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Osip Mandel’štam, Allora con chi parla il poeta? Gino Rago, Storia di una pallottola n.8, Poesia inedita di Mario M. Gabriele, Dialogo Ewa Tagher e Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson, Struttura cristallografica

Marie Laure Colasson Struttura cristallografica 2012

[«struttura cristallografica» di Marie Laure Colasson, acrilico su tavola 2012 25×25 cm.]
 Come sappiamo, la forma poliedrica dei cristallo è conseguenza della sua velocità d’accrescimento che si manifesta come proprietà anisotropa discontinua, cioè con valori diversi nelle varie direzioni di accrescimento. La «struttura cristallografica» è una struttura a risparmio energetico massimo. Così anche nelle figurazioni di Marie Laure Colasson essa può prosperare soltanto in sistemi molto prossimi allo stato di equilibrio energetico.
In questa «struttura cristallografica» del 2012 si rinviene una ricerca volta a individuare una «struttura permanente», una struttura che precede l’ingresso in essa del Fattore X, l’Indice del mutamento. La successiva ricerca sulle «strutture dissipative» di fine ventennio rivolgerà l’attenzione su quelle soluzioni figurali che si oppongono alla dissipazione e all’entropia mediante una sorprendente ricomposizione delle forze termodinamiche interne alle stesse. È evidente che la ricerca di un momento di equilibrio tra le icone e le forme geometriche della «struttura permanente» risponda alla esigenza ipotetica di individuare una struttura libidica fissa, stabile, come istanza di non corresponsione con la volubile e mutagena economia del desiderio.  Il crollo della «struttura permanente» o «struttura cristallografica» che si verifica nella ricerca figurale colassoniana degli anni 2012-2015 sta a significare che non v’è né vi può essere una struttura stabile in qualsiasi sistema figurale complesso in quanto, come sappiamo, la instabilità è la legge fondamentale che governa i sistemi complessi. C’è, è avvertibile in questo lavoro, un mana, un colore di fondo dato dalla nostalgia per il sistema dei sistemi, per la stabilità della «struttura cristallografica» che la ricerca ulteriore in direzione della «struttura dissipativa» si incaricherà di smentire.
Per «struttura dissipativa» si intende nel mondo fisico un sistema termodinamicamente aperto che lavora in uno stato lontano dall’equilibrio termodinamico scambiando con l’ambiente energia, materia e/o entropia.
Nel corso degli anni dieci, la «struttura dissipativa» prenderà il sopravvento sulla «struttura cristallografica», e l’indagine della pittrice si concentrerà sulla fluidificazione delle forze dissipative che avvengono all’interno di ogni «struttura dissipativa».
(Giorgio Linguaglossa)

Mario M. Gabriele

Un cocktail di Bull Shit inaugurò l’anno cinese delle candele.
Ci minacciavano Star Wars  e L’Uomo che fuma.

Così rimanemmo al tavolo con Sara e Dora Moore
pensando allo scacco matto.

Cara Ketty, sono 14 anni che non mi muovo più dal letto
e ho le allucinazioni durante il giorno, disse Arianna.

C’è un esercizio, una specie di Yoga,
che si attacca al passato  come il silicone.

A giudicare  le cose come sono andate,
basterebbe che la luna se ne stesse un po’ in disparte.

L’occasione è buona
per dire Vorsicht vor dem Winter.

Sembra che Padre Michell, non voglia liberarci dal male
perché legati  alla Passione, secondo Madame Bovary.

Sissy non si fa più sentire. E’ caduta nel disincanto
in una stanza di Prinsengracht 263.

Da inizio Gennaio fino alla quarantena
Ghebby ha seguito l’andamento dell’universo digitale.

Ne sa qualcosa Keurin dal suo paesino nella Brianza
che accomuna, mese dopo mese, remainders.

Nessuno sa come prendere un vagone,
ricordare  La relatività  con le 4 stagioni di Durell.

Kessy ha conseguito la laurea  in modalità telematica
chiudendo l’esercizio accademico 2015-2016.

Oggi compie gli anni. Le presenterò mammy,
in photoshop,  come quelle in bacheca a Bergen Belsen.

(dalla raccolta inedita Remainders)

Marie Laure Colasson

caro Mario,

leggo adesso la tua top-pop-poesia, e devo dire che è straordinariamente viva e frizzante come uno spumante Brut della cantina Righetti del Friuli, Derrida ne sarebbe rimasto elettricamente colpito e, forse, anche Deleuze… so che in Italia questo genere di poesia non è molto amata, voi italiani i poeti li lasciate volentieri in uno sgabuzzino, meglio se in presenza di scope e di aspirapolveri, scolapasta e pentolame di latta colorata. Sai, penso che anche così la poesia possa, anzi, debba saper sopravvivere, a lato di scatole di fagioli e confezioni di spaghetti scaduti. La top-pop-poesia si nutre di scatolami e di mascalzoni, di pantaloni dismessi e di camicie verdi… tra bacheche di Bergen Belsen e cocktail di Bull Shit…

Mario M. Gabriele

cara Milaure Colasson,

grazie del tuo graditissimo intervento che assembla, con profonda sintesi, una serie di approdi critici bene articolati e di diversa identità. E’ questa la condizione migliore per recepire e decodificare un testo poetico offrendo al lettore il meglio della propria sensibilità critica che, grazie al tuo buon esercizio poetico, rende l’interpretazione dei versi, meno ostica. Non c’è dubbio che abbia gradito il tuo punto di vista finalizzato ad una desemantizzazione della lingua tradizionale. Confesso, che qui, da parte mia e per la poesia o le mie poesie di diversa connotazione, non trattasi di modernismo post NOE, ma di una esigenza volta a trasferire nell’oggetto-verso, tutte le confluenze possibili, anche dicotomiche, ma che alla fine si energizzano e risorgono dal pantano dell’oblio, portando in superficie il rumore del Tempo. Grazie e un cordiale saluto. Mario.

[fotografie di Marie Laure Colasson, manichini in vetrina, Bruxelles 2015]

Giorgio Linguaglossa

Così inizia Lucio Mayoor Tosi una sua poesia:

«Non è facile entrare in un bar rispettando la procedure. Non sai mai se devi pagare prima o dopo aver consumato…»

Ecco, nel mondo amministrato dove tutto è regolamentato con la massima precisione, capita di non sapere più come comportarsi nelle cose più elementari come entrare in un bar per prendere un caffè…

Così non sai come iniziare una poesia, se dalla testa o dalla coda, se dal «ripostiglio di sartoria teatrale» o dai miasmi fetidi di un cassonetto di immondizie che staziona qui sotto casa mia in via Pietro Giordani n. 18 a Roma. È che è diventato problematico l’inizio e la fine. Ed è diventato problematico anche proseguire dopo l’inizio. Per dire cosa? È il «dire» che è diventato problematico.

Ricordo un giorno che feci l’errore di uscire con una signora. All’improvviso, mi resi conto che non avevo nulla da «dire». Fu una serata alquanto imbarazzante.

Ieri sera la giornalista Lilli Gruber ha intervistato il senatore Bagnai della Lega. Il buffo era che Bagnai se ne fregava delle domande e rispondeva come gli pareva parlando di questo e di quello. Questo è quanto. Viviamo in un mondo pop, non resta che prenderne atto, ciascuno parla a vanvera. Già parlare di «sartoria teatrale» nel 1972 era qualcosa di fondato, esistevano le sartorie teatrali e Montale si poteva considerare fortunato a poter parlare di sartorie teatrali, oggi non c’è più neanche il teatro… dai tempi di Montale ad oggi non c’è più un argomento che possa essere preso in seria considerazione. La poesia non fa eccezione, questo è il problema. Penso che oggi si possa fare una poesia serissima facendo parlare direttamente le cose, finalmente liberate dalla schiavitù del referente.

mandel'stam foto segnaletica nel lager 1938

mandel’stam foto segnaletica nel lager 1938

Intorno al 1919 Osip Mandel’štam scrive il famoso saggio Sull’Interlocutore. Centra la sua attenzione critica sul problema ignorato dai simbolisti: «Con chi parla il poeta?». Punto cruciale della nuova poesia acmeista era, nel pensiero del poeta russo, di ripristinare un corretto rapporto con l’«interlocutore», anzi, il presupposto filosofico sul quale si basava il suo concetto di poesia acmeista era quello di individuare un «nuovo» rapporto con il «pubblico» e con l’«interlocutore». La «nuova poesia» avrebbe dovuto identificare un nuovo pubblico e un nuovo concetto di «interlocutore». Era una posizione strategica e una posizione filosofica.

Oggi mi sembra che questo problema sia tornato d’attualità: Con chi parla Laborintus (1957) di Sanguineti? Con chi parla la poesia di Attilio Bertolucci? La poesia di Bertolucci, penso a La camera da letto (1985), richiede una grande lentezza nella lettura, quella di Sanguineti una grande velocità di lettura. La poesia paragiornalistica che verrà dopo Satura di Montale richiede una grande velocità, può essere letta mentre parliamo al telefono o mangiamo un tramezzino. Come mai questo fenomeno? Che cosa è cambiato nella poesia di oggi? Con chi parla la poesia post-montaliana (post-Satura, del 1971)? Quale è l’«interlocutore» della «nuova poesia»?

Ecco, in proposito, un brano cruciale di Osip Mandel’štam nella traduzione di Donata De Bartolomeo. La poesia di Mandel’štam rispetto a quella dei simbolisti richiede una grande lentezza, va in senso contrario a quello dei simbolisti.

Osip Mandel’štam

Allora, con chi parla il poeta?

Allora, con chi parla il poeta? La questione è scabrosa e molto attuale, poiché sino ad oggi i simbolisti eludono la sua pungente impostazione. Il simbolismo, mettendo del tutto da parte la correlazione, per così dire, giuridica da cui è accompagnata l’azione del dire (dico, cioè, che mi ascoltano e che mi ascoltano non gratuitamente, né per curiosità ma perché obbligati), ha rivolto la sua attenzione esclusivamente all’acustica. Getta il suono nell’architettura dell’animo e, con il narcisismo che gli è proprio, segue le sue peregrinazioni sotto le leggi dell’altrui psiche. Esso prende in considerazione l’aderenza sonora, che deriva da una buona acustica, e chiama questo calcolo, magia. In questo atteggiamento, il simbolismo ricorda «Prestre Martin», il proverbio medievale francese, il quale nel tempo stesso dice la messa e la ascolta. Il poeta simbolista non è soltanto un musicista, egli è anche uno Stradivarius, il grande artista creatore di violini, preoccupato di calcolare le proporzioni della «scatola» della psiche dell’ascoltatore. Nella dipendenza da queste proporzioni, il colpo dell’archetto o riceve una regale pienezza o suona miseramente e con insicurezza. Ma, signori, la musica esiste anche indipendentemente dal fatto che qualcuno la suoni, in una certa sala e su un certo violino! Perché, allora, il poeta deve essere così previdente e sollecito? Dov’è, infine, questo fornitore di violini viventi per le esigenze del poeta, degli ascoltatori, la cui psiche è equipollente alla conchiglia del lavoro di Stradivarius? Non sappiamo, non lo sapremo mai dove sono questi ascoltatori… François Villon ha scritto per la marmaglia della metà del XV secolo, eppure noi troviamo nei suoi versi una viva bellezza.

Ogni persona ha degli amici. Perché mai il poeta non dovrebbe rivolgersi agli amici, alle persone che gli sono veramente vicine? Il naufrago, nel momento critico, getta nelle acque dell’oceano una bottiglia sigillata con il suo nome e la descrizione del suo destino. Dopo lunghi anni, passeggiando tra le dune, la trovo nella sabbia, leggo la lettera, vengo a sapere la data del fatto, l’ultimo desiderio del morente. La lettera, sigillata nella bottiglia, è indirizzata a chi la troverà. L’ho trovata io. Significa che sono io il misterioso destinatario.

 Il mio dono è misero e la mia voce non è alta,
ma io sono vivo e sulla terra il mio
essere a qualcuno è caro:
un mio lontano discendente lo troverà
nei miei versi, chi lo sa? La mia anima
stringerà con la sua un rapporto
e come ho trovato un amico nella contemporaneità,
io troverò un lettore nella posterità.

Leggendo i versi di Baratynskij, provo la medesima sensazione come se nelle mie mani fosse caduta quella bottiglia. L’oceano di tutta la sua enorme produzione poetica le è venuto in aiuto, l’ha aiutata a colmare la sua predestinazione e l’emozione si impossessa del provvidenziale trovatore. Nel gettare la bottiglia nelle onde da parte del naufrago e nell’invio dei versi da parte di Baratynskij, ci sono due momenti che appaiono assolutamente identici. La lettera, così come i versi, non sono indirizzati a nessuno in particolare. Ciò nondimeno, entrambi hanno un destinatario: la lettera, colui che si accorge per caso della bottiglia nella sabbia, i versi il lettore «nella posterità». Io vorrei sapere che tra quelli cui capiteranno sotto gli occhi i citati versi di Baratynskij, non sentirà il brivido felice e sinistro che viene quando all’improvviso ti chiamano per nome.

Konstantin Bal’mont dichiara:

Io non conosco la saggezza, utile agli altri,
soltanto la fugacità metto nei versi.
In ogni fugacità io vedo mondi,
pieni di volubile, iridescente fuoco.
Non maledite, saggi, che vi importa di me?
Io sono soltanto una nuvoletta piena di fuoco,
io sono soltanto una nuvoletta – vedete, veleggio
e chiamo i sognatori – voi, non vi chiamo.

Quale contrasto rappresenta il tono sgradevole, insinuante di questi versi con il profondo e modesto valore dei versi di Baratynskij. Bal’mont si difende, come se si scusasse. È inammissibile per un poeta! L’unica cosa di cui non si deve scusare! Eppure, la poesia è consapevolezza della propria ragione. In Bal’mont, in questo caso, non c’è questa consapevolezza. Il primo verso uccide tutta la poesia. Il poeta dice subito chiaramente che non lo interessiamo:

Io non conosco la saggezza, utile agli altri.

Inaspettatamente per lui, lo ripaghiamo con la stessa moneta: se noi non ti interessiamo, anche tu non ci interessi. Che me ne importa di una nuvoletta, ne veleggiano molte… Le vere nuvole hanno questo vantaggio, che non si fanno beffe della gente. Il rifiuto dell’interlocutore attraversa come una riga rossa tutta la poesia di Bal’mont e la sbiadisce fortemente. Bal’mont nei suoi versi tratta continuamente con disprezzo qualcuno, gli si rivolge senza rispetto, con negligenza, con alterigia. Eppure, questo «nessuno» è il misterioso interlocutore. Non compreso, disconosciuto da Bal’mont, egli brutalmente si vendica di lui. Quando parliamo, cerchiamo nel volto dell’interlocutore l’approvazione, la conferma che abbiamo ragione. Tanto più il poeta. La preziosa consapevolezza della ragione poetica spesso manca a Bal’mont, poiché egli non ha mai un interlocutore. Donde i due spiacevoli estremi della poesia di Bal’mont: la piaggeria e l’insolenza. L’insolenza di Bal’mont non è autentica, non è originale. Il bisogno di auto-affermazione in lui è francamente morboso. Egli non può dire «io» sottovoce. Egli grida «io»: «Io – improvvisa frattura, io – tuono che gioca». Sulla bilancia della poesia di Bal’mont il piatto «io» squilibrava decisamente ed ingiustamente il piatto «non-io», che sembrava troppo leggero. Lo stridulo individualismo di Bal’mont non è gradevole. Non è il tranquillo solipsismo di Sologub, che non insulta nessuno, ma un individualismo a spese di un altro «io». Sentite come Bal’mont ami sbalordire con diretti e penetranti usi del «tu»: in questi casi egli assomiglia ad un cattivo ipnotizzatore. Il «tu» di Bal’mont non trova mai un destinatario, ma gli passa rapidamente vicino, come una freccia scoccata da un arco troppo teso.

E come ho trovato un amico nella contemporaneità,
io troverò un lettore nella posterità.

Gif Hitchcock Sparo

Gino Rago

Storia di una pallottola n.8

Ufficio degli oggetti smarriti di via Gaspare Gozzi. Il commissario Ingravallo ha requisito una busta con dentro questa conversazione telefonica.

Wislawa Szymborska:
«Madame Colasson,
avrei bisogno del suo cardiogramma».

Marie Laure Colasson:
«Madame Szymborskà, le posso concedere un cablogramma
con dentro il nulla».

Wislawa Szymborska:
«La sua pallottola viaggia sempre a scrocco…
E anche senza biglietto».

Marie Laure Colasson:
«Madame Szymborskà, sto dissipando le mie “strutture dissipative”.
Domani sarebbe già tardi, non posso risponderLe.
Adieu».

Giorgio Linguaglossa

caro Gino Rago,

sono passati 101 anni dal saggio di Osip Mandel’štam Sull’Interlocutore. Questa tua poesia rende bene la differenza, anzi, l’abisso che passa (e divide) tra la visione della poiesis della Szymborska (sostanzialmente ancorata alla ontologia poetica del tardo novecento) e quella di Marie Laure Colasson, una poetessa della nuova ontologia estetica.

Da Mandel’štam alla Szymborska c’è un filo conduttore piuttosto rettilineo: la fiducia nell’interlocutore che guida la poiesis, adesso le cose sono cambiate, quel filo si è spezzato, non è più possibile rivolgersi ad alcun interlocutore, la poesia ragionamento, la poesia della elocuzione, la poesia figlia del significato e del significante è tramontata, oggi il poeta è alle prese direttamente con il «nulla» (in tal senso non avrebbe senso discettare di significante e di significato), la sola cosa che può fare è mettere il «nulla» al posto dell’«interlocutore» di Mandel’štam. E ripartire da lì.

Il vero potere destituente è la potenza destituente del «nulla» che abita la poiesis della nuova poesia della nuova ontologia estetica.

Ewa Tagher

Giorgio Linguaglossa scrive:

“Da Mandel’štam alla Szymborska c’è un filo conduttore piuttosto rettilineo: la fiducia nell’interlocutore che guida la poiesis, adesso le cose sono cambiate, quel filo si è spezzato, non è più possibile rivolgersi ad alcun interlocutore, la poesia ragionamento, la poesia della elocuzione, la poesia figlia del significato e del significante è tramontata, oggi il poeta è alle prese direttamente con il «nulla» (in tal senso non avrebbe senso discettare di significante e di significato), la sola cosa che può fare è mettere il «nulla» al posto dell’«interlocutore» di Mandel’štam. E ripartire da lì.”

Leggendo questa acuta riflessione, questa ennesima questione poetica che Linguaglossa ha portato a galla, mi chiedo: e se il nulla corrispondesse a un’altra dimensione? Se il destinatario così definito non ci fosse, non avesse ragion d’essere, se la poesia della nuova ontologia estetica fosse semplicemente riflesso di un evento, che non ha per forza bisogno di spettatori? Tempo fa, su queste stesse pagine ci si chiedeva: che poesia è possibile dopo l’Olocausto? Credo, però che giunti a questo punto nello sviluppo critico della nuova ontologia estetica, si debba fare un passo avanti e chiedersi: che poesia è possibile dopo le leggi sulla meccanica quantistica? Nel casino fuorilegge dell’universo quantistico, non esiste una realtà oggettiva: la materia può essere letta sia come fenomeno ondulatorio che come entità particellare, al contrario della meccanica classica, dove ad esempio la luce è descritta solo come un’onda. Mi permetto perciò un paragone, forse un po’ azzardato, ma efficace: credo che la poesia qui fondata della nuova ontologia estetica sia figlia naturale, risenta, della teoria dei quanti, quasi ne fosse un naturale riflesso. La nuova poesia, non è descrittiva, non descrive la “luce”, il fenomeno, l’evento, ma è piuttosto essa stessa materia, è essa stessa evento, lo crea, in forme diverse, intellegibili sia come onda che come particella. Figurativamente la pallottola di Gino Rago può essere onda e particella insieme, così come Herr Cogito, crea un evento facilmente fruibile in una dimensione anni luce da noi. E così via dicendo. Giuseppe Gallo scrive così:

“Si mise il pennello nell’occhio destro.
La Madre lo colse sul fatto.
-Perché vuoi accecarti, Figlio mio?
Il Figlio rimase perplesso.
La intravedeva ancora con l’occhio sinistro.
Allora prese un altro pennello e lo ficcò dentro l’occhio sinistro.
-Perché sei cieco, Figlio mio?
-Per vedere il resto del mondo!”

Fu così che Newton, ficcandosi letteralmente una matita in un occhio scoprì la vera natura della luce, scomponendola in ogni sua onda. Perdonate la mia digressione “fisica”, che sarà anche azzardata, ma Linguaglossa è in grado di provocare anche questi azzardi, con le sue riflessioni.

Giorgio Linguaglossa

Cara Ewa Tagher,

Sono contento che tu abbia colto questo problema da me messo in luce. Negli anni novanta mi chiedevo che cosa intendesse Mandel’štam con il concetto di «interlocutore», adesso, dopo trenta anni ho capito che quella parola oggi va tradotta con la parola «nulla». L’interlocutore è il nulla che abbiamo davanti, dietro e di lato, è la parete bianca del futuro al quale la poesia è inviata, la parete bianca è il telos della poiesis, la poiesis non ha abitazione nel nostro mondo, non ha una Heimat, una patria, non è lecito baloccarsi con le belle parole, dobbiamo guardare bene quest’ospite in faccia diceva Heidegger.

per Wittgenstein le entità primarie di cui si compone questo nostro mondo non sono gli oggetti, ma i fatti. Se qualcuno si chiede che cos’è il mondo, o meglio, in che cosa consiste il mondo potrebbe essere tentato di fare un elenco delle cose che ci sono: il fiore, il vaso, il tavolo, lo schermo, la finestra e così via, finché arriva a un elenco completo, un inventario del mondo. Chi pensa così suggerisce che il mondo sia la somma delle cose che esistono; come se il mondo fosse un grande magazzino con lunghi corridoi di scaffali dove troviamo in un corridoio i fiori, in un altro i vasi,in un altro ancora i tavoli ecc.

I limiti di questa concezione sono evidenti: ciò che conta non è il mero essere degli oggetti, ma il modo in cui essi si relazionano gli uni con gli altri. Importa, in altre parole, non soltanto che il fiore esista e che il vaso esista, ma che il fiore stia nel vaso. «Il mondo» – dice Wittgenstein all’inizio del Tractatus – «è tutto ciò che accade. Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose».Per descrivere questi fatti ci serviamo, secondo Wittgenstein, delle frasi o proposizioni. Se uno dice: «Il fiore sta nel vaso» descrive il fatto che il fiore sta nel vaso. E si nota subito una somiglianza tra la proposizione e il fatto descritto: infatti, Wittgenstein suggerisce che le proposizioni siano immagini dei fatti del reale. A ogni elemento presente nel fatto (il fiore, il vaso, lo “starci dentro” nel nostro esempio) corrisponde un elemento della proposizione,la parola “fiore”, la parola “vaso”, l’espressione “sta nel”. Il fatto è caratterizzato da una struttura interna, che determina come si relazionano gli oggetti all’interno del fatto (che «il fiore sta nel vaso»); e questa struttura viene rappresentata dalla struttura logica dell’enunciato, che determina come si relazionano le parole all’interno della proposizione.

Può apparire banale ma è bene ricordare che la poesia ha a che fare con le proposizioni e che ogni proposizione è una immagine fatta ad immagine di fatti che avvengono o sono avvenuti nel reale. È questa distanza tra le proposizioni e il reale che a me interessa come poeta. Come poeta sono il custode di questa «distanza».

Per la poiesis dire «tavolo», «vaso», «fiore» significa accogliere l’evento come esso si dà nella sua nudità. È l’Evento che illumina le cose che sono nei fatti. È l’evento che illumina la poiesis.

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27, 28 ottobre 2018. Dialoghi e Commenti su La Memoria, il Tempo, lo Spazio, l’Oblio della Memoria, la Postverità, Ipoverità, Iperverità, de-materializzazione, la Poesia, l’Inconscio – Poesie di Mario M. Gabriele, Francesca Dono, Mauro Pierno, Gino Rago, La storica domanda di Mandel’štam: «con chi parla il poeta?». Rispondo: «con la Memoria»

 

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Giorgio Linguaglossa

 Intorno al 1919 Osip Mandel’štam scrive un saggio Sull’Interlocutore e punta la sua attenzione critica sul problema ignorato dai simbolisti: «Con chi parla il poeta?». Punto cruciale della nuova poesia acmeista era, nel pensiero del poeta russo, di ripristinare un corretto rapporto con l’«interlocutore», anzi, il presupposto filosofico sul quale si basava il suo concetto di poesia acmeista era quello di individuare un «nuovo» rapporto con il «pubblico» e con l’«interlocutore». La «nuova poesia» avrebbe dovuto identificare un nuovo pubblico e un nuovo concetto di «interlocutore». Era una posizione strategica e una posizione filosofica.

 Oggi mi sembra che questo sia il problema centrale per la poesia italiana: Con chi parla la poesia di Bacchini? Con chi parla la poesia di Attilio Bertolucci? La poesia di Bertolucci, penso a La camera da letto, richiede una grande lentezza. La poesia paragiornalistica che verrà dopo Satura di Montale richiede invece una grande velocità. Come mai questo fenomeno?  Che cosa è cambiato nella poesia italiana? Con chi parla la poesia post-montaliana (post Satura, del 1971)? Quale è l’«interlocutore» della «nuova poesia»?

Io penso che la poesia del presente e del futuro debba avere al centro della propria ricerca la questione della memoria e dell’oblio della memoria. E riproporrei la storica domanda di Mandel’štam: «con chi parla il poeta?». Rispondo: «con la Memoria».

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La Signora Miniver sembrava un’opera d’arte.

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Mario M. Gabriele, dalla raccolta di prossima pubblicazione Registro di bordo

La Signora Miniver sembrava un’opera d’arte.

Risalimmo le scale fino alla mansarda
per vedere La Bella Elena di Offenbach

-Portami fuori da questo luogo – disse Catherine.
Le ricordai I canti dell’esperienza e dell’infermità.

Uno chiese un calice d’oro per l’altare
senza aver mai incontrato le carmelitane.

A Vladivostock pagammo in sogno 30 kopejki
per passare il Golden Bridge. 

Un avvoltoio si posò nella steppa
scegliendo il meglio della rappresaglia.

–  Presto- disse Cristian,
-bisognerà rivedere i passepartout -. 

E non eravamo ancora certi se ricaricare gli orologi,
dare il veleno ai topi. 

Paulin si fece avanti tenendo tra le mani
un biglietto per Okinawa.

Le condizioni anomale del tempo toccarono le rose
tranne la Primavera di Botticelli.

.

Mauro Pierno

un tempo, quale tempo,
se la figurazione sfugge
se oltre la siepe un confine spinge
se nella mano
un vortice appare di consolanti nubi
che non dovrai schiarire
che non dovrai riscrivere
mai.
un cielo sereno,
profondamente sereno e sgombro di nuvole.
Un antefatto.
Inquietante.)

.

 Francesca Dono

Non conosco la donna che cammina.
Neanche gli altri spinti solo da un invisibile risacca.

Sono tutti qui. Al mercato rionale dei vestiti incrociati. Una folla vagante. Fedra raccoglie quello che trova nel pantano. In un minuto qualunque.
L’autunno sale alle bocche spogliate

anche quest’anno. A dispetto dei sospiri più fitti. Sound di
onde a digiuno. Un déjà-vu palpitante. Nero crostaceo del freddo.

Appendix

(Lacera et misera bestia non orare pro nobis .Tuos utero feroce. In abbundantia disordinem ordinatus pescis )

.

Gino Rago
Versi da alcune meditazioni sul Quadridimensionalismo

Su La Quarta Dimensione

“La madeleine*. Il selciato sconnesso.
Il tintinnio di una posata.

Le chiavi di casa perdute in un prato.
Diventano in noi la resurrezione del passato?

Fanno riapparire il tempo nello spazio?

[…]

Il passato si ripete nella materia grazie alla memoria.
Il tempo perduto esce dalla profondità delle quattro dimensioni.

Perché l’uomo è spaziotempo.
Perché al profondo, nel lungo e nel largo

soltanto l’uomo lega ciò che è stato.
Il tempo perduto. Il tempo passato.

Gli infiniti punti dello spazio e gli infiniti istanti del tempo
possono vibrare insieme solo nella Memoria.

E il presente è la scheggia di tempo che ricorda il passato.
La morte qui non c’entra. […]”

Gif Vogue cover

Mario M Gabriele

Un giorno ho chiesto a uno psichiatra, amico di vecchia data, se l’uomo è in grado di vivere senza la memoria. È possibile, mi disse, solo se è una sua libera scelta o se è un paziente affetto da Alzheimer. Il ricordo può essere positivo, se gli elementi che lo determinano si correlano al piacere della vita, o negativo se i dati ad esso correlati, sono dolorosi e incancellabili e quindi di sradicamento dall’archivio della memoria.”Il cervello, scrive Sergio della Sala su “Micromega” n7 -2010 – pag. 37 ha una doppia funzione, anche secondo Umberto Veronesi, che si lascia attrarre dall’idea del cervello double face.”
Nota è la sua intuizione nell’affermare che “siamo largamente imperfetti con le nostre debolezze e le nostre difficoltà, con un cervello che ha un emisfero cognitivo, razionale, logico, matematico, e l’altro emisfero che elabora sentimenti, emozioni, fantasie”.
Su questi indirizzi operativi il cervello conserva o abbandona la memoria secondo il rapporto che essa ci propone.
Ma c’è anche un altro punto di vista: quello di Edoardo Boncinelli, che in fatto di funzionalità della mente e del suo operare con la memoria ne spiega la ragione osservando che “la mente è tutto ciò che accade nella nostra testa. C’è anche una periferia che noi chiamiamo cuore, perché molte delle nostre emozioni le sentiamo nei vasi che passano vicino al cuore”. Da qui l’accettazione o il rifiuto di ciò che domina la nostra vita con il ricordo.
Scrive Barbara Spinelli su “Il Corriere della sera” che Il Novecento è stato il secolo ammalato di amnesia: Non a caso, Claudio Magris citando il libro della Spinelli: Il sonno della memoria, rileva che” tutto il tema del volume ruota intorno al sonno della ragione e sottolinea il valore razionale, oggettivo e non elegiaco-sentimentale della memoria. Come il sonno della ragione, anche quello della memoria può generare mostri” Continua a leggere

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Tomaso Kemeny, Poesie da Boomerang (2017), Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa – La problematica dell’«Incontro con la Realtà»

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Sono sul marciapiede che marcisce prima del tramonto

 

Tomaso Kemeny (Budapest 1938), vive a Milano dal 1948. In qualità di anglista, professore cattedratico presso l’Università di Pavia, ha scritto libri, saggi e articoli sull’opera di Ch.Marlowe, S.T. Coleridge, P.B. Shelley, Lord Byron, Lewis Carroll, Dylan Thomas, James Joyce e Ezra Pound. Ha pubblicato undici libri di poesia tra cui Il guanto del sicario (1976), Il libro dell’Angelo (1991), La Transilvania liberata (2005), Poemetto gastronomico e altri nutrimenti (2012), 107 incontri con la prosa e la poesia (2014) e Boomerang (2017). Ha scritto libri di poetica come L’arte di non morire (2000) e Dialogo sulla poesia (con Fulvio Papi, 1997); un romanzo Don Giovanni innamorato (1993); un testo drammatico La conquista della scena e del mondo (1996).

Con Cesare Viviani ha organizzato i seminari sulla poesia degli anni ’70 presso il Club Turati di Milano (1978-79). Tra le sue curatele La dicibilità del sublime (con E.C. Ramusino, 1989), Le avventure della bellezza, 1988- 2008 (2008) . E’ tra i fondatori del movimento internazionale mitomodernista (1994) e del movimento “Poetry and Discovery”(2016) nonché della Casa della poesia di Milano (2006).

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Incontro con Dio

da Tomaso Kemeny, 107 incontri con la prosa e la poesia, Milano, edizioni del verri, 2014

Incontro con Dio

Sono sul marciapiede che marcisce prima del tramonto. Viscide vipere m’impediscono di sopravvivere ulteriormente. Dall’alto scende una carrozza d’oro-volante e mi trasporta in un campo di defunti in attesa di giudizio.
Dopo un’attesa di venti secoli, un angelo inquisitore mi stacca entrambe le braccia con una sega elettrica e nelle spalle m’inserisce ali candide perché io possa volare al di là del tempo.
Vertigine.
Entro nella luce divina.
Vorrei fermarmi a risplendere nell’armonia celeste. Ma mi sveglio al vecchio vento che mi trascina là dove c’è un altro futuro.

Incontro con Dio

Prima del tramonto affogo nel tempo
aperto a scandalose
introspezioni: mi sento Principe
dell’Ignoto, artificiere vano,
commediante ipnotizzato
dalle viscide vipere
annidate nelle profondità
per spuntare all’improvviso
in forma di parole
a dire che le cose non possono restare
così, con le porte chiuse per me
dal lieben Gott:
né mi sento destinato
alla deportazione
nel campo dei defunti
in attesa dle giudizio.
Nulla di più molesto e irritante
per me dell’Angelo Inquisitore che mi
interroga sul mio pormi
in testa ai condottieri
del piacere. La verità è
che ogni sorriso dell’Amata
m’inonda dello sfolgorio
di un Dio procreatore eterno
della bellezza certa in cielo e in terra.
Amen.

Incontro con una pagina bianca (la prima luce)

 

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Incontro di Christian con la signorina Vodka

“La signorina cento chili
con la sua trippa molliccia sommerse
le mie cosucce
a prova di donna cannone:
fu il suo alito iper-alcoolico
misto a sperma
d’ignota provenienza
a contagiarmi le tonsille
infettandomi anche l’urina.
Ma prima, con immensa foia
l’inculai sul tavolo da cucina”.

 

Mitomodernismo Tomaso Kemeny in recita a Milano

Tomaso Kemeny in azione mitomodernistica a Milano, 2016

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

La problematica dell’«Incontro con la Realtà» di Tomaso Kemeny

«La Poesia è morta? Essa ha il suo sepolcro nell’opera», scrive Guglielmo Peralta. Oggi un’opera di poesia degna di questo nome non può parlare d’altro tema che della propria morte. «Senza resurrezione». «Il solenne cenotafio» di se stessa.
La Nuova Poesia? Il Nuovo Romanzo? La Nuova Critica? – L’elefante sta bene nel salotto, è buona educazione non nominarlo, fare finta che non ci sia, prendiamo il tè in punta di spillo, con i guanti bianchi. «Andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole?», beh, come gli indigeni dell’isola di Pasqua, faremo la fine che hanno fatto loro

Sono ormai cinquanta anni che un elefante si aggira nel salotto.
Con la sua proboscide ha fracassato il vasellame, sporcificato la tappezzeria,
rovistato nei cassettoni stile liberty e post-pop,
ha mandato in pezzi anche il lampadario di Murano e la cristalleria di Boemia…

 «La realtà giunge nuda e cruda, e con un brivido, poco prima dell’alba. È la Sig.ra Tohil a chinarsi su di me, a rimettere la mia testa al suo posto e a sussurrarmi: “Tutto si può dire, anche l’impensabile, il proibito, non c’è più da avere paura, ormai non c’è speranza. Il sonno non riposa. L’acqua non disseta. L’aria sta per diventare irrespirabile. Le pesti succedono alle piaghe e la morte è oggi l’unica affermazione di vita, mentre la corruzione ci ha portati ad accettare ogni forma di accecamento Il veleno della verità mantiene la nostra civiltà in perenne agonia, stiamo per giungere all’apoteosi dell’immortalità della decadenza”.

Mi sporgo oltre l’orlo di ciò che resta di un muro del mio studio e vedo gli inquilini riunirsi nel mio salotto: chi se l’è fatta addosso per la paura; chi ha perso i guanti; chi riacquista il colorito e perde la parola e chi riacquista la parola e perde il colore. Ciò che nessuno sa dirmi dove e quando è scomparsa la Sig.ra Tohil».

 «Il mondo è un insieme caotico di frammenti»; «il mondo mi appare come la ruota della fortuna spezzata in fondo a un uovo marcio in grado di assorbire l’universo intero»; «mi apro le vie di Milano intasate da imputati per furto, altri per incendio volontario, saccheggio, di omicidio, di evasione e persino di antropofagia», scrive Tomaso Kemeny nei 107 incontri.

Non c’è dubbio che in questi ultimi due libri Kemeny abbia percorso a velocità forsennata lo spazio che passa dal mitomodernismo degli anni ottanta/novanta all’attuale nullismo o nichilismo di questi ultimi anni. È nel frattempo avvenuto che l’«Incontro con la Realtà» è diventato molto più dispendioso, «la Realtà» si è dissolta sotto i nostri occhi, si è de-moltiplicata e frammentata, si è miniaturizzata ed è definitivamente scomparsa dall’orizzonte degli eventi. Quella scrittura che ancora nei primi anni novanta era pur sempre un contenitore delle tensioni stilistiche e linguistiche, oggi risulta del tutto inidonea a suturare stilisticamente e linguisticamente quelle tensioni. Kemeny si è scontrato con questa aporia: rappresentare linguisticamente in poesia oggi «la Realtà» è come voler rappresentare il «niente», la mente si avvicina a quella zona dove la rappresentazione classica fallisce, è questo il punto.

Ed ecco spiegato il non-stile del linguaggio cosmopolitico dei due ultimi libri di Tomaso Kemeny. È che non c’erano vie di mezzo o altre strade che potessero condurre ad una «nuova» rappresentazione della «Realtà», e così è caduta la stessa idea di una rappresentazione linguistica in poesia, la stessa possibilità di una rappresentazione purchessia. «L’incontro con la Realtà» si è dimostrato più problematico che mai, e Kemeny da poeta acuto ne ha presto atto e ne ha tratto le conseguenze giungendo ad un linguaggio-ircocervo, un meta linguaggio iperteatrale, impermeabile, revulsivo in grado di conglobare in sé le istanze e le pulsioni espressionistiche e quelle mimico-realistiche. Però, pur sempre entro le coordinate della ontologia del novecento. Finalmente, nella poesia italiana ha fatto ingresso, in maniera non ortodossa e in modo massiccio, la vera questione del nostro tempo: il nichilismo, il lutto, la perdita di valore delle forme poetiche tradizionali con i riflessi che questo fenomeno ha avuto sulle scritture letterarie e, in particolare, sulla forma-poesia. Ci voleva un poeta di origine ungarica come Kemeny, nato nel 1938, per dare questo strattone scossone alla poesia maggioritaria che tuttora si continua a fare e a stampare.

 Gif As god is my witness

«Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subìto la tentazione conosce ben poco la nostra epoca […]

Che cosa mai sarebbe servito dire ai Troiani mentre i palazzi di Ilio rovinavano, che Enea avrebbe fondato un nuovo regno?

La difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere a una rappresentazione del niente. La mente si avvicina alla zona in cui dileguano sia l’intuizione sia la conoscenza, le due grandi risorse di cui essa dispone.

Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto.

Perciò il nichilismo, per quanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti, antistanti il niente, non entrerà mai in contatto con la potenza fondamentale stessa allo stesso modo si può avere esperienza del morire, non della morte». 1]

La difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere a una rappresentazione del niente.

La mente si avvicina alla zona in cui dileguano sia l’intuizione sia la conoscenza, le due grandi risorse di cui essa dispone. Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto.

 Perciò il nichilismo, per quanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti, antistanti il niente, non entrerà mai in contatto con la potenza fondamentale stessa che provoca il «niente».

1] Ernst Jünger Martin Heidegger, Oltre la linea Adelphi, 1989 p.179 € 14

Gif Kiss me as if it were the

Ecco un brano di un mio libro, Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2013. In anticipo (o in posticipo) sull’auspicabile discussione, a proposito della tesi di un ritardo storico della poesia italiana del Novecento a causa della sua «impalcatura piccolo-borghese» e della primogenitura della linea maggioritaria del minimalismo romano-milanese.

Il ritardo storico della poesia italiana. Gli Anni Dieci. Continua a leggere

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Poesia dell’Avvenire? di Giorgio Linguaglossa – L’Antologia Il pubblico della poesia del 1975 – Anni Cinquanta. Dissoluzione dell’unità metrica – Una intervista del 1979 ad Alfonso Berardinelli – Berardinelli: a proposito della ristampa della Antologia Il pubblico della poesia con l’editore Castelvecchi 

FOTO POETI POLITTICOGiorgio Linguaglossa

Anni Cinquanta-Settanta – La dissoluzione dell’unità metrica e la poesia dell’Avvenire

Qualche tempo fa una riflessione di Steven Grieco Rathgeb mi ha spronato a pensare ad una Poesia dell’Avvenire. Che cosa significa? – Direi che non si può rispondere a questa domanda se non facciamo riferimento, anche implicito, alla «Poesia del Novecento», e quindi alla «tradizione». Ecco il punto. Non si può pensare ad una Poesia del prossimo futuro se non abbiamo in mente un chiaro concetto della «Poesia del Novecento», sapendo che non c’è tradizione senza una critica della tradizione, non ci può essere passato senza una severa critica del passato, altrimenti faremmo dell’epigonismo, ci attesteremmo nella linea discendente di una tradizione e la tradizione si estinguerebbe.

«Pensare l’impensato» significa quindi pensare qualcosa che non è stato ancora pensato, qualcosa che metta in discussione tutte le nostre precedenti acquisizioni. Questa credo è la via giusta da percorrere, qualcosa che ci induca a pensare qualcosa che non è stato ancora pensato… Ma che cos’è questo se non un Progetto (non so se grande o piccolo) di «pensare l’impensato», di fratturare il pensato con l’«impensato»? Che cos’è l’«impensato»?

Mi sorge un dubbio: che idea abbiamo della poesia del Novecento? Come possiamo immaginare la poesia del «Presente» e del «Futuro» se non tracciamo un quadro chiaro della poesia di «Ieri»? Che cosa è stata la storia d’Italia del primo Novecento? E del secondo Novecento? Che cosa farci con questa storia, cosa portare con noi e cosa abbandonare alle tarme? Quale poesia portare nella scialuppa di Pegaso e quale invece abbandonare? Che cosa pensiamo di questi anni di Stagnazione spirituale e stilistica?

Sono tutte domande legittime, credo, anzi, doverose. Se non ci facciamo queste domande non potremo andare da nessuna parte. Tracciare una direzione è già tanto, significa aver sgombrato dal campo le altre direzioni, ma per tracciare una direzione occorre aver pensato su ciò che portiamo con noi, e su ciò che dobbiamo abbandonare alle tarme.

 

Dino Campana, Pier Paolo Pasolini

Anni Cinquanta. Dissoluzione dell’unità metrica

È proprio negli anni Cinquanta che l’unità metrica, o meglio, la metricità endecasillabica di matrice ermetica e pascoliana, entra in crisi irreversibile. La crisi si prolunga durante tutti gli anni Sessanta, aggravandosi durante gli anni Settanta, senza che venisse riformulata una «piattaforma» metrica, lessicale e stilistica dalla quale ripartire. In un certo senso, il linguaggio poetico italiano accusa il colpo della crisi, non trova vie di uscita, si ritira sulla difensiva, diventa un linguaggio di nicchia, austera e nobile quanto si vuole, ma di nicchia. I tentativi del tardo Bertolucci con La capanna indiana (1951 e 1955) e La camera da letto (1984  e 1988) e di Mario Luzi Al fuoco della controversia (1978), saranno gli ultimi tentativi di una civiltà stilistica matura ma in via di esaurimento. Dopo di essa bisognerà fare i conti con la invasione delle emittenti linguistiche della civiltà mediatica. Indubbiamente, il proto sperimentalismo effrattivo di Alfredo de Palchi (Sessioni con l’analista è del 1967), sarà il solo, insieme a quello distantissimo di Ennio Flaiano, a circumnavigare la crisi e a presentarsi nella nuova situazione letteraria con un vestito linguistico stilisticamente riconoscibile. Flaiano mette in opera una superfetazione dei luoghi comuni del linguaggio letterario e dei linguaggi pubblicitari, de Palchi una poesia che ruota attorno al proprio centro simbolico. Per la poesia depalchiana parlare ancora di unità metrica diventa davvero problematico. L’unità metrica pascoliana si è esaurita, per fortuna, già negli anni Cinquanta quando Pasolini pubblica Le ceneri di Gramsci (1957). Da allora, non c’è più stata in Italia una unità metrica riconosciuta, la poesia italiana cercherà altre strade metricamente compatibili con la tradizione con risultati alterni, con riformismi moderati (Sereni) e rivoluzioni formali e linguistiche (Sanguineti e Zanzotto). Il risultato sarà lo smarrimento, da parte della poesia italiana di qualsiasi omogeneità metrica, con il conseguente fenomeno di apertura a forme di metricità diffuse. Dagli anni Settanta in poi saltano tutti gli schemi stabiliti. Le istituzioni letterarie scelgono di cavalcare la tigre. Zanzotto pubblica nel 1968 La Beltà, il risultato terminale dello sperimentalismo, e Montale nel 1971 Satura, il mattone iniziale della nuova metricità diffusa. Nel 1972 verrà Helle Busacca a mettere in scacco queste operazioni mostrando che il re era nudo. I suoi Quanti del suicidio (1972) sono delle unità metriche di derivazione interamente prosastica. La poesia è diventata prosa. Rimanevano gli a-capo a segnalare una situazione di non-ritorno.

Resisterà ancora qualcuno che pensa in termini di unità metrica stabile. C’è ancora chi pensa ad una poesia pacificata, che abiti il giusto mezzo, una sorta di phronesis della poesia. Ma si tratta di aspetti secondari di epigonismo che esploderanno nel decennio degli anni Settanta.

 

Ubaldo de Robertis, Giuseppe Talia

l’Antologia Il pubblico della poesia del 1975

Nel 1975 Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli danno alle stampe la Antologia Il pubblico della poesia che fotografava una situazione di entropia della poesia. Ci si avviava ad una pratica di massa della poesia. Ci si accorse all’improvviso che il numero dei poeti era cresciuto in maniera esponenziale, arrivava a numeri ipertrofici. Si era in presenza di un nuovo costume letterario: la teatralizzazione della poesia, la visibilità e l’auto promozione pubblicitaria.

Tra i poeti di allora, riconosciamo: Dario Bellezza, Dacia Maraini, Patrizia Cavalli, Elio Pecora, Eros Alesi, Adriano Spatola, Sebastiano Vassalli, Cesare Viviani, Giuseppe Conte, Renzo Paris, Valentino Zeichen, Nico Orengo, Vivian Lamarque, Giorgio Manacorda, Milo De Angelis, Paolo Prestigiacomo, Maurizio Cucchi, Attilio Lolini, Franco Montesanti, Gregorio Scalise.

Un questionario di dieci domande era rivolto ai poeti. Le risposte non brillavano se non per noia perché gli intervistati cercavano la battuta intelligente, dare risposte originali alle domande più semplici. L’Antologia era divisa nelle seguenti sezioni “Lo scrivere non fa sangue fa acqua”; “La gente guarda e tace, entra al supermercato”; “Si racconta nelle mille e una notte, nel capitolo della leggerezza”; “Come credersi autori?

Così Berardinelli in una intervista del 1979 pubblicata su “Il Messaggero” stigmatizzava questo nuovo costume letterario:

«Molte delle cose scritte allora sono diventate oggi luoghi comuni, però le intuizioni fondamentali si sono dimostrate giuste. La deriva, lo smembramento hanno finito per occupare l’intero decennio ’70. Compivamo l’esplorazione di un continente sommerso e non era facile formulare ipotesi chiare e univoche per il futuro. Tuttora se si dovesse fare un consuntivo della letteratura italiana del decennio ci si troverebbe di fronte una materia molto fluida, caotica, spesso inafferrabile. Insomma niente in comune con i due o tre decenni immediatamente precedenti. La perdita d’identità dei giovani scrittori e la labilità dei confini del cosiddetto spazio letterario mi sembrano perduranti». Continua a leggere

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Fernanda Romagnoli (1916-1986) VENTIDUE POESIE da Il tredicesimo invitato (Poesie 1968-1978) Garzanti, 1980, a cura di Donatella Bisutti – Il fantasma di Fernanda Romagnoli

Invito Laboratorio 24 maggio 2017Fernanda Romagnoli nasce a Roma nel 1916. Diplomata in pianoforte dal Conservatorio di S. Cecilia a diciotto anni, a venti conclude, da privatista, gli studi magistrali. Nel 1943 pubblica la sua prima raccolta di versi, Capriccio, con la prefazione di Giuseppe Lipparini. Rifugiatasi con la famiglia a Erba nel 1944, ritorna a Roma nel 1946. Il matrimonio con l’ufficiale di cavalleria Vittorio Raganella, la porterà dal 1948 a vivere in diverse città, da Firenze a Roma a Pinerolo, infine a Caserta, dove resterà dal 1961 al 1965. In questo periodo prende un impiego di maestra elementare. Nel 1965 esce il suo secondo libro di versi, Berretto rosso. A partire dai primi anni Settanta il suo isolamento letterario sarà confortato dall’amicizia di Carlo Betocchi e Nicola Lisi e quindi di Attilio Bertolucci che, nel 1973, farà uscire presso Guanda la sua terza raccolta, Confiteor. Intanto, dopo il definitivo rientro a Roma, ha iniziato a collaborare ad alcune riviste come «La Fiera Letteraria» e «Forum Italicum» e, per la radio, a «L’Approdo». D’altra parte, gli esiti di una epatite contratta durante la guerra hanno minato gravemente la sua salute, al punto di dover subire nel 1977 un serio intervento chirurgico al fegato, una temporanea salvezza che non le eviterà anni di dolorosa infermità. Quando il male lo consente continua a scrivere e raccoglie, con il consiglio di Bertolucci e Betocchi, le poesie che confluiranno nel volume, Il tredicesimo invitato, pubblicato da Garzanti nel 1980. Le verrà da quel libro, che comprendeva anche una scelta di poesie dalle opere precedenti, una breve gloria. Gli anni seguenti sono segnati da una sempre maggiore difficoltà a lavorare e da ripetuti ricoveri. Alcune sue poesie inedite furono tuttavia pubblicate, per interessamento di Ginevra Bompiani e Gianfranco Palmery, dal quotidiano «Reporter» nell’inserto «Fine Secolo» e dalla rivista «Arsenale», pochi mesi prima della sua morte, avvenuta a Roma, presso l’Ospedale Sant’Eugenio, il 9 giugno 1986.

 

onto Fernanda Romagnoli volto

Fernanda Romagnoli, grafica di Lucio Mayoor Tosi

  Donatella Bisutti: Il fantasma di Fernanda Romagnoli

Una delle cose che più sono contenta di aver fatto nella mia vita è stata occuparmi dell’opera edita e inedita di Fernanda Romagnoli.  Nel 1993, quando ho cominciato a occuparmene, non avendo mai comunque conosciuto la Romagnoli da viva (lei era morta dimenticata nel 1986),  ll tredicesimo invitato, la raccolta che l’aveva imposta all’attenzione dei critici, edita da Garzanti nel 1980 , era da tempo fuori di catalogo  e l’editore non aveva intenzione di ripubblicarla. Le piccole edizioni che l’avevano preceduta erano sparite confluendo nel volume garzantiano.  Mi ci sono voluti 10 anni per riuscire a far sì che venisse di nuovo pubblicata l’opera della Romagnoli – Il tredicesimo invitato più alcuni inediti  – da Scheiwiller. Nessuno mi ha aiutato e spesso sono stata presa dallo sconforto perché mi sembrava di aver davanti un ostacolo insormontabile. È stata solo, credo, la mia testardaggine di ascendenza friulana a impedirmi di desistere. Un destino avverso sembra però continuare a perseguitare la Romagnoli e la sua poesia nonostante io stessa e alcune altre persone  – poche, ma animate da grande convinzione – abbiano cercato e  cerchino di soffiare via la fitta polvere di oblio che continua a ricoprire i suoi meravigliosi versi. Ma tutto sembra inutile: ogni volta che qualcuno sembra riuscire a sollevare il velo, ecco che questo velo, che io immagino nero, luttuoso, ricade pesantemente e ineluttabilmente.

A più di dieci anni di distanza dal felice giorno in cui potei stringere finalmente fra le mani il piccolo libro azzurro pubblicato da Sheiwiller , con il nome di Fernanda che campeggiava infine trionfante sulla copertina, tutto sembra essere stato inutile. Lo spiraglio di luce si è chiuso. Di nuovo la Romagnoli è impubblicata e per leggerla bisogna scovare con difficoltà un suo libro in una biblioteca. Quello che dopo dieci lunghi anni sembrava un traguardo finalmente raggiunto che avrebbe definitivamente tolto dall’ombra l’autrice di alcuni dei versi più meravigliosi della nostra poesia, si è rivelato solo illusorio: è stato cosi breve il tempo in cui il libro di Scheiwiller è esistito, come la breve scia di una cometa che si perde nel cielo. Ormai l’edizione Scheiwiller in libreria non si trova più, e il libro non può nemmeno essere ristampato perché è fuori catalogo. O meglio perché,  a quanto ne so, dopo una lunga trafila di ricerche da me compiute attraverso vicende di cessioni  e fusioni editoriali, la Scheiwiller  è sparita e in questo suo sparire ha trascinato con sé anche Fernanda Romagnoli e la sua opera. Occorrerebbe ricominciare tutto daccapo. Io francamente non credo di averne la forza, sono troppo delusa e passerei volentieri la mano a qualcuno che abbia energie fresche.

Tutto  questo sembra una concatenazione di eventi infausti,  del tutto accidentali, e convengo che non sarebbe accaduto se in Italia la situazione dell’editoria riguardo alla poesia fosse diversa. E anche se un certo canone della poesia che viene imposto oggi non fosse antitetico rispetto alla poesia della Romagnoli. Io al canone preferisco la Romagnoli, ma non molti la pensano come me.  Io credo che la Romagnoli sia una vetta del nostro Novecento e non solo.

Patrick Caulfield English pop art

Tuttavia  io credo anche all’esistenza di energie, positive e negative, che hanno a che fare con lo spirito. Credo che queste energie invisibili,  di cui chi si pretende razionalista ride , muovano la realtà. E credo che gli accidenti della realtà di cui sopra si siano solo prestati al disegno perverso che l’energia negativa della Romagnoli persegue anche oltre la sua morte. Non vorrei farmi ricordare ironicamente come iniziatrice di una critica letteraria che dia spazio al paranormale, ma chissà che futuri studi sulla psiche umana e sul suo interagire  con i  circuiti di energia della materia non possano un giorno confermare questa mia ipotesi. Certo che non può non colpire questo secondo sprofondare della Romagnoli nel silenzio a distanza  di altri poco più che dieci anni. Dopo che tanta fatica era costata farla riemergere.

Riesce quasi inevitabile pensare che qualcosa di autodistruttivo nel suo spirito era talmente forte che continua ad aleggiare sulla sua opera, continua a condizionare la realtà. Può esistere un implacato fantasma letterario? Il masochismo autopunitivo di Fernanda, derivato dal senso di colpa per essersi ribellata alla mutilazione della sua anima operata da una cultura  patriarcale e maschilista,  non solo  l’ha condotta  a una morte precoce, ma ha  fatto del suo meglio per uccidere  anche la sua opera. Paradossalmente: perché è proprio questo suo profondo masochismo a essersi espresso creativamente con gli accenti più alti, dando voce al Tredicesimo invitato. Senza questo suo profondo, morboso masochismo, senza questo senso di colpa cosi profondamente incistato nella sua carne, il dolore non avrebbe partorito la splendida farfalla liberatoria della poesia. E però poi in qualche modo lei stessa ha rifiutato la meraviglia che le nasceva dentro, perché le deve esser parso di togliere a chi le era vicino quello che dava alle figlie della sua anima, le sue poesie. E le ha volute seppellire, seppellendosi  lei stessa, come si fa delle prove  del proprio peccato, che era stato mancare al suo dovere, quello di essere solo moglie e madre . Èuna grande storia romantica, degna di Emily Brontё, quella di Fernanda Romagnoli, che invece di svolgersi nella brughiera inglese si è svolta più banalmente fra le pareti di una cucina di un quartiere romano e che lascia intuire, ma appena appena, non detto, l’ombra forse di un amore negato. Ma il vero amore negato era lei, Fernanda, per se stessa. È questo a farne un’eroina romantica.  Gli inediti che finalmente sono stati trovati e mi hanno permesso di far pubblicare una nuova edizione de Il tredicesimo invitato erano nascosti in un soppalco, in un ripostiglio. Chi li aveva messi li?

La figlia della Romagnoli mi aveva scritto una volta per parlarmi dei suoi rapporti difficili con la madre. Purtroppo forse è mancato il tempo a queste due donne, la madre e la figlia, di spiegarsi, di capirsi , forse di perdonarsi a vicenda. Forse anche la figlia si sarà sentita, magari inconsciamente, come un “tredicesimo invitato” rispetto a una madre che non poteva  realizzarsi compiutamente fra quelle quattro pareti di cucina, una madre la cui anima aveva bisogno di spazi immensi. Continua a leggere

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LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA Mario M. Gabriele: Una poesia testamentum. Inedito. Le parole con le quali è scritto questo rogito testamentario sono fantasmi linguistici, rottami, spezzoni, frammenti che un tempo hanno abitato l’universo mediatico – Il Fantasma è così al contempo un’illusione ma anche l’estrema risposta al venire a mancare della «Cosa significata», al declassamento ontologico del Soggetto parlante

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Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura” e pubblicato diversi volumi di poesia tra cui il recente Ritratto di Signora 2014. Ha curato monografie e saggi di poeti del Secondo Novecento. Ha ottenuto il Premio Chiaravalle 1982 con il volume Carte della città segreta, con prefazione di Domenico Rea. E’ presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poetidi Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzario, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Dieci sue composizioni sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016) a cura di Giorgio Linguaglossa. Sempre nel 2016 è stata pubblicata la raccolta di poesia L’erba di Stonehenge (Progetto Cultura). Si sono interessati alla sua opera: G.B.Vicari, Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Luigi Fontanella, Giose Rimanelli, Francesco d’Episcopo, Giuliano Ladolfi,e Sebastiano Martelli. Altri Interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier. Cura il blog di poesia italiana e straniera L’isola dei poeti.

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Mario M. Gabriele

Mario M. Gabriele

Inedito da In viaggio con Godot
(di prossima pubblicazione nelle edizioni Progetto Cultura di Roma)

Il Decalogo è chiaro, il Codice pure.
I convenuti furono chiamati all’appello.
Chiesero perché fossero nel Tempio.
A sinistra del trono c’erano angeli e guardie del corpo.
Solo il Verbo può giudicare.
L’occhio si lega alla terra.
Non ha altro appiglio se non la rosa e la viola.
Un gendarme della RDT, lungo la Friedrichstraße,
separava la pula dal grano,
chiese a Franz se mai avesse letto Il crepuscolo degli dei.
Fermo sul binario n. 1 stava il rapido 777.
Pochi libri sul sedile. Il viso di Marilyn sul Time.
– Quella punta così in alto, che sembra la Torre Eiffel cos’è? -,
chiese un turista.
– È la mano del mondo vicina all’indice di Dio -, rispose un abatino.
Allora, che salvi Barbara Strong,
e il dottor Manson, l’abate De Bernard,
e i morti per acqua e solitudine,
e che non sia più sera e notte finché durano gli anni,
e che ci sia una sola primavera
di verdi boschi e alberi profumati,
come in un trittico di Bosch.
Ecco, ora anch’io vado perché suona il campanaccio.

Ci furono mostre di calici sugli altari,
libri di Padre Armeno e di Soledad,
e un concerto di Rostropovic.
Usciti all’aperto prendemmo motorways. .
Nella terra di miti, dove ci si scorda di nascere e di morire
c’erano cartelloni pubblicitari e blubell.
A San Marco di Castellabate
la stagione dei concerti era appena cominciata.
Il palco all’aperto aspettava il quintetto Gospel.
Si erano perse le tracce del sassofonista del Middle West.
Il primo showman raccontò la fuga d’amore di Greta con Stokowski.
Le passioni minime vennero con gli umori di Medea,
di fronte alle arti visive di Cornelis Esher.
Un relatore rimandò ad una nuova lettura
I Cent’anni di solitudine di Garcia Marquez.
Quest’anno il postino non suonerà più di tre volte.

Et c’est la nuit, Madame, la Nuit!. Je le jure, sans ironie.

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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa.
Il declassamento ontologico del «Soggetto parlante»

  L’io è letteralmente un
oggetto – un oggetto che adempie a una certa funzione
che chiamiamo funzione immaginaria

J. Lacan – seminario XI 

Il soggetto è quel sorgere che, appena prima,
come soggetto, non era niente, ma che,
appena apparso, si fissa in significante.

J. Lacan – seminario XI

L’idea del «Soggetto parlante» è qualcosa che è in viaggio, qualcosa di inscindibile dal linguaggio, anch’esso sempre in viaggio nell’accezione mutuata dalla linguistica e in particolare da de Saussure, di un soggetto nel linguaggio, ovvero di quel soggetto colto nella sua inferenza con il significante in quanto condizione causativa del Soggetto. Questa premessa, se ricondotta nel campo psicoanalitico, implica che non vi sia ambito del desiderio, e che dunque non si possa dare propriamente parlando alcun  fenomeno dell’esistenza, se non all’interno di una dimensione che potremmo definire con Lacan «originariamente linguistica», determinata cioè dall’«Altro» come luogo della parola fondata così sulla totalità dell’ordine simbolico in quanto ordine causativo del Soggetto.

Il frasario:

«Solo il Verbo può giudicare»

indica sardonicamente il tema della poesia e della intera raccolta di Mario Gabriele, il dogma implicito del «Verbo» unico depositario del «giudizio». L’autore capovolge sardonicamente questo assunto dogmatico sul quale si è retto il potere dell’Occidente con il semplice indicare a dito il «Verbo», il vero falsario della storia degli uomini. Il soggetto quindi parla metonimicamente in quanto pronuncia una ordalia, scopre la nudità del «re», di che stoffa è fatta la sua menzogna.

Ormai non c’è più da aspettare Godot, siamo già da un pezzo in viaggio con Godot, solo che non ce ne siamo accorti; o meglio, le belle anime della poesia non ne hanno voluto prendere atto. Ormai il «Verbo» è un involucro vuoto, un significante con dentro il vuoto.

Il linguaggio, ci dice Agamben, deve necessariamente presupporre se stesso. Il linguaggio, ci dice Mario Gabriele, è fatto con la stoffa di un altro linguaggio, è linguaggio di linguaggi, frantumi di linguaggi rottamati. Non c’è meta linguaggio se non nel linguaggio. Non c’è linguaggio che non sia metalinguaggio sembra dirci Gabriele.

Gif lichtenstein peace through chemistry.jpgIl Parlante è il Soggetto declassato

il quale tiene in piedi le fila del proprio discorso rispetto all’indicibilità come condizione assoluta  della dicibilità. Non si dà indicibilità senza dicibilità. Essa dà, per così dire, figura alla «Cosa significata», le dà una struttura narrativa, una scena in cui possa apparire come oggetto perduto. Perché è il Soggetto ad essere perduto per sempre, che si è smarrito nella selva oscura della linguisticità della civiltà mediatica.

Il linguaggio del fantasma di Mario Gabriele rappresenta la finzione che dischiude la verità del soggetto come mancanza, vuoto, abisso, finzione attraverso cui si articola quell’al di là del desiderio – desiderio di nulla e nulla del desiderio al contempo – che Lacan designa, sulla scorta della nozione freudiana di istinto di morte, come «godimento», la beanza irraggiungibile della identificazione tra la parola e la cosa.

Mario Gabriele presta moltissima cura alla messa in scena del testamentum.

Una sorta di testamento. Come in un testamento che si rispetti c’è di tutto, c’è tutto l’essenziale: i beni immobili e quelli mobili, i beni materiali e quelli immateriali, il tutto riunito in una sola composizione. Un Aleph. Che brilla di luce sinistra, spettrale. Fermo restando che una poesia così è simile ad un rinvenimento di un cratere istoriato di epoca ellenistica o più antico ancora, e il critico deve vestire i panni dell’archeologo per riportare in vita una parvenza di ciò che tutti quei frammenti richiamano alla memoria. Più che lavoro di restauro (e non solo) qui occorre un lavoro di ricostruzione di tutti quei frammenti sparsi e disarticolati che un giorno lontano significavano qualcosa…

Le parole con le quali è scritto questo rogito testamentario sono quei «fantasmi» che un tempo hanno abitato l’universo linguistico mediatico e il nostro immaginario e che, in quanto tali, prendono possesso della pagina bianca.

«Il linguaggio del fantasma»

Nel «linguaggio del fantasma» noi vediamo allestita la messa in scena del venir meno del soggetto-autore di fronte al mancare della «significazione», quella sorta di estrema quanto inconscia riparazione simbolico-immaginaria a un cedimento strutturale avvenuto a livello ontologico, cedimento da cui proviene ciò che Lacan chiama, nel suo significato più generale, il «soggetto parlante». Il fantasma è così al contempo un’illusione ma anche l’estrema risposta al venire a mancare della «Cosa significata» come fondamento dell’esserci del soggetto, ma anche un «venire in presenza» di qualcosa che dimorava nel regno delle ombre dell’inconscio. Ciò che qui importa è proprio  l’aspetto scenico, il luogo retorico in cui il soggetto si ritrova come osservatore e autore (assente), regista e attore (assente) al contempo di quello che può a tutti gli effetti essere definita la  narrazione della sua mancanza. Il «fantasma» è infatti, in ultima istanza, una frase. A livello linguistico, simbolico, si presenta come una proposizione; a livello immaginario, si presenta come una scena. Il «linguaggio del fantasma» è legato a una dimensione liminale, una sorta di sipario chiuso oltre il quale resta velato quel nulla dell’infondantezza del soggetto, quel vuoto di significanti in cui si manifesta  l’abisso del metalinguaggio di Gabriele.

Siamo qui davanti ad una esemplificazione tra le più brillanti della poesia contemporanea che abbiamo definita «Nuova poesia ontologica», indicando questo tipo di poesia come appartenente alla «Nuova ontologia estetica» che stiamo investigando da qualche tempo su questa rivista.

L’inconscio del fantasma linguistico di Gabriele si manifesta, seppur attraverso il velo di sintomi, lapsus, citazioni, frammenti; il suo manifestarsi consente di avvertirne la presenza. Presenza che non si confonde mai con l’esser presente, con un darsi. Tuttavia è un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote il soggetto, o sarebbe forse meglio dire lo coglie a tergo nel suo discorso cosciente, nel suo voler-dire, nei suoi atti, nei suoi desideri, nelle sue intenzioni, lo coglie cioè in un vacillamento che non è nulla di superficiale ma lo concerne e lo coinvolge nel suo stesso, nel suo più radicale essere.

L’inconscio del fantasma linguistico di questa poesia è un inter-detto, esso non ha nulla della oscurità, dell’abissale o di una qualsiasi sorta di magma pulsionale. L’inconscio pensa cose e le pensa linguisticamente agghindate.

gif-xmas2011_keith-bates_peace_through_christmas_treeIl disorientamento

Ho scritto in altra occasione riferendomi ad alcune eccezioni sollevate da Claudio Borghi:

«comprendo molto bene il tuo «disorientamento» dinanzi alla nostra ricerca di una nuova ontologia estetica, io è dall’inizio degli anni Novanta del Novecento che tento di indagare la crisi della forma-interna della poesia, l’ho fatto con la rivista “Poiesis” che avevo fondato nel 1993 e tenuta in vita fino al 2005. Complessivamente ne sono usciti 34 numeri. Ma è accaduto che in questi ultimi 29 anni la crisi delle forme estetiche (e non solo) si è andata aggravando, la crisi ha impresso una accelerazione forsennata al crollo delle forme estetiche tradizionali, non è affatto colpa mia e dei miei compagni di strada se la crisi si è abbattuta come un maglio sulle forme estetiche che abbiamo conosciuto in poesia. Così, è avvenuto che quell’endecasillabo della tradizione che va da Bertolucci de La camera da letto al Bacchini degli ultimi libri, ormai non ha nulla da offrirci, è una forma estetica del passato e noi non possiamo restare fermi a dirci come erano belli i tempi nei quali scrivevamo e vivevamo come Attilio Bertolucci e Bacchini, con tutto il rispetto per quelle forme poetiche e la loro poesia.

Del resto, oggi, non vedo in giro in Italia ricerche alternative a questa che abbiamo messo in campo. Tenterò di spiegarmi. La «nuova ontologia estetica» è nata da una presa d’atto della crisi irreversibile della forma-poesia che abbiamo conosciuto nel secondo Novecento e in questi ultimi anni del nuovo secolo, è una risposta che è partita dai «fondamenti» della scrittura poetica, e, in particolare, da un nuovo concetto dei due elementi fondanti la forma-poesia: la «parola» e il «metro», entrambi visti non più come «contenitori» di grandezza fissa ma come entità a grandezza variabile; sia la «parola»che il «metro» sono entità elastiche, mutanti, noi percepiamo queste unità come enti dotati di tempo e di spazio «interni», non solo «esterni» come intendeva la poesia tradizionalmente novecentesca ed epigonica.

Che cosa voglio dire? Che spetta a ciascun poeta offrire una propria soluzione a questa crisi della forma-poesia e interpretazione a questi nuovi modi di intendere sia la «parola» che il «metro», e si tratta di quello che abbiamo denominato «tempo interno», che non è da intendere come un tempo interno fisso valido per tutti ma come una temporalità interna all’oggetto e al soggetto e una spazialità interna al soggetto e all’oggetto, per dire così.

Non era Tynianov che 100 anni fa ha scritto che «si può scrivere poesia anche senza una unità metrica»?

Cito a memoria. se noi accettiamo questo assioma possiamo concludere che oggi si può parlare non più di unità metrica ma di «unità metriche», ciascun poeta ha il diritto di sperimentare nuove e diverse «unità metriche», non dobbiamo farci intimidire da coloro i quali stigmatizzano che la nostra non è poesia ma prosa travestita da poesia, questi rilievi li restituiamo volentieri ai mittenti.
È di questi giorni la scoperta scientifica di una nuova forma di esistenza della materia: un «cristallo temporale» che ha una struttura atomica che cambia nel tempo: l’itterbio. Incredibile, vero? la scienza ci viene in aiuto mostrandoci che anche la materia può avere una struttura atomica mutagena. E perché non possiamo pensare allo stesso modo la poesia? Perché non possiamo pensare ad una poesia che è retta non più da una struttura atomica fissa ma da una mutabile nel tempo? (esterno ed interno?)».

Il frammento e la citazione nella poesia di Mario Gabriele rappresentano, in quanto finzione, il limite dell’ordine simbolico, un ordine simbolico che abita la zona anestetizzata dall’esistenza dell’universo mediatico.

Ecco la ragione della assoluta modernità della poesia di Gabriele.

Sul «Frammento»

Riporto un frammento di una mia riflessione già apparso su questa Rivista sulla poesia di Mario Gabriele:

“Mario Gabriele utilizza il «frammento» come una superficie riflettente, un «effetto di superficie», un «talismano magico», una immagine di caleidoscopio, un «cartellone pubblicitario»; impiega il «frammento» e la composizione in «frammenti» come principio guida della composizione poetica; ma non solo, è anche un perlustratore e un mistificatore del mistero superficiario contenuto nei «frammenti», ciascuno dei quali è portatore di un «mondo», ma solo come effetto di superficie, come specchio riflettente, surrogato di ciò che non è più presente, simulacro di un oggetto che non c’è, rivelandoci la condizione umana di vuoto permanente proprio della civiltà cibernetico-tecnologica. È una poetica del Vuoto, una poesia del Vuoto. E il Vuoto è un potentissimo detonatore che l’innesco dei «frammenti» fa esplodere. La sua poesia ha l’aspetto di un fuoco d’artificio  che si compie in superficie; si ha l’impressione, leggendola, che si tratti di una diabolica macchinazione della simulazione e della dissimulazione, ci induce al sospetto che sia la nostra condizione umana attigua a quella della simulazione e della dissimulazione: non sappiamo più quando recitiamo o siamo, non riusciamo più a distinguere la maschera dalla «vera» faccia. La poesia diventa un gelido e algebrico gioco di simulacri, di simulazioni e di dissimulazioni, una scherma di sottilissime simulazioni, citazioni, reperti fossili, lacerti del contemporaneo utilizzati come se fossero del quaternario. È una poesia che ci rivela più cose circa la nostra contemporaneità, circa la nostra dis-autenticità di quante ne possa contenere la vetrina del telemarket dell’Amministrazione globale, ed è legata da analogia e da asimmetria al telemarket, danza apotropaica di scheletri semantici viventi…

Ricevo da Ubaldo de Robertis questa citazione di Osip Mandel’stam sulla poesia. Credo che si attagli perfettamente alla poesia di Mario Gabriele e alla nostra sensibilità:

“Non chiedete alla poesia troppa concretezza, oggettività, materialità. Questa pretesa è ancora e sempre la fame rivoluzionaria: il dubbio di Tommaso. Perché voler toccare col dito? E soprattutto, perché identificare la parola con la cosa, con l’erba, con l’oggetto che indica? La cosa è forse padrona della parola? La parola è psiche. La parola viva non definisce un oggetto, ma sceglie liberamente, quasi a sua dimora, questo o quel significato oggettivo, un’esteriorità, un caro corpo. E intorno alla cosa la parola vaga liberamente come l’anima intorno al corpo abbandonato ma non dimenticato. […] I versi vivono di un’immagine interiore, di quel sonoro calco della forma che precede la poesia scritta. Non c’è ancora una sola parola, eppure i versi risuonano già. È l’immagine interiore che risuona, e l’udito del poeta la palpa.

(Osip Mandel’stam, in La parola e la cultura).

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Il treno del tempo: successione, salto in avanti, salto all’indietro, cambiamento, continuità, discontinuità, interruzione, ripresa, reversibilità, irreversibilità

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/02/23/la-nuova-ontologia-estetica-mario-m-gabriele-una-poesia-testamentum-inedito-le-parole-con-le-quali-e-scritto-questo-rogito-testamentario-sono-fantasmi-linguistici-rottami-spezzoni-frammenti-che/comment-page-1/#comment-18242

Torniamo alla lettura della poesia. Precisamente a questi versi della poesia di Mario Gabriele:

Un gendarme della RDT, lungo la Friedrichstraße,
separava la pula dal grano,
chiese a Franz se mai avesse letto Il crepuscolo degli dei.
Fermo sul binario n. 1 stava il rapido 777.
Pochi libri sul sedile. Il viso di Marilyn sul Time.

In questo testo poetico la profondità del tempo è diventata profondità dello spazio. Il treno del tempo: successione, salto in avanti, salto all’indietro, cambiamento, continuità, discontinuità, interruzione, ripresa, reversibilità, irreversibilità etc., è diventato il treno dello spazio. Il lettore nell’atto della lettura è costretto a cambiare continuamente il suo registro temporale, con l’effetto che il tempo diventa, magicamente, spazio. Il tempo si è spazializzato, ha assunto profondità spaziali. E lo spazio si è temporalizzato.

L’esperienza umana del Soggetto è scomparsa, è uscita fuori dell’orizzonte degli eventi della poesia. La poesia di Gabriele si è liberata del pesante fardello di un orizzonte di lettura unilineare e unitemporale, qui si aprono diversissime direzioni temporali che diventano direzioni spaziali. La spazializzazione del tempo è una delle caratteristiche precipue di questo tipo di poesia che io ho indicato con la denominazione di Nuova Ontologia Estetica perché i suoi assunti sono, in guise diverse da ogni autore, adottati da vari poeti che seguono questa nuova ontologia ciascuno con modalità stilistiche proprie. Così, il tempo diventa visibile attraverso lo spazio. Accostare tessere diversissime in un insieme, in un mosaico, diventa un puzzle, un Enigma che può anche non essere interpretato perché è prioritario per l’Enigma essere vissuto. Per sua essenza, l’Enigma rifugge da atti di padronanza categoriale, e rifugge da letture unidirezionali. Il «tempo interno» è nient’altro che questo processo che interviene tra l’autore e il lettore, ma è anche una caratteristica di ogni singola «tessera» o «immagine»; in fin dei conti, ogni «immagine» è analoga all’altra, c’è nell’orizzonte degli eventi del mondo e non ha bisogno di essere spiegata ma è un darsi e un moltiplicarsi di superfici riflettenti nelle quali l’uomo contemporaneo può riflettere la sua Assenza, la sua mancanza ad essere. Una problematica di carattere squisitamente esistenzialistica..

Il tempo può essere percepito ed esperito soltanto come una delle dimensioni dello spazio, ed esso spazio è la modalità con la quale l’esistenza è stata vissuta ed esperita. Dunque, l’esistenza è dentro lo spazio e dentro il tempo come una serie di scatole cinesi.

Qui siamo davanti ad un «tempo interno» che è diversissimo dalla visione retrospettiva e memoriale di un Proust, ma più simile a ciò che nel romanzo hanno fatto narratori come Salman Rushdie con i suoi romanzi Versetti satanici (1988) e Midnight’s children (1981) e Orhan Pamuk con Il mio nome è rosso (2000) e Il museo dell’innocenza (2008). L’utilizzazione dei frammenti nel romanzo moderno è una procedura assodata da tempo, in poesia l’accademismo e la tradizionalizzazione delle forme estetiche ad opera di letterati conservatori, in poesia dicevo questa nuova forma di pensare la scrittura letteraria qui in Italia è stata osteggiata e ritardata.

Platone nel Timeo parla del Tempo Cronos come di una «icona in movimento di Aion, come di una «immagine mobile dell’eternità». È singolare che Platone per indicare il «Tempo-Cronos» ricorra alla parola «immagine». Singolare ma significativo in quanto noi possiamo afferrare qualcosa intorno al «tempo» soltanto se ce lo rappresentiamo come una «immagine», cioè attraverso una figurazione spaziale.

Chi sogna ad occhi aperti sa molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto ad occhi chiusi. La poesia di Mario Gabriele è simile ad un sogno ad occhi aperti. Ne L’interpretazione dei sogni Freud ci dice che il sogno «è una messinscena originaria», anteriore alla stessa distinzione tra «soggetto» e «oggetto». Le immagini mobili che fluttuano sulla superficie riflettente degli attimi temporalizzati della poesia di Mario Gabriele sono messe in scena sostitutive di quella originaria, sono la traduzione di concetti temporali in figurazioni spaziali.

Scrive Giacomo Marramao:

«il tempo baudeleriano si è spogliato di tutte le prerogative spaziali. Per il semplice fatto di costituire una dimensione reale dell’esperienza umana, il tempo vissuto non può assolutamente darsi indipendentemente dallo spazio. Ed essendosi in tal modo spazializzato il tempo, tutta l’esperienza vissuta appare come spazializzata. Anzi: identica allo spazio. Lo stesso tempo può rendersi propriamente visibile, essere ‘sinestesicamente’ percepito ed esperito, solo come una delle dimensioni dello spazio, che viene pertanto complessivamente a coincidere con la stessa estensione dell’esistenza […] Questo movimento è esattamente un movimento prospettico “l’atto con cui, per giungere alla profondità, si apre nel campo visivo una strada che lo sguardo percorre”. Si spiega così il significato recondito delle “magiche prospettive” che Baudelaire dispone nelle sue memorabili descrizioni paesaggistiche e che fa corrispondere le sue analisi delle tele di Delacroix alle proiezioni che l’esperienza organizza nei “quadri” del suo vissuto: “evaporazione e centralizzazione (o condensazione) dell’Io: è tutto qui (Oeuvre, II, 642). evaporazione inebriante e condensazione nel ricordo e nel rimpianto rappresentano i confini, i termini estremi, di un movimento del vissuto che tende a coincidere con lo spazio. Un’esistenza spazializzata è un’esistenza evaporata in numero: “Il numero – sottolinea Baudelaire – è una traduzione dello spazio (ivi, 663). E poiché sempre di spazio vissuto si tratta, anche il numero andrà inteso nel senso di numero vissuto. Sta qui la chiave segreta dell’immagine baudeleriana di “ripetizione”: essa prospetta la virtualità di esperire una moltiplicazione dell’esistenza attraverso un’infinita estensione di campo delle sensazioni. La moltiplicazione dell’esistenza divenuta numero dipende così da quella misteriosa facoltà di ripetere il suo salto lungo tutta la superficie dell’essere: di rimbalzare come un’eco lungo la misteriosa curva di uno spazio tempo i cui confini non sono mai tracciati definitivamente. Non per nulla i versi più belli e significativi di baudelaire sono proprio quelli che esprimono il riecheggiamento:

Comme des longs éclos qui de loin se
confondent…
C’est un cri par mille sentinelle…

Non si dà, pertanto, né reale né possibile esperienza del tempo a prescindere dallo spazio. La grande intuizione baudeleriana circa la costruzione di una profondità di campo quale condizione imprescindibile per afferrare-insieme (null’altro se non questo è il significato di “comprendere”) gli eventi che ci accadono sopravanza, in questo senso, la nozione di “tempo vissuto” di Bergson: non più Spazio come morte del tempo, estinzione della sua fluente autenticità nel rigore esclusivo della misurazione cronometrica, ma spazializzazione come conditio sine qua non per poter fare esperienza…
[…]
Poiché solo all’apparire del “perturbante” si dileguano gli idoli. Exeunt simulacra».1]

*
Il nostro modo di esistenza ha prodotto la moltiplicazione degli istanti, la moltiplicazione delle temporalità, la moltiplicazione delle immagini.
Che cos’è l’immagine? L’immagine è l’istante.
Che cos’è l’istante? Per Parmenide l’istante, o meglio l’istantaneo è: «L’istante. Pare che l’istante significhi (…) ciò da cui qualche cosa muove verso l’una o l’altra delle due condizioni opposte [del Passato e del Futuro]. Non vi è mutamento infatti che si inizi dalla quiete ancora immobile né dal movimento ancora in moto, ma questa natura dell’istante è qualche cosa di assurdo [atopos] che giace fra la quiete e il moto, al di fuori di ogni tempo…» (Parm., 156d-e).

La moltiplicazione dell’esistenza tipica della nostra civiltà post-moderna ha prodotto la conseguenza di una moltiplicazione di superfici riflettenti quali sono le immagini nella civiltà telemediatica. Questo processo è esploso in questi ultimi decenni a velocità forsennata ed ha prodotto una profonda modificazione del nostro modo di percepire e recepire il mondo; il mondo si è frantumato in una miriade di spezzoni. Fare un processo al mondo per quanto accaduto non è nelle nostre intenzioni, questo della moltiplicazioni delle superfici riflettenti è un dato di fatto incontrovertibile e noi e Mario Gabriele non altro abbiamo fatto che prenderne atto e fare una poesia di superfici riflettenti. Questo processo epocale fra l’altro ha prodotto una conseguenza anche sull’idea di Soggetto e di Io (idea teologica e filosoficamente destituita di fondamento già da Freud e dal sorgere della psicanalisi). Il Soggetto è scomparso. È diventato un fonatore. Anche l’enunciato è qualcosa di diverso dal Soggetto enunciatore. Il predicato si è scollegato dal Soggetto. Si tratta di questioni che la filosofia del nostro tempo ha chiarito in modo ritengo sufficientemente credibile. Fare oggi una poesia del Soggetto che legifera nella sua sfera di influenza, è, a mio avviso, una ingenuità filosofica ed estetica. La poesia dell’Io è un falso, e una banalità.

Quanto ai concetti di armonia, di eufonia, di musica del verso musicale, di poesia e di anti poesia etc. sono concezioni tolemaiche legate ad una visione tolemaica e ingenua della poesia che ha fatto il suo tempo e verso i quali mi viene da sorridere, anzi, provo addirittura nostalgia per quell’età in cui si scriveva credendo ingenuamente in quelle categorie estetiche. La nuova ontologia estetica di cui qui si parla lascia questi concetti semplicemente come abiti dismessi sulla sedia a dondolo per chi vuole ancora dondolarsi in ozio intellettuale. Pecchiamo di arroganza? Forse. Non lo so. E neanche mi interessa.

G. Marramao Minima temporalia luca sossella ed. 2005 pp. 95 e segg.

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Remo Pagnanelli (1955-1987) POESIE SCELTE – Un poeta del Novecento da rileggere – Commenti di Flavio Almerighi, Paolo Zubiena e Guido Garufi

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Remo Pagnanelli, poeta e critico letterario, nasce a Macerata il 6 maggio 1955, dove muore il 22 novembre 1987. Nel 1978 si laurea cum laude in Lettere moderne con una tesi su Vittorio Sereni. Nello stesso anno esordisce come poeta con la plaquette Dopo, cui fanno seguito nel 1984 Musica da Viaggio, nel 1985 Atelier d’inverno e il poemetto L’orto botanico, per il quale è tra i sei giovani poeti vincitori del premio di poesia internazionale “Montale 1985”. Vengono pubblicati postumi l’ultima raccolta di versi Preparativi per la villeggiatura ed Epigrammi dell’inconsistenza. L’opera poetica di Pagnanelli è stata raccolta nel volume complessivo a cura di Daniela Marcheschi Le poesie.

Valente critico, nel 1981 ha pubblicato La ripetizione dell’esistere. Lettura dell’opera poetica di Vittorio Sereni e nel 1985 Fabio Doplicher. Nel 1988, postumo, è uscito il suo lavoro più impegnativo, Fortini. L’intenso impegno nell’ambito della critica letteraria e della teoria della letteratura è documentato da innumerevoli saggi, studi e recensioni su poeti e scrittori anche non contemporanei, pubblicati su riviste specialistiche. Parte dei saggi sono stati raccolti da Daniela Marcheschi nel volume postumo “Studi critici. Poesie e poeti italiani del secondo Novecento”. Alcuni studi sull’estetica e sull’arte sono confluiti nel volume Scritti sull’arte, uscito in occasione del ventennale della scomparsa.  L’intero corpus documentario di Remo Pagnanelli (dattiloscritti, manoscritti, epistolario) è depositato presso l’Archivio contemporaneo Bonsanti – Gabinetto Scientifico-Letterario G. P. Vieusseux di Firenze.

Per ogni altra notizia il sito ufficiale a lui dedicato (http://www.remopagnanelli.it/).

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Appunto di Flavio Almerighi

 Di storie di losers (perdenti) sono lastricate le vie. Come non dimenticare il più perdente di tutti, marchigiano come lui, Giacomo Leopardi? Conobbi questo poeta quasi per caso, facendo una ricerca sul cognome Pagnanelli su Google, non trovai l’origine del cognome, ma la sua poesia. Poesia che va riletta, reinterpretata non più dimenticata. Poesia singolare, poesia piena di risvolti disperati e dolorosi, eppure intrisa di autoironia.  Remo Pagnanelli, poeta meraviglioso e fondamentale, che propongo ai lettori de L’Ombra delle Parole.

 da una nota di Paolo Zubiena

 La vicenda umana e poetica di Pagnanelli appare tutta scandita dall’inesorabile richiamo della morte, basso continuo della malinconia. Nessuna semplificazione omologante tra nosologia psichiatrica e scrittura – arte e vita, come si diceva un tempo , ma non può sussistere dubbio che l’esperienza di Pagnanelli poeta ponga le radici nella sua sindrome depressiva, la cui oscillazione tra Stimmung  e psicopatologia è da lasciare al giudizio di chi ha potuto conoscerlo. Già nell’incunabolo degli Epigrammi dell’inconsistenza  si  riconosce un’esperienza di totale investimento del sé nella scrittura poetica, che trae dalla situazione melanconica (esemplarmente delineata nella figura dell’“hidalgo”) una conclusione di auto cancellazione (la “lunga vacanza dalla terra”). In Dopo la pronuncia e i ritmi si dilatano: echi del tardo Montale e del Sereni post Strumenti umani definiscono strutture monologanti in cui prevale però la dominante disforica: si veda al proposito, in Mezzosonno, la traslazione di un Sereni corporalizzato verso il tema del dissolvimento – dal sonno al freddo del rigor mortis tramite la voce che salmodia la tentazione “di scappare verso la morte”. Un periglioso autobiografismo bordeggia lo sfogo, ma spesso consegue il risultato dell’impietoso (e sia pure a tratti masochistico) referto. La nuova stagione di Musica da viaggio e Atelier d’inverno  importa un aumento del tasso sperimentalistico e un’alternanza tra la denuncia dell’inadeguatezza dell’io e quella del disastro politico e sociale, con una più diretta voce patemica. Si coglie forse un eccesso di accoglienza di materiali lessicali disparati (tra l’altro il registro basso-corporale, volutamente sgradevole): quasi a voler punire la tenuta stilistica con una brutale imposizione del reale, visto però tal- volta con una lente troppo confidenzialmente egotrofica. Scrive ottimamente Enrico Capodaglio, autore del migliore contributo complessivo sulla poesia di Pagnanelli: “L’autore ricorre a Freud più come al diagnostico che come al pensatore e adotta egli stesso un’attitudine medicale, nel tentativo non solo di esprimere i legami tra il soma e la psiche, ma anche di guarire gli affini con solidale spirito sociale, in virtù della descrizione della malattia. È come se un medico di acuta intuizione diagnostica ci sfogliasse quelle foto crude che si trovano  nei libri di patologia, alternando le spiegazioni tecniche con improvvisi, affettuosi, auspici di guarigione e di salute”.

foto sbarre nell'atmosfera

Commento di Guido Garufi

Remo Pagnanelli, uno scrittore centrale del Secondo Novecento

 Mi viene chiesto di scrivere del mio più caro amico e sodale, Remo Pagnanelli, che nel 1987 decise il suo viaggio per un altrove. Mi è difficile scrivere perché Remo è sempre presente in me e questo potrebbe generare un eccesso di proiezione da parte mia. Tenterò una via diversa. Pagnanelli era e rimane un punto di riferimento imprescindibile nel panorama della poesia italiana del secondo Novecento. Importante nel suo doppio registro di scrittore e di critico. Notti, pomeriggi, telefonate, passeggiate interminabili nella nostra Macerata, e parole, tante parole, giudizi critici, ipotesi teoriche, nuove griglie interpretative. Persino a cena ( anche con la mamma insegnante di Lettere, Luigina – chiamata affettuosamente da mia madre che la conosceva “Gigetta”, il babbo Franco e,  allora, la sorella, una giovanissima Sabina) o dopo cena , facendo una rampa di scale nella sua casa di Via Batà. E poi in camera sua, con le lettere, una macchina a staffa ( non si usava il computer e non c’erano  cellulari) e poi la tensione godibile, l’attesa di ricevere lettere da Loi, da Sereni, da Fortini, da Bertolucci… Remo, alla fine della serata, disordinato o smemorato com’era, gettava a terra fogli residui o inservibili, accartocciati, gli stessi che con tenerezza   diventano in una sua poesia “palle di neve” che- anche lui citato -, il padre raccoglieva e riponeva altrove. E siamo al 1981: decidemmo allora di mettere su, insieme, una rivista, “Verso”, e così facemmo. Ricordo come fosse ora che condividevamo la doppia lettura: verso come il verso dei poeti, naturalmente, ma anche la sua versione latina, “versus” , che appunto vuol dire “ contro”. Remo sosteneva che la poesia aveva una funzione, quella di essere  testimonianza, di “martirio” laicamente inteso. La rivista viaggiava bene, benissimo. Intanto il mio amico pubblicava per Scheiwiller un poderoso saggio su Sereni, La ripetizione dell’esistere, che vinse il Premio Mondello. E contemporaneamente il suo primo libro di versi, Dopo. Gli avevo presentato Giampaolo Piccari e anche io stavo pubblicando il primo libro, Hortus. Ricordo, come fosse ora, che decidemmo insieme la sua copertina, insieme scegliemmo  un bel bleu.

Remo era un gran lettore, un lettore affamato, non affannato, onnivoro: poderosa nella sua stanza la filiera  di testi di critica letteraria e qualche centinaio di libri di poesia. Penso che il suo armamentario filologico ed ermeneutico fosse davvero interessante, almeno  per quei tempi. E tutto questo si deduce dai suoi saggi su Fortini, Penna, Bertolucci, Caproni ed una foltissima schiera di apparenti “minori” del secondo Novecento. Un approccio interdisciplinare, a metà strada tra la critica stilistica e quella variantistica. Alla base, come ho detto ma voglio ripetere,  un centrale armamentario teorico, l’ assorbimento di Freud e Jung, sorvolando Lacan, ma soprattutto i Maestri, da Contini ai più recenti, con un affetto incondizionato per Debenedetti e Mengaldo. Ma questo per restare in Italia. Già, perché oltre le Alpi c’erano Ricoeur, Levinàs  e una piccola schiera di teologi. Non voglio e non debbo qui fare un elenco, sgradito a me e probabilmente ai lettori. Ma è certo che Pagnanelli sapeva unire il suo fiuto  ad una notevolissima e ben digerita  retro cultura, fiuto, intuito e studio matto e disperatissimo che oggi mi pare assente. E anche lo stile, nonostante le citazioni bibliografiche, era uno stile piano, “narrante”, alla Serra, per intenderci. Un dolce stile, godibile, argomentante, accattivante …A questi saggi di carattere letterario bisogna affiancare qualche “perla” critica sul versante dell’ estetica, dell’arte, del puro visibilismo e sul paesaggio ( rimane sostanziale quanto Remo ha scritto sul rapporto Leopardi-Natura, dove bene si coglie quella interdisciplinarità della quale ho parlato).

Ho fatto solo  qualche cenno al Remo critico. Qui informo i mei ventiquattro lettori che aveva anche  una passione di fondo, nascosta , recondita: la musica. Mi disse un giorno che il suo vero sogno sarebbe stato quello di diventare direttore d’orchestra. In salotto c’era un pianoforte che non suonava mai(eccetto che con me, poche volte, e sotto tortura) ma non è casuale questo ricordo, quanto alla poesia. Premettendo, come tutti sanno, che un direttore ha lo scopo  di “accordare” i vari strumenti, di unirli e “sintonizzarli” affinché ne possa scaturire una “musica” uniforme e totale, ho motivo di ritenere che Remo abbia  tentato di fare qualcosa del genere  con le sue raccolte di versi, a partire dalla prima, quella con la copertina bleu, Dopo, proseguendo con Musica da viaggio, Atelier d’invero, e quello finale-terminale, Preparativi per la villeggiatura” ,  che abbia tentato di inseguire una “sostanza musicale” o una “musica di fondo” come sempre mi diceva e ribadiva nei saggi teorici, laddove si occupava di metrica e fonosimbolismo. E’ stato Giampiero Neri ad “accorgersi” di Remo, a supportarlo. Ed è il lessico tonale di Neri che affascinava Remo, una musica di fondo minimale, apparentemente atonale, eppure massimamente espressiva, simile alla indicazione di Montale sul tema della prosa-poesia.

Non sta a me qui percorrere le raccolte, una per una, ma certamente posso segnalare la “qualità” dei suoi versi, pensanti, “pensieranti”, persino quelli che io, come lui sapeva, non “sentivo” e che tanto invece piacevano  a Giuliano Gramigna,  che poi infatti curò la prefazione di Atelier d’inverno. In una sezione, come Remo riconosceva, faceva capolino Lacan, e io gli dicevo che quella sezione del libro mi sembrava ingolfata. Lui sorrideva, di un sorriso compiacente, sapeva che quei riferimenti all’inconscio che in quel libro alitavano, servivano unicamente come “scarico” di un dramma analitico, come una interpretazione dei simboli del sogno. Non so, dopo tanti anni, perché io ricordi questo. Probabilmente perché dei sogni, sempre, Remo mi parlava, dei suoi sogni, dico, e mi chiedeva l’interpretazione. Abbiamo sognato tanti anni insieme e c’è una poesia, anche ironica, dove ci sono di mezzo io, nella figura del “biografo”.

Ed è questo che io voglio ricordare oggi. La sua mancanza è centrale, perché è stato un uomo, una persona, uno scrittore, che aveva capito la “responsabilità”  e il “peso” della scrittura, il ruolo della poesia. E se mi guardo intorno, ne scorgo pochi come lui, capaci di intendere pienamente ciò che sta scomparendo, la Civiltà umanistica, quel residuo che ancora esita e raramente tocca l’umano, la pietà, lo sguardo e la parola degli altri, e agli altri si rivolge, con tenerezza e speranza di comunicare, ancora con i versi  e con il cuore.

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Poesie scelte di Remo Pagnanelli

Nel salone

Non conosco il nome della pianta
né mi interessa di saperlo.
Mi attirano soltanto quelle foglie
inverosimili di plastica
che si allargano fino al soffitto
e lo toccano a una altezza pari
alla vista fuori dell’azzurro.
E’ importante per me notare questo azzurro
intenso e sciroccoso – mentre fuori
tutto si agita e si torce qui
niente fa una grinza e le forme del vuoto
si svelano più facilmente.
E’ importante invece che io tenti paragoni
tra interno e esterno? A tessere
l’elogio del primo non penso
e neppure capire il movimento del secondo
mi smuoverebbe. Non faccio nessun
tentativo di intelligenza,
non scavo, non tento nessun collegamento.
Guardo ancora le foglie larghe
e ogni tanto il cielo.
Non ricordo il nome della pianta.

Da Scherzi per un compleanno
a G.

III
Vorresti prenderti in flagrante,
prenderti sul serio il destino del mondo
sulle spalle. Via, scosta questo orrore
e almeno questa volta non lo fare

IV
Auguri in fretta pestiferi uccelli
scaccia presto in fretta altrimenti
come Ipazia la corsa termina
in un frammento.

(dalla Rivista “Salvo Imprevisti” 1981)

Biglietto da viaggio
spesso in una voliera sognami.
Sarà grande garantirà per me
questo splendore, parti pure e
non interrogarti (questione di
attimi e scorderai).

*

mi addormento nel pensiero, non di te,
ma nel pensiero stesso, forse di lui
ma non necessariamente …

Da Le poesie, il lavoro editoriale, Ancona 2000 , p 100 e p. 202

*

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Les Adieux

infilàti in una nebbianebbione tra ordini e contr’ordini gridati
si rivedono i due vecchi amanti da tempo in un ipotetico oltreche.
Lui può assaporarla giovane come ancora la sognava –
hanno l’opportunità di dire te l’avevo detto che non finiva
… anche qui dandosi incontri che falliscono, dove gli dei
non si avventurano facilmente, tutto retto ancora dal caso.
Ma il sospetto di stare assistendo ad un film d’infimo ordine
non li abbandona … e in qualche modo ne sono fuori
comunque, per un po’ d’odore si rianimano al solo guardarsi
fra le crepe rattrappite dei loro corpi di bacca (in una
nebbia-nebbione)
.

Da Le poesie, il lavoro editoriale, Ancona 2000 , p 95 e p. 199
[Musica da Viaggio, poi confluito in Atelier d’inverno]

*
nel nulla di una stazione cancellata da fiandre
piovaschi, sulle sete sudicie ma tese delle
palpebre, scorre un rumore d’impalpabile azzurro,
un tremore di palme arrochite, assopite nel lino
orsolino. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
(nel grande fiume di luce apparente, estenuantesi
fino all’estinzione, che porta i morti alla foce
d’un altro destino, dorato da sopra macchie
mediterranee d’una cenere autunnale semplicemente
posatasi, vedo la cupola spenta nel latte del bosco)
(nel treno nella notte chissà se dormi lontana
sorella)

IV TOMBEAU

(pensa nel sonno i sonni fanciulli, li sogna, cigni
neri di inutili cicloni? Le querce gli andavano
dietro, gli echi di lui suonavano dalle rive)
lasse celesti e lunari non castamente mortuarie
(qui) rimarginate da bassa plenitudine e bellezza,
in ciocche decrepite e tiepide urne dove gli occhi
si conservarono (anche le suole alate le sabbie dei
cavalieri)

V

dove gettano leghe di legnometallo, l’oscurità si
sgrana in solventi azzurri, in gomiti cavi di gocce
di cenere (s’animano allora le anime immobili, si
scuote il mare tornato intatto da remale mormorio)
– Chi tu sia, il mio non tronco trattieni con ospitalità
regale, le non più braccia nello stridore sgomento
di una stretta
(non la corrente ma il nuovo gelo ti spaventa,
e tu saltalo, se sei un arcangelo. . . . . . . . . . . .
corrompi e sciogli i gorghi, sporcati (poco)
nei liquami – il tuo occhio non regge la visione?
E tu saltala, se sei un arcangelo. . . . . . . . . . . .)

VIII

ora dalla tua ferita (per somiglianza figurale
isolanuvola) fluiscono acerbe ragazze dai colli
lunghi e contesi, che si spengono in una cavea
illune, traversata da un postale, dentro cui suonano
iridi felicemente orientali, dai piedi teneri e
conclusi
(in prossimità del canale si staccano una sera
qualunque teste spedite via)

XI

(una valletta di calici e coppe dischiuse)
gloria levantina scorre su stordimento e pianti
fra una moltitudine di rose travolte da increspature
– vi affonda una mano. . . . . . . . . . . .
(a mezza costa la storia ci sorpassa
ci cancella di volo negli essiccatoi
autunnali – siamo nei piovenali
abbandonati)

XII

la risacca è quella degli anni giovani, logorati
su una losanga emersa da un tiglio genius loci,
ala prediletta e luminosa fra le corde dello
scollamento

(da l’Orto Botanico)

*

L’anno ha pochi giorni perfetti.
Non ci lascia mai incolumi la divinità felpata.
Noi la subiamo come l’eccessivo caldo
o il troppo freddo.
Nel corso passano senza freno i dagherrotipi
della nuova eleganza e ci portano via
le donne e la vita.

.
*

Che altro di strabiliante chiedevo per me,
da lasciarvi tutti così sorpresi e non piacevolmente,
niente che già non si sapesse e di cui si fosse
taciuto e da tanto.
Altri, della passata generazione, direbbe
che il corteggiamento riesce e
del resto chiedere pista e circuire
non è difficile; io nemmeno immaginerei
la morte senza rima come un verso libero.

*
Vorrei fare una lunga vacanza nella terra.
Mie notizie penerebbe il vetro del mare o qualche animale
dal mugugno impigliato nel trabocchetto del buio.
A chi volesse trasmigrerei nelle stagioni intermedie
il fresco dal mio sottocutaneo (la terra
si raffredda più presto del mare), risolto
nel minerale, spesso in simbiosi col vegetale,
assoggettato in altra specie dall’acqua che disperde
in più sciolto da ogni esperimento di corporeità.

*
Forse l’eterno è in questo dormiveglia
di calce mista a biacca senza bagliore,
che elude in inganno ogni virile
aspettazione. Piè Veloce non agguanta
la sua tartaruga né noi il tratto esiguo
d’una giornata.

Vorrei questi versi riversi come un cane
che si abbandona all’agonia.

(da Epigrammi dell’Inconsistenza)

EXILES

Uccelli di specie lontana salutano
passeggiando come foschie sopra
l’adolescente fanciullo adriatico
nell’estivo rifiorire del mare in
un’erica sepolcrale sorella all’autunno.
Gli orti sono invasi da spume presto secche.

forse è ottobre, forse autunno, non sappiamo,
quando s’inazzurrano, per celarsi, le vene
della città, le piane desiderate già al
primo caldo di pasqua, dolci e struggenti.
Scendiamo a coppie sui laghi bianchi, dalle
punte bionde e fiacche, non traslucidi ma
opachi, come noi sul punto di addormentarsi.
Ora fa buio e le candide pernici (nelle estati,
marroni e scattanti ai nostri brindisi)
s’alzano verso gli chalet delle pensioni
e i mangiatori di fiori graffiano le siepi
delle ringhiere.

CLINICA

Efficiente disordine. Bottiglie morandiane
metà opache, lembi di liquide rose sui
guanciali, veli veloci a coprire……………
nel mattino di sole ci si guarda splendere
tra i palmizi e i vasi della villa vicina,
una lacca d’oro entra sulla lampadina
accesa all’angelo custode…………………..
…………………………………………
……………………… (in pozzi bianchissimi e ruotanti
ascolto l’amata traversare vertiginosi
giardini, ignorare gli aliti imputriditi)

nelle brocche, nei cristalli dei lumini
e delle lacrime il tuono delle regate
mosse di fine stagione, lo zoo vuoto
dalle foglie sanguinanti, la schiera
del gruppo che si sgrana e profonda
nel sudore…..……

ora che il fuoco sottile delle lamine è un sogno
della visibilità, un verde pendant di pellicani neri
si versa secco nel parco opaco e voi, fratelli separati,
che la nebbia sbriciola via corrucciati e spenti,
scendete dando le spalle

(da Le proporzioni poetiche. La poesia italiana fra gli anni Settanta e Ottanta, vol.3, a cura di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti,Milano 1987)

*

mi godo questa Luce ultima
della fine senza fine.
Profonda
quanto più nel ritrarsi
pare scalfire.
Che non possiede,
che spossessa le cose e te,
riducendo all’osso e al bianco.

Quant’altra sotto ne dorme
che la pioggia non offusca.

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Donato Di Stasi GLI ANDROIDI SCRIVERANNO POESIE ELETTRICHE? Riflessioni sull’ultrapresente e sul futuro della poesia – L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica – La poesia non muore e non si estingue. La sua storicità lo impedisce -Marxiani e marxisti in poesia –  Della poesia ingenua e sentimentale – La poesia italiana ricomincia da zero a ogni libro – Il destino della poesia

Dalla parte di Giambattista Vico. La poesia non muore e non si estingue. La sua storicità lo impedisce.

L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica. L’occhio naturale ha prodotto l’elegia, l’epica, la lirica. Che cosa produrrà l’occhio artefatto della Tecnica?

The Technique in sunshine. La Tecnica cattura sulle reti cablate l’inizio e la fine di una forma-sonetto. Riproduce alla perfezione le strofe, il numero delle sillabe, le rime alterne e baciate, ma non riesce a far percepire il calore e il movimento del pensiero. Esagera in metafore e visioni, non potendo creare dal nulla la bellezza di un sillogismo. Può imitare con i suoi algoritmi lo strapotere dell’immaginazione, ma non gli stati della mente. Come per tutti gli epigoni: scorrono fiumi di retorica.

Un pamphlet fuori dal coro. Che si pronuncino, ovunque e novunque, geremiadi contro chi relega al margine di tutti i margini teoria e critica, celebrando i fasti del depensiero.

Primum studere, deinde carmina scribere. Perché tanta diffidenza, se non idiosincrasia, per la teoria? Per quale motivo sembra tanto superfluo dover spiegare il proprio metodo compositivo? Per quale ragione appare così assurdo riuscire a coniugare talento, passione e concetti? A nessun versivendolo dovrebbe essere permesso di presentarsi in pubblico senza aver prima elaborato (in proprio) uno straccio di poetica.

Marxiani e marxisti in poesia. In cerca di modelli teorici ci si può imbattere nella marxiana Critica del gusto, risalente al 1960, del filosofo Galvano della Volpe, sostenitore del valore razionale e non sentimentale dell’opera d’arte. Fin dal primo capitolo (Critica dell’immaginazione poetica) il riguardo maggiore viene riservato all’esposizione unitaria dei temi, alla coerenza dei concetti, all’armonia dell’architettura compositiva.

Resta su posizioni regressive  l’autore che ritiene di istituire il poetico a partire dalla fantasia, e non di costituirlo nella  fantasia. Non di una sottigliezza grammaticale si discute, ma di una differenza abissale, perché il primum  nella composizione non appartiene a un arbitrario volo della mente, ma a un saldo organizzarsi attorno a concetti  polisensi, autonomi, plurali, aperti.

Resiste ancora (e ce ne rammarichiamo) la vetusta concezione romantica della poesia ineffabile, univoca e universale. Si tratta dello stampo crociano (idealistico-intuizionistico) che ha trovato accoglienza anche presso il marxista Lukács negli anni Trenta-Quaranta del Novecento.

Libertà progettante e imitazione passiva definiscono il senso dell’esistenza, non solo la presa di posizione nei confronti di un canone, piuttosto che di un altro. 

L’esercizio razionale della creatività. Se l’attualità veicola una forte allure negazionista, chi pratica la poesia sappia sviluppare una conoscenza di pari grado rispetto alla scienza. Non ritenga la propria posizione di seconda fila, o peggio un riflesso condizionato di natura sentimentale, in risposta a eventi pubblici e privati, prodottisi con qualche rilievo.

Il testo poetico come atto polisenso di una specifica produzione culturale. Ogni aspirante poeta appenderà al collo un cartello con l’indicazione degli autori che lo hanno ispirato e formato. Potremo giudicare a priori la possibilità di leggerlo o no.

Cartello esemplificativo. Esenin, Blok, Majakovskij, Chlebnikov, Mandel’štam, Brodskij, Holan, Hölderlin, Trakl, Benn, Villon, Rimbaud, Bonnefoy, Rebora, Lucini, Campana, Dickinson, Sexton, Plath, Rosselli.

Il lettore forte e il letto di Procuste. Pound, Cantos. D’accordo, testo caotico, frenetico, ritmato da citazioni impossibili (l’elenco delle dinastie cinesi imperiali, il rapporto fra usura e capitalismo, l’esempio politico-artistico del Rinascimento italiano). Ancor più d’accordo, testo illeggibile, indisponente, urticante, metallico, ma si possono comporre versi nel secondo decennio del Duemila, senza essere passati per le forche caudine dei Cantos? Saremmo arrivati a questo stadio di civiltà letteraria senza i colpi d’ariete del verso liberissimo di Pound?

Agrammatoi psophoi (suoni inarticolati).  Ma noi  capiamo quando la poesia parla come poesia e non come letteratura?

Della poesia ingenua e sentimentale. Non ce li figuriamo i presunti poeti, chiusi in casa nel porto sicuro  della scrivania, con la testa reclinata all’indietro in attesa che qualche divinità del Parnaso venga a versare miele nelle loro bocche ispirate?  

Il secondo mestiere. La scrittura poetica non è più chiamata a rappresentare e a consolare, ma a analizzare,  conoscere,  formulare una credibile weltanschauung (Montale 1956).

Paradossi. Anche nella sua forma più difficoltosa e complessa, la teoria è per tutti.

La poesia italiana ricomincia da zero a ogni libro. Cadere a corpo morto ingenuamente dentro il Trecento letterario e petrarchizzarsi è un buon modo per ibernarsi.

Contradictio in adjecto. Se la poesia si concentra esclusivamente sulla lirica, perde terreno. Se non ricorre almeno a un elemento lirico, perde per intero la sua forza espressiva.

 

Né avanguardia, né retroguardia.  Togliamo alla poesia la condanna al metalinguaggio e alla tautologia dei classici.

La terribile corporazione dei poeti. Sprovincializzare. Disaggregare gli –ismi. Impedire che gli epigoni facciano mucchio.

 Per dirla alla maniera di Antonio Pizzuto.  La poesia non si ripara. Non è una bambola.

Peripli e periclitazioni. I viaggi di Ulisse, il nostos, ovvero la fondazione della civiltà occidentale. Valgono come utile confronto le peripezie di larga parte dei poeti odierni attorno al loro ombelico.

Amor fati. La poesia non deve temere di decostruire se stessa e di mettere in conto la propria fine. L’assioma dell’apocatastasi parla, a ogni tornata d’epoca, di fulgide e repentine rinascite.

Ritorno al futuro. In qualche frattura dello spazio-tempo Pessoa, Kavafis, Quevedo, i trovatori licenziosi del XIII secolo continuano a macinare versi. Continueranno a scrivere in ogni ipotizzabile futuro.

Insegnamento sintetico di un capitolo di storia letteraria. Un poeta tondo che rotola troppo (Giuseppe Conte). Un poeta quadrato che non rotola affatto (Milo De Angelis). Un poeta che versa acqua fredda sulla testa (Mario Luzi). Una tarma che fa buchi nei mobili (Edoardo Sanguineti).

10 agosto 1829.  Nikolaj Vasil’evič Gogol brucia tutte le copie di un suo ridondante e irrilevante poema. Un gesto bellissimo, oltre la catarsi: liberarsi in un colpo solo della bruttezza del mondo, passata di soppiatto nelle sue pagine. Se i legionari della nostra Repubblica delle Lettere prendessero Gogol come esempio…

Il destino della poesia (1).  Se la poesia ha un’avvenire, è a condizione di imporre a se stessa nuovi compiti,  quelli che non hanno ancora un nome e per i quali non si ha un’idea.  Se la poesia ha un’avvenire, è a condizione di sentirsi sollecitata e scaraventata verso un nuovo ignoto.

Il destino della poesia (2).  Nel bric-à-brac postmoderno con il continuo tracimare di generi e correnti, è venuta meno la specificità dei singoli oggetti  letterari. Del resto, solo su oggetti pertinenti e fissi è possibile esercitare un’azione metodologica e  teorica.   Perciò al lavoro, serve un nuovo orizzonte fenomenologico e concettuale.                                                                                                                                                                                                                                   L’antiProtagora. L’uomo non è più la misura di tutte le cose. Le cose lo misurano e lo schiavizzano. Di questo, dell’essenziale, la poesia per ora dice poco.

Sia lode a Friedrich N. Il nichilismo va lontano, perché viene da lontano. La poesia attualmente non riesce ad andare da nessuna parte.

Hic stantibus rebus. La poesia si traveste da prosa, ma non seduce più. La prosa domina e non abbandona il campo, ergo la poesia non riesce a riguadagnare le posizioni perdute.

Il teorema di Gödel e la prassi poetica. Reintegrarsi nelle forme vegetali e animali per ritrovarne il linguaggio perduto. Reintegrarsi nella forma umana per trasformare il potenziale di energia in un linguaggio nuovo, coerente, compiuto.

Rovesciamento dialettico. Un buon punto di partenza: l’assoluta certezza del soggettivo, l’altrettanto assoluta incertezza dell’oggettivo. Come dire che gli automatismi dell’io appaiono indiscutibilmente certi, mentre le dinamiche legate all’esteriorità si estenuano in un relativismo scettico e senza limiti.

Non far cadere in prescrizione il dissenso. Non arrendersi alla natura ex lege del Mercato, nel cui tritacarne finiscono ogni bellezza e speranza. Veicolare verso i lettori voci in disuso, scardinanti, realmente antagoniste, come se sorgente etica e imperativo categorico  mantenessero ancora una loro dignità e agibilità nelle relazioni tra individui e corpi sociali.

Il romanzo è stato sempre appannaggio della borghesia medio-alta (Verga, Pirandello, Svevo), la poesia della fascia bassa della piccola borghesia (Saba, Scotellaro, Pagliarani).  Si capisce perché uno ricco come Attilio Bertolucci abbia percorso la strada del romanzo in versi, appartenendo naturaliter al facoltoso ceto dei proprietari terrieri.

Il destino della poesia (3). Il poeta di ricerca deposita i suoi versi al bivio fra Letteratura e Industria. Sa che il grande pubblico non passerà mai di  lì.

Deliberati analitici. La poesia è alta e pura, la solleva al Parnaso una lingua verticale che scarta con le sue magie sonore dalla quotidianità. Tutto vero, ineccepibile (sostengono gli integrati). Ma la poesia è anche bassa e infame, canale di scolo delle melme esistenziali. Tutto altrettanto vero, altrettanto ineccepibile (a detta degli apocalittici).

Vernissage. Quando un androide presenterà il suo primo libro, finalmente conosceremo il punto di vista delle macchine su di noi.

Explicit. Luce d’inchiostro, controluce della pagina bianca, ombre di significati toccano il corpo e la mente del lettore umano e non umano. (Rientrano tutti in scena)

Nereidi, sotto la costellazione del Cane, luglio 2016  

Donato Di Stasi  Donato di Stasi è nato a Genzano di Lucania, ha viaggiato a lungo in Europa Orientale e in America Latina prima di stabilirsi a Roma dove è Dirigente Scolastico del Liceo Scientifico “Vincenzo Pallotti” dal 1999. Ha studiato Filosofia a Firenze, interessandosi in seguito di letteratura, antropologia e teologia. Giornalista diplomato presso l’Istituto Europeo del Design nel 1986, svolge un’intensa attività di critico letterario, organizzando e presiedendo convegni e conferenze a livello nazionale e internazionale.

Ha pubblicato articoli per il Dipartimento di Filologia dell’Università di Bari, per l’Università del Sacro Cuore di Milano e per l’Università Normale di Pisa. In ambito accademico ha insegnato “Storia della Chiesa” presso la Pontificia Università Lateranense. Attualmente collabora con la cattedra di Didattica Generale presso l’Università della Tuscia di Viterbo.

È Consigliere d’Amministrazione della Fondazione Piazzolla, è stato eletto nel Direttivo Nazionale del Sindacato Scrittori. Per la casa editrice Fermenti dirige la collana di scritture sperimentali Minima Verba.

Ha pubblicato «L’oscuro chiarore. Tre percorsi nella poesia di Amelia Rosselli», «II Teatro di Caino. Saggio sulla scrittura barocca di Dario Bellezza» (1996, Fermenti) e la raccolta di poesie «Nel monumento della fine» (1996, Fermenti)

               

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Caffè Notegen, Roma, via del Babuino 159 – Caffè Notegen…«Cronaca di una morte annunciata». La società letteraria di fine Novecento. La civiltà degli incontri letterari e delle riviste a cura di Gino Rago – Con poesie degli anni Novanta di Gino Rago, Giorgia Stecher, Giuseppe Pedota, Salvatore Martino e Giorgio Linguaglossa

caffè NotegenUn giorno dell’anno 1875 Giovanni (Jon) Notegen,  «il droghiere di Tschilin », un villaggio svizzero dell’Engadina, mette la strada sotto i piedi e giunge a Roma. Qui, in via Capo Le Case, a breve distanza dalla  Via Sistina e dalla Scalinata a Trinità dei Monti,  Jon Notegen apre una drogheria. Ma pochi anni dopo, nel 1880 per l’esattezza storica, il «droghiere Jon» si sposta a via del Babuino, al civico 159. Rinnova il locale e contemporaneamente ne fa  un Bar-Caffetteria, una torrefazione del caffè, una drogheria e una piccola fabbrica di marmellate speciali le quali, per la vicinanza dell’Albergo di Russia, oggi « Hôtel de Russie», subito si diffusero anche all’estero per i numerosi turisti stranieri che l’Albergo ospitava.

Tra le due Guerre Mondiali, la drogheria e il Bar-Caffetteria diventano un tipico punto d’incontro e di ritrovo dei più noti e celebrati artisti e intellettuali dell’epoca. Negli anni ’50 il Caffè Notegen è ormai un’istituzione e la sera, dopo lo spettacolo,  vi si fa ritorno. Non è difficile incontrarvi Carlo Levi ed Ennio Flaiano, Alfonso Gatto e Corrado Cagli, con  i più assidui frequentatori  “di casa” al  Notegen   Piero Ciampi,  Monachesi, Guttuso, Zavattini, Bertolucci, Adriano Olivetti, Corrado Alvaro, Linuccia Saba, Maria Luisa Spaziani, Milena Milani, Eva Fischer, Iosif Brodskij. Ma la crisi del Centro storico è alle porte. Teresa Mangione, a tutti nota come Teresa Notegen perché moglie di Leto, uno dei fratelli Notegen e accolto

da tutti come «amico degli Artisti», con tutta la gente della cultura, dello spettacolo, dell’arte, della poesia e con tutti gli “artigiani” gravitanti nella «vecchia Roma», ne avverte i rischi e sensibilizza appassionatamente Sovrintendenza ai Beni Culturali e Consiglio comunale capitolino per la salvaguardia del Notegen dal rischio chiusura.

piazza_ di-spagna2Nel 1988 il Caffè viene restaurato e la «saletta delle marmellate» finalmente recuperata viene destinata a colazioni, pranzi di lavoro, riunioni conviviali, incontri culturali. Sempre vivi nella memoria, non soltanto degli addetti ai lavori, i “martedì di poesia”.  Ricordo che negli anni Novanta si sono tenute qui tutte le presentazioni dello storico quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che contava nella sua redazione Giorgio Linguaglossa, Laura Canciani, Giorgia Stecher, Giulia Perroni, Giuseppe Pedota e molti altri poeti «esterni», tra i quali lo scrivente che allora viaggiava tra Trebisacce e Roma. E come non ricordare Salvatore Martino e Luigi Celi. Forse, l’ultimo bagliore di quella antica civiltà dei caffè letterari. Poi, intorno alla fine del primo decennio di questi anni 2000, il Notegen chiude definitivamente…  Nel locale al 159 di Via del Babuino, a pochi passi da Sant’Attanasio, da Piazza di Spagna e da Piazza del Popolo, di quella vitalità oggi è rimasta forse appena un’ombra sul muro.

Indeterminazione, relatività, equazioni di Maxwell, verso libero e non libertà nel verso, metafora tridimensionale, modernismo e postmodernismo, rapporto tra  «io »poetico e «oggetto», differenza fra «oggetto» e «cosa», tempo e poesia: grandi, inquietanti questioni dibattute nella sala delle marmellate dai poeti che circolavano attorno a “Poiesis”. Forse, uno storico del passato recente potrà «ricostruire» lo stato di salute della poesia di quegli anni e dei poeti, soprattutto operanti in Roma, attraverso le vicende del Caffè Notegen…«Cronaca di una morte annunciata», realmente avvenuta nella indifferenza generale e nella inerzia dell’amministrazione dei sindaci Rutelli e Veltroni.

Gino Rago

caffè Notegen. 1jpgDue poesie di Gino Rago dal Caffè Notegen (1999)

Locandina Caffè Notegen
Via del Babuino, 159 Roma*

Noccioline americane
Ostriche australiane
The inglese
Salmone canadese
Cous-cous marocchino
Dolce tunisino
Burro danese
Whiskey irlandese
Palmito cubano
Caffè brasiliano
Colonia francese
Vongola cinese
Caviale russo
Profumi di lusso
Odori di cucina
Petrolio e benzina
Sapone e acetone
Con qualche gettone
Panini e cornetti
Riso e spaghetti
Formaggi e surgelati
Telefoni occupati
Juke-box a tutto spiano
Flipper alla mano
Tommaso sorridente
Teresa accogliente
Sempre tanta gente
Di giorno e di notte(gen)
Tra sussurri e grida
Mosul, Avati e Guida.

* N.B. La locandina è nata in una serata conviviale al Notegen su un tavolino con Giorgio Linguaglossa, Vito Riviello e Gino Rago, dopo la presentazione di due libri di poesia, nella «saletta delle marmellate». Lo scherzo piacque a Teresa e ne ricavò la «Locandina del Caffè Notegen». Era il maggio del 1999.

.

Un bergamotto sul fiato della morte
(in ricordo del Caffè Notegen)

Se il poeta sceglie da quale parte stare
il mondo trova sempre il suo tono,
il suo timbro, il suo colore. Lessico
d’alghe. Sintassi di conchiglie.
Al centocinquantanove di Via del Babuino
la sirena invita l’uomo stanco
all’ultimo sentiero di lumache.
Sotto il passo incerto di frontiera
Teresa spalma un giallo
profumato di limoni.
“Die Klage. Das Ruhmen”.
Il lamento. L’elogio. Euridice. Orfeo.
Un bergamotto sul fiato della morte.
Da quell’altana d’aria a Trinità dei Monti
chi ricorda il viola di Scilla, il tormento
della figlia eletta di Zurigo, l’enigma sul mare
a Chianalea. Chi sussurra l’estasi
d’una spadara, l’incanto della musica
sull’acqua, la sorte d’una piuma
in quel vento sul dorso della mano. (Al Caffè Notegen
di Via del Babuino bussava indarno il male
alle vetrine, né mai trovò ricetto la malinconia.
Sostava sui selci neri l’orma verde bile dell’intrigo).
Al galoppo sul niente d’una soglia nessuno tema
il viaggio al centro della notte.
Forme. Visi. Voci. Specchi. Eventi. Lontani
anche i vapori sugli attriti della carne.
Di quei palpiti vitali, di tanta joie de vivre
sì e no un’ombra oggi resta sul muro.
Ma se il viandante tace, se allenta la corsa,
se a Sant’Attanasio asseconda l’occaso
al Notegen di Via del Babuino daccapo i poeti
clessidrano il tempo, fermano in sé il respiro
degli alberi, risgabellano vantandosi
d’essere schegge dell’eternità. Torna sugli scalini
a prillare aprile. Il sangue riscorre più in fretta
del canto… E le azalee sanno fare il resto.

Giorgia Stecher volto

Due poesie di Giorgia Stecher da Altre foto per album (1996)

Il bisnonno

(dopo il terremoto del 1908)

Accorso al molo tu
chiamavi le barche: Teresa
Carmelina dove siete?
Sornione il mare ti lambiva
i piedi come mostro placato
dopo il pasto tra i resti
del banchetto e tu
a strapparti i capelli disperato.
Di te questa l’immagine
che m’hanno consegnato e a nulla
vale guardare il mezzobusto
che ti immortala grave ma quietato
sopra l’emblema inutile dell’àncora.

.
L’Altra Nonna

Di te ricordo i capelli
suddivisi in due bande da una riga
e la trappola per topi che inventasti
servendoti di un ditale e di una pentola.
Dicevano di te ch’eri una gran signora
che avevi il mestolo d’oro e molto argento,
prima della sterzata della stella.
Mi è rimasto il tuo nome soltanto
ed un ventaglio che col vento
che tira qui da noi, è superfluo
agitare, per soffiarsi.

.
Foto di Parente Sconosciuta

En souvenir de ta soeur c’è scritto giù
nell’angolo data due maggio novecentotredici
e tu stupenda contro una finestra un profilo
perfetto da cammeo, le braccia abbandonate
perfettissime, collo vestito perle
acconciatura talmente belli da sembrare
finti. Eppure sei esistita, col tuo francese
spedito ineccepibile e gli squisiti modi
da gran dama, lo diceva la Gina che sapeva
tutte le vecchie storie di famiglia.

 

Giuseppe Pedota foto anni Settanta

Giuseppe Pedota foto anni Settanta

Poesie di Giuseppe Pedota da Equazione dell’infinito (1996)

I campi dello splendore

I

De profundis o madre l’inesausta
chiara tristezza e queste lunghe lune
ti chiamano e le stanze luminose
ancora mi posseggono all’incanto
delle verdi stagioni della luce

sono tornato dall’illimite
per la felicità di nascermi da un sogno
tuo acerbo di granoverdemaggio

Lucania lucis l’eden tra la torre
normanna di Tricarico e le selve
di lupi che odoravano di neve

e falchi neri le ali di rugiada
inseminati da sapienza i venti
grand’inventori di storie e di sciarade
sulle flotte ulissiache dei sogni

e l’avida di spazi
Genzano emersa da abissali
valloni ebbri d’aglianico e di risa
scenografia arrogante per attori
cattivi contro il cielo come solo
sanno esserlo per genìe segrete
le progenie di Orazio e di Pitagora

matematica e mistica lubrica e libertà
crudele sole nostre ospiti

II

e ancora andiamo per queste strade di vento
con un frullo di stelle tra le ciglia

Lucania lucis come allora andiamo
quando ancora sottile nel tuo ventre
sentivo raggrumarsi i vaticini
delle imminenti apocalissi e glorie

ma è sublime vertigine del tempo
il grande gioco
di frantumarci nell’oblio di ciò che fummo
e che saremo

e fu storia mai sazia
di coincidenti epifanie
nascere l’anno della croce uncina
che provava i suoi artigli d’acefalia deforme
devastando i colori ed il cuore di Klee

e per quali segnali d’elezione
egli mi rese la sua scienza
di render l’invisibile visibile?

.
III

quali segni esaltanti e disperanti
protessero da intrighi
la mia stupefazione a menti aliene

perché annulla i dies irae della storia
il sonno d’un bambino

perché si aprivano le vene
di dèmoni e sibille e di profeti
tra le dita
di Michelagnolo che urlava
al suo papa i crediti mancati
dei lapislazzuli sistini

per quali segni
a pretesto di fame si compose
Amadeus il suo Requiem

e può un blu-viola distico
disperare all’abiura d’un amore?
Lucania

questo paese è lontano da ogni senso
e dagli dèi
forse
ci corre dentro nelle vene un segno
un turgore di luce
di silenzi
appartenute a un sogno di remote
civiltà stellari

la circonferenza s’è aperta
nel punto delle mie fughe
nel punto dei miei ritorni
come teorema d’amore

la mia Lucania è un’Itaca
di tutte le ombre
che mi crearono la luce
di spazi che mi allevarono
con la storia dei venti
e i lutti delle donne nero eterno
come utero di vergini

neri occhi hanno scavato ombre più vere
di chi le rifletteva

un’esca per i flutti
di giovinezze ambigue

i passi delle mie lune nere
vengono dove si attendono
che il viaggio della luce
svegli i bradi cavalli di ombre
per criniere di vento

 

Giorgio Linguaglossa al Mangiaparole 2013

Giorgio Linguaglossa al Mangiaparole, Roma 2013

Poesie di Giorgio Linguaglossa (da Paradiso, 2000)

Enigma

Per il lugubre occhio di Kore
per il funebre drappeggio dell’angelo
dal trono dove regna Proserpina
osserviamo gli uccelli cantare
dove era il laurociliegio
rumoroso di tuoni.

Benché il suo occhio sia frigido
rigide rondini tornano al sole
dal nostro nero mare all’azzurro
palazzo del re dei re, sapremo
dimenticare il sole perché
incontrarsi era desiderio.

.
L’imperatrice Teodora e la sua corte*

La melancholia dell’imperatrice Teodora
e del seguito imperiale recita
il trionfo fittizio, nomenclatura
monumentale museificata nel vetro.
L’ampia corona deposta sul capo
immobile assottiglia lo strepito
dei passi del corteo che collima
con il corteggio di tenebre.
Gli occhi di Teodora ci osservano
dalla rigidità della decorazione musiva
laddove non esiste il tendaggio
dell’inquietudine.

* Mosaico della chiesa di “San Vitale” a Ravenna

*

Vidi l’Angelo dai quattro volti
che guardava in quattro specchi il mio
sembiante riflesso, il quadruplice
barbaglio della luce incidente il profilo
araldico. L’abbaglio di otto occhi
celesti assorti nel nulla dell’oscurità.
tetagrafico, tetacriptico profilo.

Salvatore Martino da “”La fondazione di Ninive” 1977

A una distanza pari dalla giungla seguendo il filo di un
airone basso nelle correnti dell’aria Disposti a seguitare
malgrado l’oroscopo straniero verso l’alto del piano dove
spirali si rincorrono e la schiera alata dei pesci Intorno
il sentiero mostrava tracce d’un’altra carovana passata
chissà in un giorno di aprile Si avanzava per gradi
lo sguardo fisso al perimetro del dolore

but if you think of a periscopal motion
of thinghs and animals

L’arsenico nel vino i segnali del passo Dalla bocca del
capanno un grido di fucili Stormi inquieti di volatili e
il rosso cremisi delle piume alla vista dei cani
Ci spingemmo avanti senza l’appiglio delle streghe
Poi avrai notizie dagli agenti del cielo Orbite e sonde
le riprese di luna e mille crateri illuminati dalla
fiamma silicea Come sciogli il granito?
A una distanza pari dalla giungla l’anima si riduce ad una
massa che invade le finestre entra nelle cantine squarcia
i vetri e le porte precipita negli alambicchi Piombo
***
Doppiata la collina si piega il tempo per cogliere il
tracciato che scende in un azzurro paese dove laghi
s’incontrano il verde meridiano e oltre la fossa il cielo
Tradito dai sicari
Ci siamo tinte le mani con bianchissima calce
coperto i sopraccigli col sudario una flora batterica
per coltivare agavi o la demenza di chi spera
al mattino un oroscopo astuto delle carte
Non c’è comparazione col metallo quello duro e temprato!
La fossa spaventosa degli inganni precipita intatte
carovane l’oro disciolto nei crogioli l’interminabile spirale
conquista il punto Ricomincia l’ascesa a gironi più fondi
Nel Maelström attorcigliati Cibele e il corpo di Attis
ritrovato una piatta famiglia di lombrichi Sirene
calamitate a riva da un canto più del loro sinistro
Siede il giovane Orfeo la lira stanca lungo il braccio
sul cavalcante Egeo stanco dell’Ade stanco dell’Olimpo
tradito dagli amici le mani di bianchissima calce e un
vuoto contro la mezzaluce balenata in pieno dormiveglia
dalla camera accanto
Dovremmo salire E gonfiare nell’azoto
Una centuria volatile
***
Se ancora disperi di vedermi e i passi si cancellano
nella veglia a mezz’aria tra desiderio e fatica
E un’ora dopo ai piedi di una lunga valle
ti prendessero per mano quasi dicendo una preghiera
Mercoledì 8 gennaio in una valle
E ti conducessero per cerchi e rottami senza una
cruda stanchezza ch’è poi attesa di non attendere
E ti prendessero quando singhiozzano i merli con una
storia da decifrare portandoti attraverso canali di metallo
Se ancora i passi si cancellano
***

Gino Rago  nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Ind.le presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Progetto Cultura, Roma, 2016). Altre poesie compaiono nella Antologia Poeti del Sud (EdiLet, Roma, 2015) sempre a cura di Giorgio Linguaglossa.

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DUE POESIE di Mario M. Gabriele (da L’erba di Stonehenge, Progetto Cultura, 2016) con un Commento Giorgio Linguaglossa – Ho un libro sotto mano di Salman Rushdie Imaginary homeland (1999) – Una vecchia fotografia in una cornice a buon mercato pende dal muro di una stanza – Digressioni sulla poesia di Mario M. Gabriele, Aldo Nove, Valerio Magrelli – La pseudo-poesia, la non-poesia, la contro-poesia e la finta-poesia – La poesia dei riflettori mediatici

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Stonehenge

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa 

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Cito dal retro di copertina del libro di Mario Gabriele L’erba di Stonehenge appena pubblicato nella collana da me diretta delle Edizioni Progetto Cultura:

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«L’elemento di distinguibilità della poesia di Mario Gabriele, sta nella rottura con i canoni dello sperimentalismo e con l’eredità della poesia post-montaliana del dopo Satura (1971), vista come la poesia da circumnavigare, magari riprendendo da essa la scialuppa di salvataggio dell’elegia per introdurvi delle dissonanze, delle rotture e tentare di prendere il largo in direzione di una poesia completamente narrativizzata, oggettiva, anestetizzata, cloroformizzata. Di qui le numerose citazioni illustri o meno (Mister Prufrock, Ken Follet, Katiuscia, Rotary Club, Goethe, busterbook, kelloggs al ketchup, etc.), involucri vuoti, parole prive di risonanza semantica o simbolica, figure segnaletiche raffreddate che stanno lì a indicare il «vuoto». Il tragitto, iniziato da Arsura del 1972, e compiuto con quest’ultimo lavoro, è stato lungo e periglioso, ma Gabriele lo ha iniziato per tempo e con piena consapevolezza già all’indomani della pubblicazione del libro di Montale [Satura, 1971 n.d.r.] che, in Italia, ha dato la stura ad una poesia in diminuendo».

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È evidente che nella poesia di Gabriele l’elemento sonoro, fonetico svolga una funzione accessoria: è la continuità ininterrotta delle immagini, dei luoghi nominati, dei toponimi, della nomenclatura ciò che fa una sequenza poetica, non la continuità dei suoni. La tridimensionalità acustica della poesia di Gabriele si comporta come una sorta di megafono della tridimensionalità delle immagini, con raffinati effetti, diciamo, di stereofonia; ma la loro funzione rimane quella servente, quella di accompagnare la tridimensionalità delle immagini in rapida successione. Il loro compito è quello di accompagnare l’immagine, non di suscitarla nella mente del lettore, come accade invece in una semplice poesia performativa orale di tipo narrativo o lirico o anche mimico-teatrale.
 .
mario gabriele
da  Mario Gabriele da L’erba di Stonehenge 2016 Edizioni Progetto Cultura

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(2)

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Una fila di caravan al centro della piazza
con gente venuta da Trescore e da Milano
ad ascoltare Licinio.-Questa è Yasmina da Madhia
che nella vita ha tradito e amato,
per questo la lasceremo ai lupi e ai cani,
getteremo le ceneri nel Paranà
dove abbondano i piranha,
risaliremo la collina delle croci
a lenire i giorni penduli come melograni,
perché sia fatta la nostra volontà.-
Un gobbo si chinò davanti al centurione
dicendo:- Questo è l’uomo che ha macchiato
le tavole di Krsna, distrutto il carro di Rukmi,
non ha avuto pietà per Kamadeva,
rubato gioielli e incenso dagli altari di Nuova Delhi.
-Allora lasciatelo alla frusta di Clara e di Francesca,
alla Miseria e alla Misericordia.
Domani le vigne saranno rosse
anche se non è ancora autunno
e spunta il ruscus in mezzo ai rovi.
Un profumo di rauwolfia veniva dal fondo dei sepolcri.
Carlino guardava le donne di Cracovia,
da dietro i vetri Palmira ci salutava
per chissà quale esilio o viaggio.
Nonna Eliodora da giugno era scomparsa.
Stranamente oggi non ho visto Randall.
Mia amata, qui scorrono i giorni
come fossero fiumi e la speranza è così lontana.

.

Dimmi solo se a Boston ci sarai,
se si accendono le luci a Newbury Street.
Era triste Bobby quando lesse il Day By Day.
Oh il tuo cadeau, Patsy, nel giorno di Natale!

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(3)

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La notte celò i morsi delle murene.
Tornarono le metafore e gli epistemi
e una folla “che mai avremmo creduto
che morte tanta ne avesse disfatta”:
Wolfgang, borgomastro di Dusseldorf,
Erich, falegname in Hamburg,
Ruth, vedova e madre di Ehud e di Sael,
Lothar e Hans, liutai.
.
Questa è la casa: -Guten Morgen, Mein Herr,
Guten Morgen-, disse Albert.
Qui curiamo le piante e le orchidee,
offriamo sandali e narghilè ai pellegrini
in cammino verso Santiago di Compostela.
Sui gradini dell’Iperfamila,
tra stampe di Kandinskij e barattoli di Warhol,
Moko Kainda sognava l’Africa di Mandela.
-“Doveva essere migliore degli altri
il nostro XX secolo”- scriveva Szymborska,
tanto che neppure Mss. Dorothy,
chiromante e astrologa,
riuscì a svelare le carte del futuro,
né Daisy si dolse del sole africano,
ma dei muri che chiudevano
le terre di Samuele e di Giuseppe.
E non era passato molto tempo
da quando Margaret e Jennifer
(che pure in vita dovevano essere
due anime perfette e pie),
volarono in cielo.
.
L’alba illuminava gli angoli bui, gli slums.
Era ottobre di canti e heineken
con la foto della Dietrich sul Der Spiegel.
Riapparve la luce,
ed era tuo il lampo sulle colline
bruciate dall’autunno.
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Ma è malinconia, mammy,
quella che ha preso posto nella casa
dove neanche le preghiere ci danno più speranza.
Fuori ci sono il drugstore e il giardino degli anziani,
l’eucaliptus e il parco delle rimembranze,
la guardia medica per il tuo tremore Alzheimer.
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Fra poco la neve coprirà il poggetto.
Ci sarà poco da raccontare
a chi rimane nella veglia,
dove c’è sempre qualcuno
che parla della lunga barba di Dio
come una cometa
nella notte più silente dell’anno,
quando il gufo da sopra il ramo
sbircia il futuro e vola via.
.
Salman Rushdie and Actress Olivia Wilde

Salman Rushdie and Actress Olivia Wilde

Ho un libro sotto mano di Salman RushdieImaginary homeland‘ (1999), una raccolta di saggi sulla letteratura dello scrittore indiano. C’è anche un saggio su Italo Calvino. Il libro comincia così:

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“Una vecchia fotografia in una cornice a buon mercato pende dal muro di una stanza dove io lavoro. E’ la foto del 1946 di una casa nella quale, al tempo in cui fu scattata, io non ero ancora nato. La casa è piuttosto particolare – una casa a tre piani con un tetto tegolato e agli angoli due torri ciascuna con un cappello di tegole. ‘Il passato è un paese straniero‘ dice la famosa frase che apre il romanzo di L.P. HartleyThe God-Between?, ‘essi fanno altre cose là’. Ma la foto mi dice di capovolgere questa idea; essa mi ricorda che è il mio presente che è straniero, e che il passato è la casa, una casa perduta nella nebbia di un tempo perduto”.

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Ecco, nella poesia di Rafael Alberti, come anche nella poesia dei poeti modernisti di inizio secolo (poeti s’intende di valore), c’è questa concezione del tempo passato che la poesia può, magicamente, riaccendere come una scintilla accende un fuoco quasi spento; c’è l’idea di una continuità che la memoria può annodare tra il presente e il passato e la mente può riprendere a cantare, cantare spensieratamente. Ma, il canto spensierato è molto pericoloso, lo abbiamo esperito nel corso della seconda guerra mondiale quando sono emerse le incongruenze e gli irrazionalismi di una intera cultura: l’olocausto, gli eccidi di massa, le deportazioni, la terza guerra mondiale, quella fredda, e la quarta, appena cominciata. ecco, io penso che non c’è più spazio per la poesia che canta, come non c’è più spazio per la poesia della sproblematizzazione, per cui non c’è più metafisica, non ci resta altro che consumare il quotidiano tra un tic e una nevrosi come fa la poesia e la narrativa del minimalismo.

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Io non ho nulla incontrario verso la poesia della «nuova» «non-poesia», e qui penso alla «contro-poesia» di un Aldo Nove; eccepisco un a-priori: l’autore milanese fa, consapevolmente, una pseudo poesia, opera una verificazione del messaggio poetico attraverso la falsificazione. Così quando scrive le «anti poesie» di Maria (Einaudi 2012), la sua «anti poesia» scollima con la «pseudo poesia»; voglio dire che fa poesia laterale, da banda larga, dirige i propri strali contro la vituperata «poesia-poesia», opino avverso la poesia lirica. Ma non coglie il bersaglio. E lo manca perché il bersaglio non c’è, e non c’è perché la poesia lirica ormai la fanno le decine di migliaia di aspiranti al podio della poesia; di fatto, essa è scomparsa dopo La camera da letto (1984 e 1988) e La capanna indiana (1973) di Bertolucci. Semplicemente, non è più possibile fare poesia lirica oggi neanche se un redivivo Attilio Bertolucci scrivesse una nuova Camera da letto. In realtà, Aldo Nove e Valerio Magrelli fanno una poesia della sproblematizzazione, interrogano derisoriamente le tematiche e le icone pubblicitarie della civiltà mediatica e della civiltà umanistica; il primo con gli strumenti culturali del capovolgimento antifrastico, strumento retorico tipicamente novecentesco; il secondo con il gioco ironico che oscilla tra accettazione, manipolazione e intellettualizzazione dei temi e degli idoli della civiltà mediatica. Ma siamo ancora all’interno di una cultura della sproblematizzazione.

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salman 10

salman rushdie

Torniamo alla stanza dove pende una vecchia fotografia. Nel romanzo di Rushdie ‘Midnight’s Children‘(1981), c’è la vecchia casa dei genitori. In una mia poesia (Tre fotogrammi dentro la cornice), riprendo il tema da una foto scattata anch’essa nel 1946: ci sono i miei genitori giovani, appena sposati, che camminano in una strada di Roma nel dopo guerra. Mio padre, calzolaio, tornato dalla guerra come soldato semplice, ha perduto il negozio di scarpe che aveva in viale Libia a Roma, ed è disoccupato, e mia madre è in cinta di mio fratello, io non sono ancora nato.

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Giorgio Linguaglossa Three Stills In the Frame 2015
Neanche Rushdie era ancora nato nel 1946. Entrambi (lui nel romanzo, io nella mia poesia) manifestiamo la nostra contentezza per non essere ancora tra i viventi, ed entrambe le foto sono in bianco e nero. E il mondo che sta attorno alla foto, sia io che Rushdie lo immaginiamo in bianco e nero, monocromatico. Ma la realtà non è mai stata monocromatica, è un difetto delle foto che la rappresentano in bianco e nero.
E qui sorge il problema sollevato da Rushdie citando la sentenza di Hartley: ‘Il passato è un paese straniero‘. Ma è un falso ci dice il narratore indiano, è il presente il vero paese straniero, noi non conosciamo il presente, e il passato possiamo conoscerlo solo attraverso la discontinuità e la disorganizzazione dei ricordi. Il rammemorare non è una azione di continuità tra il passato e il presente, ma è una azione di collegamento tra due frammentazioni, e la poesia e il romanzo di oggi non possono che ripresentare in essi queste duplici frammentazioni. Il poeta moderno cerca di dare al passato una rappresentazione immaginativamente vera mediante una iniezione di memoria; ma è un falso, la memoria non è una linea rettilinea ma un insieme di frammenti disorganizzati e casuali dove si può prendere di tutto e si può perdere di tutto.

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Noi, dico noi per indicare noi gli esiliati del mondo moderno, non possiamo prendere dal serbatoio della memoria nient’altro che frammenti e lacerti irregolari, frantumi di quell’antico specchio che è stata la vita. E saranno proprio questi frantumi che ci possono condurre più da vicino al mondo delle simbolizzazioni. I frantumi sono già dei simboli, afferma Rushdie. Ecco perché oggi non c’è più alcun bisogno di alcun simbolismo. Il simbolo è morto ed è stato sostituito dai frantumi. Oggi, un narratore o un poeta non può più porre mano ad un romanzo alla maniera di Proust per ritrovare il tempo perduto; oggi il mondo si è frantumato e non ci sarà nessun Proust che ci potrà restituire quel mondo nella sua compiutezza. Restano i frantumi, ed è da essi che dobbiamo riprendere a tessere le nostre poesie e i nostri romanzi.
Rafael Alberti appartiene a quel genere di poeti e romanzieri alla Proust che cantano per restituire il mondo del passato nella sua interezza. Ma è un falso, come poi ci ha mostrato Eliot ne ‘La terra desolata‘ (1925).

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Quanto all’Ombra delle Parole, caro Steven Grieco, io penso molto semplicemente che una poesia fatta per la luce dei riflettori mediatici, come la «pseudo poesia» di Magrelli sulle gambe di Nicol Minetti (tratta da Sangue amaro, Einaudi, 2015) che abbiamo ripubblicato su questo Rivista, sia di una estrema banalità, punta tutto sulla luce dei riflettori mediatici, è una pseudo poesia di superfici riflettenti che riflettono tanta luce quanta ne ricevono. In questo genere di poesia non c’è ombra, c’è solo luce. Tutto è stato detto. E tutto può essere dimenticato.

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Per ricollegarmi alla questione dianzi sorta se cioè la poesia contemporanea (la migliore intendo, cioè, per essere chiari, quella di Mario Gabriele) debba o no suscitare emozioni, debba emozionare, bene, io penso che con la categoria del «pensiero emotivo» desunto da Hilman non si vada da nessuna parte. La poesia di Mario Gabriele, come quella di Antonio Sagredo, (penso a Roberto Bertoldo e a Luigi Manzi e altri), non va letta con quella categoria (che io ritengo fuorviante e irrazionalistica). Non c’è nulla nella poesia di Gabriele che abbia un contenuto emotivo, e quindi, da questo punto di vista non può destare emozioni, anzi, penso che non deve suscitare alcuna emozione. Teniamoci alla larga, quindi, da questa categoria spuria, a metà tra psicologia del profondo e estetica della buon’ora. La migliore poesia contemporanea è, di fatto, un manufatto “raffreddato”. Che cosa significa? Voglio dire che il poeta contemporaneo reduce da tre guerre mondiali e spettatore impotente della quarta in corso, non ha più intenzione di iniettare nel proprio DNA poetico alcun pensiero estetico emotivo. Il linguaggio di tutti i giorni si è raffreddato, si è surgelato, è diventato una gelatina, e il poeta dei nostri tempi non può che prenderne atto, deve astenersi dall’intervenire sul piano di una psico linguistica (come si diceva una volta con una terminologia abnorme). Non c’è alcuna psicolinguistica da fare, la Lingua maggiore si è de-psicologizzata (e io direi, per fortuna!). Ecco una ragione in più per considerare superata la poesia lirica, superata in quanto è stata circumnavigata dalla Storia. Il poeta contemporaneo ha a che fare con una cosa nuova: il raffreddamento delle parole; le parole non hanno risonanza, le parole del linguaggio poetico tradizionale hanno perso risonanza, e allora al poeta dei nostri giorni non resta altro da fare che costruire dei manufatti a partire dai luoghi, dai toponimi, dai nomi, diventa nominalistica, diventa assemblaggio di icone, assemblaggio di frammenti (Salman Rushdie afferma che i frammenti sono già in sé dei simboli!). La fragmentation è diventata la norma nel nostro mondo contemporaneo; ovunque ci volgiamo vediamo frammenti, noi stessi siamo frammenti, le particelle subatomiche sono frammenti infinitesimali di altri frammenti di nuclei andati in frantumi in quel GRANDE CIRCUITO che è il CERN di Ginevra, là dove si fanno collidere i protoni tra di loro in attesa di studiare i residui, i frammenti di quelle collisioni. Tutto il mondo è diventato una miriade di frammenti, e chi non se ne è accorto, resta ancorato all’utopia del bel tempo che fu quando c’erano gli aedi che cantavano e scrivevano in quartine di endecasillabi e via cantando….
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valerio magrelli 4

valerio magrelli

Valerio Magrelli

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L’igienista mentale:
divertimento alla maniera di Orlan
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La Minetti platonica avanza sulla scena
composto di carbonio, rossetto, silicone.
Ne guardo il passo attonito, la sua foia, la lena,
io sublunare, arreso alla dominazione
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di un astro irresistibile, centro di gravità
che mi attira, me vittima, come vittima arresa
alla straziante presa della cattività,
perché il tuo passo oscilla come l’ascia che pesa
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fra le mani del boia prima della caduta,
ed io vorrei morirti, creatura artificiale,
tra le zanne, gli artigli, la tua pelle-valuta,
irreale invenzione di chirurgia, ideale
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sogno di forma pura, angelico complesso
di sesso sesso sesso sesso sesso.
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Dobbiamo fare un passo indietro.
Per quanto riguarda un poeta che esemplifica bene la mutazione della forma-poesia dagli anni Ottanta ai giorni nostri, devo fare riferimento a Valerio Magrelli. La sua opera d’esordio, Ora serrata retinae, è del 1980, seguita da Nature e venature (1990) a cui fanno seguito Esercizi di tiptologia(Mondadori, 1992) e Didascalie per la lettura di un giornale (Einaudi, 1999), fino al libro del 2014 Sangue amaro (Einaudi).
Bene, è sufficiente leggere i primi due libri per accorgersi che in essi c’era ancora, ed era visibile, una ricerca esistenziale e stilistica. In sostanza, era visibile la crisi dell’«io» nella lettura e decifrazione del mondo. A questo sipario della Crisi avrebbe dovuto fare seguito un ulteriore approfondimento della indagine sulla fenomenologia della Crisi, ma sarebbe occorsa una nuova fenomenologia di indagine e un rinnovamento dello stile. Magrelli, invece, già alla fine degli anni Ottanta intuisce l’esaurirsi di quella miniera stilistica, che il filone aurifero si è disseccato, e invece di proseguire il lavoro di indagine e di scandaglio, pensa bene di ricorrere ad uno stratagemma: d’ora in avanti prende atto dell’esaurimento di un certo punto di vista, diciamo diagnostico e di ricerca della forma-poesia, e abbandona il primo stile di una poesia breve e compatta che rivela un singolo aspetto del reale, per dedicarsi a quella che io ho definito più volte «poesia commento». Il terzo e quarto libro sono infatti eloquenti finanche nel titolo, si tratta di operazioni di «tiptologia», di «didascalie» alla lettura, di «glosse» in margine al «giornale».
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Insomma, si tratta di «finta-poesia». Magrelli con un abilissimo trucco da prestidigitatore, trasforma la «poesia» in «finta-poesia», va incontro alla richiesta del pubblico colto che vuole una poesia poco impegnativa e poco impegnata, una poesia leggera, da intrattenimento ludico-ironico. È tutta la società italiana che dagli anni Ottanta si muove in questa direzione con il debito pubblico che avanza progressivamente a livelli astronomici. È insomma una poesia da debito pubblico alle stelle.
Si intenda, io non esprimo qui una diagnosi di carattere morale, esprimo una diagnosi di carattere estetico: la forma-poesia che si imporrà negli anni Ottanta e Novanta sarà quella del disimpegno (nella punta più intellettualmente arrendevole ci sono Vivian Lamarque e Jolanda Insana, nelle punte di vertice si trova, senza dubbio, Valerio Magrelli).
E qui il cerchio si chiude.
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Quello che molti autori di poesia scrivono e pubblicano dagli anni Ottanta ai giorni nostri sono opere di «finta-poesia», «quasi poesia», «pseudo poesia», «ultra poesia», insomma, sono operazioni che hanno a che fare con la sociologia della poesia e niente con la «poesia». In questo mi sento di dare ragione a Salvatore Martino, ma solo per questo aspetto. Se si va ad indagare che cosa avviene fuori della poesia pubblicata dagli editori maggiori ci sono stati e ci sono poeti che hanno continuato ad esplorare la forma-poesia, ed uno di questi è senz’altro, Mario Gabriele.
Che poi dei critici come Romano Luperini abbiano salutato l’ultimo libro di Magrelli Sangue amaro (2014) come un’opera «rivoluzionaria», è una tesi che illumina piuttosto l’assenza di pensiero critico del critico che non il libro.

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Mario Gabriele volto 1.
Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. In poesia ha pubblicato Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); la tetralogia: Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014). Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento. Si è interessata alla sua opera la critica più qualificata: Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Domenico Rea, Giorgio Linguaglossa, Luigi Fontanella, Ugo Piscopo, Giorgio Agnisola, Mariella Bettarini, Stefano Lanuzza, Sebastiano Martelli, Pasquale Alberto De Lisio, Carlo Felice Colucci,  Ciro Vitiello, G.B.Nazzaro, Carlo di Lieto. Cura il Blog di poesia italiana e straniera Isoladeipoeti.blogspot.it.

 

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Giulia Perroni –  testi tratti dal POEMA La tribù dell’Eclisse (2015) con un Commento di Giorgio Linguaglossa e una Lettera di Luigi Celi

 saturno EclisseGiulia Perroni, nata a Milazzo (Me), vive a Roma stabilmente dal 1972. Unisce alla sua attività poetica un impegno di organizzatrice culturale e di attrice. Sue raccolte: La libertà negata prefata da Attilio Bertolucci, ediz. Il Ventaglio,1986; Il grido e il canto, prefazione di Paolo Lagazzi, 1993; La musica e il nulla, prefazione di Maria Luisa Spaziani, 1996, Neve sui tetti, 1999, La cognizione del sublime, 2001, Stelle in giardino, 2002, Dall’immobile tempo, 2004 (tutti testi pubblicati da Campanotto di Udine); Lo scoiattolo e l’ermellino edizioni del Leone, 2009, con postfazione di Donato Di Stasi e Quarta di copertina di Renato Minore. Nel gennaio 2012, quasi contemporaneamente, vengono pubblicati una “Antologia di percorso”, La scommessa dell’Infinito, introdotta da un commento critico di Plinio Perilli, per le edizioni Passigli, e il poema Tre Vulcani e la Neve, prefato da Marcello Carlino, Manni editori. L’ultimo libro, La tribù dell’eclisse, edizioni Passigli, marzo 2015, ha la prefazione di Marcello Carlino.

Presente in antologie e riviste in Italia, U.S.A, Giappone e Francia, numerose recensioni le sono state dedicate su importanti riviste nazionali – anche on-line, come le Reti di Dedalus – e internazionali: Gradiva, a New York, Il Fuoco della Conchiglia, in Giappone, Les Citadelles, a Parigi. Di lei si è interessato anche il grande poeta giapponese Kikuo Takano, che le ha dedicato il suo ultimo libro, Per Incontrare. Suoi testi sono stati musicati e portati in tournée in diverse università canadesi da Paola Pistono dell’Accademia Santa Cecilia di Roma. Vincitrice di molti premi, tra cui il Montale, il San Domenichino, il Contini Bonaccossi, R. Nobili al Campidoglio, Omaggio a Baudelaire, il premio Cordici  per la poesia mistica e religiosa, il premio Europa Piediluco 2014. È stata invitata nel 2012 per La scommessa dell’Infinito al Festival Internazionale della Letteratura di Mantova. Giorgio Linguaglossa ha scritto, in “ Appunti critici”Roma 2002, per lei un saggio e ancora in “Poiesis (n. 23-24) scrive su “ La cognizione del sublime”. Dante Maffia, le dedica a sua volta un saggio su Poeti italiani verso il nuovo millennio, Roma 2002. Rosalma Salina Borrello, in La maschera e il vuoto, Aracne 2005  e in Tra esotismo ed esoterismo, Armando Curcio editore, 2007. Luca Benassi su La Mosca di Milano nel 2009. Paolo Lagazzi su La Gazzetta di Parma. I suoi libri sono stati presentati in Campidoglio e in altri luoghi prestigiosi di Roma e del territorio nazionale; ultimamente a Villa Piccolo, centro mitico della cultura siciliana. Ha gestito l’attività letteraria al Teatro al Borgo, al Café Notegen, al Teatro Cavalieri. Con il poeta Luigi Celi organizza dal 2000 presentazione di libri, incontri di arte, letteratura e teatro al Circolo culturale Aleph nel cuore di Trastevere.

cinese drago Si racconta che nei tempi antichi, in Cina, quando arrivava un'eclissi di sole, si usasse battere i tamburi per cacciar via il dragone che si stava ...

cinese drago Si racconta che nei tempi antichi, in Cina, quando arrivava un’eclissi di sole, si usasse battere i tamburi per cacciar via il dragone che si stava …

 Commento di Giorgio Linguaglossa

 Siamo ancora dentro una Civiltà di tipo 0, secondo la tipologia indicata dal fisico teorico Michio Kaku, una civiltà che trae energia da elementi che trova già pronti in natura (il carbone, il petrolio, l’uranio etc.). È quello che ci vuole dire Giulia Perroni con questo bizzarro titolo, apparteniamo ancora alla «tribù dell’eclisse», siamo simili a quegli arcaici che assistevano con spavento alla eclisse come ad un evento taumaturgico e divino. Tutta la variegata «sostanza» del discorso poetico di Giulia Perroni ha qualcosa di arcaico e di moderno insieme, è costituita da immagini e substrati di immagini, di metafore e di substrati di metafora, di schegge di immagini, di voli spericolati tra le immagini, di capovolgimenti di tempi e di spazi. Poema che si estende per 170 pagine senza un attimo di tregua, con un ritmo percussivo ed avvolgente che vuole irretire il lettore nelle proprie spire. Come sappiamo dagli studi di un sinologo come Ernest Fenollosa, le parole astratte, incalzate dall’indagine etimologica, ci svelano le loro antiche radici affondate nell’azione; e forse il dinamismo della poesia della Perroni è un lontano parente del dinamismo universale che un tempo animava le lingue primitive; della lingua primordiale l’autrice eredita la capacità di creare universi paralleli e «mondità». Come sappiamo, non è da un arbitrario intento soggettivo che nacquero le  primitive metafore, esse seguono la matrice delle relazioni che accadono in natura, la natura ci fornisce le sue chiavi, e il linguaggio recepisce questa matrice che si trova in natura. Giulia Perroni è convinta che il mondo sia pieno di omologie, simpatie, identità, affinità e che sia compito della poesia catturare i segreti di queste relazioni interne tra le «cose». La metafora è la vera sostanza della poesia, l’universo è un orizzonte di miti sedimentatisi; la bellezza del mondo visibile è impregnata di arte, è quest’ultima che crea la bellezza della vita; la poesia fa coscientemente ciò che i primitivi fecero inconsciamente, e la poesia di Giulia Perroni non fa altro che riesplorare e rielaborare i miti e le imagery della civiltà del Mediterraneo, getta ponti che si estendono tra il visibile e l’invisibile, attraverso il tempo e lo spazio, il lessico prosaico e quello ricercato. È questa la poetica di Giulia Perroni, leggere la sua poesia significa accettare questa impostazione di vita e del modo di concepire l’arte poetica; ma nella sua poesia c’è anche il gusto del gioco, l’allegria degli spazi, la gioia del ritrovarsi nell’universo, l’ironisme, l’istrionisme. C’è altro, c’è la «mondità», un riepilogo e una accelerazione del mondo di fuori e del mondo di dentro.

Giulia Perroni e Yasuko Matsumoto

Giulia Perroni e Yasuko Matsumoto

 Caro Giorgio,

ti faccio i complimenti per la tua interpretazione della poesia di Giulia, una poesia non facile da accogliere, fuori, com’è, dai parametri stantii e prosastici di buona parte dei linguaggi poetici contemporanei. La poesia di Giulia è un’esplosione di metafore. Per il grande poeta giapponese Kikuo Takano – che Giulia ed io abbiamo fatto conoscere in Italia, lavorando sinergicamente con Yasuko Matsumoto -: “Nella nostra anima esiste una innegabile sete che può essere soddisfatta soltanto dalla metafora”, La “metafora – scriveva – è ciò che trasporta”… Essa trasporta il “Risveglio”… “più di una volta e lo fa più volte fino al punto in cui le cose si risvegliano”; e tuttavia: “scrivere poesie vuol dire anzitutto soffermarmi con uno stupore profondamente fresco di fronte a ciò che esiste, accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri, fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia era per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri, legami che più fissavo e più perdevo (ma tutto intanto diventava limpido)”. Certo, la poesia di Giulia si svolge, si avvolge, si dipana obbedendo al ritmo di una musicalità che mira a connettere e ad amplificare consonanze e dissonanze della Natura e della Storia.

Giulia Perroni

Giulia Perroni

Proprio come tu dici, caro Giorgio, sviluppando un pensiero di Ernest Fenollosa: “Le parole astratte, incalzate dall’indagine etimologica, ci svelano le loro antiche radici affondate nell’azione; e il dinamismo della poesia della Perroni è un lontano parente del dinamismo universale”… E la metafora – che Giulia utilizza moltissimo – è colta da te nel rapporto ancestrale, genetico, “con le relazioni che esistono in natura”. È come se Giulia volesse riconquistare “omologie, simpatie, identità, affinità … i segreti delle relazioni interne tra le ‘cose’, riesplorando anche i miti e le imagery della civiltà del Mediterraneo, gettando ponti tra il visibile e l’invisibile”. Non si potevano cogliere più profondamente le caratteristiche di questo misterioso poema, che avvolge e trascina nei suoi incalzanti ritmi e nel camaleontico iconismo del suo narrato. Non trascurerei i continui rimandi storici che costituiscono un filone sotterraneo, per certi versi un filo d’Arianna di questa labirintica scrittura, che procede generalmente in maniera eccentrica rispetto a qualsiasi significato logicamente predeterminato e unificando senso e non senso. L’istinto poetico della Perroni privilegia, certo, le possibilità innovative della sua neo-lingua; un linguaggio a volte destrutturato, intessuto da stilemi desueti, ma altre volte più collegabile alla tradizione per l’uso dell’endecasillabo e delle sottostrutture metriche dello stesso, per le assonanze, le allitterazioni, le rime. L’istinto musicale, a mio avviso, affinato nel tempo e nella lunga pratica della versificazione, è sicuro e consapevole anche delle possibilità inesplorate della sua lingua poetica e, filosoficamente, sembra ricostituirsi in una cifra ontologica e metafisica, nei suoi analogici rimandi alla trascendenza; tutto ciò in contrasto con il tempo della povertà, in cui il linguaggio ha cessato di essere “casa dell’essere”, per l’avvenuto rovesciamento dell’ontologia nel nihilismo. Se si collegasse la poesia di Giulia all’anomalismo dei linguaggi sperimentali sarebbe facile apprezzare la pratica del contrappasso ad ogni significato, e ancora potrebbe essere ritrovato in questa poesia una qualche ascendenza surrealista. In realtà Giulia si esprime – come ha notato Marcello Carlino – per ossimori. Questa poesia, nel suo anomalismo strutturale opera una riconsacrazione ludica e insieme metafilosofica del significato; se si guarda oltre gli aspetti di dettaglio, essa fa ciò mentre coniuga per contrasto – ripeto – senso e non senso. Questa poesia è nel continuum un aneddoto, simile al Kōan zen di cui Moreno Montanari – ne Il Tao di Nietzsche – scriveva che viene proposto all’apprendista o al lettore, perché dopo essersi sbarazzato da ogni volontà di razionalizzazione, giunga attraverso un suo personale interrogare e peregrinare nelle domande ad una nuova non-logica chiarezza, che “trasformerà il suo modo di essere e di concepire la vita”. R. Barthes, vedeva nel Kōan zen “un aneddoto che viene proposto dal maestro: non di risolverlo, come se avesse un senso, e nemmeno di afferrare la sua assurdità (che sarebbe ancora un senso) , ma di rimasticarlo ‘sino a che casca il dente’ “. Questi versi collegano le contraddizioni e li fanno coesistere senza superarli; gli audaci e a volte anche improbabili accostamenti di parole e di iconismi, svelano e nascondono le lacerazioni dolorosissime della storia e della vita, senza però mai cedere al nihilismo e alla disperazione. La caleidoscopica accensione dei versi, nella pratica ossimorica di oscurità formali e di luminose trasparenze, mira alla gioia, al godimento della bellezza. Anche un barocchismo dei versi che fa pensare a Lucio Piccolo si coniuga all’esperienza della ferace natura siciliana, alle primaverili esplosioni sinestesiche di colori, odori, sapori, al sensuale rifiorire del mondo dopo ogni inverno di violenza e sopraffazione. Tutto ha risonanza anche come Memoria ancestrale, primigenia. Qui ci troviamo d’accordo con ciò che tu scrivi sui miti mediterranei sedimentati.

Tribù di eclissi è verso della Dickinson… Qui l’eclisse, però, è forse mancanza di memoria mitica e storica; il mito serve a conoscere l’inconscio, la storia è funzionale alla coscienza. In ogni caso si raggiunge un’inedita consapevolezza attraverso l’arte, la poesia, che non danno risposte razionali. Pochi sanno dire qualcosa negando l’immediatamente traducibile in senso del significante, come fa Giulia… Tuttavia, i rimandi storici fanno di questa poesia un calembour di notizie e di particolarità non da tutti conosciute per quel che attiene la storia d’Italia, del Meridione e della Sicilia. Giulia opera ancora con una scaltrita capacità d’individuare in maniera sguincia questioni sociali anche contemporanee. C’è inoltre una filosofica consapevolezza della natura conflittuale delle relazioni umane, dei tradimenti delle attese e di aspettative antropologiche e sociali rimaste inevase.

 Luigi Celi, Roma 28 aprile 2015

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

Giulia Perroni da La tribù dell’Eclisse Passigli, Firenze, 2015 pp. 170 € 20

Timido viene il canto
il cappio ha un contatto preciso
il raggio riporta il sereno
dove è fuggita l’anima

Peraltro si fa titubante
il passo che unisce la trave
a forma di antichi narrati
lì dove gridano i morti

Tuppete qua tuppete là
gira la foglia la verità
tenta la vita un giro a mezzo
il mare sogna la sua cavezza
un alto monte seduce il mare
non ha la spuma per navigare
sotto le chiome sta Carolina
ma fugge il vento dalla collina
e tutto quanto già s’addormenta
il bene e il male nessuno sente
solo la pioggia sta sui limoni
come l’avviso dei lucumoni
tante certezze un solo inciso
rimane l’oro sulle camicie
rimane tutto nel suo silenzio
nel tempo d’ocra di Sua Eccellenza
non tuona il mare né più il sovrano
anche le teste nessun ricorda
rimane il mare rimane il monte
una dolcezza una ansietà.
Tuppete qua tuppete là

E nel giardino scoiattola il bimbo
tessera franca sono i guardiani
di là si stinge persino il mare
di un suo bisogno di verità

Tuppete qua tuppete là

Trallallallero trallallallà

Incustodita la luna fugge
non c’è guardiano sopra il mistero
né sulla guglia di mezzanotte
la luce bianca o il fuoco nero

Giulia Perroni La tribù dell'eclisse cop

Trallallallero trallallallà
fuori chi parla senno se no
bruca l’ampolla
ghirighigò

Non c’è parola per il silenzio

Incrociano i gigli la fresca notte
la rosa è come una margherita
bianca nel volto ma sulle dita
come un rossore di vanità

Bianca e sognante: m’ama non m’ama
urge al tramonto la sua campana
è tutto un gioco come la vita
la folle foglia di margherita

Interessante senno sennò
bruca la foglia
ghirighigò

Questa è la vita che altro vuoi
la guglia ha fretta di rami d’oro
ha fretta il sangue delle mattine
per dove passa la birichina

Senno di luce senno sennò
bruca la terra
ghirighigò.

Giulia Perroni

Giulia Perroni

Bellissimo barone fastoso
anche tu hai parlato di danaro
sotto lo squallido scalone
risuscitato dallo sfarzo

Sono tornate in su le torrette
e i lillà infuocati di giglio
come fu che l’ardente cipiglio
bisticciò con le lodi?

La guerra fece cucù dai rami
e il sogno si ritirò dal cancello
in una tana di pioggia serrata
per lasciare fuggire la stella

Saffo non voglio sapere
né di tuo fratello, né della prigione
mi basta il fascino delle viole
che hai lasciato quaggiù sulla terra

Barone Wolff non so nulla di te
ma il ritratto è di un grande bell’uomo
non distruggere la visione onorata
che lascia trapelare i canti

Saffo e il barone
l’ammucchiata delle folli corse
nelle macchine al gran premio di Rally
che vanno per funghi e per boschi

Fecero man bassa i delitti
sulle stuoie di languidi araldi
un arco lontano e difficile
preparò la festa agli intrugli

Ma se da dietro a un cappello
un giardino fa capolino
io tendo alla rapida gogna
il profumo che mi fa secca

Erano alberi alti
e la villa non aveva finestre
un sogno masticato di giallo
nella vendetta sicura

Ed anche chi rovistava le stelle
aveva fama di gattopardo
macellaio di spade pesanti
in un paradiso che perdeva le braghe

Lungo la Senna con alberi lunghi
e ombrellini di rame a passeggio

Ed anche in Lettonia o in Ispagna

Fecero rami pazzi martiri e santi
che urlavano come contralti
quando la vita aveva ancora altro da aggiungere

E per favore niente bocche storte

Non mi parlate di angeli scarabocchiati
che con tenaci lanterne rasentano
lungo muri scrostati i pisciatoi delle stelle

I padri a volte seviziano le virtù delle fanciulle
e la santità delle terre
che non appartengono a nessuno

Solo il tempo agita con armi di corallo
la primavera che ha baciato in bocca
la chiesa-madre affollata

Giulia Perroni con Luigi Celi

Giulia Perroni con Luigi Celi

Ed era vera la grandiosa licenza del guardare la sponda liberata
il granellino del contrasto dei semi, il terribile amico sonnecchiava
tra i rami della pioggia verso d’oro che si faceva bianco gelsomino
quando spuntava l’alba

Chiedo a Babington una luce come fossi Maria Stuarda
e lo pregai una volta (occhialino aggiustato sul naso)
che inoltrasse le gambe o il fango delle strade
nel rubinetto d’oro della folla e rimanessi intatta
nel mio collo di splendida figura

Fu la terra un segnale di bimbo
fu la terra pestata e illuminata in fondo a un cuore
da vessazioni inutili

Mi accodo a tutto questo

Tutto quel mare sussiegoso e tranquillo
in ogni specchio delle favole antiche

E mia cugina in visconti di numeri
affannati nei quattro salti della torre
affida ad un quaderno tutti i suoi ricordi

Le notizie del padre di suo nonno

Del tempo birichino e incriminato

Lasciato come spegnere

Anche questi morirono in un giorno e tutto fu silenzio

Anche la vita macchiata dal suo sangue

Se potessi fuggire la mannaia!

La sua suocera era addimandata
da tempesta di grilli e si scusava
d’essere così astuta
così grata al dio delle farfalle

Si scusava della follia incipiente
e donava misura e fiori d’oro
al buco stretto di un linguaggio

E chiamava la terra a testimone della vicenda avita

Ora è finita ogni tenue riscossa

Si, la terra

Innocente e sublime in un androne di foglie rosse
quanto più il cammino è vergine veggente
e sdilinquito in rabbie musicali
con l’accento donato ai puri

La terra, connestabile e astrale

Il mio giardino nel fumo di scintille

E Euridice sussulta

Sono morti anche quelli che uccisero

L’ingaggio fece bum bum tra i rami

E si accasciarono venti fanciulli nella neve

La ducea degli inglesi

E mia cugina che sventaglia la luna

E quella villa nel cuore della notte

Quando nessuno può ascoltarne il silenzio

C’è luna piena ancora?

La ricordo

Uno Stuart sposò quella antenata
(signora della villa e del silenzio)
nel nostro sangue si è incarnato lo scettro
siamo pari all’albagia dei numeri
sempre arditi quando soffia una musica
immortali perduti in un viaggio
e stupiti per il male nel mondo

Sempre adusi alle veneri scialbe
nella luce della bellezza urgente

Potessi ancora vivere!

Se nel castello inciampa l’arma bassa delle nevi del giglio

In primavera
quando ancora non ci sono spifferi
cento tazze di succo della mela
nell’inverno appena sbocciato

Fui regina di Francia lo sapete?
liquidata da Caterina come una domestica
per una grave mancanza
e la mancanza era il giovane sposo

Scelsi di traghettare come tutti verso le radici
anche se era il cuore del freddo

Ho un broccato di foglie chiedo unita al dio che mi perseguita
il mio canto di folle dicitura era scritto come un diadema
sulla fronte che su di me nascessero le voglie prone all’armi incredibili
più regina di fastosi miraggi, di convivi
fatti sulla mia pelle

Sono fuori
non mi si lascerà morire tanto spesso lungo viali di magnolie
avranno necessità di nuvole albeggianti sulla stanca corona
del cervello e le sciancate sopravvivono per arrendersi con tutti
i fiumi del passato lungo i porti dell’Everest o le fronde
del deserto dei Tartari in quella nube della trascendenza
che tanto mi fastidia

Fate come non fossi né riguardo per il collare né per l’ignominia
la disapprovazione dei regnanti lo sconcerto dei popoli
il bruciore sotto le ascelle

L’Inghilterra avrà altri maneggi altre pecore al pascolo
Dio non voglia
caricarsi dell’unico arboscello che tanti giochi ha fatto

Altri miracoli sono pronti sugli alberi

Altre sere dove bevuta luna orchestra un ballo
nella villa che si trasforma

Altre serate bevono

Altri tomi brilleranno ruggendo dentro sale
che non hanno ricordi

La prigione scuoterà i suoi diari
e altre mani faranno doni ai bimbi

Altri dolori cresceranno immancabili

Siate seri io non voglio rimorsi

Uscite piano senza fare rumore

Benedico tanti spiragli …

Giulia Perroni la scommessa dell'infinito cop

Omero avrà una tomba sotto la melodia degli uccelli
anche quando Venezia turberà la sua musica
e quando la formella non dipingerà più il suo impeto
l’istinto sa che ci si incontrerà nella vibrazione della frivolezza
nell’occhio dato di sbieco al foglio che rovina il mandato
per una buccia esausta di desiderio

Io ricordo un viale
e un fiacre fermo nel viale
e mia zia morta giovane in quella carrozza
eternamente immobile nel silenzio dell’ora
e quasi pioggia nel cielo

Nell’acronia si incontrano le forme i personaggi il sole
la nebbia iridescente in cui si ignora anche quelli che vissero

Come sei alto e candido e in quanto inconoscibile
come amico del vento e del mio cuore!

Venivi ed eri tutto eri le specie che sussurravi
quando nel mio letto sentivo nel silenzio la campagna
eri tutto per me e sempre sei l’azzurro nell’ordito
del pensiero al di là di ogni cosa e di parole.

Sei alto e inconoscibile e per questo alto mio Dio sei Tutto
il greto il fiume la rugiada d’oro che nel sole si spegne

Io sono una bambina in ordine sparso
Dio come è profondo l’abisso!

Lotto tra le pupille per dire che ci sei
raso di mille lune abbarbicato alle gomène

Un’altra civiltà appoggerà la schiena
nel piccolo sonno delle finzioni
la nostalgia ripara l’eccesso
la buia cornice le ruote

E per tutto l’ingresso dell’inverno
e tutte le visioni addormentate
fuoco rovina l’alba
e il suo dolore
fuoco per rami inventa

Talismani di tenebra

Consiglio
Vergine muta

Attanagliata al verde

Contessina degli esuli affannata
nei quattro solchi d’ebano

Tendo le mani al tuo cavallo d’aria
criniera inaccessibile e superba
Le navi inglesi erano di fronte al golfo…
Oh città nello spettrale della luce!

Il parlamento inorridì per le notizie
ma quanta strada aveva fatto insieme!

E fu il Britannia a venire dentro al porto
come a Palermo nella notte buia
il vascello ha un destino silenzioso
nel correre a un agguato
Ora la finestra lascia sbalordire gli uragani
chi non vorrebbe partire ha sempre un albero che si contorce
ci prepariamo alla guerra con una mano sulle valige
nella murata memoria di ogni apprendista stregone

Alto è il cammeo nel brivido

Raccolgo le mie cose è tempo di partire

La pace ha ordito i suoi merletti
nel punto più alto della cattedrale
nel quasi irraggiungibile
della notte che si dissolve

L’importante è che il cerchio si chiuda
nella perfezione assoluta della sua ruota

Anche i calessini si macchiano.

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QUESTA È L’ETÀ DELLA STANCHEZZA di Paolo Lagazzi “Ciò che resta” “questa è l’età della stanchezza” “quale ruolo o forza possiamo ancora riconoscere alla poesia” da La stanchezza del mondo (2014)

Foto Scala con ombra

 Paolo Lagazzi è nato a Parma nel 1949 e risiede a Milano. Critico letterario, studioso di cose giapponesi e autore di fiabe; collabora con diversi quotidiani e riviste. Ha scritto numerosi saggi, e con Garzanti ha pubblicato uno studio sulla poesia di Attilio Bertolucci, Rêverie e destino (Garzanti 2008). Tra gli altri ricordiamo: Per un ritratto dello scrittore da mago (Diabasis 1994, Moretti&Vitali 2006) Vertigo. L’ansia moderna del tempo (Diabasis, 2002), Per un ritratto dello scrittore da mago (Moretti & Vitali, 2006), La casa del poeta (Garzanti 2008), Forme della leggerezza (Archinto, 2010), Otto piccoli inchini (Albatros 2011), Le lucciole nella bottiglia (Archino 2012). Ha realizzato inoltre un libro intervista con Atilio Bertolucci (Guanda 1997). Ha curato cinque antologie di poesia giapponese (fra cui Il muschio e la rugiada, Rizzoli 1996) e, per i Meridiani Mondadori, le opere di Attilio Bertolucci (1997), Pietro Citati (2005) e Maria Luisa Spaziani (2012).

Pubblichiamo il capitolo “Ciò che resta” del libro di saggi sulla poesia contemporanea di Paolo Lagazzi da La stanchezza del mondo Moretti&Vitali 2014 pp. 257 € 18

Paolo Lagazzi

Paolo Lagazzi

«Ripensare il senso, il valore e il ruolo che la poesia può ancora avere nel mondo è un compito che va ben oltre le questioni di linguistica o di poetica, il vaglio degli strumenti retorici o le annose discussioni sul canone: è un compito che chiede a tutti noi, poeti o critici, scrittori o lettori, il coraggio di considerare con chiarezza la situazione generale dell’uomo in questo momento storico. Per quanto mi riguarda, se mi fosse chiesto di indicare il sentimento prevalente nei nostri anni, non avrei esitazioni: questa è l’età della stanchezza. Innumerevoli opere, non solo di poesia, grondano oggi stanchezza: sono voci opache, espressioni di apatia, testimonianze di una vitalità ottusa e perplessa benché spesso ammantata di colori sgargianti, di abiti alla moda e di più o meno capziosi maquillages.

Tutti, ormai, sembrano diventati narratori e poeti: nessun campo di ricerca è precluso a nessuno, i segreti e le finezze più sottili dell’arte sono a portata di chiunque… Eppure in questo dispiegarsi apparente dell’“intelligenza” e della sapienza cova un senso evidentissimo di spossatezza, come se il “tutto per tutti”, o l’eccessivo flusso delle forme, delle idee e dei segni, non fosse che l’espressione di uno svuotamento radicale del senso dei linguaggi. Presi in un intreccio inestricabile fra la stanchezza delle parole e le parole della stanchezza  gli uomini appaiono sempre più rassegnati, incapaci di credere davvero che qualche grande novità possa trasformare in meglio la storia. Se qualcosa di nuovo incombe sul nostro tempo, è un sentimento di fine prossima del mondo non più vissuto col terrore degli antichi di fronte alle immagini fiammeggianti dell’Apocalisse, ma quasi accettato, o assorbito mollemente, giorno per giorno, come l’aria inquinata che respiriamo. Di recente la NASA ha reso ufficiale una notizia che aveva già cominciato a circolare (se non ricordo male) nel 2001:

Paolo Lagazzi cop

fra pochi anni, precisamente il 13 aprile 2036, è possibile che un enorme asteroide, in viaggio verso la terra a folle velocità, centri in pieno il nostro pianeta: la collisione causerebbe un contraccolpo tale da distruggere in modo completo la vita degli esseri umani. Occorre aggiungere, per onestà, che a questo evento viene assegnato un indice probabilistico bassissimo, ma il fatto stesso che non lo si escluda per nulla, anzi si cerchi fin d’ora di mettere in cantiere una costosissima operazione aerospaziale (un’astronave che dovrebbe essere in grado di deviare l’asteroide), è piuttosto inquietante. Il pensiero di un’eventualità simile non dovrebbe colpire la fantasia di milioni di persone, tanto seria e drammatica è l’ipoteca che essa pone sul futuro dell’umanità? Di fronte a un allarme del genere, suffragato dai più raffinati scienziati, non dovrebbe mutare il nostro stesso senso del tempo? Da questo momento in poi non sarebbe giusto scandire il tempo, sia pure in termini possibilistici e non certi, come un conto alla rovescia?

SPETT.UMBERTO ECO A NAPOLI(SUD FOTO SERGIO SIANO)

Umberto Eco

 

Infinitamente remota da questo scenario, tanto da riuscire quasi patetica, appare la riflessione, sviluppata da Umberto Eco nel 1964, sulle ideologie parallele e opposte degli “apocalittici” e degli “integrati”. Anche a chi non voglia considerare la notizia della NASA, non può non riuscire evidente che da quegli anni ’60, così allegri e vitali a osservarli con gli occhi di adesso, il mondo è andato accrescendo il suo potenziale autodistruttivo, malgrado la fine della cosiddetta guerra fredda, in modo esponenziale: mille nuove paure, generate dal terrorismo fondamentalista come dai cambiamenti climatici e da inedite minacce epidemiche, sono emerse e continuano a emergere, giorno per giorno, da un abisso che non pare aver fondo. Chi non sarebbe tentato di dire, oggi, che gli “apocalittici” sono non più dei visionari ma i soli veri realisti? Eppure ho l’impressione che nei nostri anni non si viva tanto nel terrore quanto nella rassegnazione, o in un’assuefazione progressiva al terrore. Se coscienza c’è (e indubbiamente c’è) del tramonto ormai non lontano del mondo che abbiamo conosciuto, essa è come ovattata dalla stanchezza; se è chiaro che i destini generali stanno precipitando verso il disastro, questo movimento ha in sé qualcosa di tanto inesorabile quanto irreale, flaccido e vischioso, un po’ come il lento affondare d’un corpo in un magma di sabbie mobili. Si potrebbe aggiungere che una tale lentezza è, più che altro, un’impressione illusoria, una specie di suggestione ipnotica indotta dal carattere ripetitivo dei meccanismi sociali e mediatici: sul piano dei fatti, gli studi non solo della NASA ma anche degli esperti dell’inquinamento, dell’effetto serra, e di tutti gli altri fenomeni di degenerazione ambientale, sono d’accordo che c’è pochissimo tempo per tentare di fare ancora qualcosa, per cercare un’inversione di rotta e, in essa, una via di salvezza. Ma non sembra proprio che i potenti della terra si stiano dando molto da fare per cercare questa via; forse la visione pragmatica delle cose che ha sempre impregnato fino al midollo il capitalismo, e che domina tutti i fautori della globalizzazione, comporta un pessimismo misto a cinismo impossibile da contrastare? Forse loro stessi, mentre in pubblico continuano a inneggiare alle “magnifiche sorti e progressive”, sono in realtà convinti che non c’è più nulla da opporre allo sfacelo, e che tanto vale vivere alla giornata, spremendo dal pianeta tutto quello che si può spremere, in una corsa sempre più spasmodica verso il tracollo finale?

Di fronte a questo quadro, torna urgente chiedersi quale senso, quale ruolo o forza possiamo ancora riconoscere alla poesia. Illusorio è pensare, come troppo di frequente si è fatto negli ultimi venti o trent’anni, che la poesia non possa non essere l’estremo baluardo dell’umano mentre tutto intorno va in malora. Anche la poesia è figlia della propria epoca, e il suo primo compito, la sua prima verità è pur sempre di carattere testimoniale. Non è un caso, dunque, se fra i molti poeti che ho letto in questi anni proliferano le figure della stanchezza, della “spossatezza” e della “sfinitezza”. E’ come se, in tante raccolte recenti, risuonasse una sorta di sazietà radicale, una specie di volontà di arrendersi, di rinunciare a tutto, o un bisogno di prendere atto che nessuna risposta può più essere in grado di aiutarci veramente. Espresso in versi spesso inappariscenti, fragili e sordi, o, per così dire, tra le righe, questo disgusto non è più riconducibile nemmeno al nichilismo: semplicemente è la voce di una mancanza di voce, è la forma di un nodo informe, di un viluppo insolubile.

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Tra le opere minori di Pessoa ce n’è una, L’ora del diavolo, che forse riesce, per l’ultima volta, a dare fiato a questa sazietà, a riconoscerla e a dichiararla come il solo orizzonte di senso concesso alla senilità del mondo. In essa il protagonista – il Diavolo, appunto – rivela a una donna di essere “soprattutto stanco”, stanco “di astri e di leggi, e un po’ con la voglia di restare fuori dall’universo e ricrearmi sul serio con cose di nessuna importanza”. Abbandonandosi al desiderio di confessarsi finalmente all’umanità, il Diavolo afferma che tanto lui quanto Dio dormirebbero ben volentieri un sonno che li liberasse dalle “cariche trascendenti” di cui sono stati investiti a loro insaputa; nemmeno loro due, infatti, sono in grado di fornire una risposta assoluta al perché della realtà: “tutto è molto più misterioso di quanto si creda”, e le cose non sono che “un cantuccio menzognero della verità inattingibile”. Proprio perché al di là della contrapposizione tra il Diavolo e Dio, fra il bene e il male o tra l’essere e il  nulla, la stanchezza messa in scena da Pessoa nel suo racconto non può catturarsi in categorie, in princìpi morali o filosofici: è un puro,  ineludibile orizzonte dell’esperienza: è un quid sfuggente a tutti i nomi che potrebbero afferrarlo e contenerlo in un’interpretazione: è un “a priori” e insieme una fine: è un dato trascendentale votato a perdersi nell’insignificanza del tempo. Proprio questo mi sembra il genere di stanchezza entro cui si dibatte la società dei nostri anni: uno svaporare di ogni forza ideale e reale, un franare dei pensieri e un indurirsi dei nervi, un calo di pathos o il montare nel sangue di una specie di anemia incurabile, mentre l’orologio della fine incombente non arresta mai il suo battito, il ticchettio freddo dei propri quadranti…

Entro questa scena, quale vitalità può avere la poesia d’oggi? La sola, non ideologica prospettiva di verità rimasta ai poeti è forse quella di farsi testimoni, come il Friedrich di un quadro famoso, del naufragio della Speranza? Forse soltanto al fondo della stanchezza e della debolezza essi potranno ancora trovare la via della loro luce? La stanchezza è l’unica, paradossale forma d’infinito concessa a coloro che si sentono ormai sull’orlo della dissoluzione di tutti i fini e i confini, di tutte le forme, le poetiche e le scelte di campo, di tutti i discorsi e i rapporti, di tutte le architetture e le distanze, di tutte le isole di bellezza e le oasi del sogno?

Malgrado la parte di stoicismo resistente in molte anime amareggiate, non credo che i poeti potranno mai adattarsi a essere il puro e semplice specchio del naufragio dell’esistenza. Già Hölderlin aveva osservato, in limine alla grande crisi del moderno: “Ciò che resta, lo fondano i poeti“. Riportato alle prospettive un po’ tremende del nostro futuro, tale pensiero potrebbe significare che solo i poeti sapranno custodire la fede, la speranza e la carità fino all’ultimo istante del mondo. Questo avverrà non perché essi si sentiranno investiti di una missione profetica o salvifica, né tantomeno perché la società li assillerà con la richiesta di farsi cavalieri dei Valori, ma perché sapranno mantenersi, nel cuore stesso della stanchezza, liberi d’immaginare un luogo di grazia, un altrove che potrebbe essere anche il più piccolo dei nostri qui, il più umile e segreto dei nostri passi.

Attilio Bertolucci

Attilio Bertolucci

Il poeta del Novecento italiano che ho amato e continuo ad amare di più, Attilio Bertolucci, è lontanissimo da ogni pratica di profetismo, eppure nella sua voce pacata e naturale, nutrita del sentimento della quotidianità, vibra una fede irriducibile nella vita, nella luce della bellezza. Senza mai confessarlo esplicitamente, forse addirittura senza saperlo, le sue parole hanno in sé molto di cristiano e di buddhista: sanno esprimere l’incanto annidato anche nello strazio, nel sangue dei momenti; sanno mostrarci tutte le vie per fare del nostro cuore, attraverso e oltre le voragini della stanchezza e dell’ansia, la trepida cassa di risonanza del mistero gaudioso dell’universo (“Mi sento stanco, felice / come una nuvola o un albero bagnato”; “Gli occhi stanchi colpisce di lontano / il rosso papavero in mezzo al tenero grano”)…

Idealmente fraterni a Bertolucci, altri poeti continueranno a resistere nonostante gli spettri della fine, della distruzione e del caos. Anch’essi, senza inalberare proclami apocalittici e senza pretendere alcuno  speciale miracolo, continueranno a scrivere testimoniando la loro fede nel “qui e ora”, nel dono del presente. Liberi dall’enfasi e dal patetico, immuni dai timbri oracolari come da quelli pietistici, i loro versi saranno forse le ultime preghiere gettate al cielo per la salvezza di uno sguardo, di un bacio, d’un albero, d’un bicchiere di vino condiviso, d’una stretta di mano, di un momento di luce su un angolo di muro.

(Paolo Lagazzi)

Commento di Giorgio Linguaglossa

Paolo Lagazzi ama i poeti che hanno un linguaggio poetico “appropriante”, che tendono a fondersi con l’”oggetto”, in una sorta di fusione panica tra l’io e il paesaggio, tra l’io e il mondo, di qui la sua predilezione per la poesia di Attilio Bertolucci. Lagazzi ama la poesia quale «atto di fede», e la poesia può anzi forse deve considerarsi come un atto di fede; il suo impegno critico va per la poesia che non teme di denudarsi di fronte al mondo, che non teme di presentarsi ignuda o, addirittura, quasi ingenua, priva di protezione. È una predilezione auspicabile, rispettabile. Il Novecento è finito da molti anni ormai, e sembra che nessuno abbia più la forza e forse la voglia di aprire una nuova stagione della poesia; la poesia italiana sembra ristagnare, anzi, molti poeti dichiarano apertamente che ormai non c’è nulla che possa esser detto in poesia e che essa non possa che ripercorrere stancamente i luoghi da già frequentati nel Novecento.

Personalmente, io invece tendo ad apprezzare una poesia che abbia in sé una forza «dis-propriante», che guardi alla tradizione con occhi diversi; penso che non bisogna fare poesia per legittimare e giustificare un linguaggio poetico, ma per «oltrepassarlo», magari in diagonale. Di fatto, oggi la tradizione ha cessato di funzionare come «regolo», principio regolatore, non è più vista come una  rassicurante terraferma ma come un luogo dal quale allontanarsi, prendere il largo, come un’isola che sia stata inghiottita dalle onde.
Ci sono però, oggi, autori che costruiscono le loro opere come un atto di responsabilità verso l’«invisibile», che fanno una poesia senza aggettivi, che tentano di fissare i segnavia che indicano la responsabilità della forma-poesia, che pensano, che elaborano, con diverse modalità, un metalinguaggio, che operano una individualizzazione e una personalizzazione del ritmo, della sintassi e del lessico, che creano un tonosimbolismo: penso alla poesia di Roberto Bertoldo, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher, Anna Ventura, che sono stati capaci di fare una sorta di énchantement musicale, lontana dalla coazione a ripetere delle linee maggioritarie della poesia che abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni.

Intendimento di questi autori è saltare le artificiosità della mediazione della tradizione, considerata corresponsabile di una certa stagnazione stilistica e tematica; giungono, magari e a modo loro, ad una nuova forma di artificiosità attingendo a piene mani all’anacronismo del dettato, mettendo in gioco direttamente il lettore secondo le nuove regole del gioco, fondando un «nuovo» patto di riconoscibilità e di responsabilità che renda irricevibili gli stilemi della codificazione stilistica pregressa; questi autori hanno tentato e tentano, lontani dal frastuono delle officine maggioritarie,  di rifondare l’«antico» patto di riconoscibilità del discorso poetico nel mentre che edificano un «nuovo» concetto di responsabilità della forma-poesia. E forse nelle condizioni di oggi è bene ripartire dalla «responsabilità» e dalla «onestà» della poesia bertolucciana. Anch’io penso che si debba ripartire dalla responsabilità della forma-poesia. La sofisticata elaborazione formale di questo «antico» patto di autenticità con il lettore che Bertolucci ha inaugurato deve e può diventare il minimo comune denominatore della nuova poesia. È forse la tardiva rivincita che l’artigianato dello stile si prende sulla miscellanea degli stili e delle iperscritture letterarie molto ben confezionate di oggi.

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 CONSIDERAZIONI di Alfonso Berardinelli sulla poesia di Mario Luzi

 mario luzi.

La poesia di Mario Luzi e la riflessione morale che forse ha bisogno di prosa

 il Foglio 23 gennaio 2014

Si commemorano quest’anno i cento anni dalla nascita di Mario Luzi, morto nel 2005. E’ stato il più precoce, dotato, produttivo e colto dei poeti ermetici che ebbero come maestri Ungaretti, Campana, Mallarmé, Novalis. Negli ultimi tre decenni della sua vita e soprattutto, mi sembra, da quando cominciò ad aspettarsi il premio Nobel (che invece fu assegnato a Dario Fo) Luzi diventò ancora più prolifico, si investì del ruolo di “grande poeta”. Dopo il suo libro migliore, “Nel magma”, uscito nel 1963, la “verticalità” del suo stile e il suo esistenzialismo spiritualistico lo hanno spinto sempre più verso un poeticismo quasi involontariamente enfatico, dilatato, cosmologico, che aveva origine nella sua formazione tardosimbolista.

 Leggendo l’articolo che domenica scorsa Carlo Ossola ha dedicato a Luzi sottolineandone il carattere di poeta morale e civile, mi sono venute in mente le mie precedenti impressioni. Se si escludono alcune zone della sua opera, Luzi tende a pensare troppo in grande, in generale e al cospetto dell’assoluto per essere un poeta propriamente morale e civile. Il fatto che come uomo e cittadino abbia sofferto per la situazione italiana, non significa che fosse capace di esprimere in poesia questa sofferenza, come hanno saputo fare, con un linguaggio più sobrio, i suoi coetanei Vittorio Sereni e Giorgio Caproni. Basterebbero le citazioni fatte da Ossola per capire che la sensibilità di Luzi si perde, o meglio vuole ingrandirsi e sublimarsi, in una nebbia di entità indeterminate, in un labirinto di allusioni e metafore che risultano nobilmente retoriche. Parla di “forza interiore” necessaria all’uomo, dice che “il volto della verità è stato offeso: per errore per ignoranza per inerzia per viltà” (la mancanza di virgole, più che esprimere un crescendo di esasperazione, aggiunge enfasi e toglie concretezza). Parla di “una vita formale, eterna” (su vita, forma ed eternità si potrebbe, o dovrebbe, costruire un’intera filosofia, mentre qui si capisce appena l’accostamento). Esorta i lettori e l’umanità intera: “Trasformatevi dolorosamente / nella vostra incipiente divinità” (suggestiva allusione a un’etica teologica da precisare).

A sua volta Ossola aggiunge astrazione ad astrazione dicendo che Luzi “come tutti i grandi poeti del Novecento ha mirato all’essenza”. Ora c’è da chiedersi che cos’è l’essenza, che cosa si deve intendere con questa parola. C’è l’essenzialità di Ungaretti, ma c’è anche quella di Montale. E Saba è poco essenziale? E Giovanni Giudici (che Ossola ha studiato) con i suoi versi umili e quotidiani, cattolici e comunisti, ha mirato o no all’essenza? Ha raggiunto il bersaglio? In letteratura e in particolare in poesia, quella dell’essenzialità è forse (con quella di realtà) una delle nozioni più sfuggenti e controverse. Ogni stile ha la sua idea di ciò che è essenziale. Ogni stile ha la sua fisica e metafisica più o meno implicite.

Milano, 11/12/1960 Nella foto: Eugenio Montale

Milano, 11/12/1960
Nella foto: Eugenio Montale

 Mi sembra che Luzi, forse immaginando di essere sulle orme di Montale, abbia preso invece tutt’altra strada, si sia sollevato in volo verso l’inconoscibile e abbia perso, in tutti i suoi ultimi libri, che non sono pochi, la distinzione tra fisico e metafisico, tra l’esperibile e il sovrasensibile. Ungaretti (su cui Ossola ha scritto un libro) è il poeta più “essenziale” del Novecento, eppure le sue poesie di guerra (le migliori) sono sommamente circostanziate: di ogni testo si precisa il luogo e la data di composizione. Poi, con il suo secondo libro, ha inventato l’ermetismo perché non sapeva più con precisione che cosa dire.

Ed ecco i versi di Luzi che dovrebbero toccare l’essenza, mentre si limitano a nominarla: “Le nazioni non meno dei singoli / disimparano l’amore della sostanza, dimenticano / quel giro stretto di vita e volontà / che ne molò i lineamenti, ne definì l’essenza”. Mi sembra che non poca poesia poeticizzante e poeticamente nulla scritta da diversi autori più giovani, sia dovuta all’influenza di questo Luzi che vola verso l’assoluto e nomina categorie morali senza mostrare situazioni morali: che vede la vita e il mondo come “putiferio della mortalità” e il potere politico come “eterna satrapia”. Siamo nel solenne e nel vago, mi pare.

Molto meglio un articolo che Luzi pubblicò sul Messaggero il 7 gennaio 1991 e che Piergiorgio Bellocchio scelse subito per ripubblicarlo sulla nostra rivista Diario, numero 9. Qui Luzi parla come uomo e cittadino e non si preoccupa di fare il poeta:

Sto studiando se e come sia possibile ancora associare la condizione di italiano e quella di persona civile. Con tutti gli sforzi della buona volontà non ci riesco. Per troppo tempo la carità patria mi ha fatto velo ed ho lasciato, come altri, che lo facesse. Ma, evidentemente, non si può andare oltre un certo limite; poi l’indulgenza si trasforma prima in indignazione e rivolta, infine in sconforto e vergogna quando ci accorgiamo che, non arginata da nessuna decente e rispettata statualità, la disgregazione sociale è divenuta barbarie (…). Non ci sono solo i Sindona, i Gelli e tutta una generazione di politici che sembra avviata a una tremenda catastrofe a testimoniare lo sfracello italiano; ci sono anche i subalterni che alla loro ombra hanno trafficato, corrotto, commesso arbitrii e soprusi; e ci siamo noi che siamo riusciti a sopravvivere in questo marasma come pesci nell’acqua sporca (…). Non solo, ma ne abbiamo più o meno consapevolmente assimilato il criterio, quasi a confermare l’idea di Machiavelli che in uno stato inefficiente la naturale perfidia umana dilaga”.

alfonso berardinelli

alfonso berardinelli

 Sembra proprio che la riflessione morale e un vero, non retorico moralismo abbiano bisogno di un po’ di prosa. Il più bel libro di Luzi, “Nel magma”, era un libro di situazioni, il più prosastico con i suoi lunghi versi metricamente poco definibili. E’ a quel punto che Luzi aveva trovato la giusta forma per “spingere più oltre (…) la captazione del reale e l’identità di prosa e poesia – nell’unicum della lingua”, come scrisse in una lettera a Sereni del 12 maggio 1963. Il poeta ermetico era diventato (come succederà anche a Montale con “Satura”, nel 1971) un poeta che cerca la sua epigrafe più adatta in una satira di Orazio: “… nisi quod pede certo / differt sermoni, sermo merus: se non fosse per la misura dei versi, questa non sarebbe altro che prosa”.

Dopo quel libro Luzi ha invertito la sua direzione di marcia, è tornato a quella che Orazio nella stessa satira (la quarta del primo libro) chiama “ispirazione geniale e divina” e “voce capace di toni sublimi”. Quando ha cercato di far fruttare la sua cultura ermetica giovanile dilatandola in un’epica spirituale della vita divina, quando ha voluto accendersi di un sacro fuoco, quando in epigrafe ha cominciato a mettere san Giovanni, Dionigi Areopagita e i Veda (quando ha cominciato a pensare al Nobel, se volete) Luzi ha perso la misura di poeta morale e civile e si è smarrito in una retorica frenesia da veggente.

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