata dal furgone
dell’immondizia. Quando i suoi parenti la riesumarono, trovarono le sue mani
e i suoi piedi legati con il filo spinato. Musine Kokalari non aveva commesso
nessun crimine, oltre l’amore per l’arte.
È per questo che ho deciso di scambiare il mio Paese con l’esilio, amici miei.
.
Nell’agosto del 1988, il poeta H. Nela veniva impiccato nella piazza della citta
Kukës. Per terrorizzare la gente, il suo corpo è rimasto per tre giorni di seguito
appeso alla corda. La gioventù del poeta era invecchiata nelle galere infernali
dei comunisti. Mentre il figlioccio profetizzava: «Questo secolo appartiene
al comunismo che illuminerà il mondo intero».
È per questo che mi sono accecato in esilio, amici miei.
.
Dove era il figlioccio del Babbo quando venivano fucilati i poeti?! Era deputato
al parlamento del dittatore. Il figlioccio, a quell’epoca, era vice presidente
del Fronte “Democratico”, il cui presidente era la moglie del dittatore.
A quell’epoca, erano i poemi del figlioccio (che incitavano al terrore
della dittatura del proletariato contro i nemici di classe) a fucilare i poeti
innnocenti albanesi.
È per questo che accuso l’esilio dall’esilio, amici miei.
.
«Confèssati! Il tuo corpo si è impossessato del male!»
.
Inaugurava, attraverso i suoi versi, la stagione dei Grandi Processi
e delle deportazioni, cantando: «Aprite la strada, poeti di poesia declassata,
/…/ stiamo arrivando noi,/ i poeti del realismo socialista».
Come se non bastasse l’uccisione di Mandel’stam, Babel, oppure
l’umiliazione di Ba Jin, costretto a inginocchiarsi davanti alle masse
popolari nello stadio di Shangai.
È per questo che cerco la verità in esilio, amici miei.
.
Da comunista convinto egli ammoniva i nemici di classe:
«Per sradicare le tue radici, mio partito /…/ Fondato su ossa e sangue
/…/ devono riesumare dal fango i caduti e ucciderli di nuovo».
Nessuno come lui ha santificato lo stalinismo. Se qualcuno avesse osato
minacciare la guida sanguinaria, avrebbe commesso il più grave peccato,
facendo una fine orribile.
È per questo che dico soltanto la verità all’esilio, amici miei.
.
In verità, chi ha osato strappare le radici al partito del figlioccio
e delle sue opere dedicate a esso stesso, è stato punito dal plotone.
Si sono scagliati come sciacalli contro coloro che hanno cercato
di commettere una tale eresia. Guai a chi tocca le istituzioni culturali
del passato! I mercenari enveriani continuano ad uccidere ancora
le vittime della dittatura di ieri.
È per questo che è illibato l’esilio, amici miei.
.
Il palcoscenico della poesia albanese è stato bagnato con il sangue
vero dei poeti. Ancora oggi il mio Paese porta l’immagine dei suoi poeti
uccisi. Mentre lui si appellava alle armi per forzare il ruolo del partito
e della dittatura proletaria e creare l”uomo nuovo”:
«Non è la Bibbia quella che parla,/ è il PARTITO. /…/. Con te mi sento
alto come le montagne,/ Senza di Te, muoio come un verme!»
È per questo che scalo la montagna dell’esilio, amici miei.
.
A quell’epoca, il figlioccio piangeva il “Grande pianeta Stalin”,
scriveva versi per il cane omunista del confine albanese che vigilava
sugli imperialisti, nemici del comunismo e delle sue vittorie gloriose:
«Quel che nessuno mi ha dato,/ me l’hai dato tu, mio Partito”.
Odiava persino il sorriso dei nemici del popolo : “In mezzo allo smalto
dei suoi denti abbaglia il vostro terrore bianco».
È per questo che affondo nell’esilio, amici miei.
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Gezim Hajdari a Filettino 2012

Gezim Hajdari a Filettino 2012

Un contadino della mia provincia mi ha raccontato una storia atroce.
Negli anni ’70 faceva il militare al confine con la ex-Jugoslavia.
Una sera, le guardie fermarono un giovane che aveva tentato di passare
il confine. Lo legarono e prima di ucciderlo, gli chiesero come preferiva
morire: con un proiettile o con i morsi del cane comunista!
È per questo che mi viene la pelle d’oca in esilio, amici miei.
.
«Fèrmati, meglio morire con onore che sentire i tuoi racconti macabri!»
.
Il povero ragazzo, con mani e piedi legati con il filo spinato,
scelse la seconda versione, sperando di salvarsi. Ma non ci fu scampo
per lui, la bestia inferocita lo sbranò. Il suo corpo dilaniato
fu gettato in un burrone, come pasto ai lupi e alle volpi.
Il contadino, testimone di tanta crudeltà, è impazzito.
È per questo che ho degl’incubi in esilio, amici miei.)
.
Il figlioccio dedicava versi al segretario del partito comunista,
lasciando come testamento ai giovani, un odio eterno per il “nemico kulak”.
Quando l’Occidente denunciava il terrore del tiranno,
il figlioccio rispondeva che erano solo «Pettegolezzi, Pettegolezzi/…
/I nostri giorni/ marciano insieme al partito/…/ verso orizzonti nuovi.
All’Albania / è nato un figlio, finalmente!»
È per questo che io e l’esilio ci guardiamo negli occhi, amici miei.
.
A quell’epoca, il figlioccio era ossessionato dal sangue dei nemici
e dal proiettile della dittatura del proletariato. Cantava alla canna del fucile,
alle armi, alle mine, al pugno di ferro del popolo, «Questo canto per te
(dedicato al Partito) /…/come una rosa rossa sulla canna del fucile, /…/
L’Albania: un prato sorridente, dove abbagliano le baionette», puntate
sui “traditori”.
È per questo che è crudele l’esilio, amici miei.
.
A quell’epoca, il figlioccio militante sorvegliava i nemici che tentavano
di distruggere “l’arte rivoluzionaria”, scrivendo 1200 pagine dedicate
al dittatore Enver Hoxha. Ancora oggi, le sue “opere monumentali”
sono utilizzati come testi fondamentali nelle scuole,
per educare i giovani alla morale comunista.
È per questo che faccio conoscere l’esilio a tutti, amici miei.
.
La sua opera aveva bisogno di nutrirsi del sangue dei nemici di classe.
Alcuni mesi, dopo la fuga in Francia (1990), aveva dichiarato:
«In un’ Albania libera non è mai esistita e non esiste la censura,
il che fa onore allo Stato socialista». Mentre centinaia tra intellettuali,
poeti e artisti furono massacrati barbaramente dal partito dei figliocci.
È per questo che non sopporto più l’esilio, amici miei.
.
«È stata una mattanza e nessuno ha alzato la voce!»
.
A quell’epoca, i becchini della dittatura riesumavano le ossa
del grande poeta epico Gj. Fishta, per gettarle nelle acque torbide
del fiume Buna, di notte. Mentre il figlioccio del Babbo Enver
riesumava l’opera di Fishta, per maledirla e infangarla con il suo odio
di classe. Lo scopo era quello di cancellare la memoria della letteratura
nazionale non allineata allo stalinismo di Hoxha.
È per questo che esiste l’esilio, amici miei.
.
Il noto poeta F. Reshpja è marcito in carcere, perché aveva osato urlare
ad alcuni giovani della città di Lezha queste parole: «Voi siete poeti
e non dovete leggere le opere del dittatore e nemmeno quelle del figlioccio
del Babbo, che è solo un poeta di corte». E i poeti di Lezha divennero
immediatamente poeti, facendolo imprigionare per ben 17 anni!
È per questo che il mio carcere è l’esilio, amici miei.
.
Uscito di prigione, gli stessi poeti (ex-comunisti, oggi militanti di destra)
o “crocifissero“, perché simpatizzante di sinistra. Lui, che non aveva mai
avuto una tessera di partito. Morì amareggiato, solo, in povertà.
I suoi testi sono stati strappati dalle antologie ufficiali
per ordine del partito e mai inseriti nei libri di scuola.
È per questo che i miei peccati li confesso solo all’esilio, amici miei.
.
«Non so se mi è rimasto qualcosa che mi può far gioire in questo mondo.
Ciò che ho amato, l’ho perduto. È per questo che scrivo». Furono le parole
drammatiche del poeta alla sua uscita dal carcere nel ‘92. Oggi, i suoi
ex-carcerieri si riuniscono a Tirana per celebrarlo! Sono gli stessi
che fucilarono i poeti A.Harapi, L. Shantoja, D. N. Zadeja, T. Xhargjika,
Xh. Koprëncka, B. Çela…
È per questo che la mia gioia e il mio dramma sono l’esilio, amici miei.
.
Pieno di debiti morì anche lo scrittore F. Konica, a Boston. Fu una delle menti
più brillanti che l’Albania abbia mai avuto. Tutta la sua vita è stata dedicata
agli ideali politici della patria e dell’identità nazionale. Konica venne
seppellito con l’aiuto degli albanesi di Ëirton e della Virginia.
Mentre i suoi debiti vennero pagati dalla Federazione Albanese d’America.
È per questo che sono in debito con l’esilio, amici miei.
.
Ti ho sognato ieri sera, Konica. Sei venuto a trovarmi in Ciociaria.
Abbiamo bevuto insieme un bicchiere di vino sardo, parlando a lungo.
Eri molto preoccupato per i tuoi debiti e per le spese di sepoltura.
Ti ho rassicurato e ti ho dato la mia besa, rassicurandoti che avrei pensato
a tutto io, aggiungendoli ai miei debiti.
È per questo che ospito le anime dei martiri in esilio, amici miei.
.

Gezim Hajdari davanti la sua casa natale, nel villaggio Hajdaraj, povincia di Darsìa, Lushnje, Albania 2012

Gezim Hajdari davanti la sua casa natale, nel villaggio Hajdaraj, povincia di Darsìa, Lushnje, Albania 2012

Ma la mafia politica e letteraria comunista chiama il figlioccio del Babbo,
genio, Zio. E lo propone al mondo come un simbolo della nuova letteratura
albanese. Apriti cielo! Diventerà mai l’Albania un paese normale?
Diventeranno mai gli albanesi un popolo civile? Diverranno mai,
i poeti di Tirana, poeti normali?!
È per questo che porgo la mano dall’esilio, amici miei.
.
Non sono per tagliare le teste, ma tutti coloro che hanno goduto dei privilegi
della dittatura e l’hanno inneggiata, non hanno il diritto morale
di condannare il comunismo e i suoi crimini, dopo il suo crollo.
Non hanno il diritto morale e civile di spacciarsi come difensori dei diritti
umani, dopo una mattanza, che loro stessi non hanno mai denunciato
e condannato fino ad oggi.
È per questo che non mi innamoro dell’esilio, amici miei.
.
Non sono per negare del tutto la storia della letteratura albanese
e bruciare libri al rogo, sarebbe ingiusto. Come invece fanno alcuni
miei connazionali, quando intervengono nei convegni all’estero.
Anzi, sono per analizzare la storia della letteratura del mio paese
nel male e nel bene, e storicizzarla. Perché ha dominato la vita culturale
e spirituale di una nazione per mezzo secolo.
È per questo che tollero l’esilio, amici miei.
.
Non sono per condannare poeti e scrittori, ma i colpevoli devono chiedere
almeno perdono per le sofferenze inflitte al proprio popolo e ai loro colleghi,
affinché i giovani ne prendano atto. Papa Ëojtila chiese mea culpa per coloro
che misero al rogo Giordano Bruno e Giovanna D’Arco e per tutti i dolori
e le ferite che la chiesa ha causato agli uomini migliaia di anni fa.
È per questo che non perdo la memoria in esilio, amici miei.
.
Altrimenti la devono smettere di manipolare il consenso della povera gente
e dei poveri lettori (imprigionati nelle stalle del realismo socialista),
affascinati dai loro letterati tiranni. Un solo suggerimento a quest’ultimi:
“Entrate nel silenzio e non provocateci più, lasciateci lavorare e creare.
Nella Storia si entra solo una volta e voi avete perso una grande occasione!”
È per questo che vivo il futuro dell’esilio, amici miei.
.
[…]
.

Gezim  Hajdari con la sua testa in ceramica, opera dell'artista Marica Bisacchi

Gezim Hajdari con la sua testa in ceramica, opera dell’artista Marica Bisacchi

A Tirana non c’è libertà di parola. Il mensile controcorrente Ars è stato messo
a tacere per ordine del Ministero della Cultura, con il volere dei figliocci
del Babbo. I giornali di Tirana, che non sono allineati con il potere,
non percepiscono fondi governativi e i loro direttori sono stati minacciati
di morte, come I. Jubica e B. Kraja.
È per questo che rovino me stesso in esilio, amici miei.
.
[…]
.
Ahimè, la mia Albania! Che brutto destino l’aspetta. Tremendi scenari
si giocano sul palcoscenico del suo corpo martoriato. Il mio paese è passato
da una guerra civile a una divisione tra nord e sud. Solo un governo di unità
nazionale potrebbe salvarlo! L’unico futuro per questa azione è guardare
alla Unione Europea
È per questo che annuncio dall’esilio, amici miei
.
[…]
.
Che tragedia che si è abbattuta sul mio popolo, Geremia!
Come potevo immaginare che avrei vissuto la stessa tragicità del tuo destino!
Beffardo il mio destino, dover trascorre i miei giorni in esilio,
chiuso nella stanza sgombra.
È per questo che conto le piogge dell’esilio, amici miei.
.
Preparate la gogna, innalzate la forca sul patibolo, accendete il rogo, lapidatemi.
Sono pronto ad affrontare il linciaggio. Sono nelle vostre mani.
La legge è dalla vostra parte. Carcerieri, aprite la porta della mia cella!
Inquisitori, processatemi! È per questo che l’esilio non mi assolve, amici miei.

.

Gezim  Hajdari con la sua compagna Iris Hajdari, Marsiglia 2012

Gezim Hajdari con la sua compagna Iris Hajdari, Marsiglia 2012

Gëzim Hajdari, è nato nel 1957, ad Hajdaraj (Lushnje), Albania, in una famiglia di ex proprietari terrieri, i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Nel paese natale ha terminato le elementari, mentre ha frequentato le medie, il ginnasio e l’istituto superiore per ragionieri nella città di Lushnje. Si è laureato in Lettere Albanesi all’Università “A. Xhuvani” di Elbasan e in Lettere Moderne a “La Sapienza” di Roma.
In Albania ha svolto vari mestieri lavorando come operaio, guardia di campagna, magazziniere, ragioniere, operaio in una azienda per la bonifica dei terreni, due anni come militare con gli ex-detenuti, insegnante di letteratura alle superiori dopo il crollo del regime comunista; mentre in Italia ha lavorato come pulitore di stalle, zappatore, manovale, aiuto tipografo. Attualmente vive di conferenze e lezioni presso l’università in Italia e all’estero dove si studia la sua opera.
Nell’inverno del 1991, Hajdari è tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, partiti d’opposizione, e viene eletto segretario provinciale per i repubblicani nella suddetta città. È cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës, nel quale svolge la funzione di vice direttore. Allo stesso tempo scrive sul quotidiano nazionale Republika. Più tardi, nelle elezioni politiche del 1992, si presenta come candidato al parlamento nelle liste del PRA.
Nel corso della sua intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione, ha denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, gli abusi, la corruzione e le speculazioni della vecchia nomenclatura di Hoxha e della più recente fase post-comunista. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce subite, è stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal proprio paese.
La sua attività letteraria si svolge all’insegna del bilinguismo, in albanese e in italiano. Ha tradotto vari autori. La sua poesia è stata tradotta in diverse lingue. È stato invitato a presentare la sua opera in vari paesi del mondo ma non in Albania, dove il suo contributo letterario viene ignorato volutamente dalla cultura di potere. È presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale e cittadino onorario per meriti letterari della città di Frosinone. È considerato uno dei maggiori poeti contemporanei.
Dirige la collana di poesia “Erranze” per l’editore Ensemble di Roma. È presidente onorarario della rivista internazionale on line “Patria Letteratura” (Roma), nonché membro del comitato internazionale della Revue électronique “Notos” dell’Université Paul-Valery, Montpellier 3. Ha vinto numerosi premi letterari. Dal 1992, vive come esule in Italia.
Opere
Opere pubblicate in Albania
  • Antologia e shiut, “Naim Frashëri”, Tirana 1990;
  • Trup i pranishëm / Corpo presente, I edizione “Botimet Dritëro”, Tirana 1999 (in bilingue, con testo italiano a fronte).
  • Gjëmë: Genocidi i poezisë shqipe, “Mësonjëtorja”, Tirana 2010
 
Opere in bilingue pubblicate in Italia
  • Ombra di cane/ Hije qeni, Dismisuratesti, Frosinone 1993
  • Sassi controvento/ Gurë kundërerës, Laboratorio delle Arti,Milano 1995
  • Antologia della pioggia/ Antologjia e shiut, Fara, Rimini 2000
  • Erbamara/ Barihidhët, Fara, Rimini 2001
  • Erbamara/ Barihidhët, (arricchita con nuovi testi rispetto alla prima edizione). Cosmo Iannone Editore Isernia 2013
  • Stigmate/ Vragë, Besa, 2002. II edizione Besa, Lecce 2007, III° edizione, Besa 2016
  • Spine Nere/ Gjëmba të zinj, Besa, 2004. II edizione Besa, Lecce 2006
  • Maldiluna/ Dhimbjehëne,Besa, 2005. II edizione Besa, Lecce 2007
  • Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit, Fara, Lecce 2005,
  • Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit, II edizione arricchita e ampliata, Fara, 2007
  • Puligòrga/ Peligorga, Besa, Lecce 2007
  • Poesie scelte 1990 – 2007, EdizioniControluce, Lecce 2008
  • Poesie scelte 1990-2007, II edizione (arricchita con nuovi testi). EdizioniControluce, Lecce 2014
  • Poezi të zgjedhura 1990 – 2007 (versione in lingua albanese di Poesie scelte), Besa, Lecce 2008
  • Corpo presente/ Trup i pranishëm, Besa, Lecce 2011
  • Eresia e besa/ Nur. Herezia dhe besa, Edizioni Ensemble, Roma 2012
  • I canti dei nizam/ Këngët e nizamit(i canti lirici orali dell’800,con testo albanese a fronte). Besa, Lecce 2012
  • Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista/ Rroftë kënga e gjelit në fshatin komunist (con testo albanese a fronte). Besa, Lecce 2013
  • Delta del tuo fiume / Grykë e lumit tënd. Edizioni Ensemble, Roma 2015
  • Poesie scelte 1990 – 2015, Edizioni Controluce, Lecce 2015
 
Libri reportage di viaggio
  • San Pedro Cutud. Viaggio nell’inferno del tropico, Fara, Rimini 2004
  • Muzungu, Diario in nero, Besa, Lecce 2006
 
Monografie sull’opera di Hajdari
  • Poesia dell’esilio. Saggi su Gëzim Hajdari, a cura di Andrea Gazzoni. Cosmo Iannone Editore, Isernia 2010.
  • La besa violata. Eresia e vivificazione nell’opera di Gëzim Hajdari – di Alessandra Mattei. Edizioni Ensemble, Roma 2014
  • In balia delle dimore ignote. La poesia di Gëzim Hajdari – di Sara Di Gianvito. Besa, 2015
 
Traduzioni
Ha tradotto in albanese:
  • L’antologia Poesie /Poezi, ( con testo italiano a fronte) di Amedeo di Sora. “Botimet Dritëro”, Tirana (Albania), 1999.
  • Forse la vita è un cavallo che vola, / Ndoshta jeta është një kalë fluturak, (con testo italiano a fronte). Edizioni Empiria, Roma 2000.
  • L’antologia/ Eshka dhe guri/ Il muschio e la pietra (con testo italiano a fronte) di Luigi Manzi. Besa, Lecce 2004.
Ha tradotto in italiano:
  • I canti dei nizam/ Këngët e nizamit(i canti lirici orali dell’800,con testo albanese a fronte). Besa, Lecce 2012.
  • Leggenda della mia nascita/ Legjenda e lindjes sime (con testo albanese a fronte) di Besnik Mustafaj. Edizioni Ensemble, Roma 2012
  • Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista/ Rroftë kënga e gjelit në fshatin komunist (con testo albanese a fronte). Besa, Lecce 2013
  • Poesie scelte / Poezi të zgjedhura (con testo albanese a fronte) di Faslli Haliti. EdiLet, Roma 2015
 
È co-curatore in italiano
  • dell’antologia I canti della vita(con testo arabo a fronte) del maggior poeta tunisino del Novecento, Abū’l-Qāsim Ash-Shābb, Di Girolamo Editore, Trapani 2008.
  • È co – curatore, insieme ad Andrea Gazzoni, dell’antologia Dove le parole non si spezzano(con testo originale a fronte) di Gémino H. Abad (Edizioni Ensemble, 2015. È la prima pubblicazione in italiano delle poesie di Gémino H. Abad)

 

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STIGMATA, Antologia bilingue italiano-inglese Shearsman Books, Bristol, trad. Cristina Viti. Presentazione il 9 febbraio 2016, h 19,30, a Swedenborg Hall, 20/21 Bloomsbury Way, Londra. Presentano il libro: l’editore Tony Frazer, Cristina Viti e Ian Seed (prof. all’University of Lancaster and the University of Cumbria). È presente l’Autore. – Gëzim Hajdari / Erbamara Barihidhët Cosmo Iannone Editore, 2013, Dodici poesie, con un Commento di Giuseppina Di Leo

Gezim Hajdari Stigmata, Shearsman Books, Bristol 2016Shearsman Books – Gezim Hajdari – Stigmata Translated by Cristina Viti. Bilingual Italian/English edition. Published November 2015. Paperback, 142pp, 9 x 6ins. ISBN 9781848614413 [Download…

SHEARSMAN.COM

http://www.shearsman.com/…/pr…/5914-gezim-hajdari—stigmata

http://www.shearsman.com/shearsman-reading-events

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Hajdari Gëzim / Erbamara Barihidhët Cosmo Iannone Editore, 2013 con un Commento di Giuseppina Di Leo

Hajdari Gëzim / Erbamara Barihidhët – 1. ed. – Isernia: Cosmo Iannone Editore, 2013 (Kumacreola: Collana di parole migranti e studi transculturali diretta da Armando Gnisci). – pag. 83 € 10,00. Testo albanese, con traduzione a fronte. In appendice: Monumento dell’erba amara, di Andrea Gazzoni.

Nota dell’autore

 Erbamara, scritta nel 1976 mentre frequentavo l’ultimo anno delle superiori nella città di Lushnje, in Albania, non venne pubblicata dall’editore del regime “N. Frashëri” di Tirana.

Secondo la censura: «i testi della raccolta non trattano il tema del nostro villaggio socialista; l’eroe delle poesie è un solitario che sfugge ai suoi coetanei, all’Associazione dei Pionieri, alla realtà; inoltre nei versi sono assenti le trasformazioni che hanno portato il socialismo in campagna sotto la guida del Partito…». A quell’epoca la silloge aveva come titolo Il diario del bosco. Ho tradotto i testi in italiano nel 1999. Due anni dopo, nel 2001, l’opera è stata pubblicata per la prima volta da Fara Editore. Questa nuova pubblicazione è ampliata ed include testi nuovi rispetto alla prima edizione. Offrendo ai lettori questi versi è come se tornassi indietro di molti anni nel gelido e inospitale inverno della dittatura albanese dove ebbe inizio il mio percorso poetico.

Gëzim Hajdari

gezim hajdari_foto

Gezim Hajdari

Commento di Giuseppina Di Leo

«Sogno la morte ogni volta / che torna la primavera. / I gemiti si perdono piano piano / nella nudità della pioggia. //…». La condizione di profugo si avverte immediatamente sin dalla prima poesia della raccolta Erbamara. Ci sono versi «gioiosi e tristi», di una nudità panica, nei quali il senso della perdita prevale come coscienza di un’età incisa nei segni del corpo («Di fumo e alcool / odora così presto il mio corpo…»).

È una paura antica, di morte, che si fa strada e il poeta la nomina, quasi per scongiurarla: «Chissà quale mare oscuro un giorno / stroncherà la mia voce.». Allora a premere è la precarietà della dimensione umana, che si richiama alla dimensione del tempo e al suo scorrere. Eppure, in questo caso, la parola si fa messaggero del corpo. Il poeta ne è cosciente, e come Eliot in The waste land, vede la morte in ciò che la vita, esibendosi, ci  modella a suo piacimento con i nostri cambiamenti.

Il poeta sa che a sostenerlo e guidarlo è la parola, portatrice del canto della sua terra; mentre, se venisse a mancargli la voce la terra, da materna, acquisterebbe una dimensione famelica, che incessantemente lo divorerebbe. È come se nascondesse un fondo oscuro e ambiguo la poesia della lontananza di Hajdari, una quasi non-esistenza nel disgregarsi del corpo-parola, conseguenza diretta della separazione fisica dai luoghi d’origine. Di tanta morte il poeta continuerà a cantare, e per quella terra che non rivedrà ne avvertirà incessantemente la nostalgia,: «…Percorrerò per l’ultima volta / la strada dove correvo nell’infanzia. / Se sarà al crepuscolo, / le lucciole illumineranno la nuova dimora.» (Mi troveranno nei campi trebbiati).

Si direbbe quasi che un disegno premonitore sia al fondo della vita di Hajdari (la data di nascita del poeta coincide con la morte del dittatore Stalin). Un evento ineluttabile è dunque la poesia, che è poesia del dolore, del distacco dalle origini e perdita della parola. Una parola che era già eco nel suo pronunciarsi («Gli stornelli che scavavano nella roccia / come se fossero impazziti…»).

Persino la morte si mostrerà spietata, né porterà riscatto all’esistenza: «Anche nell’aldilà mi suonerà / la maledizione nell’alba: / «Non avrai mai fortuna, che tu possa morire / per strada, come un cane!…» (Anche nell’aldilà mi suonerà). La morte, nella sua accezione di annullamento del ricordo andrebbe intesa come pensiero immanente che trova il suo posto nel luogo della poesia: essa condurrà un corpo giovane tra le rovine, per riportare in vita, in maniera, se possibile, ancor più atroce, i richiami ancestrali della terra-madre. Solo così agendo, luogo e memoria diventeranno tutt’uno e quasi legami imprescindibili e, in tal modo, con essi, più dolorosi si faranno i ricordi.

I due temi  ricorrenti in Erbamara, tempo e ricordo, sono al centro di tutta la produzione del “contadino” Hajdari. Come scrive Andrea Gazzoni: «L’erba dei campi di Darsìa è amara, ma più vera e più durevole di quell’allucinazione collettiva che è il potere. […] Aruspice che legge i segni delle colline di Darsìa, il poeta di Erbamara colleziona e annota i vaticini per trovare una chiave capace di rompere la maledizione di un presente sempre uguale, a cui ci condanna il «fango incanutito da secoli», il fango che «si unisce all’eterno» impastando la stessa illusoria permanenza del regime dittatoriale. Ma ogni presagio colto è tanto più sinistro quanto è nitido per i sensi. …».

Gezim Hajdari nel suo studio

Gezim Hajdari nel suo studio

Dal momento che ogni cosa è andata perduta e man mano che il ricordo si perde «sul volto del tempo», «Come una pelle nera», il poeta s’impone la ricerca costante de perché, mentre intorno persino i frutti del suo giardino, cadendo, fanno eco «come brutti sogni.» (Nulla albeggia).

Una elegia del dolore è Erbamara: la brutalità degli anni dittatoriali è infissa nel corpo e risuona nella voce. Il destino sembra dunque segnato e lo perseguiterà «come ombra». Eppure la morte non gli fa paura, se consente la libertà del ricordo: «Due cose porterò con me / nel paradiso promesso: / i pianti in primavera delle prede / e i canti dei gitani.» (Ora vago tormentato nel paese).

«Immensa come te, collina, / è la mia angoscia. / Ogni verso ardente che m’ispiri / è amore e tormento.» Il poeta rievoca ovunque l’habitat naturale come termine di paragone della propria esistenza, immedesimandosi con la natura e con gli esseri che la abitano. In particolare, sono le creature della notte quelle che sente a lui più simili, quando si liberano nell’aria e danno vita a «sogni e speranze nel nulla», fino a al confondersi di «grida e voci» (Immensa come te, collina).

Tempo e memoria sono irrevocabilmente persi in «incendi e abissi». Al poeta non resta che domandarsi che fine abbiano fatto i suoi anni giovanili, così lontani come la giovinezza: «Dove si nascondono i miei anni verdi? / Da collina a collina, / la pelle dell’infanzia perduta / suona e trema al vento.» Gli echi del paesaggio della Darsìa chiamano il poeta quasi a volerlo consolare per la distanza che lo separa; solo un dialogo immaginario gli permette di rispondere dicendo che la sua presenza è sempre lì.

L’andamento piano è una costante delle liriche di questa raccolta, ne misura insieme forza e capacità espressiva. Ma, la poesia, è in grado di esaudire il desiderio? Sembrerebbe di no. Difatti, alla domanda: «Mia patria, / perché quest’amore folle per te?», il poeta nega possa esserci un risarcimento per mezzo dei versi che, anzi, segnano la lacerazione tracciandone maggiormente la ferita:

Mia patria,
perché quest’amore folle per te?
Tu mi hai fatto nascere
per essere la tua ferita.
I miei versi m’inseguono
come vecchi assassini.
Ogni notte si rompe qualcosa
nel profondo del mio ghiaccio.

Gezim Hajdari a Udine 2011

Gezim Hajdari a Udine 2011

Meglio però non lasciarsi ingannare, poiché è dal tormento dei versi che nasce il bisogno comunicativo del poeta. Quando la poesia eleva il «luogo» essa funge da anello di trasmissione di un’idea che diventi «condivisibile», come magistralmente sottolinea Gazzoni: «Esilio in patria ed esilio fuori dai confini si richiamano l’un l’altro attraverso la ricorrenza, nell’opera di Hajdari, di posture, situazioni, gesti e stilemi. Ma ora fermiamoci qui, sulla soglia finale di Erbamara, senza addentrarci nella poesia che Hajdari ha composto in seguito. Lasciamo al lettore il gusto di prendere in mano i singoli volumi o l’antologia delle Poesie scelte, leggendo i testi in sequenza come un unico ciclo poetico, coerente e compatto pur nelle sue trasformazioni, tutte direttamente o indirettamente legate alla terra di Darsìa e alla sua memoria. Proprio questa centralità del luogo nella poesia di Erbamara (e poi di tutta l’opera hajdariana) rivela un’istintiva affinità con i poeti che cominciano dal loro luogo particolare, per quanto marginale sia, per farne poi nel linguaggio e nella memoria della letteratura un luogo di tutti, un luogo comune (dicibile, condivisibile, in una parola: traducibile)…».

Nessuno sa se ancora resisto
in quest’angolo di terra arsa
e scrivo a notte fonda ubriaco
versi gioiosi e tristi.
Sogno la morte ogni volta
che torna la primavera.
I gemiti si perdono piano piano
nella nudità della pioggia.
Come brucia in fretta
la mia giovinezza senza richiami!
Ovunque dintorno mi sorridono
rose e coltelli.
Di fumo e alcool
odora così presto il mio corpo.
Chissà quale male oscuro un giorno
stroncherà la mia voce.
*
Mi troveranno nei campi trebbiati
senza respiro tra le labbra,
sdraiato sulla paglia che adoravo
con i colombi che beccano accanto.
Sul volto il fazzoletto bianco di mia madre,
mi porteranno nella stanza natale:
«Povero ragazzo, quanto ha sofferto!»
dirà la gente intorno al mio corpo.
Dopo avermi lavato
con l’acqua fresca del pozzo,
mi metteranno sul carro del grano
tirato dai buoi di campagna.
Percorrerò per l’ultima volta
la strada dove correvo nell’infanzia.
Se sarà al crepuscolo,
le lucciole illumineranno la nuova dimora.

Gezim Hajdari, Siena 2000 (1)

Gezim Hajdari Siena 2000

Anche nell’aldilà mi suonerà
la maledizione nell’alba:
«Non avrai mai fortuna, che tu possa morire
per strada, come un cane!»

Ricorderò con timore
il mio dio crudele,
la melagrana spaccata
sotto la luna piena.

L’anatra che si tuffava nel lago,
i tori insanguinati.
Come un segno lugubre
il richiamo della volpe nel buio.

Gli stornelli che scavavano nella roccia
come se fossero impazziti,
le spine nere che cacciavo con l’ago
dai piedi di mia madre.

*

Ora vago tormentato nel paese
come uno spirito accoltellato.
Non mi fa più paura la morte
né il freddo della sera.

So chi mi ha amato
nella collina delirante.
Un amore eterno:
il fango e il buio invernale.

Dietro le spalle m’insegue
come ombra il destino.
Tra i calmanti notturni scelgo
il veleno della vipera.

Due cose porterò con me
nel paradiso promesso:
i pianti in primavera delle prede
e i canti dei gitani.

*

Nulla albeggia
sul volto del tempo.

Come una pelle nera
la notte balcanica.

Nell’abisso della valle
polvere i miei desideri,
cenere le mie stagioni.

Cosa cerco
in cima alla collina
di un paese tormentato
e di ubriachi?

Fuori, nel giardino,
il vento fa cadere le cotogne nel fango
come brutti sogni.

Gezim Hajdari Siena 2000

Gezim Hajdari Siena 2000

Appoggiati al muro della casetta,
nell’ultimo giorno d’autunno,
prendiamo il sole che picchia,
io e una lucertola senza coda.

Nulla accade in questa provincia,
gli stessi uomini, gli stessi i volti.
Tutto si trascina con fatica
nel fango incanutito da secoli.

D’ora in poi, nell’arena del gelo,
ci sentiremo soli nella collina cupa.
Io e il falco combatteremo
con i denti e gli artigli.

Sdraiato sulla terra umida
assaporo l’erbamara dei prati.
Negli abissi dei cieli impazziti
si perde il mio sguardo.

Non lontano dalla mia dimora,
dove si fecondano i fulmini,
il vento del mare porta come misericordia
le voci degl’internati nei Campi .

*

Non m’interessa
quale sarà il mio destino.
Se si nasconde qualcosa intorno
no, non voglio saperlo.

Ho vissuto così a lungo
nel mio terrore.
Ho vagato per le strade Hajdaraj
come nella mia tomba.

So ciò che mi attende
dietro ogni crepuscolo.
In un mondo di coltelli
non chiedo di salvarmi.

*

Spesso a notte fonda
entra una strana voce nella mia stanza,
giunge sempre alla stessa ora
dal profondo di un pozzo scuro.

Siede accanto al mio letto
cupa e minacciosa.
Quante volte mi sono svegliato
in ansia e spavento.

«Non ti spaventare fanciullo –
mi ripete ogni volta al buio –
le ombre che ti si affacciano nei sogni,
non sono che chimere.

Vivrai a lungo da guerriero
tra vipere e corvi.
Per compagni di viaggio avrai
solo spine e pietre.

Vai avanti per la tua strada,
non dar retta ai finti oracoli.
Il tuo seme di contadino
inciderà sul fango albanese.»

Poi si dilegua nel buio
del fondo del pozzo scuro,
per tornare ogni notte alla stessa ora
più cupa e minacciosa.

Gezim Hajdari, Siena 2000 (2)

Gezim Hajdari, Siena 2000

Luna,
è fuggita anche questa stagione
senza un bacio
nella notte bianca.

Cielo,
è passato anche quest’anno
senza una ragione,
con la sete dei pozzi prosciugati
nelle nostre labbra nere.

Valle,
sta andando anche questo secolo
come un toro abbattuto,
con il tempo che ci scivola tra le dita
e il canto del cuculo da collina a collina.

*

Non piangere,
è il pettirosso che corre
sul ghiaccio del ruscello.

Presto fiorirà il mandorlo
e gli uccelli lirici ci canteranno
nelle vene.

Non piangere,
ho percorso la tua ferita
per raggiungerti.
*

Mia patria,
perché quest’amore folle per te?

Tu mi hai fatto nascere
per essere la tua ferita.

Dove nascondermi
nella collina brulla?

I miei versi m’inseguono
come vecchi assassini.

Ogni notte si rompe qualcosa
nel profondo del mio ghiaccio.

*

Gli anni si sciolsero,
ad uno ad uno si persero.
A stormi le rondini
nei cieli volarono.

Nel cortile lasciarono
piume e richiami.
Sulle grondaie delle casette
nidi e rumori.

Altri anni giunsero
di tuoni e gioia.
Altri voli di rondini
abbandonarono i nidi.

Nelle colline di Darsìa,
di buio e freddo,
invano attendiamo
una chimera all’orizzonte.

Le primavere fuggirono,
per gli abissi gocciolarono.
Come i cieli grigi
anche noi invecchiamo.

Gëzim Hajdari, è nato nel 1957, ad Hajdaraj (Lushnje), Albania, in una famiglia di ex proprietari terrieri, i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Nel paese natale ha terminato le elementari, mentre ha frequentato le medie, il ginnasio e l’istituto superiore per ragionieri nella città di Lushnje. Si è laureato in Lettere Albanesi all’Università “A. Xhuvani” di Elbasan e in Lettere Moderne a “La Sapienza” di Roma.
In Albania ha svolto vari mestieri lavorando come operaio, guardia di campagna, magazziniere, ragioniere, operaio di bonifica, due anni come militare con gli ex-detenuti, insegnante di letteratura alle superiori dopo il crollo del regime comunista; mentre in Italia ha lavorato come pulitore di stalle, zappatore, manovale, aiuto tipografo. Attualmente vive di conferenze e lezioni presso l’università in Italia e all’estero dove si studia la sua opera.
Nell’inverno del 1991, Hajdari è tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, partiti d’opposizione, e viene eletto segretario provinciale per i repubblicani nella suddetta città. È cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës, nel quale svolge la funzione di vice direttore. Allo stesso tempo scrive sul quotidiano nazionale Republika. Più tardi, nelle elezioni politiche del 1992, si presenta come candidato al parlamento nelle liste del PRA.
Nel corso della sua intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione, ha denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, gli abusi, la corruzione e le speculazioni della vecchia nomenclatura di Hoxha e della più recente fase post-comunista. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce subite, è stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal proprio paese.
La sua attività letteraria si svolge all’insegna del bilinguismo, in albanese e in italiano. Ha tradotto vari autori. La sua poesia è stata tradotta in diverse lingue. È stato invitato a presentare la sua opera in vari paesi del mondo, ma non in Albania. Anzi, la sua opera, è stata ignorata cinicamente dalla mafia politica e culturale di Tirana.
È presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale e cittadino onorario per meriti letterari della città di Frosinone.
Dirige la collana di poesia “Erranze” per l’editore Ensemble di Roma. È presidente onorarario della rivista internazionale on line “Patria Letteratura” (Roma), nonché membro del comitato internazionale della Revue électronique “Notos” dell’Université Paul-Valery, Montpellier 3.
Considerato tra i maggiori poeti viventi, ha vinto numerosi premi letterari.
Dal 1992, vive come esule in Italia.
Opere
Ha pubblicato in Albania
  • Antologia e shiut, “Naim Frashëri”, Tirana 1990;
  • Trup i pranishëm / Corpo presente, I edizione “Botimet Dritëro”, Tiranë 1999 (in bilingue, con testo italiano a fronte).
  • Gjëmë: Genocidi i poezisë shqipe, “Mësonjëtorja”, Tirana 2010
 
Ha pubblicato in Italia in bilingue
  • Ombra di cane/ Hije qeni, Dismisuratesti 1993
  • Sassi controvento/ Gurë kundërerës, Laboratorio delle Arti,1995
  • Antologia della pioggia/ Antologjia e shiut, Fara, 2000
  • Erbamara/ Barihidhët, Fara, 2001
  • Erbamara/ Barihidhët, (arricchita con nuovi testi rispetto alla prima edizione). Cosmo Iannone Editore 2013
  • Stigmate/ Vragë, Besa, 2002. II edizione Besa 2007
  • Spine Nere/ Gjëmba të zinj, Besa, 2004. II edizione Besa 2006
  • Maldiluna/ Dhimbjehëne,Besa, 2005. II edizione Besa 2007
  • Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit, Fara, 2005,
  • Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit, II edizione arricchita e ampliata, Fara 2007
  • Puligòrga/ Peligorga, Besa, 2007
  • Poesie scelte 1990 – 2007, EdizioniControluce 2008
  • Poesie scelte 1990-2007, II edizione (arricchita con nuovi testi). EdizioniControluce 2014
  • Poezi të zgjedhura 1990 – 2007 (versione in lingua albanese di Poesie scelte), Besa, 2008
  • Poezi të zgjedhura 1990 – 2007, II edizione (versione in lingua albanese di Poesie scelte), Besa, 2014
  • Corpo presente/ Trup i pranishëm, Besa 2011
  • Eresia e besa/ Nur. Herezia dhe besa, Edizioni Ensemble 2012
  • I canti dei nizam/ Këngët e nizamit(i canti lirici orali dell’800,con testo albanese a fronte). Besa Editrice 2012
  • Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista/ Rroftë kënga e gjelit në fshatin komunist (con testo albanese a fronte). Besa 2013

giuseppina di leo1

giuseppina di leo

Giuseppina Di Leo. Nasco a Bisceglie (Bt) nel 1959, sono laureata in Lettere; frutto della mia tesi di laurea (2003) è il saggio bio-bibliografico su Pompeo Sarnelli (1649-1730), dal titolo: Pompeo Sarnelli: tra edificazione religiosa e letteratura (2007). Ho pubblicato i seguenti libri di poesie: Dialogo a più voci (LibroitalianoWorld, 2009); Slowfeet. Percorsi dell’anima (Gelsorosso, 2010); Con l’inchiostro rosso (Sentieri Meridiani Edizioni, 2012); Il muro invisibile (LucaniArt, 2012). Mie poesie, un racconto e interventi di critica letteraria sono ospitati su libri e riviste (Proa Italia, Poeti e Poesia, Limina Mentis Editore, Incroci), nonché su blog e siti dedicati alla poesia.

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Note a margine della poesia di Faslli Haliti – “L’uomo è forte della violenza che tenta di schiacciarlo, imbavagliarlo, spegnerlo” – Lettura critica di Marco Onofrio con una scelta delle poesie

Faslli Haliti copertina

Faslli Haliti “Poesie scelte (1969-2004)”, a cura di Gëzim Hajdari (EdiLet, 2015, pp. 156, Euro 16)

La poesia di Faslli Haliti è potente e persuasiva perché fatta di parole che gemmano per secrezione dal dolore patito e attraversato; distillate, nella fattispecie, dall’ingiustizia dei 15 anni di confino politico inflitti al poeta dissidente dal regime sanguinario di Enver Hoxha. Il tema principale sollevato dal volume “Poesie scelte (1969-2004)”, a cura di Gëzim Hajdari (EdiLet, 2015, pp. 156, Euro 16), che propone la prima traduzione in italiano, con testo a fronte albanese, delle poesie di Faslli Haliti, è il rapporto degli intellettuali coi mille volti del Potere, le sue maschere cangianti, le sue realtà mistificate, le sue infami ingiustizie, le sue ambigue coercizioni. Ovvero, la violenza eterna della storia. Le reazioni degli intellettuali sono altrettanto molteplici, varie ed ambigue, ma sostanzialmente condensabili in un poker di opzioni fondamentali: integrarsi; opporsi; fingere di integrarsi; fingere di opporsi. Haliti si è opposto senza fingere, con tenacia e coerenza irremovibili, e ne ha pagato in prima persona le conseguenze.

ARRIVEDERCI

La direzione:
A sinistra!
Io
dritto.

La direzione:
A destra!
Io
dritto, avanti.

L’ordine:
Dietrofront!
Io
sempre avanti.

Arrivederci miei capitani!

Manifestazione a Tirana, 1990

Manifestazione a Tirana, 1990

[Riflessione a latere]: forse la perfetta democrazia nuoce alla forza dell’arte. La grande arte presuppone l’orrore della storia, l’ingiustizia della società, il grottesco dell’uomo. La poesia ha bisogno di prorompere come grido straziato dall’ingiustizia del mondo. Di sognare un mondo diverso da realizzare. Di avere nemici da colpire con le parole. Se al poeta che canta l’amore diamo l’amore, smette di cantare; allo stesso modo, forse, se alla poesia civile togliamo il motivo del dissenso, perde la sua efficacia. Infatti, quando sono caduti i regimi oppressivi dell’est europeo, si è affievolita anche la grande poesia di quei Paesi. Al clamoroso potere dispotico degli antichi regimi (dittature del ‘900 comprese) è subentrata la versione “soft”, più adatta alla società liquida che stiamo oggi vivendo, dove imperano per vie occulte le oligarchie finanziarie e dove, sotto l’apparente democrazia, lo scenario storico soffre il degrado quasi irreversibile di una corruzione generalizzata. Ammoniva A. de Tocqueville ne “La democrazia in America” (1840): «Vedo chiaramente nell’uguaglianza due tendenze: una che porta la mente umana verso nuove conquiste e l’altra che la ridurrebbe volentieri a non pensare più. Se in luogo di tutte le varie potenze che impedirono o ritardarono lo slancio della ragione umana, i popoli democratici sostituissero il potere assoluto della maggioranza, il male non avrebbe fatto altro che cambiare carattere». Tocqueville già intravedeva la metamorfosi del dispotismo nella forma moderna dello Stato-Massa: una folla smisurata di «esseri simili ed uguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri», che poi è quello che vediamo ogni giorno materializzarsi davanti ai nostri occhi, sotto forma di “pescicani”, mostri della porta accanto, opportunisti spregiudicati, procacciatori di prebende e galoppini della politica degenerata.

La poesia di Faslli Haliti s’immerge dunque nel caos infernale della storia, come per estrarne il peso del mondo e dell’uomo, tra gli equilibri delle forze in gioco, nell’incrocio dei tiranti, dei nodi, dei grovigli, delle corde, delle pulegge, delle ruote, degli anelli, dei cursori, ovvero nell’eterna dialettica di spinte e relative controspinte, che tiene in piedi il palcoscenico. Alla violenza devastatrice dell’uomo si oppone la naturalità del “principio gravitazionale newtoniano”: l’aderire dei gravi e delle forze alle leggi del cosmo; la misteriosa necessità per cui ogni cosa è ferma nell’inerzia di se stessa, al centro del posto assegnatole nel mondo.

La strana capacità d’ogni goccia
di disegnare cerchi con esattezza.
così precisi forse non li trovi
nemmeno in geometria.

Haliti sembra provare meraviglia – come un viandante assetato che scopra un’oasi in mezzo al deserto – per la purezza cristallina di queste leggi, così lontane dalla slealtà e dalla inaffidabilità di quelle umane. La poesia diventa la descrizione asciutta e oggettiva, ma suggestiva (per sottrazione e scarnificazione), di ciò che accade: una specie di mappa radiografica del divenire – da cui l’importanza del verbo-motore, che innesca e articola il meccanismo –, dove il poeta, espletati i suoi compiti “cronachistici”, cerca l’essenza del fenomeno: «Le cose scompaiono / i simboli restano». Se dunque «non c’è nulla di eterno» che cosa resta in fondo a ciò che passa? In primo piano è la natura, nella sua capacità di configurarsi a simbolo: dell’essere, del divenire, dell’esperienza. I rami che «attendono il peso del frutto desiderato» possono benissimo parlarci di noi, di quello che noi siamo nel profondo. Haliti segue impassibile i cicli della natura, l’arrivo delle stagioni, l’appartenenza al tempo di ogni cosa. «La gemma fa sciogliere la neve con il fuoco del fiore, / il fiore annuncia la primavera, / si trasforma in frutto / e cade a terra con onore». Haliti dà voce soprattutto all’autunno, stagione fulgida della maturità piena, degli alberi «come coppe d’oro».

Manifestazione ufficiale a Tirana

Manifestazione ufficiale a Tirana

Emerge, da questo “spettacolo” cosmico, la dialettica che da sempre oppone l’uomo alla materia, i tempi storici ai tempi biologici, la cultura alla natura. Ogni cosa dona se stessa (non può fare altro), e ogni frutto ha la sua stagione: l’uomo, invece, può donare ininterrottamente il mondo intero perché, nel raggio delle sue potenzialità creatrici, lo abbraccia e lo contiene dall’interno (si pensi al De hominis dignitate di Giovanni Pico della Mirandola, 1486).

VEDO

Nel nocciolo del frutto vedo il seme,
nel seme vedo il fiore,
nel fiore il frutto,
nel frutto il tronco,
nel tronco vedo i rami,
nei rami le foglie,
vedo di nuovo i fiori,
il nuovo frutto,
il nuovo seme
che attende di germogliare.

Solo il rigenerarsi umano non ha stagioni!

Se c’è un fondo di orrore già nella natura («l’allodola finisce tra gli artigli del falco, e la primavera «non si dimentica mai / di far risvegliare ogni anno / anche le vipere e le serpi»), un orrore maggiore si cela in fondo alla storia umana, che è vicenda infinita di guerre, violenze, ingiustizie, prevaricazioni. I “fiori neri” appartengono soltanto all’uomo, la natura non ne produce.

Scontri-a-Tirana 2001

Scontri-a-Tirana 2001

L’UOMO CON LA PISTOLA

Lui aspetta che tiri vento
non per vedere gli alberi spogli,
non per veder cadere le foglie gialle,
ma per far alzare il lembo della giacca
e far vedere la pistola nella cintola.

Lui aspetta che venga la primavera,
non per mietere e falciare,
ma per togliere la giacca
e far vedere sotto la giacca
la pistola.

Occorre difendere gli uomini dagli uomini. Né vale, a riparo, la sanità ancestrale della cultura contadina, da cui Haliti proviene, a suo modo feroce ma intrinseca ai cicli del tempo, “innocente” anche quando barbarica, con la mitologia delle semplici cose, il lavoro, il sudore, il profumo del pane, la sacralità dei gesti rituali.

Mia madre sfornava il pane
e lo riponeva nella madia;
il volto del pane era madido di sudore
come la fronte di mio padre quando lavorava.

Sono ricordi che consentono ad Haliti di dar fondo alla sua essenza di uomo e alla sapida corposità delle sue parole:

La luna lievitava nella brace delle stelle
come focaccia gialla di mais
e profumo di pane
diffondeva in cielo.

Lo sguardo di Haliti è, suo malgrado, intriso di disincanto. «Non credete ai bei fiori senza frutta!». E ancora: «Pozzanghera perché sei così torbida? / Per nascondere il fondo / e sembrare profonda!» E infine: «nessuno ho ascoltato / a nessuno ho creduto, / neanche a Dio, / né agli dèi. // Figuriamoci ad un Partito». Ne viene un canto sommesso che sale dal cuore delle dissonanze, nonostante i traumi e i drammi patiti. Quest’armonia violata è come una ferita senza dove, un dolore che punge ma non si rintraccia. Si legga ad esempio

Faslli Haliti

Faslli Haliti

BELLISSIMO VERDE

Non ci parliamo più,
i nostri discorsi,
la nostra intimità di un tempo,
come pietre di un rudere sgretolato.

Coperto da un bellissimo verde.

E si colga la sottile inquietudine che serpeggia fra le trame umbratili di questo idillio:

I RUSCELLI

Dopo la pioggia,
il sole
tramonta
con un riflesso aureo
al crepuscolo.
I ruscelli
scorrono nei campi
come catene d’oro.
Sotto la minaccia
delle nuvole,
nel petto della campagna,
s’intrecciano ombre e arcobaleni.

Il disincanto non gli impedisce di vedere la bellezza del mondo (amori, «visciole labbra», occhi fuggenti, corpi avvenenti), ma gli impone di passarci accanto senza aderirvi, quasi con passo felpato, perché la vita e la bellezza scappano via da tutte le parti, come l’acqua dal cavo di una mano, e chi vi si identifica troppo si ritrova coinvolto dalla loro fine; la poesia, invece, rintraccia l’eternità del fenomeno fuggente, e ha bisogno – distillando, come in questo caso, il liquore forte dell’esistenza – di riservare alle parole lo spazio preventivo di un “a parte” da cui guardare le cose fuori e dentro al contempo, tacendole e dicendole nella misura di una stessa voce. La voce di Faslli Haliti offre alla poesia la guarigione delle sue ferite, la forza indomita della resistenza, la luce del dolore attraversato. Viene a dirci, senza dirlo direttamente, che l’uomo è forte: più forte della violenza che tenta di schiacciarlo, imbavagliarlo, spegnerlo. Ci fa sentire che una speranza è sempre possibile, malgrado la più oscura disperazione. Basta non perdere il filo della propria umanità: il filo che ci lega alla natura. La poesia di Haliti è a mio avviso importante proprio per questa sua capacità di annodare la ragione al sentimento, il pensiero all’emozione, la natura alla storia.

(Marco Onofrio)

Faslli Haliti

Faslli Haliti

La notte,
come madre di martirio dalla sciarpa nera,
stelle d’oro getta dall’alto,
come mazzi di fiori sulle tombe dei caduti.

.
NELL’INFANZIA

Quando scorgevo l’allodola tra gli artigli del falco,
che terrore,
che orrore!
Al posto del suo canto primaverile
sentivo i suoi pianti tragici in primavera.

Il mio desiderio era
di spezzare ali di falchi crudelmente
nell’infanzia,
senza ascoltare il consiglio dello zio Hugo:
«Chi guarisce l’ala del falco
è responsabile dei suoi artigli…»

Che terrore!
Che orrore!
Sentire i pianti tragici delle allodole
e non spezzare le ali al falco!

PRIMAVERA

La gemma fa sciogliere la neve con il fuoco del fiore,
il fiore annuncia la primavera,
si trasforma in frutto
e cade a terra con onore.

La terra inverdita lo accoglie.

(1984)

NOTTE DI MAGGIO

La luna come anello nelle mani della notte,
i neon abbagliano con luce di neve.
Noi parliamo sotto una mimosa bionda
come in una luna terrena.

Accanto a noi passano due lucciole
che sembrano fiammiferi.
E si perdono nel buio della notte
gioiose del nostro amore.

(1984)

LE CANNE

L’autunno
spaventa le canne con i tuoni,
le colpisce con la grandine,
i fulmini
e le piogge.
Dalla paura le canne gettano nelle pozzanghere
le proprie foglie ingiallite
che si spargono come piume di canarini.
Dopo la pioggia,
il suono di un flauto
fa gioire le canne
e le rende gioiose,
si scuotono le foglie come piume di canarino.

(1994)

Marco Onofrio (Roma, 11 febbraio 1971), poeta e saggista, è nato a Roma l’11 febbraio 1971. Tra critica, narrativa e poesia, ha pubblicato 22 volumi. Per la poesia ha pubblicato: Squarci d’eliso (2002), Autologia (Sovera, 2005), D’istruzioni (2006), Antebe. Romanzo d’amore in versi (Perrone, 2007), È giorno (2007), Emporium. Poemetto di civile indignazione (2008), La presenza di Giano (in collaborazione con R. Utzeri, EdiLet 2010), Disfunzioni (2011), Ora è altrove (2013) e Ai bordi di un quadrato senza lati (2015). La sua produzione letteraria è stata oggetto di presentazioni pubbliche presso librerie, caffè letterari, associazioni culturali, teatri, fiere del libro, scuole, sale istituzionali. Alle composizioni poetiche di D’istruzioni Aldo Forbice ha dedicato una puntata di Zapping (Rai Radio1) il 9 aprile 2007. Ha conseguito riconoscimenti letterari, tra cui il Montale (1996) il Carver (2009) il Farina (2011) e il Viareggio Carnevale (2013). È intervenuto come relatore di presentazioni di libri e conferenze pubbliche. Nel 1995 si è laureato, all’Università “La Sapienza” di Roma, discutendo una tesi sugli aspetti orfici della poesia di Dino Campana. Ha insegnato materie letterarie presso Licei e Istituti di pubblica istruzione. Ha tenuto corsi di italiano per stranieri. Ha partecipato come ospite a trasmissioni radiofoniche di carattere culturale presso Radio Rai, emittenti private e web radio. Ha pubblicato articoli e interventi critici presso varie testate, tra cui “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “Lazio ieri e oggi”, “Studium”, “La Voce romana”, “Polimnia”, “Poeti e Poesia”, “Orlando” e “Le Città”.

Gëzim Hajdari, è il massimo poeta albanese vivente e uno dei maggiori poeti contemporanei. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia. Ha scritto anche libri di viaggio e saggi, inoltre ha tradotto in albanese e in italiano vari autori. E’ vincitore di numerosi premi letterari. E’ presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale.

Le sue recenti pubblicazioni sono: I canti dei nizam, Besa 2012; Nur. Eresia e besa, Ensemble, 2012; Evviva il canto del villaggio comunista, Besa, 2013; Poesie scelte, Controluce, 2014 e Delta del tuo fiume, Ensemble, 2015.

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POESIE INEDITE di Silvano Gallon con un Commento di Gëzim Hajdari

Balthus la chambre (1954)

Balthus la chambre (1954)

Silvano Gallon, nato a Frosinone nel 1946, vive in Ciociaria dopo aver lavorato per 35 anni presso il Ministero degli Affari Esteri di Roma. Nel 2001 ha fondato con Vincenzo Bianchi e Giuseppe lucci l’Associazione Culturale Akkad, per gli scambi culturali tra l’Italia e la Macedonia ed i paesi balcanici. Con la stessa Associazione ha creato il premio “Il vento della Pace” e dal 2004 è Presidente dell’Incontro Poetico d’Europa.
Ha organizzato numerosi meeting internazionali e, tra essi, il gemellaggio culturale tra Cervara di Roma e Struga (Rep. Macedonia). Ha pubblicato saggi storici, soprattutto sull’emigrazione italiana, e scrive poesie dal 2000.
Come poeta è stato invitato per tre volte al Festival Internazionale di Struga (2006, 2008, 2011), al Festival Internazionale di Parigi (2010) ed a Nis (Serbia)

Commento di Gëzim Hajdari sulla poesia di Silvano Gallon

La poesia di Silvano Gallon sorge dalla vita quotidiana, dalle cose che lo circondano quotidianamente. L’alba, il giardino, la strada, il buio, le ombre, la luce, il verso del merlo, i passi dei passanti, il verde, le stagioni, le voci della collina ciociara, lo scorrere del tempo, sono alcuni elementi con i quali egli colloquia e si interroga sulla propria vita e sul senso dell’esistenza. Silvano è il cantore della quotidianità, è la voce di tutti giorni. Sono versi che celebrano la memoria del percorso umano e la ferita dell’Essere. Amore e gioia, dolori e tormenti, addii e speranze percorrono le pagine del libro, dalla prima all’ultima; tutto si svolge in un silenzio quasi misericordioso, senza enfasi. Il dolore struggente dei versi del poeta feriscono il lettore rimanendo per sempre nella sua memoria. L’intimità del linguaggio e la sacralità della parola fanno di questa raccolta un poema di preghiere e salvezza. Leggendo i testi della nuova raccolta, ci rendiamo conto che ciò che rimane nella vita di un uomo sono proprio i ricordi di un tempo, le radici, gli affetti, i profumi campestri,
tutto il resto non è altro che fatica, abisso, vanità. L’unica coscienza che non ci abbandona mai durante il viaggio terreno, è la nostra ombra; un fuoco inesorabile brucia le attese, i sogni, le speranze, le conoscenze, le solitudini, le ferite, gli addii, inebriandoci con la brezza dell’eternità. E’ per questo che il poeta non si sazia di respirare la vita, per non morire mai.

Antonio Ligabue Falcone bianco

Antonio Ligabue Falcone bianco

quale brigante

vociando parole oscure
ma sì chiare
goffo nel mio sostegno
tremo nelle vene e nelle mani
come fossi al cominciamento
o alla fine dell’abisso

in sì turbata confusione
inciampo sui miei tratturi
rovinando coi passi in un pugno di terra
– ahimé, quale debolezza nell’uomo solo! –
timoroso
quasi arrendevole
tra i confini d’un giardino amico

batte il cuore
si oscura la pienezza del cielo
sotto un vento pungente e schiacciante
tra foglie, polvere e ombre selvagge

quale brigante senza desiderio
assiso su una pietra bianca
divoro la mia forza vitale
fuggendo tra un male e il peggio
mentre una gemma nuda azzurra
mi dona forza e speranza

.
primo maggio

sale intensa la nebbia
nel silenzio del primo giorno di maggio
che smorza il sorriso d’una tarda primavera
cupa e fredda
da battere i denti
come in autunno

tarda il seme della campagna
nei fiori della vite e nel giallo del grano
i venti, le piogge, la grandine
scagliano nella miseria
questa terra offesa
su cui mi perdo anch’io

tra un passo ed un inciampo
allontano lo sguardo
ferito nei palpiti del tempo
e la mia ombra
orlata ora di dolore ora di calore
lascia il segno del suo passo

raccolgo una goccia di rugiada
regale sulla paterna rosa rossa
luccicano le pupille
umide d’amore

Edward Hopper nudo in interno

Edward Hopper nudo in interno

cardiologia blu

sotto un cielo povero
due gocce tinte di nero
velano le rughe del tuo viso
senza sommergere il sorriso del tuo volto
smarrito dentro un dubbio
serrato in un piccolo grande guscio d’amore

la mia mano asciuga quel lampo
scorrendo poi sulle tue aride labbra
il timore sussulta nei tuoi occhi
prima che tra riso e pianto
un sospiro ci dia coraggio

in me s’attrista tutto di più
perché quella porta blu
ci turba tra un fuggire e un riaprirla
sempre mossi a tornare
per indagare
e curare

per esistere
tra gioia e pena
solamente in preghiera

.
settembre

nel paesaggio
che è meraviglia
brucia
la melodia del mio cuore

mi dolgo
tra freddo e caldo
se mai li provo
soffro
perché non tace
il grido di dolore

dai robusti cotogni
all’improvviso
lontano
dal mondo
e dalla vita
mostro paura
… del precipizio …

qui tutto è pace
tutto è silenzio
sono solo
affaticato
a guardare la notte

.
affanno

tra i peschi ed i cotogni
poggio il palmo delle mie mani
sedotte dai segni della fatica
sul mio cuore percosso ed affannato
come mai aveva sofferto

il cotogno lascia i suoi petali rosacei
leggeri e deboli alla brezza
il mio battito palesa stessa debolezza
dubitando dell’istante
tumido tra male e peggio

cresce il vento
la voce angustiata d’amore
sperimenta un’ultima preghiera
da perdono a perdono
senza più superbia
chino nel peso che curva

l’apparire della luna
accende il cielo d’una luce che seduce
ed in terra su quel viale che smarrisce
si spande ancora pace
che mi sembra eterna

edward-hopper-gas-1940

edward-hopper-gas-1940

armonia

il sangue delle vene
respira il fiato della sofferenza
tutto sospira in un silenzio
muto
eterno

il tempo piange
un momento tremulo
la vita parla d’amore
un momento eterno
il cuore palpita per entrambi
in una felicità trasparente

in attesa

di concedere il mio respiro
suona e risuona
un’anima errante
che brilla al cielo
racchiusa nella luna
colore di miele e cereali

.
fuoco che brucia

spezzo rami secchi
in compagnia dell’orto
trattengo il respiro
che trema in me

la terra si sazia delle mie orme
che la cenere non trattiene
e la fiamma che del demonio è figlia
mi da brividi ad ogni nuova impronta

precipito nelle onde del fuoco
riflesso di ciò che ho perduto
vedo il vuoto della cenere
naufrago nella solitudine

ora brucia nell’animo
anche il mio giardino
accarezzo un fiore secco
dimentico, mi spengo
vedo solo fiori bruciati

s’infrange tutto
nel crepuscolo dei tuoi occhi
si stringe il mio cuore
nel desiderio del tuo amore

Antonio Ligabue (1899 1965) Ritorno ai campi con castello, 1950-1955, olio su faesite

Antonio Ligabue (1899 1965) Ritorno ai campi con castello, 1950-1955, olio su faesite

cuore malato

trabocca ogni alba
il tuo radioso sorriso
luce a luce aggiunge
alla tua parola il sangue s’addolcisce
come frutti maturi del nostro giardino

mi chiudo dietro la mia finestra
la mia voce nasconde le insidie
il giorno pieno di sole
s’addentra nella tua tempesta
diventa nuda la verità del tempo

il tuo cuore malato
ricama giorno e notte
con i tuoi petali di sorriso
per sfuggire dolore e morte

ridotto nel battito
appartiene a noi
alla felicità
all’amore
non si spegnerà mai
per noi che sappiamo
coglierne i fiori

.
petali rosati

amo tracciare segni
per sorprendermi ancora
con profumati fiori e piccole piante

un ramoscello vacillante al suono del vento
lascia cadere petali rosati
che implorano perdono
vagando a destra e oltre
senza porre mente alcuna

vagabondo

e stropicciando i piedi a terra
al lamento di un usignolo
torno su quei petali
che parevano lucenti
sotto l’ombra del frutteto

chino sulla mia sorte
mi rifugio tra mani e gambe
non ho altre vie
e non rifiuto questa che è solo mia

raccolgo quei petali rosati
per compiacerli a dimora in una coppa
dove la morte non è sonno
ed il profumo si risveglia
rosa canina

la rosa canina bianca e forte
s’irradia su quei rovi selvaggi
apparendo e nascondendosi
oltre le ombre e le sterpaglie
assieme ad acerbe more

nella mia mano che cerca uno strappo
spunta una goccia di sangue
che macchia un petalo rifuso
vivo nella sua freschezza

s’indebolisce la mia anima
s’adombra nella quiete
e quel fiore macchiato di sangue
non so se donarlo
al cielo
o alla terra

Antonio Ligabue

Antonio Ligabue

la vita

un momento
con il sorriso del tuo volto
un momento ancora
tremolante nel nostro cammino
ancora un momento
fino a dormire nella notte

in questa terra ampia
trasparente nelle voci del nostro giardino
ardono i nostri cuori
ferita incessante

l’allegria della vita
che consuma i grappoli dorati del tuo corpo
nelle rose del tempo
palpitante per il nostro amore

.
Rughe

sospirano le mie rughe
l’una accanto all’altra
bagnate dal sudore
che melanconicamente le circonda

taccio ai brividi delle mie fatiche
che stillano le vanità del tempo

disfatto e lontano ogni imbarazzo
m’accompagno alla terra
zappando

Ansia

il gufo fissa immobile
dall’alto della rosa fuxia

vibrano nervose
tra il petto e l’addome
le mie mani rabbiose nei gesti

trascinato nelle mie ansie
inciampo nella compagnia
di tutto ciò che nego

.
Sottovoce

nel mio spazio
così stretto
e senza tempo
dispiego
quanto ho vissuto
tra le cose del mondo

rifletto
sul lungo tempo
sottovoce
senza volgermi
tra poesia e preghiera

.
Mal d’amore

il sangue tende i miei anni
giunti all’affanno delle arterie

l’anima sorregge un corpo gravato
il tempo rimescola tutti i miei passi

alimentano il mal d’amore
quegli occhi tuoi
pieni di luce e allegrezza

il mio sangue
esplora sempre la tua beltà

quale brigante

5 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, Antologia Poesia italiana

Roma, 12 giugno ore 17.30 sede della FUIS p.za Augusto Imperatore, 4 Presentazione del libro di poesia del poeta albanese Faslli Haliti – Interventi di Gëzim Hajdari, Giorgio Linguaglossa e Marco Onofrio sarà presente l’autore – POESIE SCELTE di Faslli Haliti  Cura e traduzione di Gëzim Hajdari da Poesie scelte (1969-2004) EdiLet pp. 150 € 16 (Parte II)

Faslli Haliti copertinaRoma, 12 giugno ore 17.30 sede della FUIS p.za Augusto Imperatore, 4 Presentazione del libro di poesia del poeta albanese Faslli Haliti – Interventi di Gëzim Hajdari, Giorgio Linguaglossa e Marco Onofrio sarà presente l’autore

Presentazione di Gëzim Hajdari

Il poeta albanese Faslli Haliti credeva come Majakovskij ed Esenin in un socialismo dal volto umano. I due poeti della Russia sovietica hanno cantato e sublimato con grande fervore, seppur per breve tempo, la rivoluzione bolscevica e il compagno Lenin. Sulle orme di Majakovskij e di Esenin iniziò il suo cammino poetico anche il giovane poeta albanese di Lushnje. Erano gli anni ’60 quando Haliti scriveva: «Per voi, Partito ed Enver Hoxha[1], noi dormiamo anche sul ghiaccio / per voi noi ci copriamo con lenzuola di neve». Il poeta di Lushnje ha amato molto nella sua gioventù i cantori della madre Russia e, dopo la tragica fine del comunismo nella sua Albania, Haliti diede la ‘colpa’ proprio ai suoi maestri sovietici perché aveva creduto ciecamente in loro. Così come Majakovskij ed Esenin, anche il poeta Haliti, pur in una dimensione assai diversa, rimase ‘vittima’ dell’utopia marxista, che fece decina di migliaia di morti in Albania seminando in tutto il Paese terrore, morti, sangue e distruzione di massa.

Faslli esordisce nel panorama poetico albanese alla fine degli anni ’60. Proprio nel 1969 venne pubblicata la sua prima raccolta, Sot (Oggi). I suoi versi portano un nuovo respiro poetico nel panorama del realismo socialista, l’originalità, la sobrietà del pensiero, nonché un forte senso critico nei confronti della burocrazia del regime. Il suo linguaggio è lapidario e tagliente. L’intensità del verbo e la particolarità dello stile, fecero attirare l’attenzione dei lettori e della critica ufficiale. Questa silloge vinse il secondo premio nazionale per la poesia. Haliti è di origine contadina, e come tale, portava nei suoi testi la musicalità della campagna, le voci della vita e l’angoscia del vivere quotidiano. Profumi campestri, stagioni, colori, simboli e figure mitologiche percorrono la geografia del suo io poetico, come sfida alla retorica della cultura ufficiale del regime. Fermezza e ribellione convivono nel suo messaggio poetico.

Alcuni suoi testi furono dei veri e propri «manifesti» che colpivano senza pietà il cuore della burocrazia del regime comunista. Si può dire che la parte più interessante della sua produzione, come per la maggior parte dei poeti del blocco sovietico, rimane quella scritta sotto la dittatura comunista, e non è un caso. Basterebbe Njeriu me kobure (L’uomo con la pistola) per capire la forza dei versi e l’impatto che questo testo ebbe sui lettori negli anni ’70. Questi i versi: «Lui aspetta che tiri vento / Non per vedere gli alberi spogli / Non per veder cadere le foglie gialle / Ma per far alzare il lembo della giacca / E far vedere la pistola nella cintola. / Lui aspetta che venga la primavera / Non per mietere e falciare / Ma per togliere la giacca / E far vedere sotto la giacca / La pistola[2]». Questo testo è stato giudicato sovversivo e revisionista, e aspramente criticato durante il IV° famigerato plenum del PCA, nel ’73. Che condannò in prigione decine di intellettuali e scrittori accusandoli di essere influenzati dall’arte borghese dell’Occidente.

Faslli Haliti

Faslli Haliti

Erano gli anni in cui la critica ufficiale insisteva perché nell’arte si rispecchiassero ancora maggiormente gli insegnamenti e le idee del Partito; gli anni della pianificazione della nuova estetica di Stato e dell’affermazione dell’uomo nuovo del socialismo, plasmato dal partito e forgiato sotto l’incudine della classe operaia e contadina; “l’uomo muscoloso e stakanovista” che vigila, giorno e notte, per difendere le vittorie e la patria dai nemici. Nelle opere letterarie, i temi esistenziali e metafisici, come per esempio il sentimento di oppressione e di incertezza quotidiana, erano proibiti. Persino le parole ‘amore’, ‘morte’, ‘buio’, ‘freddo’, ‘angoscia’ venivano considerate pericolose. Coloro che osarono rompere col ‘pesante silenzio’, che aveva cancellato memoria e sogni di libertà, lo pagarono a caro prezzo. Il valore di un’opera si misurava rispetto alla sua forza nel servire il partito, le masse e il socialismo reale. Lo slogan del “realismo socialista” era: «Il poeta dev’essere l’occhio, l’orecchio e la voce della classe», motto che proveniva ovviamente dalla letteratura madre dell’Unione Sovietica.

Il terrore continuo e sistematico del regime nei confronti degli uomini di cultura soffocò gli spazi e l’energia della Parola. Sul palcoscenico insanguinato della poesia albanese si recitava la più fosca tragedia del tempo. Di fronte a questa tragedia umana, a questa oppressione costante, per sopravvivere spiritualmente e artisticamente i poeti rivolsero lo sguardo alle tradizioni e alla poesia del passato. Così la linfa della loro ispirazione diventò la tradizione orale e l’epica. Per sfuggire alla censura, Haliti si rivolge al mito e all’allegoria per esprimersi. La sua parola affonda le radici nel mito classico greco-latino per rileggere la realtà; la sua poesia divenne quasi un gioco fiabesco, in cui s’intrecciano il reale con il surreale. Ma i censori del regime vigilano, non si fanno sorprendere per fermare in tempo il poeta ribelle.

La macchina inquisitoria di Hoxha praticava mille forme diverse di repressione per stritolare i “nemici della nazione” e del comunismo. All’occhio vigile dei guardiani del regime nulla poteva sfuggire. Decine di poeti e scrittori vennero allontanati, mandati nelle periferie o nelle campagne per la rieducazione ideologica. Certi furono imprigionati e i loro libri messi al bando. L’elenco dei poeti perseguitati dal regime è lungo e tragico. Le milizie di Enver Hoxha controllavano ogni angolo della vita culturale del Paese. Per il dittatore, lo scrittore era semplicemente uno strumento nelle mani del partito per l’educazione comunista del popolo, il braccio destro del potere: per questo si affermava che, in Albania, la letteratura era nata nel 1941 con la fondazione del Partito Comunista. Il marxismo divenne l’unico principio estetico della poesia e dell’arte.

Faslli Haliti

Faslli Haliti

Al poeta Haliti venne tolto il diritto di pubblicare per 15 anni consecutivi: fu mandato in campagna per essere «rieducato», in quanto persona indesiderata dal Partito. Per diversi anni, pur essendo professore di italiano e di francese, lavora dietro il carro trainato dai buoi nella cooperativa agricola di Stato, a Fiershegan, provincia di Lushnje. Nessuno degli operai e dei contadini poteva rivolgergli la parola, perché egli era considerato dal Partito un “reazionario”.

Il pretesto per colpire il poeta di Lushnje fu il poema Dielli dhe rrëkerat (Il sole e i ruscelli), pubblicato per la prima volta il 16 dicembre 1972 nel settimanale «Zëri i rinisë» (La Voce della gioventù). La sua apparizione nella rivista suscitò scalpore e indignazione tra gli alti dirigenti del PCA. Costoro organizzarono riunioni e dibattiti pubblici in cui sia il poema che l’autore vennero aspramente criticati. Secondo la censura, “Il sole e i ruscelli” era frutto di una confusione ideologica e politica del poeta che travisava la realtà socialista e il ruolo del Partito, minandone così l’unità con il proprio popolo. I primi versi del poema «Mentre il tetto della mia patria è celeste, ottimista. / Il tetto della mia casa è quello di una stamberga», divennero un pretesto per attaccare e denunciare l’autore. Haliti aveva osato troppo. Con un coraggio inaudito invita il popolo a spezzare “i denti alla burocrazia”. Cito: «Ordine / con il pugno della classe operaia / spezzate i denti / ai compagni. / Per spezzarli ci vogliono pietre / che non abbiamo[3]». I comunisti lo accusano di essere un poeta ribelle e anarchico, mentre i critici di Stato accostano i suoi testi a quelli dell’arte malata e decadente dell’Occidente. Haliti diventa un caso nazionale. Nel Paese si organizzano riunioni per denunciare il poema. I membri della Lega degli Scrittori si dividono in due: quelli che ammirano i versi del poeta e quelli che li disapprovano. Un gruppo di alunni del liceo della sua città natale, Lushnje, pubblica un articolo di denuncia sul giornale «Shkëndija» (La scintilla)[4], organo del PCA. Gli unici studenti che difesero con coraggio “Il sole e i ruscelli” furono Fatbardh Rustemi, Bujar Xhaferri e Tahsin Xh. Demiraj. Tahsin, dal ‘74 all’89, fu regista presso il teatro della città di Lushnje, ma venne licenziato su ordine del Partito. Per 15 anni lavorò in un’azienda di Durazzo che produceva materiali plastici. In una lettera Rustemi si rivolse a Enver Hoxha per protestare contro la condanna del poeta Haliti; Xhaferri, per difendere il suo poema, rischiò l’espulsione dal ginnasio. Per attaccare il poeta trentaseienne di Lushnje si mobilitarono anche le forze dell’ordine pubblico: il questore della città Zija Koçiu pubblicò un articolo sul giornale del partito del dittatore, «Zëri i Popullit» (La voce del popolo), in cui denunciava “l’opera reazionaria” del suo concittadino[5].

L’eco di questa vicenda si diffuse in tutto il Paese. Piovvero critiche e denunce da varie città. Della vicenda si parlò anche al di fuori dell’Albania. A Parigi, nel 1974, il trimestrale albanese «Koha jonë» (Il nostro tempo) riportò il poema “Il sole e i ruscelli” e, nello stesso tempo, condannò la campagna denigratoria del PCA verso il poeta Haliti. Un anno più tardi, a Roma, Ernest Koliqi, nella  rivista che curava, «Shenjzat» (Le Pleiadi), conferma che «la voce di Haliti è stata soffocata dal Partito».

Manifestazione a Tirana

Manifestazione a Tirana

Nonostante tutto questo, il poeta ribelle di Lushnje non smette di scrivere. Con lo stesso coraggio pubblica altri testi contro la burocrazia, e altrettanto feroci: Djali i sekretarit (Il figlio del segretario), Unë dhe burokracia (Io e la burocrazia), Edipi (Edipo), e altri ancora. I testi di Haliti diventano oggetto di discussione persino nell’Olimpo del partito. Nel ‘73 Fiqrete Shehu, moglie del Premier Mehmet Shehu, critica la poesia Vetëshërbim (Fai da te) definendola «una poesia che non ha nulla a che vedere con l’arte rivoluzionaria»[6]. Un anno dopo, nella rivista «Rruga e Partisë» («Il percorso del Partito»), ella si esprime contro la poesia Njeriu me kobure (L’uomo con la pistola)[7]. Negli anni seguenti l’opera di Haliti verrà sempre censurata. Il Partito gli toglierà il diritto di pubblicare e lo spedirà a lavorare nei campi. Nel 1985, dopo 15 anni di silenzio forzato, egli riappare sulla scena culturale con la raccolta Mesazhe fushe (Messaggi di campagna). La lunga condanna al silenzio ha fatto pesare molto sul suo futuro e sul destino della sua poesia. La presentazione del nuovo libro avviene nel teatro della città. Doveva essere una festa, per il poeta, invece fu ancora una volta un processo vero e proprio. Rammento come oggi quel pomeriggio. Alla presentazione partecipava il segretario del Partito Comunista, Rudi Monari, il quale, insieme allo ”pseudo-poeta” M. Nezha, mise alla berlina il poeta e il suo nuovo libro. I testi che abbiamo scelto per il lettore italiano in questa antologia raccolgono il meglio del poeta, che va dal primo libro Sot (Oggi) 1969, fino alla raccolta Iku (Se n’è andato) 2004. La scelta di proporre questo poeta al lettore italiano, non è casuale ma fa parte di una missione culturale ben precisa, quella di costruire la memoria storica e culturale della mia Albania, come parte integrante della memoria della cultura europea. Faslli Haliti e Besnik Mustafaj (Leggenda della mia nascita, Edizioni Ensemble 2012, cura e traduzione dal sottoscritto), fanno parte di quei poeti che, pur vivendo e scrivendo sotto il canone del realismo socialista, sono riusciti a creare valori letterari di portata internazionale, che resistettero anche dopo il crollo la dittatura di Enver Hoxha, uno dei regimi sanguinari più spietati dell’Europa del secolo scorso.

(Gëzim Hajdari )

[1] Enver Hoxha (1908-1985): il dittatore comunista
[2] In «Nëntori 4», pp. 154-159, Tiranë 1972.
[3] Idem.
[4] In «Shkëndija», Lushnje, 25.1.1973.
[5] In «Zëri i popullit», Tiranë, 2. 8. 973.
[6] In «Zëri i popullit», Tiranë, 26. 7. 1973.
[7] In« Revista Rruga e Partisë», Nr. 3. p. 41. Tiranë 1974.

Faslli Haliti con Gezim Hajdari

Faslli Haliti con Gezim Hajdari

NELL’INFANZIA

Quando scorgevo l’allodola tra gli artigli del falco,
che terrore,
che orrore!
Al posto del suo canto primaverile
sentivo i suoi pianti tragici in primavera.

Il mio desiderio era
di spezzare ali di falchi crudelmente
nell’infanzia,
senza ascoltare il consiglio dello zio Hugo:
«Chi guarisce l’ala del falco
è responsabile dei suoi artigli…»

Che terrore!
Che orrore!
Sentire i pianti tragici delle allodole
e non spezzare le ali al falco!

NË FËMIJËRI

Kur shihja laureshën në kthetrat e skifterit,
E lemerisshme,
Tmerr.
Në vend të këngës së saj pranverore
Dëgjoja të qarat e saj tragjike në pranverë.

Dëshira ime është:
Të thyeja krahë skifterësh egërsisht.
Në fëmijëri,
Pa e ditur këshillën e xha Hygoit:
«Kush shëron krahun e skifterit
Përgjigjet për kthetrat e tij…»

Ǒlemeri,
Ǒtmerr,
Të dëgjoje të qarat tragjike të zogjve,
Dhe mos të t‘i thyeja krahët ty, skifter!

QUANDO ERA FANCIULLA

Quando era fanciulla
mia madre partecipava con affetto ai fidanzamenti
e chiedeva alle amiche:
chi è intervenuto a quel fidanzamento?
Chi si è fidanzato?
Chi si è sposato ?

Quando è divenuta sposa,
mia madre partecipava con affetto alle nascite
e chiedeva alle amiche:
Chi ha partorito?
Com’è andato il parto?

Ora
in vecchiaia, partecipa alle morti
legge le necrologie
e chiede:
Chi è morto?
Quanti anni aveva…?

(1972)

KUR ISHTE VAJZË

Kur ishte vajzë
Nëna ime interesohej për fejesat,
Pyeste shoq let fshehtas:
Kush ishte në fejesë,
Kush u fejua,
Kush u martua.

Kur u bë nuse,
Kur u martua,
Nëna ime interesohej për lindjet,
Pyeste shoqet rregullisht:
Kush ishte në lindje,
Si ishte lindja,
E vështirë ish?

Tashti
Në pleqëri,
Nëna ime interesohet për vdekjet,
Shikon nëpër shtylla lajmërime vdekjesh,
Pyet
(Sidomos fëmijët)
Biro,
Kush ka vdekur,
Ishte i madh ai qyq
Kur vdiq…?

(1972)

Faslli Haliti

Faslli Haliti

NOTTE DI MAGGIO

La luna come anello nelle mani della notte,
i neon abbagliano con luce di neve.
Noi parliamo sotto una mimosa bionda
come in una luna terrena.

Accanto a noi passano due lucciole
che sembrano fiammiferi.
E si perdono nel buio della notte
gioiose del nostro amore.

(1984)

NATË MAJI

Hëna varet si vath në veshin e natës,
Neonët ndriçojnë me dritë dëbore,
Ne bisedojmë nën një mimoze bjonde
Si nën një hënë tokësore

Pranë nesh kalojnë dy xixëllonja
Dy buqeta dritash na dhuron
Dhe ikën nëpër natë e gëzuar,
E gëzuar nga dashuria jonë.

(1984)

RICORDO CON NOSTALGIA

Ricordo con nostalgia il primo viaggio a Tirana,
era il 1946,
nella capitale sono andato scalzo
e ho dormito all’aperto.

Ricordo il mio gesto
che non ha disonorato
né me, né la città.

Non c’era un motivo preciso,
sono andato solo per vedere la capitale.

Ero piccolo,
avevo dieci anni
nel 1946.

A Tirana sono andato scalzo
e ho dormito all’aperto.
Sogno ancora quel gesto infantile.
E mi commuove la povertà di allora.

(1988)

NJË KUJTIM I PËRMALLSHËM

Unë kam lënë nam dikur në Tiranë.
Ishte viti 1946.
Së pari,
Në kryeqytet vajta zbathur,

Së dyti,
Fjeta jashtë.
Asnjë nam s’kam lënë në të vërtetë në Tiranë.

E kujtoj fare mirë tani,
As mua,
As Tiranën
Nuk e turpëronte ajo zbathëri.

Asnjë punë nuk kisha në Tiranë.
Shkova vetëm për të parë kryeqytetin.

Isha i vogël
Dhjetë vjeç
Në vitin
1946.

Në Tiranë shkova zbathur dhe fjeta jashtë
Ajo zbathëri
Më shfaqet në ëndërr,
Më “turpëron” dhe tani.

(1988)

IL PANE

Mia madre sfornava il pane
e lo riponeva nella madia;
il volto del pane era madido di sudore
come la fronte di mio padre quando lavorava.

Il calore del pane evaporava
il pane era giallo,
la fragranza c’inondava,
io ne volevo rubare un pezzo
mia madre mi fermava dicendomi:
«No,
perché il profumo del pane
non è arrivato in campagna…»

Noi bambini credevamo vera
la fiaba del profumo del pane,
che doveva arrivare in campagna
stranamente,
anche se eravamo affamati
ci fermava la mano come magia.

Con la scusa che il pane doveva raffreddarsi,
mia madre ci ingannava
e con la fiaba
il pane risparmiava.

BUKA

Nxirrej buka nga tepsia,
Vendosej përmbys mbi hambar
Faqja e bukës me pika djerse
Si balli i babait në arë.

Avullim buke.
Bukë e verdhë.
Avuj të bardhë.
Unë shkoja të thyeja një copë.
Zëri i nënës:
“Mos…
Prit të shkojë avulli në arë njëherë
Në arën e Sheqit të sosë…”

Përrallën e avullit të bukës
Që duhej të shkonte patjetër në arë,
Ne e besonim si të vërtetë.
Kjo përrallë
Për çudi
Edhe pse të uritur
Na e ndalte dorën si për magji.

Që të ftohej buka
Nëna na gënjente
Duke na gënjyer me përrallën e avullit
Bukën e shkreta
Kursente

Manifestazione a Tirana, 1990

Manifestazione a Tirana, 1990

ARRIVEDERCI

La direzione:
A sinistra!
Io
dritto.

La direzione:
A destra!
Io
dritto, avanti.

L’ordine:
Dietrofront!

Io
sempre avanti.

Arrivederci miei capitani!

(1994)

LAMTUMIRË

Drejtimi;
Majtas!
Unë
Drejtë.

Drejtimi.
Djathtas!
Unë,
drejtë përpara.

Urdhëri:
Prapakthehu!

Unë
Përpara, përsëri

Lamtumirë kapedanët e mi!

(1994)

LETTERA
a Majakovskij
ed Esenin

Caro Majakovskij,
caro Esenin,
siete stati voi
a farmi entrare nel cuore come genio,
come vero,
come umano,
il compagno Lenin.
Lenin
è diventato un criminale,
un terrorista, un farabutto,
dite qualcosa:
perché tacete?
sto chiedendo:
datemi una risposta,
è stato umano Lenin
o un genio criminale?
uno psicopatico,
un pazzo,
un farabutto?
Voi l’avete guardato negli occhi,
e forse l’avete incontrato,
dandogli la mano,
gli avete parlato
e Lui vi ha ascoltato.
Forse avete parlato del comunismo con Lui:
avete discusso, polemizzato.
Parlami apertamente
Majakovskij,
come sai parlare tu.

LETËR

Majakovskit
dhe Eseninit

I dashur Majakovski,
I dashur Esenin,
Ju ma futët në zemër
Si gjeni,
Si tokësor,
Si human,
Si njerzor, shokun Lenin …
Lenini
Doli kriminel,
Terrorist, horr, venerian.
Flisni:
Pse heshtni,
Ju pyes,
Përgjigjmuni,
Lenini ka qenë njerëzor:
Apo ka qenë kriminel gjeni,
Psikopat
I çmendur
Horr…?ju e keni parë Leninin me sy.
Mbase jeni takuar me të.
I keni dhënë dorën,
Keni biseduar
Ju ka dëgjuar,
E keni dëgjuar:
Mbase keni folur për komunizmin me të:
Mbase keni debatuar, polemizuar…
Folmë
Hapur
Majakovski,
Fare hapur,
Siç di të flasësh ti.

Tirana square

Tirana square

ROVESCIO

Dio
si adirò,
e decise di cambiare il mondo

trasformò il cielo
in mare,

gli uccelli nuotarono nel mare,
i pesci
volarono nei cieli.

Le stelle divennero fiori
e i fiori stelle,

i fiori emanarono luce,
le stelle diffusero profumo.

Il sole diventò
l’occhio di Polifemo
e l’occhio di Polifemo sole,

Ulisse accecò il sole con il tronco infuocato,
mentre l’occhio del Gigante ancora brilla e brucia.

Gli uccelli divennero
aerei
e gli aerei uccelli,

gli uccelli lanciarono bombe,
gli aerei sterchi,

gli animali divennero
uomini
e gli uomini animali.

MBRASHT

Zoti
U mërzit,
Vendosi ta rikrijojë botën sërish

Qielli e bëri det
Detin qiell

Zogjtë notojnë në det
Peshqit
Fluturojnë në qiell

Yjet i bëri lule
Lulet yje

Lulet rrezatojnë dritë
Yjet përhapin aromë

Diellin
E bëri sy Polifemi
Syrin e Polifemit, diell

Diellin e verboi Odisea me urën zjarrit
Syri i Polifemit ndriçon edhe djeg

Shpendët
I bëri avionë
Avionët shpendë

Shpendët hedhin bomba
Avionët lëshojnë glasa

Kafshët
I bëri njerëz
Njerëzit kafshë.

 Gëzim Hajdari, è il massimo poeta albanese vivente e uno dei maggiori poeti contemporanei. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia. Ha scritto anche libri di viaggio e saggi, inoltre ha tradotto in albanese e in italiano vari autori. E’ vincitore di numerosi premi letterari. E’ presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale.

Le sue recenti pubblicazioni sono: I canti dei nizam, Besa 2012; Nur. Eresia e besa, Ensemble, 2012; Evviva il canto del villaggio comunista, Besa, 2013; Poesie scelte, Controluce, 2014 e Delta del tuo fiume, Ensemble, 2015.

4 commenti

Archiviato in Faslli Haliti, poesia albanese

L’IMMAGINE NELLA POESIA CONTEMPORANEA – DIALOGO A PIU’ VOCI avvenuto sull’Ombra delle Parole: Gezim Hajdari, Steven Grieco, Giorgina Busca Gernetti, Letizia Leone Giorgio Linguaglossa, Flavio Almerighi, Lucia Gaddo Zanovello

Le Trou Noir, lithographie et dessin (1992) de Jean-Pierre Luminet

Le Trou Noir, lithographie et dessin (1992) de Jean-Pierre Luminet

Steven Grieco

Steven Grieco

Caro Gezim,

finalmente ti scrivo! Mi ha fatto molto piacere vederti mercoledì scorso con gli altri della redazione de L’Ombra, così ci siamo potuti conoscere un po’ meglio.

Leggendo la tua poesia, Gezim, e meditandola, ho visto bene come anche tu hai l’istinto, che appunto è istinto prima ancora di essere scelta cosciente, di esprimerti in poesia attraverso una immagine visiva forte.

In effetti, io penso che la poesia, quella italiana sicuramente, ma anche quella di tante altre lingue, abbia sofferto molto negli ultimi decenni proprio perché si è allontanata dall’immagine visiva come veicolo del sentimento poetico e della riflessione profonda, preferendo invece uno stile basato sulla riflessione “oggettiva” delle cose. Intendo una oggettività che doveva vedere “il vero della vita”, invece è andata sempre più a basarsi sul consenso sociale, sull’approvazione del prossimo, una sorta di borghesia della poesia, che ha sicuramente dato qualche buon risultato (posso pensare in inglese a un Philip Larkin, un Robert Lowell) ma che ha presto fatto il suo tempo, e non ha aiutato i poeti più giovani a trovare una propria voce al di fuori di questo schema troppo restrittivo troppo ridotto.

Va bene, io non voglio fare una grande analisi della questione, non sono nemmeno equipaggiato criticamente per farlo, so soltanto che la mia lettura di tanti e tantissimi poeti dei nostri tempi mi ha portato a questa sorta di conclusione. Un linguaggio poetico si è inaridito, e, complice la situazione culturale che viviamo attualmente, non è più ahimé successo niente di nuovo, o solo in rare occasioni, grazie a rari poeti.

Questa visione immaginifica della poesia è una cosa che, a quanto pare, siamo però in tanti a condividere. Sicuramente, fra questi, Giorgio, tu e io.

Non so se hai visto il mio post che abbiamo messo sabato scorso su “L’Ombra delle parole”, sul tema dell’autoritratto. Erano composizioni le mie nelle quali non solo affronto la questione dell’autoritratto in poesia, ma cerco di mostrare come il rapporto soggetto-oggetto così caro a una certa visione del mondo, viene in qualche modo privata della sua supposta “universalità” quando l’oggetto non è più necessariamente il volto del poeta, ma diventa invece il paesaggio (della Natura o urbano) in cui egli si identifica totalmente (così come oggi noi capiamo che senza l’ambiente non sopravviveremo a lungo). Questa identificazione porta la consapevolezza del modo in cui noi come artisti interveniamo sul mondo, come in realtà lo plasmiamo e come il mondo plasma noi, quasi invisibilmente.
In effetti, c’è stata una discreta risposta da parte dei lettori, che hanno scritto dei commenti anche molto belli. Sia in quella occasione, ma anche in mesi precedenti, Giorgio e io abbiamo come dire affrontato questa questione della dimensione immaginifica nella poesia.

La cosa strana è che Giorgio e io non abbiamo mai formulato un programma comune, ma il dibattito è nato in modo naturale nel corso degli ultimi mesi. Questo ovviamente perché tutti e due condividiamo certe idee fondamentali sulla poesia.

Ecco, io pensavo, perché non ti unisci anche tu a questo dibattito? Non si tratta di teorizzare la nostra ispirazione, ma di dire cose al di fuori della poesia che però vertono sulla poesia. Possiamo arricchirci tutti insieme. Proprio perché i nostri stili sono da tempo formati, ma lo stesso non è vero per i poeti più giovani che forse sarebbero felici di seguire un dibattito di questo tipo.

Un caro saluto e buon lavoro,

(Steven Grieco)

2015-04-23 18:19 GMT+02:00 gezim hajdari <gezim_hajdari@yahoo.it>:

Gezim Hajdari Siena 2000

Gezim Hajdari Siena 2000

Caro Steven,

come stai? da un po’ di tempo no ci sentiamo, comunque ti leggo sempre con piacere sulL’Ombra, sia come poeta, che critico e traduttore. Scusa la mia latitanza sui commenti del blog, a dire la verità non sono bravo per niente nel scrivere recensioni di critica. Credimi. Inoltre, a causa delle difficoltà economiche, che sembrano non avere mai fine, vivo senza internet in casa.
Intanto trovo l’occasione per ringraziarti di cuore delle tue belle e nobili parole relative alla mia poesia pubblicate ieri sul blog di Giorgio. La tua osservazione sulla mia poesia è verissima, acuta e assai particolare. E’ proprio come scrivi tu, la poesia balcanica è molto legata al mito, all’oralità e all’epica. I miei provengono dal Nord d’Albania, dove regno per 500 anni il Kanun, Codice Giuridico Orale, Codice d’Onore per gli Albanesi delle Alpi. Quindi i miei avi Montanari, che resistettero all’occupazione Ottomana, dal 1479 al 1912, in assenza di uno Stato Giuridico Ottomano, si autogovernarono tramite il Kanun. Questo Codice si basava sulla parola, non c’era nulla di scritto. Alla base del Kanun, c’erabesa, la parola data, la promessa, la fedeltà alla parola. Tutta la vita del montanaro, dalla nascita alla morte, era disciplinata dalle le leggi orali del Kanun, che si tramandavano di generazione in generazione, di padre in figlio. Questa tradizione orale creò una patrimonio epico inestimabile: l’Epos Albanese, che comprende Epos popolare, Epos eroico, Epos dei prodi. Come tu sai meglio di me, tale tradizione ha origine nella lontana età micenea. Ancora oggi, pur se sono trascorsi più di tre mila anni, la poesia balcanica è rimasta balcanica, come è rimasta omerica quella greca.
Il poeta-rapsodo della mia stirpe è stato sempre un uomo coraggioso e impegnato, che si spingeva oltre la propria arte guidando la propria comunità nel labirinto della vita quotidiana a intendere in modo retto e impegnativo verità superiori. Nella Grecia antica, Sofocle era un buon cittadino, impegnato, due volte stratega di Atene e facente parte dei sei magistrati che fecero la Costituzione della sua Città-Stato.
Nella Grecia arcaica il letterato cantava alle vicende, mentre nel periodo classico il letterato parlava sempre al popolo, considerandosi portavoce della comunità, incaricato da una missione civile, pedagogica della intera cittadinanza, che aveva rapporti diretti con lui ed era insieme pubblico, giudice e committente. A Roma il letterato svolgeva una funzione pubblica nella sua qualità di cives romanus.
Mio padre sapeva a memoria più di 10 mila versi. Nella mia infanzia, prima di dormire, io dovevo imparare 100 versi a memoria, era un dovere per ogni membro della famiglia degli albanesi del Nord. Tutto questo per non far morire la memoria millenaria della stirpe. E’ così che si sono tramandate le Veda Indiane, le opere di Omero e di Socrate. Non a caso quest’ultimo non scrisse nulla sulla pergamena dell’epoca, riteneva che la scrittura uccidesse la memoria. Ha provato anche Platone di non scrivere dicendo che fare il filosofo è un modo di fare, di essere e di pensare, non di scrivere. Ma per fortuna poi cambiò idea e decise di scrivere i suoi trattati filosofici e spirituali.
E’ per questo che io scrivo non per essere creduto ma per tramandare la memoria alle prossime generazioni. Comunicando con l’Occidente come balcanico, cercando di fondere la grande tradizione epica balcanica con la grande poesia lirica del Novecento europea. Penso che sia questa la differenza tra me e i miei colleghi migranti in Italia e in Europa, che diversamente da me scrivono come se fossero dei poeti del luogo. Si tratta di una brutta trappola che ha intrappolato molti miei colleghi in Francia, Inghilterra e in USA.
Comunque ne parleremo con calma durante i giorni del Festival di Campobasso.
Un caro saluto e a presto.
Gezim Hajdari
 

 POESIE EDITE E INEDITE di Steven  Grieco SUL TEMA DELL’AUTORITRATTO O DELL’IDENTITA’ O DEL POETA ALLO SPECCHIO con un Appunto dell’Autore e un Commento critico di Giorgio Linguaglossa – “Senza titolo”, “Autoritratto”, “Autoritratti”, “Tre veglie nel sogno” | L’Ombra delle Parole

giorgio linguaglossa 2011

giorgio linguaglossa 2011

caro Flavio,

qualche giorno fa, conversando con Antonio Sagredo, qui a Roma nei pressi della Metro San Paolo dove abito, mi rivelava che aveva adottato un verso di un altro poeta di cui non ricordava il nome ma che cominciava con M, ma, proseguiva, aveva avuto il sospetto che M avesse preso a prestito quel verso da un poeta precedente (infatti stava facendo ricerche…). Insomma, il verso era: «La pupilla armata convoca il delirio». Io ho risposto a Sagredo che il verso aveva una sua bellezza baroccheggiante ma che non avrei mai potuto scrivere un verso del genere, non corrispondeva alla mia filosofia e al mio stile, ma, aggiunsi, capivo però che era un verso dotato di un certo fascino, anche se di un tipo di fascino che non amavo e che non condividevo.
Fin qui la storia.
Perché l’ho raccontata?, l’ho raccontata per rispondere indirettamente a Flavio Almerighi. In fin dei conti, la poesia è un corpo unico che attraversa i secoli e i millenni, è un rimando continuo, una citazione continua e una risposta alla citazione… le filastrocche dei cantautori invece sono filastrocche e basta, non comunicano tra di loro se non per le necessità di mercato e musicali della musica applicata ai testi. La poesia, e questo è importante, è restia alla musica applicata, vive di se stessa.

      • flavio almerighi

        flavio almerighi

        almerighi

        2 maggio 2015 alle 14:43 Modifica

        Caro Giorgio, Sagredo da riformattare a parte, trovo la tua risposta un po’ semplicistica. Io non sto parlando dei soliti noti da De André in giù, io sto parlando di una stirpe di poeti, molto più musicali del poema giocagiò della Perrone o dell’erotismo poelnta e osei della Leone, giusto per citare un paio di nefandi post recentemente apparsi, che hanno prestato poesia alla canzone, Parlo per esempio di Roberto Roversi, di Pasquale Panella di Pier Paolo Pasolini se pure in tono più minore, e anche con Piero Ciampi.. Con questi dobbiamo fare i conti, e il post con le poesie di Grieco così asciutte e così belle mi ha fornito lo spunto per parlarne. Non possiamo classificarli a facitori di filastrocche per meri motivi commerciali.

        “Il mare
        al tramonto
        salì
        sulla luna
        e senza appuntamento
        dopo uno sguardo
        dietro tendine di stelle
        se la chiavò”

        Ti ricorda qualcosa?
        E’ una canzone di Zucchero, dirai. Sbagliato.
        E’ il plagio di una poesia di Piero Ciampi da parte di Zucchero, che solo in seguito ad una causa intentatagli riconobbe il “furto” e citò la fonte nelle ristampe del suo disco. Non è che il povero Sagredo ha preso il verso da Ciampi?

    1. Giorgina Busca Gernetti

      Giorgina Busca Gernetti

      Colpisce subito, di Steven Grieco, la “clarté” del dettato, sia in prosa sia in poesia.
      Che ciò derivi dall’assidua frequentazione degli Haiku o dalla sua intima natura non si potrebbe affermare con certezza. Spicca evidente, però, il linguaggio elegantemente semplice, in cui le parole si susseguono con naturalezza senza ricerca di artifici retorici o di un lessico raro.
      È molto utile la parte critica introduttiva in cui il poeta illustra la sua concezione di autoritratto e di uomo allo specchio, aggiungendo una parte diaristica: ciò consente al lettore di non sentirsi disorientato di fronte alle poesie molto originali, rispetto agli autoritratti in poesia di noti poeti.
      Parafrasando la frase di Harold Pinter citata da Steven Grieco, sostituendo a “muovi di un millimetro e l’immagina cambia” “sposta di un istante”, la nostra immagine riflessa dallo specchio sarebbe egualmente diversa da quella di un istante prima, poiché, secondo me, la visuale muta secondo lo stato d’animo che non è mai immobile nello spazio e nel tempo, ma sempre in tumulto e in divenire. Non siamo e non sembriamo sempre gli stessi.
      Gli autoritratti di Steven Grieco e l’uomo allo specchio non sono immagini fisse come in una fotografia ormai stampata, ma sono eventi, quindi atti in divenire in cui può accadere che il personaggio creda di poter vedere una cosa che gli è nota e invece, guardando bene, ne vede un’altra, sebbene simile, come i fiori bianchi del pero o altre fioriture di altri alberi.
      Anche la fotografia, non solo l’immagine resa dallo specchio, non coincide perfettamente con l’identità del soggetto. La fotografia trasforma la nostra immagine in relazione a tanti fattori che un bravo fotografo conosce (non mi riferisco al ritocco fotografico). L’immagine resa dallo specchio spesso è diversa da uno specchio all’altro, in relazione alla qualità e alla forma della superficie riflettente, alla luce e all’eventuale antichità dello specchio.
      Tutto, dunque, è relativo, quindi l’autoritratto né si prefigge di riflettere perfettamente l’identità del soggetto, né vi riesce, pur volendolo, sia con i colori, sia con le parole.
      Non analizzo una ad una le pregevoli poesie di Steven Grieco perché gli farei torto: la vera poesia si spiega da sola. Mi attira, però, “Senza Titolo”:
      .
      Nessun branco di cervi nella radura.
      .
      La concentrazione invisibile
      alla sorgente ferma del pensare:
      allora, senza nemmeno uno specchio,
      vedesti l’immagine di te stesso.

      (1986)
      .
      Credo anch’io che l’immagine più fedele del soggetto, senza bisogno di specchio, sia nel profondo del pensiero, nella mente, nell’animo. Forse!

      Giorgina Busca Gernetti

        • Corrige: “susino”, non “pero”.
          Comunque entrambi gli alberi da frutto hanno una splendida fioritura bianca molto simile a “quell’altro biancore”.
          GBG

          Lucia Gaddo Zanovello

          Lucia Gaddo Zanovello

          Lucia Gaddo Zanovello

          2 maggio 2015 alle 16:09 Modifica

          Credo che ciascuno di noi sia talmente in continua mutazione da risultare molto difficile l’autoritratto, sotto qualunque forma, non può trattarsi che di un’istantanea. Quello che ha del mirabolante è l’eventuale ‘riconoscersi’, il che accade raramente. Nelle istantanee che restano o non restano del temporaneo resiste l’attimo di di ciò che fummo. Personalmente avverto sempre come se ci fosse in me qualcosa di morboso quando mi faccio osservatrice di fotografie, quasi fossi a spiare, in una sorta di bird watching, quel che accade ai corpi sottoposti al passaggio terreno. Un indagare che ha dell’origliare, talora anche con occhi di contemplazione, o dello scrutare per conoscere o riconoscere qualcosa di ciò che si ritiene perduto.
          Tanto mi interessa l’attimo dell’”io nascosto” in ciascuno di noi, che forse può essere solo ‘sfiorato’, proprio come dice Steven Grieco nella sua poesia, da parermi, questi, attimi di verità, che qui, nelle poesie di Steven Grieco trovo in abbondanza.
          Avverto anch’io in questi testi il nitore orientale della sintesi felice, come in quello più volte citato del susino, dove trovo il folgorante assunto “incredulo/ guardai a lungo quell’altro biancore”.
          Ma sono rimasta molto impressionata in “Autoritratti”, da passaggi come questo: “Niente sgretola l’ignaro che non vede,/ aggiogato, indistruttibile:/ che continua la sua fuga, si disfa e/ si ricrea, di corpo in altro corpo.” o quest’altro: “…i visi gettati qua e là:/ gli sguardi che dormono incatenati.” che sono, secondo me, da studiare e ristudiare.

    1. Steven Grieco

  1. Grazie a Giorgio per questi commenti su precisi aspetti della mia poetica. Non ha fatto che arricchire il mio lavoro. In effetti, se la critica e l’analisi letteraria devono servire a qualcosa, è proprio a questo: illuminare il senso di una scrittura, contestualizzarla, dare strumenti per interpretarla meglio. Da quando ci conosciamo (un anno, poco più), Giorgio ha spesso preso coraggio e commentato la mia poesia, che viene detta “difficile” (a Delhi come a Roma), e non posso dire quanto gliene sono grato.
    Riguardo a Fenollosa, fantastico! Bisognerebbe che ciascun poeta si leggesse quei passi, per avere in mano oggi uno strumento potente – la comprensione della dinamica profonda dell’immagine, della sua ontogenesi (posso usare questo termine?) – per lasciarsi alle spalle un certo ristagno e meglio capire come la strada della poesia può andare avanti.
    Un importante studioso cinese-francese, Francois Cheng, parla proprio di questo nel suo splendido libro “L’Écriture poétique chinoise”, 1977, édition revisée 1982, Éditions du Seuil, Parigi.
    Premetto che la visione cinese, e specificamente taoista, ci rende un mondo Cielo-Terra-Uomo, inteso come un insieme unico e interconnesso e ininterrotto, un Pieno che viene messo in moto dinamico dal soffio inesausto del Vuoto. (E scusatemi per questa affrettata riduzione di un pensiero grande e importante.)
    Su questa base, l’unicità della visione estetica cinese nasce dal primo, primordiale, tratto del pennello, quello che traccia una linea nera sul foglio bianco (il Vuoto), e che è lo stesso per calligrafia, poesia e pittura. Perché in tutte e tre queste arti, l’espressione è sempre veicolata dal’immagine visiva. Nel caso della calligrafia e della poesia, quell’immagine è costituita dall’ideogramma, essere complesso che cela in sé molteplici significati, e che a volte sembra dotato di una sua coscienza, e perfino di poteri speciali (ma poi nella pittura si aggiunge spesso una poesia nella parte dove sta il vuoto, ciò che imprime al quadro, ossia alla dimensione spaziale, anche il senso temporale).
    L’uomo è dunque pienamente partecipe della realtà del mondo in ogni suo minimo particolare, che lui stesso plasma; egli è sempre tutt’uno con la natura e l’ambiente, che lo pervadono e che lui pervade.
    Come tradurre questa nozione in realtà poetica?
    Nel periodo Tang i poeti iniziano a parlare di parole piene e parole vuote. Le parole piene sono sostantivi e verbi (divisi in verbi di azione e verbi di qualità), le parole vuote sono pronomi personali, avverbi, preposizioni, congiunzioni, etc (pag 30).
    A pagina 33 del suo libro, Cheng dà un esempio che vi traduco:

    Sonno di primavera ignorare alba
    tutto intorno udire canto di uccelli
    notte passata: rumore di vento, pioggia
    i petali caduti, chissà quanti…

    E dice: “il lettore è invitato a entrare… nello stato un po’ vago del dormiente appena sveglio. Il primo verso non colloca il lettore davanti ad uno che dorme, ma lo situa al livello del suo sonno, un sonno che si confonde con il sonno della primavera. Gli altri tre versi, sovrapposti, “rappresentano” i tre strati della coscienza del dormiente: “presente (gorgheggio di uccelli), passato (rumori di vento e pioggia), futuro (presentimento di una felicità troppo fuggitiva e vago desiderio di scendere in giardino per vedere il suolo coperto di fiori). Ciò che un traduttore maldestro tradurrebbe, con un linguaggio denotativo, in “mentre dormo in primavera…” “intorno a me sento…” “mi ricordo che…” “e mi chiedo…” … evocando cioè un autore perfettamente desto… che fa un commentario al di fuori delle sensazioni.”
    Aggiungo l’ovvio: qui il poeta non usa quelle parti del discorso che subito lo differenzierebbero e lo allontanerebbero dal mondo circostante, riproponendo la contrapposizione soggetto-oggetto, chi ode-sente-pensa e cosa viene udito-sentito-pensato. In questo modo, attraverso il poeta, l’udito-sentito-pensato, e cioè l’ambiente circostante, si rivela per quello che realmente è: ossia, realtà viva, in qualche modo senziente, specchio dell’uomo, così come l’uomo è specchio di esso.
    Ecco perché tutto questo ha a che fare con l’autoritratto.

da dx Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino e, a sx  Gezim Hajdari Roma presentazione del libro Delta del tuo fiume aprile 2015 Bibl Rispoli

da dx Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino e, a sx Gezim Hajdari Roma presentazione del libro Delta del tuo fiume aprile 2015 Bibl Rispoli

caro Steven,
è indubbio che l’elemento visivo della poesia (quello che io chiamo il congegno ottico) sia stato quello che è stato maggiormente trascurato e sacrificato. La poesia italiana ha dapprima (con Pascoli e D’Annunzio) sopravvalutato l’elemento sonoro rispetto a quello visivo, con la conseguenza che le poetiche del decadentismo (come si dice nelle Accademie) hanno coltivato quasi esclusivamente una poesia di stampo lineare sonora. Una mentalità conservatrice che si è mantenuta pervicacemente fino ai giorni nostri a cui ha dato un appoggio notevole la disconoscenza della rivoluzione modernista avvenuta nella poesia europea nel Novecento, la disconoscenza dell’imagismo di Pound, delle idee di Fenollosa, degli Haiku cinesi e giapponesi. Oggi forse sono maturi i tempi per portare la nostra attenzione sugli aspetti visivi della poesia, sul rapporto soggetto oggetto (anche questo inteso sempre in modo meccanicistico e lineare come posti l’uno di fronte all’altro). Da questo punto di vista Laborintus (1956) di Sanguineti non differisce da Le ceneri di Gramsci (1957) di Pasolini, entrambe le operazioni si interessavano esclusivamente degli aspetti fonici, lessemici e lineari della poesia. Le cose non sono cambiate poi sotto l’egemonia dello sperimentalismo post-zanzottiano il quale era incapace di considerare una poesia come un congegno prevalentemente ottico, come un poliedro quadridimensionale. Questa arretratezza generale della poesia italiana del secondo Novecento si manifesta chiaramente oggi che il percorso si è compiuto. La poesia di un Umberto Fiori, come quella di un Cucchi da questo punto di vista non differisce da quella di un Magrelli, sono tutte filiazioni di una impostazione conservatrice dei problemi di poetica, costoro fanno una poesia lineare, non sanno fare altro. E qui la lezione che proviene dalla tua poesia è utilissima per far capire a chi ha orecchie per intendere, che è ormai tempo che la poesia italiana imbocchi la strada di una profonda riforma interna, pena la propria assoluta inessenzialità.

Se leggiamo la prefazione ai Novissimi (1961) di Alfredo Giuliani ci accorgiamo di quanto sia minimo lo scarto di novità impresso alla poesia italiana da questa nuova teorizzazione:

“Non soltanto è arcaico il voler usare un linguaggio contemplativo che pretende di conservare non già il valore e la possibilità della contemplazione, ma la sua reale sintassi; bensì è storicamente posto fuori luogo anche quel linguaggio argomentante che è stato nella lirica italiana una delle grandi invenzioni di Leopardi. Due aspetti delle nostre poesie vorrei far notare particolarmente: una reale “riduzione dell’io” quale produttore di significati e una corrispondente versificazione priva di edonismo, libera da quella ambizione pseudo-rituale che è propria della ormai degradata versificazione sillabica e dei suoi moderni camuffamenti. (…) Il nostro compito è di trattare la lingua comune con la stessa intensità che se fosse la lingua poetica della tradizione e di portare quest’ultima a misurarsi con la vita contemporanea. Si intravede qui un’indefinita possibilità di superare la spuria antinomia tra il cosiddetto monolinguismo, che degenera nella restaurazione classicistica, e quella “mescolanza degli stili” o plurilinguismo, che finisce in una mescolanza degli stili. (…)”

(g.l.)

  • Scrive Novalis: «La filosofia è propriamente nostalgia (…) è desiderio di sentirsi ovunque a casa propria».
    Davvero strano che Novalis non si sia accorto che aveva appena dato una definizione impareggiabile della «poesia». Da allora, dal Romanticismo è iniziato il problema dello spaesamento, dell’essere fuori-luogo, del sostare straniero in ogni terra e in ogni dimora. L’antica unità di soggetto-oggetto, il mondo omogeneo dell’epos è divenuto irraggiungibile, noi viviamo continuamente in preda ad una scissione. Anche nell’immagine riflessa dallo specchio noi vediamo la nostra scissione, la nostra irriconoscibilità. Queste poesie di Steven Grieco sono, in un certo senso, lontanissime dalla poesia, mettiamo, di un Gezim Hajdari. Per Grieco l’io si è definitivamente perso nel mondo (e non c’è alcuna ermeneutica in grado di restituirgli una pallida parvenza), per Hajdari l’io si è «dissolto» nel suo mondo primordiale, va alla ricerca del «senso» nella boscaglia del mondo primordiale (di qui il mito dell’Africa). Per Grieco la boscaglia del senso è diventata irraggiungibile, se non per istanti, brilla per un attimo e poi scompare per sempre nella oscurità dell’indeterminatezza. Per Grieco non si dà autoritratto se non per attimi, lampeggiamenti, preveggenze… per Hajdari l’autoritratto è dato continuamente nella «erranza» da un popolo all’altro, da un paese all’altro, in una continua ricerca che non diventa mai fuga…
    Per Steven Grieco la ricerca dell’autenticità sfocia nella labirintite (esistenziale, non semantica), nella infermità del tempo e dello spazio; in Hajdari, invece, non si dà mai labirintite (né semantica, né esistenziale, di qui la poetica in Hajdari del’«io disperso» e in Grieco dell’«io nascosto»), né disorientamento del suo tempo-spazio. Forse è questo il motivo che spinge Grieco a cercare nuove forme spazio-temporali nella sua poesia mentre per Hajdari il tempo è comunque secondario rispetto alla vastità dello spazio…
    Forzando un po’ i concetti, direi che nella poesia di Grieco siamo davanti ad una estetica del vuoto e nella poesia di Hajdari invece siamo davanti ad una estetica del pieno. Nel «pieno» l’io di Hajdari ricerca i bordi, la periferia dell’io mediante il giganteggiamento dell’io, il virilismo panico, la femminilizzazione del mondo; nella poesia di Steven Grieco siamo invece nel «vuoto», quella dimensione che per il Tao precede il dualismo di Yng e Yang e che dà vita al cosmo dualistico. Il vuoto è inteso come bordo del Reale, la linea della sua interna traumatica fenditura che consente il rivelarsi della Cosa (Das Ding), dove è soltanto tramite il Vuoto che si può accedere, per attimi e trasalimenti, al Pieno.
    La Cosa assume le sembianze di un vuoto centrale, di uno iato, di un buco, il suo essere una crepa all’interno del significante rende al tempo stesso la Cosa, Das Ding, un vuoto e un pieno, una Cosa e una non-Cosa, evidenziandone il carattere di Estimo. Questa estimità caratterizza la cosa mediante il suo carattere di Entfremdet, di una estraneità che abita al centro dell’io.
    E siamo arrivati al nocciolo delle questioni estetiche della poesia moderna. Al centro di me stesso c’è un vuoto, un buco, un abisso che ingoia tutte le parole, le svuota, le rende meri significanti.. in questo buco nero precipita tutto e tutto si dissolve, e tutto rinasce ma in Altro, in guisa irriconoscibile, Entfremdet
    Forse la poesia è stata l’ultima tra le arti del Novecento a scrollarsi di dosso l’ideologema del realismo in poesia, non ci si è resi conto che ciò che noi percepiamo come realismo in poesia è sempre altra cosa dal realismo della visione della vita quotidiana; perorare intorno ad una poesia realistica è perorare intorno al nulla. Sia Gezim Hajdari che Steven Grieco fanno una poesia che ha l’immagine al suo centro, pur se con sviluppi diversissimi, le immagini, in entrambi questi poeti sono “autofigurative”, celebrano se stesse, non rimandano ad altro (tipo il quotidiano o la vita privata), se non per il tramite di se stesse. La “visione” del poeta non è più la raffigurazione confortante di ciò che avviene al di fuori di noi ma è una celebrazione di ciò che avviene al di dentro delle immagini. Sono immagini autocelebrative. L’immagine diventa la pallida celebrazione di un rito, ciò che resta del «sacro» dopo la scomparsa del «sacro» dalle società dell’Occidente.
    L’immagine ci mette dinanzi a temporalità discordanti. Ogni immagine è portatrice di una propria temporalità, e tutte insieme designano la belligeranza universale meglio di quanto potrebbe fare qualsiasi arte realistica. Ma l’immagine è soltanto un equivalente surrogato, un taglio del Reale, come scriveva Benjamin l’immagine è una costellazione di presente e passato nell’attimo in cui viene attualizzata nell’ora, nell’adesso, per noi posti nel presente. Per questo noi guardando o leggendo una immagine vediamo di essa alcune cose, ed altre ne vedrà chi verrà dopo di noi in un continuum infinito.
    Una poesia che proceda per immagini forse è quella che oggi può veicolare nel lettore, meglio di altre, quel complesso intellettuale ed emotivo di cui parlava Pound agli inizi del Novecento, quella «dialettica dell’immobilità» sulla quale cogitava Benjamin. In tal senso sono significative le citazioni di alcune «immagini» della poesia di Steven Grieco fatte da Giorgina Busca Gernetti, immagini che danno il senso di una dialettica dell’immobilità.
    Forse soltanto una poesia che proceda per immagini è quella che meglio esemplifica un’Estetica dell’Ombra.
    Ogni immagine celebra la festa della vita, la molteplicità delle cose, ogni immagine è un inno alla vita e dilaziona la morte… ma ogni immagine è anche specchio dell’ombra, vive nel chiaro scuro ché, altrimenti, nella pienezza della luce, diverrebbe invisibile. Ma ogni immagine, di per sé, senza il montaggio, non può nulla, diventa insignificante; è il montaggio, come ci hanno insegnato il cinema e la televisione, che rende significanti le immagini in movimento, o le immagini immobili.
    Nessuna immagine nasce spontaneamente, o interamente composta, ciascuna immagine proviene dalla storia vivente, dall’attimo, dallo Jetzt. La fisiologia della visione ci spinge a leggere le immagini come una composizione coesa, come un tutto, e invece si tratta di una composizione polifonica dove sono le immagini e suggerire la nascita di altre immagini.
    In fin dei conti, l’immagine non è altro che una presenza dell’assenza.

    (g.l.)

  • Immagini naturali nelle poesie di Steven Grieco.
    *
    “nel grigio smisurato del cielo;”
    “un albero sconosciuto / in una nuvola di fiori”;
    “Ah, sì, il susino…”:
    “sulla terra nera”;
    “il susino fiorisce solo di bianco”;
    “quell’altro biancore!;
    *
    “ma sì li vedo, gli alberi da frutto sono fioriti”.
    ***
    Quasi un haiku:

    “ma sì li vedo,
    gli alberi da frutto
    sono fioriti”

    GBG

  • “Io disperso” e “Io nascosto” nella poesia di Steven Grieco

    “Perché loro, nella loro astuzia
    non posarono gli arnesi fin quando,
    foggiata una seconda realtà di te,
    non ti ebbero disperso.” (“Senza Titolo” 1996)
    ***
    “Guardai ancora
    il paesaggio fece balenare mille sguardi

    allora entrai profondamente in quelle nuvole
    cercando l’archetipo, la forma insita
    quando una voce squillò
    “Niente!”

    e con mano tremante sfiorai l’Io nascosto”
    (“Tre veglie nel sogno”, 3)

    GBG

     
  • Steven Grieco

    Caro Giorgio, vedo benissimo cosa intendi nel primo dei tuoi due commenti (quello di ieri sera). E’ illuminante infatti rileggere, come hai fatto tu, quel brano tratto dalla Introduzione di Giuliani a “I Novissimi”.
    Mi hai ricordato come nel 1973-74, quando iniziavo a capire bene l’Italiano e a voler scrivere in questa lingua, mi trovai fra le mani “I Novissimi”, che mi veniva presentato come volume in grado di creare una profonda frattura creativa con la poesia italiana così come si era scritta fino ad allora. Già allora tutti noi poeti, di qualsiasi paese o lingua occidentale, sentivamo che era successo qualcosa di irreparabile sul versante culturale; che in Occidente, non solo dopo la 2a Guerra Mondiale e l’Europa divisa in due campi opposti, ma adesso, con l’instaurarsi della società del consumo, la scrittura poetica, e l’arte tutta, non sarebbero mai più state le stesse. “I Novissimi”, quindi, rispondeva sicuramente ad un’esigenza sentita da tutti.
    Leggendo quella introduzione critica, e poi le poesie stesse offerte in quella antologia, trovai spunti indubbiamente interessanti, ma sentii anche un peso invisibile su di me come poeta più giovane, il peso di una ipoteca formulata da poeti più grandi che dicevano “come si deve scrivere poesia”, e che solo questa strada era ideologicamente e letterariamente possibile, pena la totale irrilevanza dei propri scritti. Predicavano una totale decostruzione di ciò che gli artisti della prima metà del Novecento e la storia recente, avevano già in massima parte decostruito.
    Ricordo anche i tanti articoli di Pasolini nel “Corriere della Sera” di allora, in cui teorizzava la morte della poesia e dell’arte in genere, lasciando sottintendere che in campo letterario lui e pochi altri (Moravia, e qualche poeta) erano gli ultimi rappresentanti di una letteratura che appunto andava morendo sotto i colpi della società capitalista e consumista.
    Il guaio è che sulla “morte della poesia” (meglio dire, oggi, su un suo silenzio generazionale o bi-generazionale) Pasolini aveva perfettamente ragione, la sua era una analisi dura e sostanzialmente vera. Ma Pasolini, come tutti gli egocentrici (forse lo siamo spesso anche noi!), non capiva che lui e altri come lui erano parte integrante del problema, che proprio le sue teorizzazioni esclusivistiche, arroganti e individualistiche affrettavano questo processo di decadenza.
    Pasolini non offriva niente alle generazioni di poeti più giovani: avrebbe invece dovuto fare il suo meglio per fornire loro una sorta di road map per attraversare la palude, invece di ripetere “non c’è più niente da fare per il malato”.
    Ed eccoci qui a capire, dolorosamente, quanto in quegli anni il sentiero di una possibile poesia attraverso la palude fosse invece rappresentato da ben altri poeti: gli Herbert, i Vasko Popa, i Transtroemer, i Gennadij Aygi, i Mihalić, i Tarkovskij, perfino qua e là un Bonnefoy, tanto per citarne qualcuno. E lasciatemi aggiungere a questa lista incompleta anche Mark Strand, e Caproni, e perché no il Luzi di “Nel magma” (e un Enzo Mazza, che ha scritto qualche libro di poesia molto bello, ricevuto sempre con il silenzio riservato a chi non apparteneva alla clique.) E poi appunto altri come loro, che avevano però tutti in comune, chi più chi meno, la volontà, la spinta, di esprimersi attraverso l’imagine, il “congegno ottico”, come dici tu, Giorgio.
    Io penso che nelle tue teorizzazioni sulla poesia come portatrice di una sostanza immaginifica “quadri-dimensionale”, ci siano molti spunti, moltissima ispirazione, si intravede un mondo possibile, più entusiasmante di tante ideologie lessemico-fonemiche.
    Certo, gli anni passano, nuove generazioni si affacciano a questo orizzonte. C’è quindi bisogno di andare sempre avanti, studiare, capire cosa una poesia immaginifica possa offrirci oggi. In inglese da sempre si usa l’espressione “imagistic poetry”, che però è espressione ancora piccola, non veicola pienamente questo potenziamento dell’immagine di cui stiamo cercando di parlare qui.
    Sarebbe bello che poeti e critici offrissero anche essi la loro visione critica sulla questione, contraria o meno, polemica anche, ma sempre costruttiva. Insomma, che venga a crearsi una piattaforma di dialogo, e che da questa scaturisca ……… una visione.

     
  • letizia leone

    Steven Grieco appartiene a quella “merce” rara di poeta-filosofo quasi del tutto inesistente in Italia, sebbene noi vantassimo robuste radici dantesche che poco hanno fruttificato!
    Da qui una parola poetica forte, di inesauribile ricchezza che continuamente richiama e sollecita riletture e approfondimenti.
    Una parola che provocata dal visibile immette nell’imprevedibilità della visione, nella sua impermanenza o nel suo riflesso in uno specchio.
    Oltre ai poeti convocati da Grieco e Linguaglossa nelle loro ricche riflessioni, riporto questo testo di Paul Celan nella traduzione di Barnaba Maj:

    Innanzi al tuo volto maturo,
    in solitario cammino fra
    notti che pure trasformano,
    qualcosa venne a fermarsi,
    che già un tempo fu tra noi, non
    toccato da pensieri.

    Mi sembra un ulteriore esempio di predicato che diventa “evento” ed interpella.

    E poi vorrei ricordare un grande maestro novecentesco del “congegno ottico” e della resa iconica del linguaggio: il marginalizzato Giovanni Testori, basti pensare ai suoi lussureggianti “Trionfi” o alle “Suite per Francis Bacon”, la sua ékphrasis, la critica-scrittura sull’arte che approda infine alla serie pittorica delle Crocifissioni…
    Forse l’arte contemporanea ha intravisto quel “mondo possibile” quando estremizza e fa del volto stesso dell’artista il teatro operatorio, (Orlan) offerta di carne alle possibilità del linguaggio e della forma…ma si aprono altri territori dove portare in gita scolastica i minimalisti.

     
    • Steven Grieco

      Bellissima la citazione da Celan, poeta che non ho ricordato nella mia lista, per mia insufficienza. E dire che Celan l’ho praticato per anni e anni e anni, anzi andai al ponte Mirabeau (allora studiavo a Parigi) pochi mesi dopo la sua scomparsa, per capire…
      Grazie a Letizia Leone.
      E certamente mi leggerò Testori. Grazie dei suggerimenti.

       
  • Steven Grieco

    Scusatemi se ho dimenticato ieri di tradurre la citazione di Harold Pinter. Comunque Giorgina Busca Gernetti, commentandola e volgendo il concetto nella sua dimensione spaziale (assoluto colpo di genio!!!), ha reso quella citazione supremamente accessibile, penso, a tutti i lettori.
    Sono rimasto molto colpito dalla profonda somiglianza fra il Tao e gli Upanishads. Infatti, tutti e due hanno portato certi uomini a pensare profondissimamente l’Essere, facendo loro scoprire che al “centro” del proprio essere esiste un vuoto. Non un parmenideo non-essere, non un terrore ontologico, bensì un Vuoto indicibile, foriero di ogni inizio, di ogni creatività, di ogni apparire fenomenologico del mondo.
    E’ per questo che il nichilismo occidentale (che però tanta ricchezza di idee e di ispirazione ha dato al pensiero filosofico e all’arte d’Europa) non può esistere in Asia, almeno non nel senso di “Nulla – Divenire – Ritorno al Nulla”. In Asia la memoria del mondo travalica la vita unica, travalica la Storia, travalica il DNA; ricorda la vita ad ogni cosa, fa germogliare il seme, fa decomporre il cadavere, fa nascere il pensiero umano, fa rotolare il sasso giù per la china. Soprattutto vede in ciò che sembra “non essere”, potenzialità, creatività allo stato primordiale.
    Pervaso come sono da questo senso delle cose, ho cercato di capire in quale specifico modo tutto ciò verte su di me, poeta: e capisco che io lo individuo in quel punto mentale, quell’attimo psichico, in quel territorio grigio del pre-pensiero (che sparisce l’attimo che ci accorgiamo della sua esistenza) – in quel luogo (o tempo?), insomma, che esiste prima che il pensiero “auto-cosciente” inizi a sgorgare, prima che cogitazione diventi ideation, formulazione ideativa, immaginifica, espressione.
    Così, per me, “concetto” è anch’esso “immagine”, ma solo in quel primo momento, quando questo si affaccia alla mente pensante. Se non immagine, sicuramente “figurazione”, il cui etimo affonda nel senso di “toccare”, “palpare”. Chissà, è forse per questo che i cinesi crearono un alfabeto di ideogrammi (concreti ed astratti nel contempo). E’ in questo senso, anche, che l’idea astratta, la concettualizzazione porta con sé emotività, fragilità umana (così come lo fa l’immagine).
    E comunque il grado di astrazione del nostro pensiero è sempre in bilico, se lo stesso etimo di “astratto” viene da ab-trahere, e l’etimo di “concetto” viene da cum-capere. E’ interessante notare come nelle lingue euro-asiatiche (il sanscrito non fa eccezione) le parole più astratte e concettuali comunque affondano in etimi di significato concreto. Vedi “idea” nel dizionario etimologico online.

    idèa: voce connessa a eidèo che ha il senso di “vedere”, non che l’altro di “sapere”, “conoscere”, e ad eideos, “vista”, “intuizione”, “imagine”, dalla stessa radice del lat. vìd-eo, “vedo”.
    E’ il pensiero corrispondente ad un oggetto esteriore, o, come altri definisce, la Imagine d’un oggetto, sulla quale la mente fissandosi e confrontandola con altre imagini forma giudizi e raziocini; d’onde il senso secondario di Tipo, Modello, Primo concepimento d’una opera, Abbozzo.

    Forse non esistono nella lingua degli uomini, parole “astratte” in senso assoluto. Possiamo solo partire da una certa concretezza per arrivare all’astrazione.
    Parlando di nichilismo e assenza di nichilismo, non si pensi che io voglia in qualche modo mettere pensiero asiatico e pensiero occidentale su diversi scalini di una sedicente scala di valori o di una qualche gerarchia. Io individuo soltanto l’eccellenza che in modi talvolta divergenti ciascun sistema ha saputo dare all’uomo.
    Vorrei dire che stiamo qui parlando, soprattutto quando parliamo come poeti e artisti, delle fonti del pensiero ideativo e immaginifico, e si tratta di un fatto comune agli uomini di tutte le civiltà. Per cui vogliamo sì individuare i limiti fra un sistema di pensiero e l’altro, ma vogliamo anche trovare, laddove questo esiste, la comunanza fra i due. Per fare ciò è necessario decostruire in qualche misura la inaccessibile fortezza del pensiero filosofico-psicologico occidentale (nel senso che questa spesso non riesce a dialogare con altri sistemi), e anche decostruire l’immagine troppo fumosa, “intuitiva”, “spiritualeggiante”, “misticheggiante” del pensiero asiatico.
    Io ho constatato che il rigore di un ragionamento filosofico consecutivo e logico appartiene in genere ai sistemi di pensiero di tutta l’area euro-asiatica (l’unica che conosco).

    Finisco dicendo che mi è piaciuto molto questo pezzo nel commento di ieri di Lucia Gaddo Zanovello: “Personalmente avverto sempre come se ci fosse in me qualcosa di morboso quando mi faccio osservatrice di fotografie, quasi fossi a spiare, in una sorta di bird watching, quel che accade ai corpi sottoposti al passaggio terreno. Un indagare che ha dell’origliare, talora anche con occhi di contemplazione, o dello scrutare per conoscere o riconoscere qualcosa di ciò che si ritiene perduto.”
    Questa è già una poesia, e molto precisa e tagliente, sulla condizione dell’uomo nel XXI secolo.

15 commenti

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UN POEMETTO di Gëzim Hajdari “Custode della mia uva” tratto da Delta del tuo fiume (Ensemble, 2015)  con un Commento di Giorgio Linguaglossa

da sx Gezim Hajdari Marco Onofrio Giorgio Linguaglossa Roma presentazione del libro

da sx Gezim Hajdari Marco Onofrio Giorgio Linguaglossa Roma presentazione del libro “Delta del tuo fiume” Biblioteca Rispoli 2015

 Gëzim Hajdari, è nato nel 1957, ad Hajdaraj (Lushnje), Albania, in una famiglia di ex proprietari terrieri, i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Nel paese natale ha terminato le elementari, mentre ha frequentato le medie, il ginnasio e l’istituto superiore per ragionieri nella città di Lushnje. Si è laureato in Lettere Albanesi all’Università “A. Xhuvani” di Elbasan e in Lettere Moderne a “La Sapienza” di Roma.

In Albania ha svolto vari mestieri lavorando come operaio, guardia di campagna, magazziniere, ragioniere, operaio di bonifica, due anni come militare con gli ex-detenuti, insegnante di letteratura alle superiori dopo il crollo del regime comunista; mentre in Italia ha lavorato come pulitore di stalle, zappatore, manovale, aiuto tipografo. Attualmente vive di conferenze e lezioni presso l’università in Italia e all’estero dove si studia la sua opera.

Nell’inverno del 1991, Hajdari è tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, partiti d’opposizione, e viene eletto segretario provinciale per i repubblicani nella suddetta città. È cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës, nel quale svolge la funzione di vice direttore. Allo stesso tempo scrive sul quotidiano nazionale Republika. Più tardi, nelle elezioni politiche del 1992, si presenta come candidato al parlamento nelle liste del PRA.

Nel corso della sua intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione, ha denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, gli abusi, la corruzione e le speculazioni della vecchia nomenclatura di Hoxha e della più recente fase post-comunista. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce subite, è stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal proprio paese.

La sua attività letteraria si svolge all’insegna del bilinguismo, in albanese e in italiano. Ha tradotto vari autori. La sua poesia è stata tradotta in diverse lingue. È stato invitato a presentare la sua opera in vari paesi del mondo, ma non in Albania. Anzi, la sua opera, è stata ignorata cinicamente dalla mafia politica e culturale di Tirana.

È presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale e cittadino onorario per meriti letterari della città di Frosinone. Dirige la collana di poesia “Erranze” per l’editore Ensemble di Roma. È presidente onorario della rivista internazionale on line “Patria Letteratura” (Roma), nonché membro del comitato internazionale della Revue électronique “Notos” dell’Université Paul-Valery, Montpellier 3. Considerato tra i maggiori poeti viventi, ha vinto numerosi premi letterari. Dal 1992, vive come esule in Italia.

gezim-hajdari-nel-suo-studio-2006.

gezim-hajdari-nel-suo-studio-2006.

Ha pubblicato in Albania: Antologia e shiut, “Naim Frashëri”, Tirana 1990;Trup i pranishëm / Corpo presente, I edizione “Botimet Dritëro”, Tiranë 1999 (in bilingue, con testo italiano a fronte). Gjëmë: Genocidi i poezisë shqipe, “Mësonjëtorja”, Tirana 2010. Ha pubblicato in Italia in bilingue: Ombra di cane/ Hije qeni, Dismisuratesti 1993; Sassi controvento/ Gurë kundërerës, Laboratorio delle Arti,1995; Antologia della pioggia/ Antologjia e shiut, Fara, 2000; Erbamara/ Barihidhët, Fara, 2001; Erbamara/ Barihidhët, (arricchita con nuovi testi rispetto alla prima edizione). Cosmo Iannone Editore 2013; Stigmate/ Vragë, Besa, 2002. II edizione Besa 2007; Spine Nere/ Gjëmba të zinj, Besa, 2004. II edizione Besa 2006; Maldiluna/ Dhimbjehëne, Besa, 2005. II edizione Besa 2007; Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit, Fara, 2005; Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit, II edizione arricchita e ampliata, Fara 2007; Puligòrga/ Peligorga, Besa, 2007; Poesie scelte 1990 – 2007, EdizioniControluce 2008; Poesie scelte 1990-2007, II edizione (arricchita con nuovi testi). EdizioniControluce 2014; Poezi të zgjedhura 1990 – 2007 (versione in lingua albanese di Poesie scelte), Besa, 2008; Poezi të zgjedhura 1990 – 2007, II edizione (versione in lingua albanese di Poesie scelte), Besa, 2014; Corpo presente/ Trup i pranishëm, Besa 2011; Nur. Eresia e besa/ Nur. Herezia dhe besa, Edizioni Ensemble 2012; I canti dei nizam/ Këngët e nizamit (i canti lirici orali dell’800,con testo albanese a fronte). Besa Editrice 2012; Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista/ Rroftë kënga e gjelit në fshatin komunist (con testo albanese a fronte). Besa 2013.

Libri reportage di viaggio: San Pedro Cutud. Viaggio nell’inferno del tropico, Fara, 2004; Muzungu, Diario in nero, Besa, 2006. Libri sull’opera di Hajdari: Poesia dell’esilio. Saggi su Gëzim Hajdari, a cura di Andrea Gazzoni. Cosmo Iannone Editore 2010. La besa violata. Eresia e vivificazione nell’opera di Gëzim Hajdari, a cura di Alessandra Mattei. Edizioni Ensemble 2014. Ha tradotto in albanese: L’antologia Poesie /Poezi, ( con testo italiano a fronte) di Amedeo di Sora. “Botimet Dritëro”, Tiranë 1999. Forse la vita è un cavallo che vola, / Ndoshta jeta është një kalë fluturak, (con testo italiano a fronte, Edizioni Empiria 2000. L’antologia/ Eshka dhe guri/ Il muschio e la pietra (con testo italiano a fronte) di Luigi Manzi. Besa 2004.

Ha tradotto in italiano: I canti dei nizam/ Këngët e nizamit(i canti lirici orali dell’800,con testo albanese a fronte). Besa Editrice 2012. Leggenda della mia nascita/ Legjenda e lindjes sime (con testo albanese a fronte) di Besnik Mustafaj. Edizioni Ensemble 2012. Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista/ Rrofte kenga e gjelit ne fshatin komunist (con testo albanese a fronte). Besa 2013 – È co-curatore in italiano: dell’antologia I canti della vita (con testo arabo a fronte) del maggior poeta tunisino del Novecento, Abū’l-Qāsim Ash-Shābb, Di Girolamo Editore 2008. È curatore e co-traduttore (insieme ad Andrea Gazzoni) dell’antologia Dove le parole non si spezzano (con testo originale a fronte) del poeta più importante delle Filippine, Gémino H. Abad, (Edizioni Ensemble 2014).

da dx Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino e, a sx  Gezim Hajdari Roma presentazione del libro Delta del tuo fiume aprile 2015 Bibl Rispoli

da dx Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino e, a sx Gezim Hajdari, Roma presentazione del libro Delta del tuo fiume aprile 2015 Bibl Rispoli

Ha pubblicato in Italia in edizione bilingue: Ombra di cane/ Hije qeni, Dismisuratesti 1993; Sassi controvento/ Gurë kundërerës, Laboratorio delle Arti,1995; Antologia della pioggia/ Antologjia e shiut, Fara, 2000; Erbamara/ Barihidhët, Fara, 2001; Erbamara/ Barihidhët, (arricchita con nuovi testi rispetto alla prima edizione). Cosmo Iannone Editore 2013; Stigmate/ Vragë, Besa, 2002. II edizione Besa 2007; Spine Nere/ Gjëmba të zinj, Besa, 2004. II edizione Besa 2006; Maldiluna/ Dhimbjehëne, Besa, 2005. II edizione Besa 2007; Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit, Fara, 2005; Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit, II edizione arricchita e ampliata, Fara 2007; Puligòrga/ Peligorga, Besa, 2007; Poesie scelte 1990 – 2007, EdizioniControluce 2008; Poesie scelte 1990-2007, II edizione (arricchita con nuovi testi). EdizioniControluce 2014; Poezi të zgjedhura 1990 – 2007 (versione in lingua albanese di Poesie scelte), Besa, 2008; Poezi të zgjedhura 1990 – 2007, II edizione (versione in lingua albanese di Poesie scelte), Besa, 2014; Corpo presente/ Trup i pranishëm, Besa 2011; Nur. Eresia e besa/ Nur. Herezia dhe besa, Edizioni Ensemble 2012; I canti dei nizam/ Këngët e nizamit (i canti lirici orali dell’800,con testo albanese a fronte). Besa Editrice 2012; Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista/ Rroftë kënga e gjelit në fshatin komunist (con testo albanese a fronte). Besa 2013. Libri reportage di viaggio: San Pedro Cutud. Viaggio nell’inferno del tropico, Fara, 2004; Muzungu, Diario in nero, Besa, 2006 – Libri sull’opera di Hajdari: Poesia dell’esilio. Saggi su Gëzim Hajdari, a cura di Andrea Gazzoni. Cosmo Iannone Editore 2010. La besa violata. Eresia e vivificazione nell’opera di Gëzim Hajdari, a cura di Alessandra Mattei. Edizioni Ensemble 2014

Ha tradotto in albanese: L’antologia Poesie /Poezi, ( con testo italiano a fronte) di Amedeo di Sora. “Botimet Dritëro”, Tiranë 1999. Forse la vita è un cavallo che vola, / Ndoshta jeta është një kalë fluturak, (con testo italiano a fronte, Edizioni Empiria 2000. L’antologia/ Eshka dhe guri/ Il muschio e la pietra (con testo italiano a fronte) di Luigi Manzi. Besa 2004.

Ha tradotto in italiano: I canti dei nizam/ Këngët e nizamit(i canti lirici orali dell’800,con testo albanese a fronte). Besa Editrice 2012. Leggenda della mia nascita/ Legjenda e lindjes sime (con testo albanese a fronte) di Besnik Mustafaj. Edizioni Ensemble 2012. Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista/ Rrofte kenga e gjelit ne fshatin komunist (con testo albanese a fronte). Besa 2013 – È co-curatore in italiano: dell’antologia I canti della vita (con testo arabo a fronte) del maggior poeta tunisino del Novecento, Abū’l-Qāsim Ash-Shābb, Di Girolamo Editore 2008. È curatore e co-traduttore (insieme ad Andrea Gazzoni) dell’antologia Dove le parole non si spezzano (con testo originale a fronte) del poeta più importante delle Filippine, Gémino H. Abad, (Edizioni Ensemble 2014).

dal Risvolto di copertina del libro di Giorgio Linguaglossa

Il logos poetico di Gëzim Hajdari è governato dalla legge dell’identità nella molteplicità poiché parte dalla presa d’atto dell’esilio fisico e spirituale del parlante il quale non abita più la patria, la Heimat del linguaggio e del paesaggio, perché ne è stato escluso da un ingiusto esilio. Privato della propria patria, il parlante è  costretto a peregrinare di terra in terra, a mescolare il proprio idioma con quello di altri paesi e di altre Lingue, il suo sarà un canto dell’erranza e della trasfusione di Lingue nella Lingua universale-primordiale che sola può ospitare il canto dell’erranza. Al pari di un aedo antico, Hajdari parla la «lingua degli antenati, lo kiswahili», si mescola con altri erranti di tutte le lingue e di tutti i paesi, costretto ad inseguire il proprio destino come un Fato pagano: il canto della fedeltà e dell’infedeltà alla propria Lingua e al proprio popolo, di qui il Tragico che incombe su ogni parola pronunciata, il giganteggiamento dell’io, il canto dell’addio («Vado via Europa, vecchia puttana viziata… Addio Europa di muri, impronte delle dita e tombe d’acqua»); infatti la forma di questa poesia  è calcata, alla maniera antica, su quella dell’epicedio e dell’inno. È la voce dell’oracolo antico che parla («Io venivo dai luoghi dell’oracolo di Delfi»), che si rivolge all’antica deità-femminile della «savana», del mondo femminile da lungo tempo scomparso che è compito dell’aedo riportare in vita.

Gezim Hajdari delta-del-tuo-fiume cop(Tratto da Delta del tuo fiume. Ensemble, 2015)

Gëzim Hajdari

ROJË I VERËS SIME

Burrë skifter mbërritur nga toka e gurtë e Drasisë,
larguar nga atdheu yt në pranverë,
natën, nën shi,
i mposhtur,
pa një shtërngim dore,
dëgjoje kët’ thirrje vajzërore në muzg:
mos e braktis vreshtën time në pjekje,
jam e re, kam ende dëshirë për ty,
për dimrat e tu,
për shirat e tua,
për hijen tënde të huaj.

Trupi im prej kaprolleje dridhet,
eja t’më shuash, po digjem horë,
flakët ma pushtojnë gjoksin prush,
lëkura ime vallzon,
venat e mia këndojnë,
gjinjtë e mi fërgëllojnë,
buzët e mia të gjakëruara përvëlojnë,
hëna e errët e mbivetes sime
çel lule erotike gjithë aromë.

Harroje ezilin e hidhët,
tokën tënde njerkë në Lindje,
përtej detit të errët,
shqipet e zeza dykrerëshe që ta shqyejnë pa mëshirë
mishin e dobët ballë kalimtarëve.

Në Ballkanin tënd,
delirë dhe pluhur,
askush s’të pret,
veç mallkimit të xhinëve.

Dua të ta lehtësoj plagosjen e gurëve në trup
dhe dhimbjen e gjëmbave të zinj ngulur në lëkurë
me mushtin e dëlirë të verës sime.
Mos kij frikë nga shpirtrat e ligë,
asnjë njeri me të zeza s’troket në derën tënde të vjetër,
askush s’të ndjek pas për të të thikuar.
Ka kohë para se librat e tu – murgj të hidhëruar –
ta varrosin në heshtje trupin tënd
majëkodrës së errët.

Dorëzohu lakmisë sime dashurore tok me xhinët
e vragat e tua,
mirëprite thirrjen time prej gruaje
në kët’ gadishull të drishshëm me trupa zezakësh të mbytur.
Perënditë të zbritën nga Alpet e Arbërsië
për të të vënë në provë dashurie,
për të të shpallur të barabartë me to,
për t’më takuar mua, vashëz të arrirë
mbërritur në Çoçari nga detet e Jugut,
lajmëtare e ezilantëve në ikje.
Shqipëria jote, nënë dhe kuçedër,
të ka lindur e rritur
për të të shqyer mes gurëve
e mallkuar trupin,
gjuhën tënde
dhe sytë e tu
gjer në verbëri.

Mos i kthe sytë nga vendi ballkanas,
në lëkurën tënde veç gjëmba e vraga të thella,
majëkodrave të vendlindjes prehet terrori i viteve të gjelbër .

Burrë ezilant,
jam vreshta jote në mbretërinë tokësore,
lindur nga rropullitë e dheut të kuq të Saturnit,
për të të dehur me nektarin tim vajzëror
e ta humbësh rrugën e kthimit në Darsi,
për të të bërë të vdesësh e të rilindësh mijëra herë në ezil.
Dua të jem e burgosura e gjogut tënd të egër,
dua të jem himn i kërcellit tënd të epshëm.

Ti je pika që më ushqen me ezil,
më vadit si shiu i rrëmbyer në vjeshtë dheun e çarë,
më mban zgjuar e gjallë në gadishullin me tërmete,
më fekondon nga stina në stinë me hëna të plota
dhe mbyll qarkun tim,
dua të marr frymë me lëkurën tënde ezilante.

Burrë fshatar,
dua të fekondohem në vendlindjen tënde të hershme,
majëkodrës së errët me tërshërë të gjelbër
ku ndeshen demat e gjakosur hamulloreve
dhe ndërzehen rrufetë,
Dua t’i jap jetë një fisi të ri
sepse lufta jote prej guerrieri të vazhdojë,
sepse emri yt gdhendur mbi gurë të jetojë ndër shekuj
dhe Verbi yt mbretëroftë në mbretërinë e Njerëzve.

Puthi buzët e mia të tulta,
kafshoji thumbat e gjirit tim siç kafshoje kokrrat e razakisë
së kuqe në Hajdaraj,
Puthi gjinjtë e mi si dy pjeshka të kodrave të vendlindjes,
të ëmbël si hallva të vendit tënd Lindor,
si pekmez mani të kuq përgatitur nga Nur.
Shijoje frutin e lëngët të luginës sime të freskët
që parfumon si myshku i blirit në pyllin e Çapokut ,
e mirëprite natën time-perlë në shtratin me gurë stralli.
Përshkoje trupin tim dorëzuar me arkanin tënd,
pije qafën time prej kaprolleje,
shtërngoji me duart e tua prej profeti hiret e mia,
pëmendi gishtata e mi filiza pranverorë.

Burrë Laokont,
hyj në korijen time të etur tok me gjëmimet
e vetëtimat e provincës tënde bujqësore,
shuaje etjen time te burimi yt.

Jam vera rubinë e shtatorit që kullon
në oborrin e Verbit tënd shtegëtar
dhe ti, ezilant e rojtar i vreshtës sime plot musht.
Krahët e mi: degë që të shënjtërojnë,
duart e mia: lastarë që më lidhin duarve të tua,
gishtat e mi: rrënj që presin të lërojnë trupin tënd të pjekur,
dikur bari dhish.

Dashuria jote ezilante,
dashuria jote e huaj në kalim,
dashuria jote herezi,
dashuria jote pjellori blasfeme.

Burrë dem që parfumon eros,
sapo më vështron, unë lagem,
sapo më fshik, unë ndjehem grua,
sapo më zotëron, u dorëzohem xhinëve të tu,
sapo më prek gjer në fund, unë klith,
kur ti më lëron me plugun tënd, qaj nga gëzimi,
kur ti derdhesh, ndjej energinë tënde erotike
teksa përshkonë lëkurën time të lëmuar
si fëshfërima e erës që fshik valët
e dunave në shkretirë ;
jam duna jote,
ikja jote,
kur ti vdes tek unë, une ringjallem tek ty.

Burrë ballkanas,
jam robinja jote,
dua të blihem prej teje në pazarin e luleve.
Trupi im, kalorëse e çarmatosur,
gati për tu përshkuar nga shpata jote e pafajshme.
Lëshoji shirat e tu të bardhë pyllit tim të zi
e shëmbi argjinaturat e brishta të ujrave të mi.
Dua t’i ulërij botes se unë të dëshiroj,
dua t’i rrefej botes se unë dashuroj një burrë,
dua t’i klith para botës se ti je burrë
dhe unë jam grua.
Dua t’i ndaloj njerëzit në rrugë e tu them:
«e di që s’ju intereson aspak por unë dashuroj një burrë epik!»

Burrë guerrier i Lindjes,
mbërthemë me trupin e fuqishëm mashkullor
si një dem i harbuar i Shegasit ,
shfletomë siç shfleton era pranverore
sythat e lajthatës në zabelin e zhveshur,
gjelbëromë me lavën tënde të vakët pjellore
siç gjelbëron oazi mes rërës në shkretëtirë,
dhe bëj që nga perla ime të lindin fruta erotike
me ngjashmërinë tënde.
Të himnizoj siç celebrohet një kult hyjnor në Darsi,
të shënjtëroj siç shënjtëroheshin perënditë
në Arbërinë e lashtë,
jam Zana e Tempullit tend,
rojë e flakës së përjetshme.

Burrë Uliks,
jam Sirena jote,
e do të bëj çmos të jetë i gjatë udhëtimi yt,
do të të mbështjellë me mjegulla të verbëra,
e do të të shoqëroj me këngë detare
do të të udhëheq nëpër portet e panjohur të detit mesdhe
gjatë kthimit për në Itakë
dhe ti ndërmend gjithnjë Arbërinë tënde.

Gezim Hajdari colline di Fondi, 2006

Gezim Hajdari colline di Fondi, 2006

CUSTODE DELLA MIA UVA

Uomo falco che giungi dalla terra petrosa di Darsìa ,
fuggito dalla tua patria in primavera,
di notte, sotto la pioggia,
sconfitto,
senza una stretta di mano,
ascolta il mio richiamo di fanciulla:
non abbandonare la mia vigna acerba,
sono giovane, ho ancora voglia di te,
dei tuoi inverni,
delle tue piogge,
della tua ombra straniera.

Il mio corpo di puledra trema,
vieni a domare l’incendio,
le fiamme invadono il mio ventre focoso,
la mia pelle danza,
le mie vene cantano,
i miei seni fremono,
le mie labbra rosse ardono,
la luna oscura del mio pube
germoglia fiori di eros.

Dimentica l’amaro esilio,
la tua terra matrigna dell’Est,
oltre il mare negro,
le nere aquile a due teste che divorano impietosamente
la tua debole carne
di fronte ai passanti.

Nei tuoi Balcani,
delirio e polvere,
nessuno ti attende,
solo la maledizione dei xhin ;

Voglio lenire le ferite di pietra sul tuo corpo
e le spine nere conficate nella tua pelle
con il mosto candido della mia uva.
Non temere gli spiriti maligni,
nessun uomo nero bussa alla tua vecchia porta,
né qualcuno ti insegue per accoltellarti.
C’è tempo prima che i tuoi libri – monaci mesti –
seppelliscano in silenzio la tua salma
in cima alla collina buia.

Concediti alla mia brama d’amore con i tuoi xhin
e le tue stigmate,
accogli il mio richiamo di donna
in questa penisola tremante di corpi negri annegati.
Gli dei ti hanno fatto scendere dalle alpi dell’Arbëria
per metterti alla prova d’amore,
per proclamarti pari a loro,
per incontrare me, giovane fanciulla
giunta in Ciociaria dai mari del Sud
messaggera degli esuli in fuga.
La tua Albania, madre e gorgone,
ti ha fatto nascere e crescere
per divorarti tra i sassi,
maledicendo il tuo corpo,
la tua lingua
e i tuoi occhi
fino ad accecarti.
Non voltarti indietro per vedere il paese balcanico,
nella tua pelle solo spine nere e stigmate profonde,
in cima alle colline native giacce il terrore degli anni verdi

Uomo esule,
sono la tua vigna nel regno della Terra,
sorta dalle viscere del suolo rosso di Saturno,
per farti inebriare con il mio nettare di fanciulla
e farti perdere la via del ritorno alla tua Darsìa,
per farti morire e rinascere mille volte in esilio.
Voglio essere prigioniera del tuo destriero selvatico,
come il campo arato sotto le piogge d’autunno,
voglio essere inno del tuo giunco flessibile.

Tu sei la goccia che mi nutre di esilio,
mi bagna come la pioggia bagna il suolo spaccato in autunno,
mi tiene sveglia, viva nella penisola di terremoti
mi feconda di stagione in stagione con la luna piena
e chiude il mio cerchio,
voglio respirare tramite la tua pelle esule.

Uomo contadino,
voglio essere fecondato nel tuo villaggio di una volta,
in cima alla collina buia di biada verde
dove si scontrano i tori insanguinati nei campi trebbiati
e si fecondano i fulmini.
Voglio partorire una nuova stirpe
perché la tua lotta da guerriero continui,
perché il tuo nome inciso sulle pietre si tramandi nei secoli
e il tuo Verbo regni nel regno degli Uomini.

Bacia le mie labbra carnose,
mordi i mie capezzoli come mordevi i chicchi rossi
del razakì ad Hajdaraj,
bacia i mie seni come le pesche della collina del tuo villaggio,
dolci come halwa del tuo Oriente,
come il pekmez di gelso rosso che ti preparava Nur .
Assapori il frutto succoso della mia valle
che profuma come il muschio del tiglio del bosco di Çapok ,
e cogli nel tuo letto di pietra focaia la mia notte-conchiglia.
Percorri il mio corpo arreso con il tuo arcano,
bevi il mio collo di cerbiatta,
stringi tra le tue mani da profeta le mie grazie,
nomina le mie dita rami di primavera.

Uomo Laocoonte,
entra nella mia selva assetata insieme ai tuoi tuoni
e ai lampi della tua provincia agricola,
spegni la mia sete nel tuo sorgente.

Sono l’uva candida di settembre che cola
nella corte del tuo Verbo errante
e tu, esule e custode della mia vigna.
Le mie braccia: rami che ti santificano,
le mie mani: corde che mi legano alle tue mani,
le mie dita: radici che attendono di scavare nel tuo corpo maturo:
un tempo pastore di capre.

Il tuo amore esule,
il tuo amore straniero di passaggio,
il tuo amore eresia,
il tuo amore fertilità blasfema.

Uomo toro che profumi di eros,
appena mi guardi, mi inumidisco,
appena mi sfiori, mi sento donna,

appena mi possiedi, mi arrendo ai tuoi xhin.
Quando tu mi tocchi fino in fondo, io grido,
quando tu mi scavi con il tuo vomero, piango di gioia,
quando tu ti versi in me, sento la tua energia erotica
percorre la mia pelle nuda
come il soffio del vento che sfiora le onde
delle dune del deserto;
sono la tua duna,
la tua fuga,
quando tu muori in me, io rinasco in te.

Uomo balcanico,
sono la tua robinjë ,
voglio essere comprata da te al mercato dei fiori.
Il mio corpo è una soldatessa disarmata,
pronto per essere infilzata dalla tua spada innocente.
Lancia le tue bianche piogge sulla mia foresta nera
e rompi gli argini fragili della mie acque.
Voglio urlare al mondo che ti desidero,
voglio confessare al mondo che io amo un uomo,
voglio gridare al mondo che sei uomo
ed io sono donna.
Voglio fermare la gente per strada e dire:
«so che non ti importa nulla ma io amo un uomo epico!»

Uomo guerriero dell’Est,
afferrami con il tuo corpo muscoloso,
come un toro selvatico di Shegas ,
sfogliami come sfoglia il vento di primavera
le gemme del siliquastro nel bosco spoglio,
inverdirmi con la tua tiepida lava fertile
come inverdisce l’oasi in mezzo alla sabbia del deserto.
e fai sì che dalla mia conchiglia sorgano frutti di eros
a tua somiglianza.
Ti amo come se celebrassi un culto divino in Darsìa,
ti santifico come venivano santificate gli dei
nella antica Arbëria,
sono la Sacerdotessa del tuo Tempio,
custode della sua fiamma eterna.

Uomo Ulisse,
sono la tua Sirena,
farò sì che lungo sia il viaggio,
ti avvolgerò con nebbie cieche,
e ti accompagnerò con canti marini,
ti guiderò per i porti sconosciuti del mare nostrum
al ritorno nella tua Itaca,
e tu rammenta sempre la tua Arbëria.

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POESIE SCELTE di Faslli Haliti dalla ANTOLOGIA (1969-2004) EdiLet, 2015 a cura di Gëzim Hajdari Presentazione di  Gëzim Hajdari

Tirana scorcio urbano

Tirana scorcio urbano

dalla Introduzione di Gëzim Hajdari

Il poeta Faslli Haliti credeva come Majakovskij ed Esenin in un socialismo dal volto umano. I due poeti della Russia sovietica hanno cantato e sublimato con grande fervore, seppur per breve tempo, la rivoluzione bolscevica e il compagno Lenin. Sulle orme di Majakovskij e di Esenin iniziò il suo cammino poetico anche il giovane poeta albanese di Lushnje. Erano gli anni ’60 quando Haliti scriveva: «Per voi, Partito ed Enver Hoxha[1], noi dormiamo anche sul ghiaccio / per voi noi ci copriamo con lenzuola di neve». Il poeta di Lushnje ha amato molto nella sua gioventù i cantori della madre Russia e, dopo la tragica fine del comunismo nella sua Albania, Haliti diede la ‘colpa’ proprio ai suoi maestri sovietici perché aveva creduto ciecamente in loro. Così come Majakovskij ed Esenin, anche il poeta Haliti, pur in una dimensione assai diversa, rimase ‘vittima’ dell’utopia marxista, che fece decina di migliaia di morti in Albania seminando in tutto il Paese terrore, morti, sangue e distruzione di massa.

 Faslli esordisce nel panorama poetico albanese alla fine degli anni ’60. Proprio nel 1969 venne pubblicata la sua prima raccolta, Sot (Oggi). I suoi versi portano un nuovo respiro poetico nel panorama del realismo socialista, l’originalità, la sobrietà del pensiero, nonché un forte senso critico nei confronti della burocrazia del regime. Il suo linguaggio è lapidario e tagliente. L’intensità del verbo e la particolarità dello stile, fecero attirare l’attenzione dei lettori e della critica ufficiale. Questa silloge vinse il secondo premio nazionale per la poesia. Haliti è di origine contadina, e come tale, portava nei suoi testi la musicalità della campagna, le voci della vita e l’angoscia del vivere quotidiano. Profumi campestri, stagioni, colori, simboli e figure mitologiche percorrono la geografia del suo io poetico, come sfida alla retorica della cultura ufficiale del regime. Fermezza e ribellione convivono nel suo messaggio poetico.

Manifestazione a Tirana, 1990

Manifestazione a Tirana, 1990

 Alcuni suoi testi furono dei veri e propri «manifesti» che colpivano senza pietà il cuore della burocrazia del regime comunista. Si può dire che la parte più interessante della sua produzione, come per la maggior parte dei poeti del blocco sovietico, rimane quella scritta sotto la dittatura comunista, e non è un caso. Basterebbe Njeriu me kobure (L’uomo con la pistola) per capire la forza dei versi e l’impatto che questo testo ebbe sui lettori negli anni ’70. Questi i versi: «Lui aspetta che tiri vento / Non per vedere gli alberi spogli / Non per veder cadere le foglie gialle / Ma per far alzare il lembo della giacca / E far vedere la pistola nella cintola. / Lui aspetta che venga la primavera / Non per mietere e falciare / Ma per togliere la giacca / E far vedere sotto la giacca / La pistola[2]». Questo testo è stato giudicato sovversivo e revisionista, e aspramente criticato durante il IV° famigerato plenum del PCA, nel ’73. Che condannò in prigione decine di intellettuali e scrittori accusandoli di essere influenzati dall’arte borghese dell’Occidente.

Erano gli anni in cui la critica ufficiale insisteva perché nell’arte si rispecchiassero ancora maggiormente gli insegnamenti e le idee del Partito; gli anni della pianificazione della nuova estetica di Stato e dell’affermazione dell’uomo nuovo del socialismo, plasmato dal partito e forgiato sotto l’incudine della classe operaia e contadina; “l’uomo muscoloso e stakanovista” che vigila, giorno e notte, per difendere le vittorie e la patria dai nemici. Nelle opere letterarie, i temi esistenziali e metafisici, come per esempio il sentimento di oppressione e di incertezza quotidiana, erano proibiti. Persino le parole ‘amore’, ‘morte’, ‘buio’, ‘freddo’, ‘angoscia’ venivano considerate pericolose. Coloro che osarono rompere col ‘pesante silenzio’, che aveva cancellato memoria e sogni di libertà, lo pagarono a caro prezzo. Il valore di un’opera si misurava rispetto alla sua forza nel servire il partito, le masse e il socialismo reale. Lo slogan del “realismo socialista” era: «Il poeta dev’essere l’occhio, l’orecchio e la voce della classe», motto che proveniva ovviamente dalla letteratura madre dell’Unione Sovietica.

  Il terrore continuo e sistematico del regime nei confronti degli uomini di cultura soffocò gli spazi e l’energia della Parola. Sul palcoscenico insanguinato della poesia albanese si recitava la più fosca tragedia del tempo. Di fronte a questa tragedia umana, a questa oppressione costante, per sopravvivere spiritualmente e artisticamente i poeti rivolsero lo sguardo alle tradizioni e alla poesia del passato. Così la linfa della loro ispirazione diventò la tradizione orale e l’epica. Per sfuggire alla censura, Haliti si rivolge al mito e all’allegoria per esprimersi. La sua parola affonda le radici nel mito classico greco-latino per rileggere la realtà; la sua poesia divenne quasi un gioco fiabesco, in cui s’intrecciano il reale con il surreale. Ma i censori del regime vigilano, non si fanno sorprendere per fermare in tempo il poeta ribelle.

  La macchina inquisitoria di Hoxha praticava mille forme diverse di repressione per stritolare i “nemici della nazione” e del comunismo. All’occhio vigile dei guardiani del regime nulla poteva sfuggire. Decine di poeti e scrittori vennero allontanati, mandati nelle periferie o nelle campagne per la rieducazione ideologica. Certi furono imprigionati e i loro libri messi al bando. L’elenco dei poeti perseguitati dal regime è lungo e tragico. Le milizie di Enver Hoxha controllavano ogni angolo della vita culturale del Paese. Per il dittatore, lo scrittore era semplicemente uno strumento nelle mani del partito per l’educazione comunista del popolo, il braccio destro del potere: per questo si affermava che, in Albania, la letteratura era nata nel 1941 con la fondazione del Partito Comunista. Il marxismo divenne l’unico principio estetico della poesia e dell’arte.

besnik Mustafaj HoxaAl poeta Haliti venne tolto il diritto di pubblicare per 15 anni consecutivi: fu mandato in campagna per essere «rieducato», in quanto persona indesiderata dal Partito.

 Per diversi anni, pur essendo professore di italiano e di francese, lavora dietro il carro trainato dai buoi nella cooperativa agricola di Stato, a Fiershegan, provincia di Lushnje. Nessuno degli operai e dei contadini poteva rivolgergli la parola, perché egli era considerato dal Partito un “reazionario”.

      Il pretesto per colpire il poeta di Lushnje fu il poema Dielli dhe rrëkerat (Il sole e i ruscelli), pubblicato per la prima volta il 16 dicembre 1972 nel settimanale «Zëri i rinisë» (La Voce della gioventù). La sua apparizione nella rivista suscitò scalpore e indignazione tra gli alti dirigenti del PCA. Costoro organizzarono riunioni e dibattiti pubblici in cui sia il poema che l’autore vennero aspramente criticati. Secondo la censura, “Il sole e i ruscelli” era frutto di una confusione ideologica e politica del poeta che travisava la realtà socialista e il ruolo del Partito, minandone così l’unità con il proprio popolo. I primi versi del poema «Mentre il tetto della mia patria è celeste, ottimista. / Il tetto della mia casa è quello di una stamberga», divennero un pretesto per attaccare e denunciare l’autore. Haliti aveva osato troppo. Con un coraggio inaudito invita il popolo a spezzare “i denti alla burocrazia”. Cito: «Ordine / con il pugno della classe operaia / spezzate i denti / ai compagni. / Per spezzarli ci vogliono pietre / che non abbiamo[3]». I comunisti lo accusano di essere un poeta ribelle e anarchico, mentre i critici di Stato accostano i suoi testi a quelli dell’arte malata e decadente dell’Occidente. Haliti diventa un caso nazionale. Nel Paese si organizzano riunioni per denunciare il poema. I membri della Lega degli Scrittori si dividono in due: quelli che ammirano i versi del poeta e quelli che li disapprovano. Un gruppo di alunni del liceo della sua città natale, Lushnje, pubblica un articolo di denuncia sul giornale «Shkëndija» (La scintilla)[4], organo del PCA. Gli unici studenti che difesero con coraggio “Il sole e i ruscelli” furono Fatbardh Rustemi, Bujar Xhaferri e Tahsin Xh. Demiraj. Tahsin, dal ‘74 all’89, fu regista presso il teatro della città di Lushnje, ma venne licenziato su ordine del Partito. Per 15 anni lavorò in un’azienda di Durazzo che produceva materiali plastici. In una lettera Rustemi si rivolse a Enver Hoxha per protestare contro la condanna del poeta Haliti; Xhaferri, per difendere il suo poema, rischiò l’espulsione dal ginnasio. Per attaccare il poeta trentaseienne di Lushnje si mobilitarono anche le forze dell’ordine pubblico: il questore della città Zija Koçiu pubblicò un articolo sul giornale del partito del dittatore, «Zëri i Popullit» (La voce del popolo), in cui denunciava “l’opera reazionaria” del suo concittadino[5].

      L’eco di questa vicenda si diffuse in tutto il Paese. Piovvero critiche e denunce da varie città. Della vicenda si parlò anche al di fuori dell’Albania. A Parigi, nel 1974, il trimestrale albanese «Koha jonë» (Il nostro tempo) riportò il poema “Il sole e i ruscelli” e, nello stesso tempo, condannò la campagna denigratoria del PCA verso il poeta Haliti. Un anno più tardi, a Roma, Ernest Koliqi, nella  rivista che curava, «Shenjzat» (Le Pleiadi), conferma che «la voce di Haliti è stata soffocata dal Partito».

Tirana square

Tirana square

Nonostante tutto questo, il poeta ribelle di Lushnje non smette di scrivere. Con lo stesso coraggio pubblica altri testi contro la burocrazia, e altrettanto feroci: Djali i sekretarit (Il figlio del segretario), Unë dhe burokracia (Io e la burocrazia), Edipi (Edipo), e altri ancora. I testi di Haliti diventano oggetto di discussione persino nell’Olimpo del partito. Nel ‘73 Fiqrete Shehu, moglie del Premier Mehmet Shehu, critica la poesia Vetëshërbim (Fai da te) definendola «una poesia che non ha nulla a che vedere con l’arte rivoluzionaria»[6]. Un anno dopo, nella rivista «Rruga e Partisë» («Il percorso del Partito»), ella si esprime contro la poesia Njeriu me kobure (L’uomo con la pistola)[7]. Negli anni seguenti l’opera di Haliti verrà sempre censurata. Il Partito gli toglierà il diritto di pubblicare e lo spedirà a lavorare nei campi. Nel 1985, dopo 15 anni di silenzio forzato, egli riappare sulla scena culturale con la raccolta Mesazhe fushe (Messaggi di campagna). La lunga condanna al silenzio ha fatto pesare molto sul suo futuro e sul destino della sua poesia. La presentazione del nuovo libro avviene nel teatro della città. Doveva essere una festa, per il poeta, invece fu ancora una volta un processo vero e proprio. Rammento come oggi quel pomeriggio. Alla presentazione partecipava il segretario del Partito Comunista, Rudi Monari, il quale, insieme allo ”pseudo-poeta” M. Nezha, mise alla berlina il poeta e il suo nuovo libro. I testi che abbiamo scelto per il lettore italiano raccolgono il meglio del poeta, che va dal primo libro Sot (Oggi) 1969, fino alla raccolta Iku (Se n’è andato) 2004. La scelta di proporre questo poeta al lettore italiano, non è casuale ma fa parte di una missione culturale ben precisa, quella di costruire la memoria storica e culturale della mia Albania, come parte integrante della memoria della cultura europea. Faslli Haliti e Besnik Mustafaj (Leggenda della mia nascita, Edizione Ensemble 2012, cura e traduzione del sottoscritto), fanno parte di quei poeti che, pur vivendo e scrivendo sotto il canone del realismo socialista, sono riusciti a creare valori letterari di portata internazionale, che resistettero anche dopo il crollo della dittatura di Enver Hoxha, uno dei regimi sanguinari più spietati dell’Europa del secolo scorso.

[1] Enver Hoxha (1908-1985): il dittatore comunista

[2] In «Nëntori 4», pp. 154-159, Tiranë 1972.

[3] Idem.

[4] In «Shkëndija», Lushnje, 25.1.1973.

[5] In «Zëri i popullit», Tiranë, 2. 8. 973.

[6] In «Zëri i popullit», Tiranë, 26. 7. 1973.

[7] In« Revista Rruga e Partisë», Nr. 3. p. 41. Tiranë 1974.

Faslli Haliti copertinada OGGI / SOT  (1969)

UNË, MËSUESI I FSHATIT

Çaj baltrat e rrugës.
Çizmet mbyten e zhyten në baltë.
prapa, në llucë,
mbeten gjurmët e mia,
si mbresa të thella në trurin e rrugës,
mbeten gjurmët e çizmeve
të NISH-gomave-Durrës.

Eci.
Në kokë formula,
Konvencione,
Kryengritje fshatare,
Esklamacione dhe vargje poetësh
Dhe imazhi i vajzës brune,
Që prapa mbeti,
Kur mua më përcolli
Herët nga qyteti.

Futem në klasë.
Era shtyn xhamat me gjoks.
Nxënësit shikojnë çizmet e mia me baltë,
Pantallonat e mia zhytur në çizme,
Flokët e mi të qullur,
Që kullojnë,
Që varen teposhtë,
Si flokët e Senekës,
Shikojnë ditarin e lagur
Dhe supet qull të xhaketës.

Dhe lodhja më ikën, më zhduket pas kësaj,
Si balta që rrugëve thahet,
Si balta që zhduket në maj…

IO, INSEGNANTE DI CAMPAGNA

Affronto il fango della strada.
I miei stivali vi sprofondano.
dietro
restano le mie orme,
impresse nella memoria della strada,
orme di stivali di gomma di Durazzo.

Cammino.
Nella mente formule,
convenzioni,
ribellione di contadini,
esclamazioni e versi di poeti
e l’immagine di una fanciulla bruna,
che mi accompagnava
di buon’ora.

Entro in classe.
Il vento con furia colpisce i vetri
gli alunni scrutano i miei pantaloni,
e gli stivali infangati,
i miei capelli bagnati
che gocciolano
come i capelli di Seneca,
scrutano i miei quaderni,
e la giacca bagnata.

La stanchezza sparisce
come il fango dalle strade
nel mese di maggio.

Faslli Haliti con Gezim Hajdari

a destra: Faslli Haliti e Gezim Hajdari

ARDHJA E VJESHTËS

Mbi koka jeshile pemësh
Natyra derdhi bojë të verdhë,
Vjeshta krahët e artë
Mbi fusha i hodhi
Dhe kodrave lart.

Fytyrën pa vjeshta mbi pellgjet me ujë,
Flokrat bionde pakrehur, rrëmujë.
Shirat ardhjen e saj
E shpallën me gaz e me bujë.

Qielli si lodër vigane gjëmoi,
Krisën pushkë rrufetë,
Si pushkë gazmore në ditën e dasmës,
Në pritje të nuses që zbret.

ARRIVO DELL’AUTUNNO

Sulla fronte dei verdi alberi
la natura getta il mantello dorato,
con le ali d’oro copre l’autunno
la campagna
e la collina.

Sulle pozzanghere il volto dell’autunno
con i capelli biondi spettinati.
Le piogge con i tamburi proclamano
il suo arrivo.

Come in un gigante grancassa tuona il cielo,
i fulmini sparano come fucili gioiosi
nel giorno del matrimonio,
in attesa della sposa.

MIRAZHE HËNE

Hëna pluskonte në bardhësinë e një reje
si e verdhë veze.

Dhe unë fëmija i dikurshëm që kisha uri
zgjasja duart drejt vezës hënore,
reflekse hëne haja ndër gishtat e mi
netve të dëborta dimërore.

Hëna piqej në prushin e yjeve
si misërnike e verdhë,
djersë të verdha djersinte,
avuj buke përhapte në qiell.

Dhe unë fëmija që kisha uri
zgjasja duart, të thyeja një copë,
por hënën e hanin netët
dhe unë s’e haja dot!

MIRAGGI DI LUNA

La luna galleggia nel bianco di una nuvola
come il giallo dell’uovo.

Ed io bambino affamato di allora
tendevo le mani verso l’uovo lunare,
mangiavo riflessi lunari stretti tra le mie dita
nelle notti nevose invernali.

La luna lievitava nella brace delle stelle
come focaccia gialla di mais,
e profumo di pane,
diffondeva nel cielo.

Avevo fame,
tendevo le mani per spezzarne un boccone,
ma la luna veniva mangiata dalle notti
ed io non riuscivo ad averla!

Faslli Haliti

Faslli Haliti

LULE DHE FRUTA

Të gjitha lulet,
Të egra,
Të buta,
Luet i kanë të bukura.

Mos ubesoni lueve të bukura pa fruta!

TUTTI GLI ALBERI

Tutti gli alberi,
selvatici,
e domestici,
fioriscono.

Non credete ai bei fiori senza frutta!

TRASPARENCË

Nuk lulëzojnë lule të zeza
Mbi pemë,
Mbi pjeshkë,
Mbi lëndina.

Nuk i fut të zezë pranverës natyra.

(1982)

NON FIORISCONO FIORI NERI

Non fioriscono fiori neri
sugli alberi,
nei prati,
sui peschi,
nella pianura.

La primavera non mette il nero alla natura.

(1982)

UNË NUHAS PRANVERËN

Nyja, nyjen thërret.
Me rrezet paralele zgjaten kërcellët,
Blerimi hap syrin e gjelbër gjithë qejf.
Ujrat pranverorë buzëqeshnin të qeta,
Pemishteve pjeshka fustanin e purpur
Nis zbukuron me lulet e veta.

Nyja, nyjen thërret,
Zgjaten kërcellët,
Rrinë përpjetë.

ATTENDO LA PRIMAVERA

Le gemme chiamano l’un l’altra.
Come raggi paralleli crescono i ramoscelli,
il verde inverdisce sempre di più,
le acque primaverili scorrono tra le ombre,
nel giardino il pesco abbellisce di porpora,
il parto dei suoi fiori.

Le gemme chiamano l’un l’altra,
crescono i giunchi rigogliosi
verso l’alto.

Faslli Haliti

Faslli Haliti

da NON SO TACERE / S’DI TË HESHT (1997)

MIRAZHE HËNE

Hëna pluskonte në bardhësinë e një reje
si e verdhë veze.

Dhe unë fëmija i dikurshëm që kisha uri
zgjasja duart drejt vezës hënore,
reflekse hëne haja ndër gishtat e mi
netve të dëborta dimërore.

Hëna piqej në prushin e yjeve
si misërnike e verdhë,
djersë të verdha djersinte,
avuj buke përhapte në qiell.

Dhe unë fëmija që kisha uri
zgjasja duart, të thyeja një copë,
por hënën e hanin netët
dhe unë s’e haja dot!

MIRAGGI DI LUNA

La luna galleggia nel bianco di una nuvola
come il giallo dell’uovo.

Ed io bambino affamato di allora
tendevo le mani verso l’uovo lunare,
mangiavo riflessi lunari stretti tra le mie dita
nelle notti nevose invernali.

La luna lievitava nella brace delle stelle
come focaccia gialla di mais,
e profumo di pane,
diffondeva nel cielo.

Avevo fame,
tendevo le mani per spezzarne un boccone,
ma la luna veniva mangiata dalle notti
ed io non riuscivo ad averla!

da NON SO TACERE / S’DI TË HESHT  (1997)

NË FËMIJËRI

Kur shihja laureshën në kthetrat e skifterit,
E lemerisshme,
Tmerr.
Në vend të këngës së saj pranverore
Dëgjoja të qarat e saj tragjike në pranverë.

Dëshira ime është:
Të thyeja krahë skifterësh egërsisht.
Në fëmijëri,
Pa e ditur këshillën e xha Hygoit:
«Kush shëron krahun e skifterit
Përgjigjet për kthetrat e tij…»

Ǒlemeri,
Ǒtmerr,
Të dëgjoje të qarat tragjike të zogjve,
Dhe mos të t‘i thyeja krahët ty, skifter!

NELL’INFANZIA

Quando scorgevo l’allodola tra gli artigli del falco,
che terrore,
che orrore!
Al posto del suo canto primaverile
sentivo i suoi pianti tragici in primavera.

Il mio desiderio era
di spezzare ali di falchi crudelmente
nell’infanzia,
senza ascoltare il consiglio dello zio Hugo:
«Chi guarisce l’ala del falco
è responsabile dei suoi artigli…»

Che terrore!
Che orrore!
Sentire i pianti tragici delle allodole
e non spezzare le ali al falco!

Faslli Haliti

Faslli Haliti

NUSJA

Gjyshja pret që nusja të lindi djalë,
Gjyshi përfytyron një nip me emër trimi,
Babai dëshiron një bir të talentuar,
Inteligjent, mundësisht
Gjeni.

Nusja thur triko për një njeri.

(1984)

LA SPOSA

La nonna attende che la sposa partorisca un maschio
e sogna un nipote dal nome coraggioso,
il padre desidera un figlio di talento,
intelligente,
genio.

La sposa tesse una maglia per il figlio.

PRANVERË

Sythi shkrin dëborën me zjarrin e lules,
Lulja pohon pranverën,
Lidh frutin
Dhe bie me nderim.

Toka e pret me blerim.

(1984)

PRIMAVERA

La gemma fa sciogliere la neve con il fuoco del fiore,
il fiore annuncia la primavera,
si trasforma in frutto
e cade a terra con onore.

La terra inverdita lo accoglie.

(1984)

Gezim Hajdari

Gezim Hajdari

Gëzim Hajdari, è nato nel 1957, ad Hajdaraj (Lushnje), Albania, in una famiglia di ex proprietari terrieri, i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Nel paese natale ha terminato le elementari, mentre ha frequentato le medie, il ginnasio e l’istituto superiore per ragionieri nella città di Lushnje. Si è laureato in Lettere Albanesi all’Università “A. Xhuvani” di Elbasan e in Lettere Moderne a “La Sapienza” di Roma.

In Albania ha svolto vari mestieri lavorando come operaio, guardia di campagna, magazziniere, ragioniere, operaio di bonifica, due anni come militare con gli ex-detenuti, insegnante di letteratura alle superiori dopo il crollo del regime comunista; mentre in Italia ha lavorato come pulitore di stalle, zappatore, manovale, aiuto tipografo. Attualmente vive di conferenze e lezioni presso l’università in Italia e all’estero dove si studia la sua opera.

Nell’inverno del 1991, Hajdari è tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, partiti d’opposizione, e viene eletto segretario provinciale per i repubblicani nella suddetta città. È cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës, nel quale svolge la funzione di vice direttore. Allo stesso tempo scrive sul quotidiano nazionale Republika. Più tardi, nelle elezioni politiche del 1992, si presenta come candidato al parlamento nelle liste del PRA.

Nel corso della sua intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione, ha denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, gli abusi, la corruzione e le speculazioni della vecchia nomenclatura di Hoxha e della più recente fase post-comunista. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce subite, è stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal proprio paese.

La sua attività letteraria si svolge all’insegna del bilinguismo, in albanese e in italiano. Ha tradotto vari autori. La sua poesia è stata tradotta in diverse lingue. È stato invitato a presentare la sua opera in vari paesi del mondo, ma non in Albania. Anzi, la sua opera, è stata ignorata cinicamente dalla mafia politica e culturale di Tirana.

È presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale e cittadino onorario per meriti letterari della città di Frosinone.

Dirige la collana di poesia “Erranze” per l’editore Ensemble di Roma. È presidente onorarario della rivista internazionale on line “Patria Letteratura” (Roma), nonché membro del comitato internazionale della Revue électronique “Notos” dell’Université Paul-Valery, Montpellier 3. Considerato tra i maggiori poeti viventi, ha vinto numerosi premi letterari. Dal 1992, vive come esule in Italia. Le sue recenti pubblicazioni sono: I canti dei nizam, Besa 2012; Nur. Eresia e besa, Ensemble, 2012; Evviva il canto del villaggio comunista, Besa, 2013; Poesie scelte, Controluce, 2014 e Delta del tuo fiume, Ensemble, 2015.

9 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, critica della poesia, Poesia albanese del Novecento

VERSO LIBERO O VERSO ARBITRARIO O VERSO INVENTATO? – dialogo tra Giorgio Linguaglossa, Steven Grieco, Valerio Gaio Pedini e Giorgina Busca Gernetti sopra il “Ghazal” e lo “Sher” di Mirza Asadullah Ghalib

  1. Giorgina Busca Gernetti legge Asfodeli foto di Massimo Bertari

    Giorgina Busca Gernetti legge Asfodeli foto di Massimo Bertari

    Mirza Asadullah Ghalib affascina il lettore per la freschezza, quasi ingenuità, nel contempo profondità filosofica dei suoi versi, strutturati in distici rimati nel modo illustrato con precisione da Steven Grieco.
    I veri poeti della fascinosa India, almeno per le mie scarse conoscenze, hanno questo nucleo ispirativo: il cielo notturno, le stelle, l’alba, la natura, gli uccellini, i fiori, l’amore, la sofferenza dell’uomo e la pazienza nel sopportarla. Mi riferisco anche a Rabindranath Tagore, benché l’epoca, la regione indiana, la lingua, la struttura delle poesie siano diverse da quelle di Mirza Asadullah Ghalib.
    Forse è l’anima dell’India che sa creare poeti così grandi.
    Mi piace riportare alcuni distici veramente pregevoli (quattro Ghazal e uno Sher):
    .
    “non tutti, solo alcuni apparvero nei fiori e nelle foglie –
    chissà i volti che rimangono nascosti nella polvere”
    .
    “le figlie dell’Orsa rimasero celate nel velo diurno –
    perché mai ascesero nude, radiose nella notte?”
    .
    “”suo è il sonno, suo l’animo, sue le notti
    fra le cui braccia si sciolgono inquiete le tue chiome”
    .
    “al mio entrare in giardino, il coro di gorgheggi si fece attento
    ascoltando i miei lamenti gli usignoli divennero poeti”
    .
    “non sono né il fiore del canto, né il mistero della cetra:
    io sono la voce del mio stesso spezzarsi”

    (Giorgina Busca Gernetti)

    Giorgio Linguaglossa 2012

    Giorgio Linguaglossa 2012

  2.  

    È che oggi forse si dovrebbe ritornare a scrivere in distici, in ritornelli di distici… riprendere le antiche formule e ripartire da lì; scrivere pensieri conchiusi in immagini nell’arco di un distico, e poi nel distico seguente percorrere di nuovo il solito schema (magari con una variante), ovvero, provare ad introdurre un altro verso (la strofe caudata di tre versi) etc., e così via.
    Il fatto è che oggi si è persa la manualità della scrittura, si scrive senza far riferimento a nessun genere o sotto genere, e i risultati si vedono purtroppo! – Il parallelismo cui costringe un distico è una forza magnetica, un binario che soltanto chi sa e ha la poesia nella propria pelle può capire; il parallelismo implicito in un distico, è cosa diversa da un distico con una coda (aggiunta di un terzo verso), a volte (anzi, sempre) basta una variante a cambiare il centro di gravità di tutto il componimento.
    Quindi io consiglierei chi vuole fare poesia a studiare le antiche formule, di scrivere in distici, per esempio, e in immagini di distici…

    Chiedo ad Antonio Sagredo e a Steven Grieco di farci conoscere la loro dotta opinione.

  3. Rilucono le stelle in un frammento
    d’immenso nella notte senza vento.
    .
    L’assenza dell’amata squassa l’animo
    dell’uomo che la invoca in un lamento.
    .
    Acceca il sole con la luce d’oro
    i mietitori curvi sul frumento.
    .
    Prestami la tua arte, sacro vate,
    perché possa cantare il mio tormento.
    .
    Foglie frementi nel bosco armonioso
    di canti d’uccelli in festoso concento.
    .
    GBG

    Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur  India

    Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur India

  4. Steven Grieco

    Certo, la questione della forma a cui accenna Giorgio sarà sempre un problema per la poesia e per i poeti. Ma è proprio, e in modo sovrano, la struttura aperta o libera a valere oggi come forma poetica “tradizionale”. Quella che più ci impone un rigore. (Per il domani, chissà.)
    A proposito, sembra che i giovani giapponesi usino spesso il haiku o il waka per messaggiarsi tramite telefonino… O allora è stata solo una moda qualche anno fa, che è già tramontata.
    In questi tempi spietati, ma anche incredibili e entusiasmanti, in cui ogni tradizione è stata ridotta all’assurdo, sembra che un vero poeta (ma, se è per quello, anche un vero artista con i suoi dipinti e le sue installazioni) debba mettere tutto il rigore e la disciplina proprio nella forma aperta, la forma per eccellenza che ti dà tutte le possibilità, ma poi ti castiga se di essa hai fatto cattivo uso.
    Lo stesso Ghalib lamentò verso la fine della sua vita, in un suo distico (che adesso non ho a portata di mano), il fatto che la forma del ghazal e le immagini convenzionali ad esso associato (rosa, usignolo, giardino, candela, rugiada, etc.) imprigionassero troppo la sua vena creativa. Più moderno dei moderni, già alla metà dell’Ottocento, quando i poeti francesi iniziavano solo vagamente a muoversi in questa direzione, Ghalib sognava la possibilità di esprimersi con una forma espressiva aperta.
    Tanti anni fa ho visto le bozze originali di diverse poesie di Shelley. Aveva già deciso il metro e la rhyming scheme, il tipo di rima, ponendo sopra il rigo gli accenti tonici (8, o 10, a seconda). Gli accenti tonici c’erano già tutti, ma qua e là ancora mancava la parola prescelta per completare quel verso (di solito all’interno del verso, per ovvie ragioni). Ecco, questo ti fa capire che il poeta che usa una forma poetica specifica deve comunque già avere nel cuore e nell’orecchio il ritmo – voglio dire la musica – del verso, prima ancora della scelta di tutte, tutte le parole. Per un poeta di secondo ordine potremmo dire: ah, ecco, la musichetta a scapito del senso, ma le bozze delle poesie di Shelley invece ci mostrano quanto la musica già contenga il senso profondo del dire, e quanto in poesia musica e significato non possono proprio scindersi.
    Ed ecco che mi vien da pensare che quindi anche il poeta oggi deve imporsi una grandissima disciplina con la forma aperta: perché una poesia senza musicalità e comunicazione di un significato (quale che sia e in qualsiasi modo lo si faccia, anche a testa in giù), be’, non so, forse non si tratterebbe più di poesia. Penso ad esempio, in musica, a uno Stockhausen o uno Scelsi, che hanno lavorato con forme in qualche modo aperte ma dandosi una disciplina immensa, lo senti in ogni nota, e quel rigore è proprio una delle cose che ti entusiasma, ti fa pensare che è solo con la forma (se anche per ritrarre il chaos), che possiamo comunicare, comunicando perfino realtà, immagini, concetti sublimi.
    Detto questo, faccio posto a tutte le definizioni possibili della parola poesia, ovviamente. Ancora oggi vale quello che disse Montale una volta, “in poesia tutto fa brodo.”
    Questo anche per la forma della poesia.

    foto di Steven Grieco

    foto di Steven Grieco

  5. Caro Steven,

    è vero quello che tu dici, che condivido al 100%. Tu scrivi che già «Ghalib sognava la possibilità di esprimersi con una forma espressiva aperta», perché si era reso conto che la forma chiusa tradizionale del distico era troppo costrittiva per la sua poesia.
    Ecco, siamo arrivati al punto. Nel Novecento siamo passati attraverso una rivoluzione delle forme espressive, siamo passati dalla forma-chiusa alla forma-aperta (U. Eco L’opera aperta, 1962), fenomeno che ha investito il romanzo, la poesia, la pittura, la scultura, la musica, l’architettura etc., quindi un fenomeno globale, come si dice oggi. Ma per la poesia è poi intervenuto un fenomeno, al tempo, ancora più vistoso e più misterioso: la caducazione del verso tradizionale per il verso libero e la caducazione del verso libero per il verso arbitrario, dove ciascun autore è libero di adottare il verso (nel senso della lunghezza) che più gli aggrada. Se oggi apriamo un libro di poesia di un autore contemporaneo, troviamo appunto il verso arbitrario(non so quanti autori ne siano consapevoli), dove l’arbitro del verso è deciso dallo stesso autore, dove è l’autore che dà legittimità alla lunghezza e alle intensità (foniche e toniche e ritmiche) del verso. Siamo arrivati alla Babele del verso arbitrario, e i risultati sono piuttosto evidenti. Siamo arrivati al punto che non esistono più le differenze tra la forma-poesia e la forma-prosa, addirittura non si ha più cognizione di quella cosa chiamata un tempo laforma-poesia.
    Ma torniamo al verso-arbitro o arbitrario e veniamo ad esso, esaminiamo la sua struttura interna ed esterna. Vorrei invitare i lettori ad andare a rileggersi una poesia di un poeta contemporaneo che abbiamo pubblicato su questo blog: Gezim Hajdari nella poesia “Il contadino della poesia

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/12/15/fare-il-contadino-della-poesia-di-gezim-hajdari-con-una-nota-di-armando-gnisci/

    È chiaro che qui ci troviamo davanti ad un sistema aperto dove ciascuna frase raddoppia e ripete la struttura semantica della frase precedente mediante una variatio del significato e del ritmo interno ed esterno dei versi. Siamo davanti alla forma più elementare e primordiale del linguaggio poetico, il verso singolo che viene ripetuto con varianti all’infinito, la repetitio. Qui dunque il sistema è aperto, apertissimo, e permette al’autore di introdurre le varianti che crede opportune al fine di ottenere un effetto moltiplicatore dell’intensità orchestrale.

    E fin qui ci siamo. Esaminiamo (per semplicità di ipotesi) adesso un effetto di moltiplicazione interna di un singolo verso di una, perdonatemi, mia poesia:

    Kinder Nacht. Kinderschreck. Kinderspiel.*
    Un cane rabbioso abbaiava.
    Ma tu non c’eri. Guardai indietro.
    C’era un corridoio con tante stanze chiuse. L’hotel Astoria.

    (*Notte di bambini. Spauracchio. Gioco infantile.)

    Come si vede, la ripetizione di parole (composte, in tedesco) che iniziano con una medesima parola (Kinder, ovvero, bambini), serve ad introdurre un effetto moltiplicatore (e straniante) della forza semantica, inoltre i punti introducono delle cesure, degli stop. Così che si ha: moltiplicazione della ripetizione + cesure = Ritmo a singhiozzo, ritmo interrotto, interruzione e ripresa = effetto di straniamento. I tre versi che seguono (sono frasi nominali e dichiarative) sono spezzati da punti. Con l’ovvio effetto di concentrazione e di spezzatura interna dove il lettore è costretto a fermare l’occhio e la lettura a voce (o silenziosa). Qui mi sono permesso di impiegare il verso-arbitrario nel senso che sono io l’autore ed io soltanto posso intervenire sul dove e sul come interrompere l’ordine del discorso e riprenderlo a mio gradimento. Ho scelto una mia composizione per non fare torto a nessuno. È chiaro che nelle mie intenzioni definire un verso verso arbitrario non c’è alcuna connotazione negativa o spregiativa, è semplicemente un dato di fatto, un evento. Ed è una procedura che io utilizzo spessissimo nelle mie composizioni in vista di un determinato fine; cioè è una procedura consapevole, filtrata però da quella particolarissima cosa chiamata sensibilità verso la Lingua e i suoi linguaggi letterari.

    Ecco, io ritengo che l’italiano di oggi abbia in sé DELLE ENORMI POSSIBILITA’ DI ESPRESSIONE, È UNA LINGUA MATURA…

    Dimenticavo: altra cosa dal verso arbitrario è il verso inventato, cioè quella entità che non si distingue in nulla dalla prosa. E allora non si capisce perché in tanti ci si ostina ad andare a capo (dal punto di vista narrativo e metrico) quando non c’è alcuna ragione di andare a capo. Potrei, di ciò, portare migliaia di esempi, ma diventerebbe un gioco al massacro che non mi diverte, anzi, che mi deprime.

    Steven Grieco

    Giorgio, vado subito all’ultima cosa che dici nel tuo commento più sopra. Sì, hai perfettamente ragione. Poesia è poesia, prosa è prosa. E’ anche vero che la linea di demarcazione è molto vaga, ma mai così tanto da permettere una totale confusione fra i due generi. E allora Baudelaire, che scriveva i poèmes en prose? Perché ricorrere a un ritmo totalmente prosaico quando grandi poeti del passato hanno indicato come si potrebbe “usare la prosa nella poesia?” – e cioè una forma più attuale, che può dare maggiore libertà nell’esprimere concetti e realtà che inevitabilmente finirebbero per straripare dalle forme poetiche tradizionali (e forse anche dalla forma libera con verso spezzato sul lato destro della pagina). Anche altri, più di recente, l’hanno fatto, Transtroemer è un esempio. Ma poi c’è René Char, e tantissimi altri.
    Quando scrivo una poesia in inglese, non dimentico mai la metrica interna della lingua, è una cosa naturale. Forse è più difficile per un italiano pensare in endecasillabi (eccezion fatta per Dante) che per un inglese pensare in versi giambici di quattro-cinque piedi. La prosa inglese tende già di per se stessa a scomporsi abbastanza spontaneamente in versi giambici di questo tipo. E quindi quando scriviamo un verso, molto spesso il nostro pensiero già ci offre questa forma, questa soluzione. Che però nel mondo odierno talvolta suona piuttosto scontata, old-fashioned, soprattutto quando viene coltivata di proposito, come fanno migliaia di poeti di lingua inglese oggi che non hanno molto da dire.
    Nemmeno Shakespeare rispettò sempre quel metro, spesso i suoi versi sono endecasillabi, o versi di nove sillabe – eventualmente con una compensazione nel verso precedente o successivo, ma si tratta di giochetti inventati principalmente da critici e filologi: Shakespeare non pensava in questo modo, solo in casi precisi e specifici ebbe forse un reale bisogno di contare (per infondere quella inaudita musicalità ai sonetti, per es.). Anzi, egli è più di tutti colui che infranse le regole linguistiche eppure seppe rispettarle, che optò per un pensiero aperto, dettato dalla sua dinamica interna, eppure seppe rimanere dentro le forme tradizionali poetiche, espandendole e nobilitandole.
    Dobbiamo sforzarci oggi di “sentire” il verso prima di scriverlo, di “far succedere” il proprio pensiero dentro una forma in bilico fra “chiusa” e “aperta”, dentro un verso più dinamico, continuo o spezzato, se vogliamo veicolare il mondo in cui viviamo.
    L’esempio che tu, Giorgio, dai nel tuo commento citando un brano di una tua poesia è quello che ho in mente io. Mi rende felice che altri la pensino, almeno in parte, come me. (A proposito, bel ritmo dinamico, repentino, complimenti!)
    Zeitgeist: ci sono soluzioni che ci fornisce proprio il tempo in cui viviamo.
    Vado avanti: penso a uno dei più grandi poeti russi della seconda metà del Novecento, Gennady Aygi, messo nel dimenticatoio dai letterati del suo paese perché era ciuvascio, e perché nei suoi versi non rispettò la metrica e le convenzioni tradizionali della poesia russa. Peter France, suo amico storico e traduttore in inglese da sempre, individua nel verso di Aygi, totalmente “libero”, una metrica interna prevalentemente giambica, che comunque finisce per rispettare il ritmo della lingua e della poesia russa.
    Vedete l’ironia? Certo, Aygi era troppo grande per non saperlo: ma sentì forte il bisogno di scarcerare il verso russo da quei versi troppo regolari, troppo inamidati e incravattati, creando invece sulla pagina linee di parole più lunghe, di colpo spezzate, riprese al rigo successivo, con spazi vuoti, parentesi, tutto quello che gli serviva per esprimere quel suo pensiero così forte, così lacerato e profondo.
    In Italia oggi è raro lo slavista che abbia anche soltanto tradotto una poesia di Aygi. Assenza macroscopica, che ha dell’incredibile ma dice tutto sulla pavidità e sul conservatorismo degli studi letterari. Sarà un grande giorno quando qualcuno si deciderà a compiere quest’opera.
    E quindi, la forma “arbitraria” è ben diversa dalla forma aperta secondo il rigore che questa esige. Quando questa è ricercata fortemente, dinamicamente, anche dolorosamente per dire la realtà che ci sta davanti, e non per dire una nostra idealizzata riduzione e privatizzazione del mondo, ecco che salta fuori quello che cerchiamo – il verso veicolante, illuminante.
    Non è un sogno, oggi ci sono poeti in tutte le lingue che riescono a fare questo.

    1. Vorrei ricordare, caro Steven, l’acutissima notazione di Fenollosa della poesia come «arte del tempo» e delle immagini come «idee in movimento». Questo è stato il contributo fondamentale di Fenollosa alla poesia occidentale di cui il solo Pound comprese appieno la sua novità. La possibilità di creare una poesia incentrata su una «immagine in movimento» precorreva la dottrina poundiana del vortex e ne permetteva il superamento. La poetica dell’ideogramma di Fenollosa consentiva una spiegazione ottimale della immagine come sintesi di staticità e dinamismo.

      Fenollosa aprì a Pound la possibilità di fare un tipo di poesia in cui l’elemento fondamentale è l’«azione», la quale altro non era che la rappresentazione di due immagini in movimento. Per Fenollosa l’ordine della frase è appreso dalla natura: ogni atto non è che un «trasferimento di potere» e il fulmine – che scocca tra le nubi (a quo) e la terra (ad quem) ne è la migliore illustrazione. Il processo della natura è lineare e si svolge attraverso tre elementi essenziali: «termine dal quale», «trasmissione di forza», «termine al quale». La frase linguistica rappresenta la struttura fondamentale della natura. Per Fenollosa l’«azione» ha un termine da cui parte (a quo) e un termine a cui arriva (ad quem), e quindi la «cosa» è sempre una «relazione» di cose, non si dà mai la cosa in sé. Infatti per l’ideogramma cinese l’entità elementare espressa nel linguaggio è l’azione, la quale è unione di due simboli. (Fenollosa)
      Per Fenollosa il linguaggio ideogrammatico è forte perché ricco di verbi transitivi, capaci di esprimere il principio fondamentale della realtà, il moto, l’azione; in una parola, è forte perché è concreto, e un linguaggio forte è anche naturalmente poetico.

      Per tornare alla poesia, la poesia è una rappresentazione verbale di un moto, di una azione, di una relazione, e tanto più questo fatto è evidente quanto più essa conserva in sé la struttura fondamentale del linguaggio che è l’immagine (statica e/o dinamica); ma non dobbiamo dimenticare che l’immagine è una «funzione del tempo», è un elemento essenziale di ogni linguaggio umano. Forse i super umani di una civiltà di tipo 3 avranno a disposizione altri strumenti linguistici più precisi, noi questo non lo sappiamo e non lo sapremo mai, ma è una possibilità da non sottovalutare.

      Per esempio tu, in una tua poesia, nel tuo linguaggio ripeti mimeticamente la struttura elementare dell’universo. Mi spiego:

      Giravo le spalle all’orto, immerso
      nel grigio smisurato del cielo

      una voce chiarissima risuonò:
      “non hai visto?”

      con fatica alzai gli occhi, vidi un albero sconosciuto
      in una nuvola di fiori
      “Ah, sì, il susino…”

      È chiaro che qui siamo davanti ad una macro immagine che contiene al suo interno altre immagini minori in relazione reciproca; anche la «voce» che risuona viene trattata come se fosse una immagine che si collega alla immagine di un «io» visto di spalle il quale alza gli occhi e.. scopre «il susino». La poesia così prende vita dalla relazione tra le cose e tra le immagini riprodotte nel contesto linguistico, piuttosto che dal discorso lessemico fonetico di matrice lineare che viene utilizzato da poeti di minore consapevolezza critica della cosa chiamata poesia. Tutto il complesso cinetismo di questa strofe si situa entro un tempo brevissimo che passa dal momento del richiamo al momento in cui il protagonista scopre il «susino».
      Una poesia come la tua, che potrebbe sembrare astratta ad un occhio poco educato a questa concezione della lingua e dell’immagine, è invece, qualcosa di quanto più concreto si possa immaginare

    2. Valerio Gaio Pedini

      Questo discorso, che spesso, teniamo privatamente io e Giorgio Linguaglossa è fondamentale. Il verso libero va preso con cautela. Come la forma rima e le metriche. Giorgio con Uccelli (1992), scritto in endecasillabi, mostra una padronanza totale del verso. E la mostra poi anche con il verso libero sperimentale in Blumenbilder (2013). Altri poeti che hanno la padronanza metrica e libera sono primo fra tutti Antonio Sagredo o Alfredo De Palchi, Maria Rosaria Madonna. Quanto è utile tornare al distico? Potrebbe essere utilissimo, come puntare all’haiku, solo che i temi andrebbero variati, in modo che avessero un’attinenza sociologica maggiore. Il problema è che non li si evolve e penso sia gravoso per la poesia. Il verso libero è diventato una grande piaga, come la rima. Così, il verso libero a volte rischia di creare solo confusione, ho letto ultimamente poesie scritte da sedicenti poeti incapaci di capire che i loro versi erano goffi, degli a capo fatti a caso. Mentre la rima è un problema perché rischia di cadere nella scontatezza. e se non la si maneggia bene, diventa fumo. Ed è singolare che una giovanissima poetessa come Siria Eva Comite abbia compreso tutto ciò e scriva una poesia razionalissima, studiatissima, precisissima, senza perdere di intensità ma aumentandola, rispetto ad alcuni suoi precedenti tentativi di verso libero goffi.

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“Delta del tuo fiume” di Gëzim Hajdari. “La poesia epica dell’esilio” Lettura di Marco Onofrio

Gezim Hajdari delta-del-tuo-fiume copDelta del tuo fiume (Ensemble, 2015, pp. 172, Euro 15) di Gëzim Hajdari è un libro di rara intensità poetica, uno dei più potenti e impressionanti che io abbia letto negli ultimi anni. È un libro che, come un arco teso, permette alla poesia di slanciarsi oltre i propri limiti, superare i confini della parola, significare ben al di là di ciò che dice. Malgrado Hajdari affermi di «pisciare sulle poetiche», conclude Delta del tuo fiume con una lunga poesia-manifesto, “Contadino della poesia”, che funge da specchio di autoconsapevolezza e chiave di accesso al libro. Hajdari coltiva un’idea di poesia come “bestemmia” – cioè preghiera laica rivolta al sacro elementare – che lacera il velo cosiddetto “civile” delle ipocrisie deputate a coprire la verità oscena dei rapporti sociali, l’inferno della convivenza, l’orrore eterno della Storia. La poesia è denuncia, atto inconciliabile d’accusa. La parola non conferma i patti disonesti, non regge il sacco ai ladri nel tempio profanato, ma è eversione che articola il dissenso e osa pronunciarlo con la massima sincerità possibile, costi quel che costi. È eresia, è “besa”, cioè promessa, parola data, confidente appartenenza al fondamento etico. È impegno di autenticità. È dignità che mette in gioco il valore della vita.

Essere “contadino della poesia” significa

tornare all’Essere
riscoprire le radici
bere alla fonte
parlare con i sassi
ascoltare la terra
rileggere il cielo e la terra
(…)
sapere chinarsi a raccogliere
chiamare le cose per nome (…)
lavarsi con la terra (…)
ridare la dignità perduta al Verbo, cioè
la dignità perduta all’uomo,

Gezim Hajdari cop inglesee dunque recuperare il «senso epico, musicale e civile della parola», ricostruire il «tempio della parola» distrutto dagli «eunuchi del minimalismo sterile». Questo significa scrivere in modo semplice ed essere profondi al tempo stesso. La poesia di Hajdari, infatti, è colta e insieme popolare – così come è, sempre, la poesia autentica. Una poesia umana e antropologica a 360°, aperta al dialogo con le realtà del mondo, al di là delle infinite gabbie di rappresentazione.

Scrive Neruda: «La poesia ha perso il suo legame con il lontano lettore … Deve recuperarlo … Deve camminare nell’oscurità e incontrarsi con il cuore dell’uomo, con gli occhi della donna, con gli sconosciuti della strada, quelli che a una certa ora del crepuscolo, o in piena notte stellata, hanno bisogno magari di un solo verso».

gezim hajdari copertinaA patto però – aggiunge idealmente Hajdari – di «essere poeta, non scrittore di poesia». Il preziosismo “laureato” del modello petrarchesco distolse la poesia dal suo cammino: emersero le vanità, le pose artificiali, i conti di ragioneria. Ancora Neruda: «la fonte della grandezza cominciò a estinguersi. Quest’antica sorgente aveva a che vedere con l’uomo intero, con la sua apertura, la sua abbondanza traboccante».

Hajdari scrive poesia con l’occhio che, penetrando le paludi della crisi, traguarda l’unità cosmica dell’uomo “come se” fosse ancora possibile. Occorre «sentirsi parte della totalità», cioè «vivere al confine / ubriaco di mondi»: «vivere negli altri», «attraversare la vita», «recuperare il legame tra parola e verità, tra poesia e vita»: «diventare carne e sangue delle proprie parole».

L’operazione poetica consegue alla discesa nel proprio «io centrale»: con la stessa inesorabile naturalità del fiume verso il proprio delta marino, o del maschio verso il nido caldo della donna che lo invita al ricongiungimento. L’«io centrale» è il nucleo dove convergono e partono i raggi del mondo: c’è un cosmo di vasi comunicanti sotto la superficie impediente, dove i dualismi apparenti si sciolgono in rapporti complementari, poiché “tout se tient”. È una via antitetica ad ogni operazione narcisistica: Narciso si specchia nel mondo e ovunque vede se stesso; Hajdari specchia il mondo nel proprio «io centrale», che coincide con la visione aperta, cosmica, globale di tutto l’esistente. La condizione che lo porta ad avere questo sguardo è quella dolorosa dell’«esule esiliato nell’esilio», che già strappò a Dante Alighieri versi immortali. Hajdari è in esilio come «traditore e nemico della patria» (la nativa Albania) per aver denunciato crimini e abusi della dittatura di Enver Hoxha. Hajdari ha accettato il prezzo della libertà, la solitudine terribile del lupo senza collare, la povertà, la fame, l’esilio. Solo così ha potuto «coniare la moneta del proprio Verbo» ed essere Poeta. Creativo perché libero, e libero perché creativo.

Gezim  Hajdari con la sua testa in ceramica, opera dell'artista Marica Bisacchi

Gezim Hajdari con la sua testa in ceramica, opera dell’artista Marica Bisacchi

Fiero, irriducibile, allergico al potere e ai suoi mille compromessi, estraneo alle gerarchie letterarie “ufficiali”, Hajdari affida anzitutto al valore della pagina la rivendicazione del suo mandato poetico e la traccia della sua presenza di poeta-profeta e guerriero. E lo è anche nel raccontare «la ferita mortale dell’uomo svuotato dalla dittatura del denaro», gli infiniti tradimenti perpetrati dagli uomini all’Uomo, e al pianeta – l’unico che abbiamo – cui appartiene anche chi stoltamente ne provoca la distruzione. Il mondo è da sempre dominato da dinamiche di invidia cattiveria egoismo violenza prevaricazione malversazione ingiustizia ignoranza maleducazione… la jungla umana è più sottilmente feroce di quella animale. L’Amore è un autentico miracolo. Scrive Cesare Pavese: «Tu sarai amato quando potrai mostrare la tua debolezza senza che l’altro ne approfitti per affermare la propria forza». La poesia, infatti, è una Cassandra dal canto inascoltato: il mondo va, decisamente, da un’altra parte.

Scrive Hajdari:

Le nenie delle donne
non riescono ad asciugare il sangue degli uomini
versato lungo il confine nemico.

Eppure crede ancora nel «potere della poesia»; come in Congo, dove recitano i versi del poeta senegalese Senghòr – vate e ideologo della “négritude” – «al posto delle preghiere quotidiane». La poesia autentica propone allo sguardo una visione cosmica. Come quando, dall’aereo in volo, i confini geopolitici convenzionali, coi vari recinti di filo spinato, scompaiono magicamente: lo spazio vitale è tutt’uno, il mondo è uno, l’Uomo è lo stesso ovunque – oltre le infinite diversità – è il cielo è l’unica bandiera.

Gezim Hajdari a Venezia

Gezim Hajdari a Venezia

La scrittura, in Delta del tuo fiume, articola una poesia “in fuga” che nasce dalla condizione di esilio permanente del poeta: e sgorga non a caso da Roma, che Hajdari definisce «patria degli esuli», «città in fuga verso la leggenda e l’oblio del destino». Delta del tuo fiume è uno straordinario viaggio poetico, che parte dalla Roma eterna («nata dall’esilio» di Enea) e a Roma infine riconduce, la Roma storica di oggi (città degli scandali, da «scomunicare», secondo Hajdari, come capitale d’Italia: città delle banalità letterarie «osannate e glorificate dalla mafia politica e culturale» che determina la Curia dei “poeti ufficiali” in un gioco di corruzione, scambi di favori e ruberie – come nella vecchia gestione del Centro “Montale”, denunciata da Hajdari e Luigi Manzi nel 2003). Un viaggio da Roma a Roma: e nel frattempo si percorre il mondo. La poesia come Viaggio nel continente-Uomo: discorso che si produce “in movimento”, dall’incrocio paradigmatico dell’asse spaziale con quello temporale. Il poeta, attraverso lo spazio, raggiunge una dimensione storica pancrona, diventa contemporaneo di ogni epoca, dialoga con uomini che non potrebbe mai incontrare di persona. Ad esempio, va a trovare Rabindranàth Tagore in India; oppure giunge al Cairo e sprofonda nel tempo, per ricevere il benvenuto, al porto di Alessandria d’Egitto, da Alì Pascià – che visse tra il 1700 e il 1800 – per poi finire «nel letto di Cesare, tra balsami e incensi» dove lo guida «l’infedele Cleopatra»; oppure è ospite in Cina del poeta Li Po (che morì nel 762 d. C.) con cui si intrattiene a bere vino e a recitare versi.

La “condicio sine qua non” del Viaggio è la rottura con le menzogne della “civiltà” occidentale, i suoi «falsi altari impietriti», come già Rimbaud, Gauguin, Dino Campana et alii. «Vado via Europa, vecchia puttana viziata», scrive Hajdari. «I tuoi ruderi non mi incantano più». E quindi, «domani, di buon’ora / partirò con la prima nave del Tirreno, / dal porto del Circeo (…) / verso la Croce del Sud / senza voltarmi indietro». «Addio Europa del sangue versato in nome dei confini assassini / e delle bandiere insanguinate». Che è un modo anche per negare in blocco il “Sonderweg” dell’Europa, cioè il suo cammino speciale nella storia del mondo, apportatore di grandi conquiste civili e insieme di orrori indicibili; e inoltre un modo per chiamare la lingua a bruciare, a rinnovarsi dalle proprie ceneri, trasformando lo sguardo e il rapporto stesso con le cose: «Incendierò le vecchie lingue arrugginite, / mi scrollerò di dosso identità, cittadinanze e patrie matrigne».

Gezim Hajdari

Gezim Hajdari

Andar via dall’Europa significa anzitutto uscire dai vincoli della Forma: aprirsi all’incontro libero e diretto con la Vita, la carne calda, le labbra tumide, i seni dorati, le sabbie lunari dei deserti, i cieli stellati, i venti oceanici, il sale dei mari del Sud, gli spiriti delle cose, l’ombra delle parole, i richiami antichi, le lingue tribali sconosciute, i tuareg, i griot, gli sciamani. Emerge naturalmente la potenza ancestrale della Donna-femmina-terra-pube-origine, delta del fiume cosmico. Hajdari scrive, sul corpo della donna, versi erotici di accesa sensualità e di infinite risonanze universali:

Sei una dea negra imbevuta di astri di savana,
giunta dall’oblio dell’arco del tempo.
(…) I tuoi occhi di antilope – origine delle notti oceaniche,
la tua pelle di seta – profumo di mango (…).
Nei tuoi occhi verdeazzurro ho ascoltato il canto delle balene,
il richiamo dei felini in agonia,
e ho visto tramontare l’occhio inverdito del giorno (…).
I tuoi occhi tinti d’Africa, come l’oceano Indiano all’alba;
i tuoi seni pieni all’insù, come due colline nere e solitarie (…)
il tuo pube in fiamme, tra le cosce alte da gazzella,
come una conchiglia dorata.

E la splendida poesia “Custode della mia uva”, dove la donna stessa gli parla, invitandolo a celebrare insieme la vita:

mordi i miei capezzoli come mordevi i chicchi rossi
(…) bevi il mio collo di cerbiatta,
stringi tra le tue mani da profeta le mie grazie
(…). Uomo toro che profumi di eros,
appena mi guardi, mi inumidisco,
appena mi sfiori, mi sento donna,
(…) quando tu mi tocchi fino in fondo, io grido,
(…) quando tu muori in me, io rinasco in te.

Gezim Hajdari_1Ed ecco l’Africa, «Madre nostra», «donna stuprata» dai colonizzatori bianchi: «nei tuoi occhi di bambina grida il Verbo della grande solitudine, / si rinnova la stirpe umana». Ecco l’incontro spazio-temporale con la Tanzania, il Congo, il Niger, il Golfo Persico, il Marocco, il Sahara, il Mali, l’Etiopia, l’Eritrea, l’Uganda. I cronotopi si aprono “in fieri”, nel divenire avventuroso del viaggio, svelando l’anima dei luoghi. Un viaggio che discende nelle profondità ancestrali, e ovviamente non esclude gli incroci storici con l’Africa insanguinata dalle guerre, dove uomini con gli occhi sbarrati dal terrore «fuggono lungo il confine / insieme alle bestie impazzite». L’Africa ha stregato il poeta, lo ha messo in crisi, lo ha cambiato per sempre.

Tu, Africa, hai Scomunicato il mio Verbo.
Dal giorno che attraversai le curve negre dei tuoi giorni,
non sono più io.

L’Africa è «infinita nudità» che toglie le sovrastrutture, brucia le maschere, fa cadere tutti gli artifici. È la terra dove perdersi per ritrovarsi, dove dimenticare tutto per ricordare:

non ho più memoria (…)
ho perso il mio nome.

A forza del tuo amore, sono diventato Africa.

E ancora: «Ho affidato alla sabbia la mia memoria». La sabbia del deserto: quanto di più mutevole e impermanente!