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Il filosofo Emanuele Severino su La ginestra (1836) da un’intervista del giugno 1993 – Letture attuali di Giacomo Leopardi: Giorgio Linguaglossa Un grande Estraneo è alla porta –  Donatella Costantina Giancaspero, Leopardi e la società moderna: i rapporti col Monti e con le Rime del Petrarca e Lettura di Davide Inchierchia

Lettura di Emanuele Severino

“Attraverso una poesia che è quanto mai nota di Leopardi, un grande canto, forse il più grande canto, che è La ginestra, mi propongo di far vedere che quanto il canto dice a suo modo (e La ginestra è scritto poco tempo prima della morte: sono gli ultimi tempi della vita di Leopardi), nei primi anni della stesura dello Zibaldone (mi riferisco al 1820) e quanto il canto fa e dice era anticipato nella prosa filosofica di Leopardi, precisamente in quella prosa che contiene l’espressione «opere di genio», e che è la chiave, a mio avviso, insieme ai passi paralleli, per comprendere l’importanza che ha il genio relativamente al rimedio contro il dolore.
Tutti sanno che il canto incomincia con l’avverbio «qui»: quando dico a qualcuno che è qui, vuol dire vicino a me, mi è vicino: il canto intende dire che la vicinanza è identità tra ciò che è qui e il cantore. Che cosa è qui? lo sappiamo tutti: il canto si rivolge al fiore del deserto, all’«odorata ginestra» (vv. 1-3),

Qui su l’arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,

«formidabil» vuol dire ciò che produce formido, terrore, e produce terrore perché sterminatore. E poco dopo il canto usa le parole decisive per dire che questa metafora della distruzione, che costituisce il luogo in cui noi viviamo, è la metafora di ciò che annulla: il canto dice «con lieve moto in un momento annulla» (v. 45); e poi «con moti | Poco men lievi ancor subitamente | Annichilare in tutto» (vv. 46-48). Annichilare in tutto l’uomo: abbiamo qui le parole decisive dell’ontologia occidentale.
«Qui su l’arida schiena» non è semplicemente un’immagine poetica, ma qui nel luogo della distruzione, è in riferimento alla situazione dell’uomo: l’uomo di fronte alla fonte della distruzione, che incomincia ad essere il vulcano, l’elemento igneo del vulcano; elemento igneo che poi nel prosieguo del canto si estende fino a diventare il fuoco del cielo, e su questo fuoco del cielo vorrei poi richiamare l’attenzione.
Ma intanto: se è la ginestra che è «qui su l’arida schiena | del formidabil monte», e il testo dice una schiena «la qual null’altro allegra arbor né fiore» (v. 4), poco dopo il canto dice che è il cantore stesso a essere «qui sull’arida schiena | del formidabil monte», perché intorno al v. 160 il canto dice:

Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi, 
Seggo la notte; …

Il cantore siede là dove si trova la ginestra, siede nel luogo della ginestra, è la ginestra. Sarebbe interessante mostrare come c’è una fitta rete di riscontri in cui il canto si rivolge al cantore, e dunque il canto parla di se stesso. Si dice continuamente che quella di Hölderlin è una poesia che canta la poesia: certamente il discorso vale per Hölderlin, ma vale supremamente per questo canto, che dunque è un canto in cui il cantore si rivolge a se stesso.
È notevole come compaiano dei termini apparentemente difficili da interpretare: sempre nei primi versi del canto: «l’arida schiena | … la qual null’altro allegra arbor né fiore» (v. 4): il canto parla qui dell’assenza di ogni elemento rallegrante, là dove l’unico elemento rallegrante è il fiore del deserto, cioè il canto, cioè la poesia, se sta ferma la vicinanza-identità che abbiamo cominciato a indicare analizzando il senso della parola «qui».

Il fiore del deserto «allegra»; e poco dopo si dice che «l’odorata ginestra» è «contenta dei deserti» (vv. 6-7). Il deserto è il luogo abbandonato, il luogo della nullificazione: vuol forse dire Leopardi qualche cosa di simile a ciò che afferma Nietzsche, quando nel Crepuscolo degli idoli afferma che il super-uomo è il “sì alla vita”? Qui Leopardi non lo dice, ma non lo dice proprio perché, parlando mezzo secolo prima di Nietzsche, si pone dopo il pensiero nietzschiano e mostra l’inconsistenza su questo punto della metafisica idealistica in base alla quale Nietzsche può dire “sì alla vita”. In Nietzsche si dice “sì alla vita” (lo dice in Quel che devo agli antichi) “per essere noi stessi il piacere dell’annientamento”: ora questa frase è comprensibile, cioè che si provi piacere per l’annientamento, solo in quanto l’individuo, l’uomo si è spostato sul piano del divenire eterno, si sente identico al divenire eterno, e può guardare con piacere l’annientamento delle cose. Ma questa è appunto una metafisica super-idealistica, che Leopardi ante litteram ha tolto di mezzo: l’uomo non può identificarsi allo stesso divenire eterno, non può diventare il super-uomo che, essendo eterno come il divenire, si rallegra dell’annientamento delle cose. E quindi, quando il testo della Ginestra dice che il fiore del deserto è «contenta dei deserti», questa affermazione vuol dire innanzitutto qualcosa di completamente diverso da quello che poi sentiamo dire a Nietzsche, ma positivamente accenna appunto al tema dal quale siamo partiti: accenna all’opera del genio.
Sono altre le espressioni apparentemente sconcertanti, perché lo scenario è terrificante, si è di fronte al nulla e alla fonte del nulla, e ci sono queste parole: «allegra», «contenta dei deserti»; e poi poco dopo si dice che essa è «di tristi | Lochi e dal mondo abbandonati amante | E d’afflitte fortune ognor compagna» (vv. 14-16); e potremmo proseguire in quei tre/quattro versi formidabili, dove sempre della ginestra si dice:

Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo 
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola.

emanuele-severino_640

Emanuele Severino

C’è il profumo, c’è la consolazione, c’è la commiserazione dei danni altrui.
Ecco: come prima dicevamo che e il fiore del deserto e il poeta, poiché sono lo stesso, sono entrambi di fronte al pericolo dell’annientamento, così anche qui questo amore della ginestra per i «lochi dal mondo abbandonati», questa consolazione della ginestra e questo profumo che essa emana, corrispondono all’atteggiamento che è proprio, come poi dice il canto, della nobile natura che è la nobile natura del cantore, il quale è preso da vero amore per i propri simili.
Se ci sono degli equivoci da abbandonare leggendo La ginestra, sono proprio gli equivoci della lettura progressista di Leopardi: per un uomo, per un filosofo che sa che tutto è illusione, che non esiste alcuna verità definitiva, pensare che a questo livello di radicalità egli si lasci prendere dal mito del vero amore per i propri simili, o si vuole attribuire un’incoerenza eccessivamente vistosa a Leopardi, oppure non se n’è colto il senso.

Bisogna prepararsi a intendere il vero amore, non come fondato sull’etica, ma come fondato sulla poesia. Se si capisce questo, si comprende anche il senso dell’opera di genio: siamo ancora qualche passo indietro rispetto alla chiarificazione dell’espressione «opera di genio».
Ma vorrei richiamare l’attenzione su quel notturno che è nella ginestra, che a chi vedeva in Leopardi il sommo lirico, ha fatto pensare che si fosse davanti a uno dei grandi squarci di poesia lirica nel discorso di Leopardi. È una lirica ambigua: se dovessimo usare delle metafore musicali, direi che questo notturno è multi-tonale (la multi-tonalità in musica vuol dire la presenza di ritmi sonori diversi, di consistenze sonore diverse, e quindi la multi-tonalità è essenzialmente ambigua). Dov’è l’ambiguità di questo, che ho chiamato «il grande notturno della Ginestra»? Leggendolo mi propongo di far vedere quell’amplificazione dell’elemento igneo, cioè quel distendersi del fuoco annientante, quell’oltrepassare il «bipartito giogo» del Vesuvio, e il collocarsi nella totalità del cielo, come sì luce, ma luce che è costituita da quello stesso fuoco che è la radice dell’annientamento di tutte le cose.
Certo che si può essere presi dalla potenza di quello che stiamo chiamando notturno, ma di che cosa parla questa potenza? parla della nullificazione. E d’altra parte, la nullificazione come è vista? è vista con potenza: questa visione potente della nullificazione è ciò che Leopardi chiama «opera del genio». La visione potente della nullità delle cose, la potenza con cui si vede la vanità di tutte le cose.”

  • [Canzone composta nel 1836 presso la Villa Ferrigni (rinominata Villa della Ginestra) di Torre del Greco, La ginestra o il fiore del deserto viene pubblicata per la prima volta nel 1845. Il componimento si apre con una citazione dal Vangelo di Giovanni ed è considerato il testamento poetico di Leopardi]

LETTURE ATTUALI DI GIACOMO LEOPARDI

Davide Inchierchia

Leopardi e il perturbante

Fa piacere ritrovare il pensiero di Leopardi al centro di un così vivo dialogo sul senso della nostra contemporaneità. Nella fattispecie (come anche da me altrove accennato) emerge con rinnovata pregnanza la connotazione “esistenziale” che assume in Leopardi la questione del nichilismo, e che prefigura gran parte del dibattito novecentesco su questo tema cruciale.

Sono state qui giustamente richiamate le analogie con le riflessioni di Nietzsche e di Heidegger, attraverso la chiave di lettura della ormai classica interpretazione che Severino ha offerto del grande recanatese.
Mi sembra allora interessante aggiungere al dibattito un riferimento critico ulteriore, che consente di vedere il problema del nichilismo leopardiano da un’angolatura in buona parte alternativa a quella severiniana, proposta dal suo noto interlocutore dialettico di una vita. Si tratta infatti dell’esegesi che Massimo Cacciari ha consegnato alle pagine di «Magis amicus Leopardi. Due saggi», nel 2005.
Solo qualche accenno, soffermandomi sul primo dei due contributi che compongono questo breve ma densissimo testo.

massimo_cacciari delrio ok-2In «Leopardi platonicus?» anche Cacciari annovera il poeta tra i massimi esponenti della filosofia occidentale (secondo solo a Dante). Tuttavia Cacciari – sottolineando così fin da subito la propria distanza da Severino – si preoccupa di rivendicare la quasi totale estraneità di Leopardi proprio da quella “follia”, costitutiva dell’Occidente, che pensa ogni ente come proveniente dal nulla e ritornante nel nulla: che intende astrattamente, ossia con astratta separatezza, la differenza tra essere e nulla.
Con una profondità di visione teoretica maggiore rispetto a Nietzsche, la cui sentenza “Dio è morto” appare del tutto interna alla cattiva coscienza del moderno; ma con una radicalità maggiore persino rispetto ad Heidegger, il cui principio della “differenza ontologica” è viziato da una malcelata istanza razionalistica di derivazione hegeliana, Leopardi – secondo Cacciari – è ben consapevole che ogni essente è già “differ-ente” in se stesso: ogni essente, in altre parole, è un “ex-sistente” la cui identità, la cui medesimezza fa segno ad una provenienza (ex) che sempre differisce, che è “altra” da tutte le rappresentazioni con cui l’intelletto necessitante – il Logos – pretende di determinarne l’apparire.
Ecco perché il nichilismo, in accezione leopardiana, è un ospite ben più “perturbante”: nella lettura speculativa di Cacciari – in cui si rievoca il concetto freudiano di Un-heimlich – inquietante, anziché ciò che ci è totalmente estraneo, è al contrario il massimamente a noi prossimo: ciò che “appare”, appunto. E’ il manifestarsi stesso di ogni essente l’originaria A-poria – la platonica Parousia “epekeina tes ousias”: ciò che si mostra quale “presenza” precedente qualsiasi universalità di genere – che ‘nientifica’, al netto della propria individua concretezza, ogni astratto tentativo di ridurre alla necessità della ragione (alla Totalità) la contraddizione dell’Inizio: la “singolarità” in-finita di ogni finitezza che “è”.
Strilli Leopardi D'in su la vetta della torre anticaUn nichilismo, insomma, quello di Leopardi, che si tratta allora non già di “oltrepassare” (alla maniera heideggeriana), e meno che mai di “confutare” (nel senso severiniano), bensì di “custodire”:
il nichilismo infatti non costituendo alcunché di ‘epocale’, né storicisticamente né fenomenologicamente, laddove “ex nihilo” è l’Epoché stessa della Cosa in quanto principio di negazione an-ipotetico – nei termini cacciariani, “aionico” – di ogni epoca temporalmente de-terminata.
A conferma di questa direzione d’indagine, dalla evidente tonalità escatologica, giunge il secondo ed ultimo saggio contenuto nel libro di Cacciari, «Solitudine ospitale, da Leopardi a Célan», che in conclusione si prefigge di evidenziare l’ attualità ‘inaudita’ del pensiero leopardiano, anche nella sua ricaduta etico-antropologica: nel suo inesausto prestare ascolto ad una Libertà che – anziché accomunare – “distingue”, come distinto è ciascun pensante in quanto “quel singolo” che si sa incoativamente “non-altro”. Un significato dell’esser-liberi che resta ancora tutto da interrogare. Continua a leggere

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Roberta Costanzo, Analisi delle varianti del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1929-30) L’ultima lirica composta a Recanati di Giacomo Leopardi

Ultima lirica composta a Recanati, Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia appartiene ai cosiddetti Canti pisano-recanatesi, testi poetici scritti tra il 1828 e il 1830, in seguito ad una fase di silenzio poetico originatasi nel 1823 da un momentaneo tramonto della fiducia nel valore della poesia e da uno scetticismo crescente nei confronti della moderna società, incapace di poesia. Il ritorno ai versi manifesta il forte bisogno di Leopardi di ritrovare il canto e il suo potere immaginativo, ma nello stesso tempo svelando “l’arido vero” dell’indifferenza e insensibilità della natura verso l’uomo e quindi la coscienza che ormai nessuna illusione poetica sia più possibile. Il Canto notturno si discosta dagli altri canti pisano-recanatesi per il dileguamento dello sfondo di Recanati e del poeta come “soggetto lirico”, sostituito dalla figura-simbolo di un pastore.

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
E’ la vita mortale.

Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell’umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perchè dare al sole,
Perchè reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perchè da noi si dura?
Intatta luna, tale
E’ lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l’ardore, e che procacci
Il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito Seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell’innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D’ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell’esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors’altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perchè d’affanno
Quasi libera vai;
Ch’ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
Tu se’ queta e contenta;
E gran parte dell’anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
E un fastidio m’ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo
A bell’agio, ozioso,
S’appaga ogni animale;
Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s’avess’io l’ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.

Evgenia Arbugaeva Slava_observatory-1

Evgenia Arbugaeva foto, Siberia

L’autografo riporta, sul recto della prima carta, la data di composizione e il titolo della lirica. Per quanto riguarda quest’ultimo, si è già detto nello scorso capitolo che si ha testimonianza di una sua stesura precedente nei Disegni letterari: «Canto notturno di un pastore dell’Asia centrale alla luna». Questo diviene nell’autografo, con le motivazioni filosofiche di cui si è detto nel precedente capitolo, Canto notturno di un pastore vagante dell’Asia, con accanto scritto (1). La stampa fiorentina (F31) riporta il titolo invariato rispetto ad AN, ponendo in capo alla pagina, in posizione centrale, il numero romano XXI (ad indicare la posizione del canto in quella raccolta) e subito sotto, sempre al centro in posizione evidenziata, Canto notturno e a capo di un pastore vagante dell’Asia. (1). Questo numero funge da nota che richiama la trascrizione del passo del Meyendorff in fondo alle pagine del componimento. Nell’edizione napoletana l’impostazione del titolo è simile a quella fiorentina, con la differenza che il numero romano diventa XXIII e “vagante” viene sostituito da “errante”, che si troverà anche nel testo definitivo.

La lezione “errante”, essendo presente già in AN nella citazione del Meyendorff, doveva risultare più vicina all’autore; secondo Bronzini questo mutamento di lezione da una stampa all’altra coincide con gli stessi motivi che portarono Leopardi all’elaborazione della sesta strofa. Così il “vagare” sarebbe legato alla vana ricerca di senso, alle insistenti domande senza risposta poste alla luna e appunto al vagabondare senza sosta del pastore, rendendo quindi un’immagine della vita come un percorso verso il vuoto della morte. L’ “errare” sarebbe invece “segno di vitalità finalistica e razionale” da opporre ad un cieco cammino verso il nulla: si noti che questa parola ricorre nella sesta strofa due volte: al v.136, “O come il tuon errar di giogo in giogo”, e al v. 139, “O forse erra dal vero”. Il suo significato è ambiguo, indicando sia l’azione di spostarsi da un posto ad un altro (ed è il caso del v. 136), sia la possibilità di commettere un errore nella ricerca della verità(v.139): se al primo si può associare un’immagine di vitalità connessa a quella del volo presente in questa stessa lassa, il secondo sembrerebbe negarla in apparenza, per rilanciare la possibilità di “conoscere (invano) il vero” soltanto liberandoci da questo vero costituito dall’insieme degli errori umani sul giudizio di ciò che è vero o meno.

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domenico morelli ritratto di giacomo leopardi

Nell’autografo, sotto il titolo, separata da una linea orizzontale, vi è la citazione del Meyendorff: Leopardi aveva trascritto in un primo momento “parla dei Kirki, nazione errante, che vive a settentrione dell’Asia centrale”, cancellando “dei Kirki” (che tra l’altro aveva prima sottolineato) e modificando la virgola accanto a “Kirki” in un cuneo rovesciato, che ha la funzione di riportare sopra “di una delle”. La “e” sia di “nazione” che di “errante” diviene “i” per la resa del plurale; la virgola che subito segue viene eliminata tramite due lineette di penna, e vengono cancellati i riferimenti geografici specifici “che vive a settentrione” e “centrale”, con la probabile intenzione di astrarre ed estendere i luoghi del canto, in linea con l’ idea leopardiana della “vastità” e delle sensazioni piacevoli che ne derivano. Un appunto dello Zibaldone datato 5 Novembre 1821 potrebbe rendere più comprensibile la scelta del poeta in questa direzione:

“La sola vastità desta nell’anima un senso di piacere, da qualunque sensazione fisica o morale, ella provenga, e per mezzo di qualunque de’cinque sensi. […] le sensazioni vaste, ancorché gli oggetti che le producono abbiano manifesti termini, sono sempre indefinite, in quanto l’anima non arriva ad abbracciarle tutte intere, almeno in un sol punto, e però non può contenerle, né giungere a sentire pienamente i loro termini. Tutto ciò può applicarsi alle sensazioni prodotte dalla poesia, o dagli scrittori, ec. al lontano, all’antico, al futuro, ec. ec.”. Dunque l’immensità dello spazio unita alla poesia e al canto imprimerebbe “un senso di piacere” nell’anima umana.

Nelle stampe questa notazione sarà collocata in un nota in fondo al componimento. In particolar modo in F31 la nota (1) riporta soltanto la citazione del Meyendorff, e sono in corsivo le parti che nell’autografo erano sottolineate e in tondo le altre che non lo erano, mentre in N35 si trova insieme ad altre notazioni e quella che la contiene è la nota 9, tutta in tondo.

Passiamo all’esame delle varianti dell’autografo. Al v. 1, sotto la “i” della parola dimmi,si nota un tratto di penna accostabile ad una cancellatura. Secondo la congettura di Gavazzeni, inizialmente ci sarebbero stati due punti (dimmi:); ma si potrebbe anche ipotizzare, dato che il depennamento sembrerebbe posto proprio sotto la “i” e non accanto, dove è logico collocare i due punti, e dato il tratto dell’inchiostro che parrebbe lievemente allungarsi, la presenza precedente di una virgola o un punto e virgola, cancellati in un primo momento forse con l’intenzione di inserire qualcosa di diverso, per poi far ricadere la scelta comunque sulla stessa virgola. Al v. 4 la “p” di posi è accentuata: potrebbe essere una pura casualità, oppure si potrebbe pensare ad un primo proposito del poeta, ma immediatamente abbandonato, di utilizzare una parola di significato affine, ad esempio “riposare”, poiché nella pagina 2628 dello Zibaldone i due vocaboli vengono indicati come sinonimi derivati dalla medesima serie di parole greche παύω-παύσω-παυσις. L’utilizzo del verbo “posare” rispetto a “riposare” potrebbe essere stato preferito e anche subito, perché più consono all’uso leopardiano, dato che il primo ricorre nei Canti ben 11 volte, mentre il secondo una sola volta e proprio nel Canto notturno al v. 14“Poi stanco si riposa in su la sera”. Inoltre “posi” viene ripreso in modo simmetrico nel v. 105, in riferimento al gregge: “Oh greggia mia che posi, oh te beata”.

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ritratto di G. Leopardi di Chiarini Vita

Nell’autografo al v. 15, nel verso della prima carta, vi è l’ammissibile presenza, secondo la ricostruzione di Gavazzeni, di un primitivo strato con la lezione «E mai null’altro spera a la domane». Secondo lo studioso sarebbe stato trascritto prima l’intero verso che in questo modo forma un endecasillabo, mentre in un momento successivo Leopardi avrebbe inserito le tonde in “a la domane”, degradando questa a variante alternativa e potendo così costruire un settenario. Inoltre avrebbe cancellato “mai” e “null’”, aggiunto alla “E” il grafema “d”, perché la congiunzione si veniva adesso a trovare accanto a parola iniziante per vocale (“altro”), scritto “non” in alto con segno di rinvio e inserito la “i” davanti alla parola “spera”, così da avere “Ed altro non ispera”, che tuttavia cancellò in blocco e riscrisse nel rigo precedente a fianco del verso 14 (probabilmente per motivi di spazio), variando leggermente la disposizione delle parole in “Altro mai non ispera”, laddove il “mai” fu tagliato scrivendo sopra la variante “pur”. Questa, oltre a trovarsi nel manoscritto, è registrata anche nella stampa fiorentina (F31), mentre l’originario “mai” ritorna nelle edizioni napoletane (N35 e N35c), divenendo variante d’autore. Forse la scelta ricadde sull’iniziale “mai” perché più consono all’ideale della vastità e dunque sentito come più poetico: si legge infatti alle pagine 1825 – 1826 dello Zibaldone: “Le parole che indicano moltitudine, copia, grandezza, lunghezza, larghezza, altezza, vastità, ec. ec. sia in estensione, o in forza, intensità ec. ec. sono pure poeticissime, e così le immagini corrispondenti. […] «tanto»essendo indefinito, fa maggiore effetto che non farebbe «molto», «moltissimo eccessivamente»,«sommamente». Così pure le parole e le idee «ultimo», «mai più», «l’ultima volta» ec. ec. sono di grand’effetto poetico per lì infinità. Ecc.”.

Al v. 17 dell’autografo si trova cassata la lezione “A te quella tua”, che insieme all’immediatamente successivo “vita” doveva costituire la prima stesura; la seconda è data invece dalle varianti sostitutive soprascritte “Al pastor la sua” (vita). Allo stesso modo, nel verso seguente, il 18, si può cogliere la presenza di una prima stesura “La sua vita al pastor”, sulla quale l’articolo determinativo “La” rimane invariato, “vostra” viene trascritto sul preesistente “sua” e lo sostituisce, “al pastor” e il successivo punto interrogativo sono eliminati con tratti di penna e sostituiti dalla variante riscritta sopra “A voi?”. In entrambe le stesure, nella collocazione dei versi, si può notare la massima distanza, sia sintattica che metrica, tra il pastore e l’entità celeste, forse a rimarcare l’impossibilità di un contatto, mentre tra una stesura e l’altra si ha inversione tra il verso dedicato alla luna (prima 17 e ora 18) e quello al pastore (prima 18 e ora 17). Si veda anche il cambiamento del verso 18, dal singolare al plurale, forse nell’intento di voler allargare le proprie richieste al complesso degli astri. Infatti, Giuseppe e Domenico De Robertis collocano il momento di questa lezione al plurale dopo la scrittura della quarta strofa, collegandola ai vv. 79-89 e in particolare al v. 84, “E quando miro in cielo arder le stelle;”.
Nello stesso v. 18, inoltre, si ha tra parentesi tonde la variante alternativa a “ove tende”, mai realizzata, “(ove è rivolto)”. Nello Zibaldone, alle pagine 1160-1162, si trova un riferimento al vocabolo “rivoltare” come verbo continuativo derivato da “rivolgere”, all’interno di un ragionamento sulla differenza tra l’ “atto” che interessa i verbi positivi (ossia non derivati) e l’ “azione” che riguarda i continuativi:

“Perché meglio s’intenda questa teoria de’ verbi continuativi, ne osserveremo e ne distingueremo la natura più intimamente ed accuratamente […] Atto e azione propriamente, differiscono tra loro. L’atto, largamente parlando, non ha parti, l’azione sì. L’atto non è continuato, l’azione sì. […] Il primo considera l’agente come nel punto, il secondo come nello spazio, o nel tempo. Certo non si dà cosa veramente e assolutamente indivisibile, ma se considereremo le opere dell’uomo e di qualunque agente, vedremo che alcune ci si presentano come indivisibili, e non continuate, altre come divisibili e continuate. Quando per tanto il verbo positivo latino significa atto, il verbo continuativo significa azione. […] [L’] azione continuata, fatta non già nell’istante, ma nello spazio, e composta di parti. Questa dunque è azione, quello è atto, e quest’azione è composta di molti di quegli atti. […] Noi abbiamo appunto volgere, voltare […], e voltolare, o rivolgere, rivoltolare ec. positivo, continuativo e frequentativo.”.

leopardifoto.

Forse la variante alternativa “ove è rivolto” fu scartata perché, trattandosi di un verbo continuativo, estendeva l’azione nel tempo e nello spazio, contrastando con il “vagar mio breve”, ovvero con l’immagine del percorso finito dell’uomo in contrapposizione con quello infinito della luna, e poiché Leopardi riteneva più adeguata la lezione con il verbo non continuativo “tende” che, avendo “l’agente come nel punto”, poteva presupporre un’ azione compiuta in un intervallo di tempo finito, quale appunto la breve vita del pastore.Passando alla seconda strofa, al v. 21 si ha la lezione “mezzo ignudo”, cancellata scrivendo sopra la nuova “infermo, mezzo vestito”, presente poi in tutte le stampe. Si noti che quello che nel testo definitivo sarà il v.22, “Mezzo vestito e scalzo”, si trova nel manoscritto “sulla stessa riga del v.21”, formando un endecasillabo, dal quale proverranno due settenari. Giuseppe e Domenico De Robertis d’altra parte colgono un collegamento con la “vecchierella” di Petrarca in (RVF 33,6), anch’essa “discinta e scalza”, più evidente nella prima stesura di AN con “mezzo ignudo e scalzo”. Per quanto riguarda le sostituzioni di tali versi, con particolare riguardo alla lezione “infermo”, si potrebbe far riferimento a due passi dello Zibaldone,nei quali si passano al vaglio gli equivalenti latini e greci della parola “infermo” (che sembrerebbe aggiunta rispetto alla lezione precedente, mentre “mezzo vestito” altro non è che il contrario di “mezzo ignudo”) e i suoi ambiti di significato. Nel primo passo (pagine 1624 – 1625, datate 4 Sett. 1821) si analizzano i termini greci e latini per indicare il buono e il cattivo stato di salute:

“I greci quasi autori della medicina dicevano α̉σθένεια cioè debolezza ogni genere d’infermità, ed α̉σθενειν l’essere malato. Ed anche oggi i medici chiamano stenia che suona come σθένος, vigore, forza, robustezza, il buono stato di salute. […] Così dico delle parole latine valere, valetudo, bene o male valere, infirmus, imbecillitas ec. ec. Tutto ciò che ci cagiona il senso della forza, ci cagiona il senso del piacere e della sanità. L’uomo veramente forte è sano.”

dove si associa, sin dalle antiche voci e in base alla formazione delle parole nelle antiche lingue, l’essere infermo ad uno stato di debolezza, malattia e assenza di salute da cui rimane escluso “il senso del piacere”, che è avvertibile soltanto durante gli stati di forza e buona salute. Il secondo passo conferma tali associazioni di parole (pagina 2544 del 4 Luglio 1822): “Quello che altrove ho detto del modo che in greco si chiama malattia, cioè debolezza (α̉σθένεια), si deve anche dire del latino, infirmitas, infirmus.”. Quindi, nonostante il verso sia stato frantumato, la presenza di “infermo” sembrerebbe essere indispensabile a mostrare lo stato di sofferenza e debolezza del “vecchierel”; si veda anche, tra l’altro, che il vocabolo ricorre con lo stesso ambito di significato in altri Canti, ovvero: Bruto Minore v. 99, “Quella l’inferma plebe”; Alla Primavera v. 2, “Ristori il sole, e perché l’aure inferme / Zefiro avvivi”; La Ginestra v. 87, “Uom di povero stato e membra inferme”, il quale ultimo si avvicinerebbe maggiormente alla circostanza del Canto notturno.

Nel rigo che segue in origine la lezione doveva essere “Carco di soma asprissima”, su cui si potrebbe ipotizzare una sua eliminazione e sostituzione immediata con la nuova lezione “con gravissimo fascio in su”; forse “le spalle” fu inserito nello stesso momento della variante sostitutiva e non prima (ma posto accanto la precedente lezione cancellata), dal momento che la preposizione “su” è tracciata sopra insieme alla nuova lezione; forse “le spalle” fu lì trascritto per motivi di spazio, data la presenza della coda della “g” sovrastante che avrebbe potuto rendere difficile inserire altre parole accanto. Contemporaneamente a “le spalle” si può pensare sia stata trascritta la variante alternativa che segue, tra le solite parentesi tonde: questa inoltre presenta una particolarità, perché sembrerebbe riscritta su una precedente parola. Se Moroncini non aveva scorto nulla sotto quello che leggeva come “dispietato”, De Robertis vi riconobbe altresì una fase antecedente che avrebbe riportato la parola “disagiato”, mentre invece Peruzzi vide la primitiva lezione “di grave fascio in su”, con “grave” poi sostituito da “dispietato”. Sulla questione è intervenuto anche Savoca, rifiutando sia la congettura di De Robertis, sia quella del Peruzzi: infatti un primitivo “disagiato”, oltre a stonare con il significato racchiuso dalla parola “fascio”, non permetterebbe di riscontrare sul manoscritto il fonema “a” in mezzo alla “s” e alla “p” di “dispietato”, mentre un originario “grave” gli risulta improbabile perché sembrerebbe mancare il “ve” finale di parola e il tratto del “dis” iniziale sarebbe tracciato in modo troppo scorrevole per pensare ad una sua aggiunta posteriore. La sua idea è quella della primitiva lezione “disgrato”, motivata dalle comparazioni compiute dallo studioso stesso sulla scrittura di Leopardi per i gruppi gr/gi/pi, essendo “gr identico, salvo il puntino aggiunto in seguito per trasformare la r in i, a un gi poi pi”. E in effetti, dall’osservazione del manoscritto, sembrerebbe potersi rilevare una prima fase coincidente con “(disgrato fascio in su)”, con sostituzione di “disgrato con “dispietato” e cassatura di “fascio in su”. Il vocabolo “fascio”, inoltre, sarebbe di derivazione petrarchesca.

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Al v. 25, nell’autografo, una prima lezione “alte arene” fu volta al singolare tramite sostituzione della “e” flessiva con “a”; “a” iniziale di “arene” fu cancellata, così da avere la lezione definitiva “alta rena”, per forse meglio evocare la sable dei Kirghisi, oppure per rendere un’idea di maggiore vastità rispetto alla semplice “arena”. Al v. 26 del manoscritto, tra Al e vento vi è la presenza di due grafemi distinti cancellati (sembrerebbero una “b” e una “p”), probabilmente indicanti il proposito, immediatamente abbandonato, di voler iniziare altre parole rispetto alla definitiva “vento” (infatti la scrittura ricomincia accanto); nello stesso verso si ha “procella” cancellato, con su trascritta la lezione definitiva “tempesta” più l’aggiunta di una virgola. Si noti in questo caso la scelta del poeta, che sostituì una voce maggiormente letteraria e più arcaica, come segnalano anche Domenico e Giuseppe De Robertis chiamando procella “vecchia e cara voce letteraria”, con una più comune e moderna. Le motivazioni andrebbero connesse al discorso più generale di Leopardi sulla necessità in alcuni casi di utilizzare parole meno erudite e più popolari; si legga in proposito il passo tratto dalla pagina 2075 dello Zibaldone, in data 8 Novembre 1821:

“Molte volte riescono eleganti delle parole corrottissime e popolarissime, e ineleganti o meno eleganti delle altre incorrotte o meno corrotte, e meno popolari. […] nell’uso la parola più antica, e non corrotta ha prevaluto alla corrotta, così che la più moderna e corrotta, viene a parere più antica e meno ordinaria della stessa antica”.

Al v. 29 si ha un gruppo di varianti alternative all’interno del testo: la prima di queste “(fossi)”, che ha sostituito il precedente singolare “fosse”, è seguita da “(gorghi, frane, chiane)”; tuttavia nessuna verrà inserita nelle stampe e nel testo, prediligendo la lezione originaria “torrenti e stagni”,forse con reminiscenza del Petrarca del sonetto XXXVIII Orso, e’ non furon mai fiumi né stagni. Al verso seguente, il 30, dopo cade, doveva esservi in precedenza “spesso”, con accanto una virgola subito cancellata per inserire una “e”, che poi Leopardi cassa insieme a “spesso”. Egli aggiunge inoltre alla fine di questo stesso verso, con un segno di rinvio, tra più e s’affretta,un altro“e più”, per avere la lezione definitiva “Cade, risorge, e più e più s’affretta”. Secondo l’opinione di Giuseppe e Domenico De Robertis, “spesso” fu eliminato in modo da rendere evidente la contrapposizione tra “cade” e “risorge”, laddove la “frequenza” della caduta resa dalla lezione soppressa “Spesso” non si perdeva proprio per “lo scandirsi e incalzare degli opposti”.Il senso di questo contrasto vuole forse rendere l’idea che dall’afflizione può nascere una speranza, derivante da un’energia travolgente l’uomo stesso, che dopo infinite cadute sente forte il bisogno di appigli; tale ipotesi parrebbe trovare un suo punto di forza nel raddoppio di “e più”, di derivazione petrarchesca (RVF, canzone L Ne la stagion che ‘l ciel rapido inchina “la stanca vecchierella pellegrina / raddoppia i passi, e più e più s’affretta” ). Nel primo rigo del recto della carta seconda, ovvero al v.32, si registra la variante alternativa “(e mezzo spento)” non realizzata: secondo Giuseppe e Domenico De Robertis sarebbe stata una sorta di “attenuazione letteraria” per la lezione “sanguinoso”, che indica metaforicamente la fine del viaggio doloroso della vita. Più giù, al v.35 la prima stesura avrebbe dovuto essere costituita da “Abisso orrido, immenso,” che Domenico e Giuseppe De Robertis associano ad un passo del Dialogo di Cristoforo Colombo e Pietro Gutirrez: “un mare unico, immenso”; questa fu cassata e sostituita dalla lezione “Fossa capace, oscura”, formando una seconda stesura, anche questa cancellata in un momento probabilmente successivo, con ritorno alla lezione originaria non per mano dell’autore, ma di Ranieri, che la ripristinò forse per meglio far risaltare il collegamento con il Dialogo di Cristoforo Colombo e Pietro Gutierrez e pensando così di eseguire la volontà dell’autore. Se si confrontano infatti le due grafie è possibile notare evidenti differenze, come ad esempio, nella trascrizione soprastante, la prima “s” di abisso, tracciata con una coda parecchio lunga, che nella stessa parola sottostante di mano dell’autore manca. Inoltre la “d” di orrido scritta sopra è stesa con una linea verticale e senza la curvatura che si ha nella stessa lettera tracciata da Leopardi. Si direbbe che la scrittura soprastante sia più allargata e distesa, diversa appunto da quella più compatta del poeta recanatese.

giacomo-leopardi-scritto-per-te-solinga-e-peregrina

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Osservando la ricostruzione critica del Gavazzeni, passiamo all’analisi delle varianti della terza strofa (che nel testo definitivo si trova a quest’altezza del canto), invece della quinta che, come abbiamo visto, segue la seconda nell’autografo. La terza strofa si trova tra il verso della seconda carta e il recto della terza, dopo la quinta strofa. Al v. 42, situato sul margine inferiore del verso della seconda carta, si ha il caso di quella che in origine doveva essere una variante alternativa, inserita tra le solite parentesi tonde, poi elevata a lezione definitiva: inizialmente il poeta aveva scritto “Per prima cosa; e in sul l’entrar suo primo”, con accanto la detta variante alternativa “(principio stesso)”. Sotto tracciò altre varianti alternative “(e infin sul primo istante, e in su quell’ora istessa)”, laddove Gavazzeni ipotizza che dopo “istante” il primo intento di Leopardi sarebbe stato quello di chiudere la tonda, rifiutato subito per l’immissione di altre varianti, subendo quell’abbozzo di parentesi una trasformazione in “e”, mentre “quell’ora istessa” è posizionato nella carta successiva. Ad essere accolta a testo, abbiamo detto, è la variante “principio stesso”, in cui vengono segnate con tre lineette le parentesi tonde, mentre la lezione precedente “l’entrar suo primo” viene cassata.

Più giù, ai vv. 48-49 si può osservare la presenza di una prima stesura, resa al v.48 da “consolarlo procura” con accanto la variante alternativa tra le solite parentesi tonde e qui anche sottolineata “(s’ingegna”), poi cancellata, con unico tratto di penna insieme all’intera lezione del verso, ma non totalmente abbandonata. Infatti, prendendo spunto da questa variante, Leopardi riscrisse accanto “S’ingegna fargli core”. La voce “s’ingegna” non avrà nemmeno qui un seguito, dato che verrà cassata e sostituita da “Studiasi”, forse ricordando Leopardi l’appunto della pagina 2607 dello Zibaldone: “E in verità conviene che il buon padre e la buona madre studiandosi di racconsolare i loro figliuoli …”. La parola “core” del verso definitivo avrebbe il significato di coraggio, probabilmente utilizzato per ragioni metriche dovendo formare un settenario, e ricavata verosimilmente in tale accezione dalla sua etimologia latina cor habeo. Si potrebbe aggiungere una motivazione ulteriore alla preferenza di “core” rispetto a “coraggio”: “core” ricorre nei Canti ben 85 volte (53 nella forma cor, 31 in core, 1 in cori) contro un singolo utilizzo nei Canti di “coraggio” (Amore e Morte v. 23); inoltre lo stesso poeta spiega questa equivalenza di significato alla pagina 4515 dello Zibaldone, facendo anche il confronto con altre lingue neolatine: “Coraggio per cuore (corazon, coraje, courage): v. Crus., quasi corauculum. Incorare-incoraggiare. […] Questa forma in age ager, è tutta francese, provenzale ec. Di là la nostra, sì abbondante anch’essa, in aggio, aggia, aggiare.”. Al v.49 era stato prima tracciato “Del suo misero stato:”, cancellato e sostituito sopra da ciò che sarà riportato nel testo conclusivo: “E consolarlo de l’umano stato:”. Forse per l’affinità ravvisabile nella parola “umano”, in questo stesso momento dell’annotazione della variante sostitutiva, potrebbe risalire la variante alternativa riportata accanto e non realizzata, “(E l’incuora a patir l’umano stato)”.

Il v.51 dell’autografo riporta un lieve tratto di penna in capo alla preposizione da, volto a cancellare un apostrofo prima trascritto ma ripristinato in N35 e a sua volta eliminato “nell’Errata come refuso”. Oltre questo, si ha la variante alternativa tra le tonde, in fianco al rigo in questione “(si usa)”, e per altri due righi sono segnate altre varianti alternative “(Non han proprio i p., color, verso, inver la prole. Non / s’aspetta a i parenti inver. Non debbono.). Giuseppe e Domenico De Robertis collegano tali varianti alla parola “officio” del v.50 (che come si vedrà più avanti sarà corretta in “ufficio” solo in N35c), per l’associazione all’area semantica della “Premura, cura dovuta”.

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Ancora una variante alternativa, che non sarà realizzata, è presente al v.54, “(convegna)”, sottolineata come la precedente “s’ingegna”, secondo l’opinione di Contini, per richiamarsi a vicenda, dal momento che se fossero state accolte ambedue avrebbero formato una rima. Avviandoci alla quarta strofa, collocata all’inizio del verso della terza carta e protratta sia per tutto il recto della quarta, che per metà del verso di questa, si riscontra in principio del v. 63 l’eliminazione di un precedente “Che sia”, con la presenza accanto della sostituzione della minuscola “q” della parola successiva qualche con la maiuscola “Q”, a conferma che queste modifiche al verso furono probabilmente effettuate in un momento successivo, forse dopo la scrittura del v. 64, in base all’associazione che Giuseppe e Domenico De Robertis compiono tra “questo” del v. 63 e “che sia” (che Leopardi stava pensando di anteporre) del v.64, in quanto suo prolettico. Inoltre gli studiosi suppongono che “questo viver terreno” provenga dal v. 5 del sonetto 99 di Petrarca “Questa vita terrena”. Al v. 64, sono attestate entro parentesi tonda due varianti alternative “(dolorar, lagrimar)” non accolte, sinonimiche alla lezione del testo patir e sospirar. Questi ultimi furono preferiti perché potevano forse collegarsi meglio rispettivamente alla seconda e terza strofa. Inoltre proprio nel patir e sospirar consisterebbe lo specifico della vita dell’uomo, collegandosi le parole al verso precedente “Questo viver terreno”.

Al v. 72 Gavazzeni ipotizza che Leopardi abbia cominciato a scrivere le parole nel rigo senza le parentesi, avendo come prima stesura “Del taciturno, antico, andar”, e ritiene che accanto siano state registrate le varianti alternative tra tonde “(tacito, infinito)” e che “andar” sia stato cancellato in questo stesso momento e sostituito con la lezione soprascritta “muto, sempiterno”. Dopodiché Leopardi avrebbe eliminato le parentesi alle varianti alternative, accogliendole come lezione a testo, degradando al contrario la prima lezione a variante tramite inserimento delle parentesi e completando, in fondo, il verso con “andar del tempo”. Come sostiene Gavazzeni, si potrebbe congetturare che il verso sia stato iniziato senza le parentesi, ma che “andar” non sia stato eliminato subito e ancora rimanesse quando furono trascritte accanto le varianti alternative tra parentesi “(tacito, infinito)”, per essere cancellato, con sopra l’inserimento delle nuove varianti, quando il verso fu rifinito con la scrittura a fianco di “andar del tempo”, proprio perché se ne ripeteva il vocabolo. Quindi si potrebbe provare a lanciare l’ipotesi che il verso non sia stato completato per ultimo, ma già quando tacito e infinito costituivano varia lectio. Questi furono preferiti forse perché richiamavano in modo più efficace la ricerca del senso misterioso della vita che sfugge continuamente al pastore, e il verso che formavano (“tacito, infinito andar del tempo”) poteva essere sentito dal poeta affine all’ “infinità del nulla”, un fluire eterno del tempo (di cui Leopardi scrive nelle pagine 4181-82 dello Zibaldone), che l’uomo non può carpire “se non nella immaginazione o nel linguaggio”, ma che al contrario un’entità celeste come la luna può comprendere a perfezione. Infatti Giuseppe e Domenico De Robertis collegano questa lezione accolta ai versi iniziali della strofa stessa, dove la luna è appellata “eterna peregrina” e “solinga”, conferendole un alone d’infinità di tempo e spazio per il quale essa può essere “parte del mistero chedeve essere svelato, depositaria di esso” e perciò intenderlo, differentemente dall’uomo. “Tacito” sembrerebbe inoltre essere usato in veste di aggettivo con il significato di “che tace, silenzioso”, realizzando così un “uso epitetico del participio passato”, procedimento stilistico stimato dallo stesso poeta più ricercato e comunissimo nella lingua latina, di cui preziosi cenni si rinvengono nello Zibaldone, dove proprio a proposito del latino tacitus, nella pagina 3970 Leopardi lo inserisce nella categoria dei “Participi passivi in senso neutro. – Aggettivazione de’ participii.”,e continua scrivendo “Tacitus da taceo per tacens.”.

giacomo-leopardi-voltoIn questo rigo Gavazzeni segnala la trascrizione con altra penna delle varianti alternative “(mondo, ore, anni)”, sottostanti a “andar del tempo”. “Mondo” secondo Giuseppe e Domenico De Robertis attuerebbe un lieve cambiamento di significato rispetto all’idea del passare eterno del tempo, motivo per il quale si potrebbe pensare che non venne realizzato. Più avanti, al v.73 si ha soltanto la variante alternativa a dolce, “(secreto)”, non concretizzata probabilmente perché il suo significato parrebbe riferirsi ad un amore non conosciuto, “ignoto”, per il quale la primavera personificata vorrebbe apparire radiosa e piacevole: l’alone di mistero racchiuso in questi versi forse sarebbe divenuto fin troppo esplicito se fosse stata accolta quella variante. Inoltre nello Zibaldone, alla pagina 4496, si spiega il significato del vocabolo in latino, accostandolo ad altri suoi sinonimi: “Remotus, secretus, riposto ec. participi aggettivati”, e facendolo rientrare nella serie dei participi (dal verbo secernere) aventi funzione di aggettivo, vista poc’anzi con “tacito”. Pure il “participio aggettivato” del medesimo vocabolo secreto viene utilizzato al femminile nell’ Inno ai Patriarchi,v. 44 e 99 (qui femminile e anche plurale), La vita solitaria,v. 88 e La ginestra,v.280. v. 78 riporta la variante alternativa “(umile)” che non sarà accolta a testo e a cui sarà preferita la lezione “semplice”. Il senso probabilmente va ricercato in direzione di un’intesa con la natura da cui allontana la cultura, e che è riscontrabile soltanto nei “semplici” e “umili”, in quanto non offuscati dagli errori che produce nell’uomo il progresso e lo sviluppo della ragione. Inoltre fanno parte di questo verso altre varianti alternative che si trovano appuntate sul margine inferiore: “(Che indovinar non può rozzo pastore. Che saper non / conviensi ad un. Che ignoranza nasconde a noi pastori)”. Queste furono tutte escluse, forse perché potevano risultare non adatte a far comprendere il vero senso della semplicità del pastore volto alla ricerca di un’armonia con la natura. Infatti come in parte si è già visto, Leopardi attribuiva al suo pastore non quella ch’egli stesso definisce “ignoranza fattizia”, ma al contrario l’ “ignoranza naturale”, secondo le differenze che si possono rinvenire nello Zibaldone in un pensiero giovanile a pagina 421: “S’intende però un’ignoranza la quale serva di fondamento alle credenze, giudizi, errori, illusioni naturali, non a quegli errori che non sono primitivi e derivano da corruzione dell’uomo, o delle nazioni. Altro è ignoranza naturale, altro ignoranza fattizia. Altro gli errori ispirati dalla natura, e perciò convenienti all’uomo, e conducenti alla felicità; altro quelli fabbricati dall’uomo. Questi non conducono alla felicità, anzi all’opposto, com’essendo un’alterazione del suo stato naturale, e come tutto quello che si oppone a esso stato”. Successivamente, al v. 80 (siamo nel recto della quarta carta) vi è la variante alternativa non realizzata “(queta)”, posta sopra il testo dell’autografo tramite un cuneo rovesciato. Probabilmente fu preferita la lezione originaria “muta”, perché poteva essere accostata al rimanere in silenzio della luna di fronte alle risposte del pastore. Infatti Giuseppe e Domenico De Robertis associano muta a silenziosa del v. 2 e a solinga del v. 61. La variante non accolta “queta” deriverebbe, come spiega lo stesso Leopardi alle pagine 1992 – 1993 dello Zibaldone, dal latino quietus, participio perfetto del verbo latino quiescere, che si qualifica come altro caso di participio con valore aggettivale, discendendo da quel verbo latino (quiescere) i verbi italiani quietare e quietari: “Or questi verbi il Forcellini gli spiega quietum facere pacare tranquillare. E veramente questa è la significanza del nostro quietare, quetare, chetare, acquetare, acquietare, acchetare. […] quietus da quietarsi, posarsi, fermarsi, passò finalmente a significare, come oggi significa, restare, dimostra(ndo) che il latino quietare o quietari fu, se non presso gli scrittori, certo presso il volgo, un puro e manifesto continuativo di quiescere, non solo nella forma, ma anche nella significazione.”.

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Evgenja Arbugaeva paesaggio dell’Asia, foto

Ai vv. 81, 82 e 83 si hanno varianti alternative inserite dentro il testo, per cui si potrebbe pensare che siano state scritte contemporaneamente ai versi. Esse sono: “(in giro da lont.)” al v.81, descritta da Giuseppe e Domenico De Robertis come una variante tecnica e illustrativa della lezione accolta“in suo giro lontano”, la quale insieme al deserto piano del verso precedente dovrebbe richiamare l’idea della vastità. Al v. 82 le varianti alternative sono: “(dianzi a me)”, che si trova nel manoscritto in mezzo a “Ovver” e “con la mia greggia”, non realizzata per la resa del settenario in luogo dell’endecasillabo; “(torma)”, altra variante non accolta rispetto alla lezione del testo “greggia”, e definita da Giuseppe e Domenico De Robertis “vocabolo polizianesco”, per cui si consideri il pensiero giovanile in Zib. (59) del Leopardi sull’uso della lingua da parte dei poeti del Cinquecento, tra cui anche Poliziano: “Quella miserabile lussuria di epiteti, sinonimi, riempiture, chevilles, ec. che forma il comunissimo orpello de’ nostri classici cinquecentisti (e credo anche del Poliziano) […] non si trova o più rara assai in Dante e nel Petrarca dove anzi trovi una misuratezza infinita di parole e castigatezza di ornati e significazione conveniente e opportunità di tutte le voci”. Tale giudizio andrebbe inquadrato nella più ampia valutazione di Leopardi sull’uso della lingua italiana nella letteratura, perfetto negli autori del Cinquecento, che però non si siano serviti di eccessivi preziosismi linguistici e stilistici derivati dalla lingua latina, causando enigmaticità e difficoltà, perfetto tra l’altro in quel secolo solo nei prosatori e non nei poeti: la questione è ben esposta in una serie di appunti (pp. 690 – 701) dello Zibaldone, da cui si cita: “Il cinquecento è sempre perfetto modello della buona lingua italiana a tutti i secoli. Diranno che anche nel Trecento accadeva lo stesso. […] Giacché noi diciamo che i trecentisti scrivevano bene […] e indistintamente tutto quello ch’è del trecento, o imita e somiglia la scrittura di quel secolo, si approva e si dice bene scritto, perché appartiene al trecento.[…] Io so e dico che la usava [la scrittura] bellissima, e do ragione e lodo quelli che colle debite restrizioni e condizioni fanno degli scrittori del trecento i modelli o il fondamento e la sorgente della buona lingua italiana di tutti i secoli. Quest’autorità l’hanno avuta tutti i padri di tutte le buone e belle lingue (come della latina ec.) […] non già per capriccio o pregiudicata opinione de’ successori, ma per la forza della natura che operava in quei padri effettivamente, e perché la natura è la massima fonte del bello. […] Il trecento ebbe tre o quattro letterati famosi, ma nel resto ebbe non letteratura ma ignoranza. Quello però ch’io dico, sarebbe molto più riconosciuto in Italia e fuori, e si giudicherebbe meglio, e con maggiore convincimento, quanto sia vero che il cinquecento sia l’ottimo ed aureo secolo della lingua italiana […] Collo studio, e la giusta applicazione delle norme greche e latine lo stile del cinquecento generalmente aveva acquistato tal nobiltà e dignità, e tant’altra copia di pregi, che quasi era venuto alla perfezione, eccetto principalmente una certa oscurità ed intralciamento, derivante in gran parte dalla troppa lunghezza de’ periodi, e dalla troppa copia delle figure di dizione […] vizio tutto proprio di quel secolo, il quale voleva forse con ciò dare al discorso quella gravità che ammirava ne’ latini, ma che si doveva conseguire con altri mezzi […] vizio provenuto anche dal soverchio studio dei latini, la cui imitazione è pericolosa per questa parte ancora, come per le trasposizioni. […] Del resto quello ch’io dico della perfezione di stile nei cinquecentisti si deve intendere dei prosatori, non dei poeti. […] I difetti dello stile poetico di quel secolo, anche negli ottimi, sono infiniti, massime la ridondanza, gli epiteti, i sinonimi accumulati (al contrario delle prose) ec. […] E non è dubbio che Dante e Petrarca (sebbene non senza gran difetti di stile) furono nello stile più vicini alla perfezione che i [poeti] cinquecentisti […]”. Dunque “torma” non accolto perché, in accordo con le proprie valutazioni sulla lingua dei poeti del cinquecento, Leopardi lo considerava forse meno poetico rispetto a “greggia”, di cui si trova nello Zibaldone (p. 3723, 18 Ottobre 1823) una spiegazione linguistica della voce latina da cui deriva: “Grex monosillabo, significante un’idea primitivissima, e radice di più voci semplici e composte, come congregare ec.”, appunto associandola ad immagini primitive (da cui scaturisce la poeticità).

eclissi sole 5Altra variante alternativa è “(Preceder)” al v.84, che si trova tra “Seguirmi” e “viaggiando”, non accolta perché, secondo l’opinione di Giuseppe e Domenico De Robertis, si allontanerebbe eccessivamente dall’appunto giovanile di Zib (23) in cui è anticipata una delle parole della lezione definitiva“Vedendo meco viaggiar la luna”. Al v.85 si ha nell’autografo, disposta su due righe, la lezione “Questi pensieri in mente / Vo rivolgendo, assai gran tempo, e dico:”, che si ritrova uguale nella stampa fiorentina (F31), ma non nelle napoletane (sia in N35, che in N35c), nelle quali è registrata la differente lezione “Dico fra me pensando:”, che occupa un solo verso. Giuseppe e Domenico De Robertis definiscono la lezione di AN e F31 come “rallentante didascalia”, offrente quasi una spiegazione delle azioni di pensare e parlare del pastore, e intravedono una somiglianza con “Queste cose vengo pensando fra me stesso”del Dialogo di Cristoforo Colombo e Pietro Gutierrez, frase “contrastante con la semplicità dell’eloquio (non dell’immaginazione e del turbamento) del pastore” e forse mutata per tal motivo in N35. Si potrebbe anche congetturare che a Leopardi non dispiacesse la rima venutasi a realizzare tra pensando e profondo del v.87. Più oltre, al v. 88, si registra una prima stesura “Che fan l’aure infinite, e quel profondo”, in cui Leopardi cancellò la “n” di “fan”, passando dal plurale al singolare “Che fa”, soppresse “aure”, di sapore aulico, trascrivendogli sopra il più comune “aria”, modificò ancora il plurale “infinite” nel singolare “infinita”, per ottenere la stesura “Che fa l’aria infinita”. A questo punto, forse non totalmente sicuro di voler abbandonare la parola più aulica, scrisse accanto ad “aria” la variante alternativa “(aere)”, comunque non accolta: la scelta rimase sulla voce più popolare, secondo una linea di pensiero vista precedentemente. Giuseppe e Domenico De Robertis suppongono inoltre che il passaggio al singolare sia motivato dalla possibilità di render più facilmente l’idea di “vastità”, rinforzata tra l’altro dalla presenza degli aggettivi “infinita” accostato ad “aria” e “profondo”. Alla fine e a fianco del verso si ha anche la variante alternativa non realizzata “(A che)”, che avrebbe potuto avere forse l’intento di formare un parallelismo con la stessa espressione del verso precedente “A che tante facelle?”. Legate a questo e al verso successivo, vv. 88-89, sono due righe di varianti tra parentesi, tutte non accettate: “(Che fan quelle profonde regioni del ciel? che montan, / vaglion, queste ec.)”: Gavazzeni individua sotto la “m” di montan una “v” e l’associa al probabile inizio di scrittura della parola “vaglion”, che fu appunto inserita dopo, nel rigo seguente; Giuseppe e Domenico De Robertis sostengono che le varianti alternative “montan” e “vaglion” sono state scartate perché il plurale “Solitudini immense” era stato sostituito dal singolare “Solitudine immensa”. Queste varianti alternative e il verso a cui fanno riferimento alludono ai quesiti che il pastore va ponendo, alla ricerca del senso della “Solitudine immensa”, a cui egli non può ottenere risposte concrete, ma solo limitarsi a percepirle tramite sensazioni indefinite e vaste, per cui si spiegherebbe la presenza di più vocaboli afferenti all’idea d’indefinito, posti molto vicini tra loro e nella stessa sequenza che gli stessi hanno nei versi 4-6 dell’ Infinito: infinito – infinita – immensa. Si potrebbe aggiungere che in tutto il Canto notturno questo tipo di parole si trovano concentrate nella quarta strofa: infinito ricorre prima al v.72 e poi al v.88; infinita al v.87; in questo stesso verso ricorre anche profondo; al v. 89 si ha immensa, che però si riscontra anche al maschile nel v.35 immenso. In fondo alla carta, a fianco del v.96, del appare la variante alternativa non realizzata “(E girar)”, preferendo il poeta la lezione “girando”, a cui Giuseppe e Domenico De Robertis attribuiscono “valore, quasi, predicativo”, riferendosi ad “ogni terrena cosa” e svolgendo il gerundio le funzioni di un participio. Al v. 99, sul verso della quarta carta dell’autografo, un’altra variante alternativa è “(Immaginar)” non accolta nel testo, preferendo l’autore la lezione “Indovinar”, perché forse sentita più adeguata al disorientamento dell’uomo di fronte al mistero dell’universo. Infatti, secondo un appunto dello Zibaldone, “esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono”, per cui la variante “Immaginar” non sarebbe stata forse coerente con la logica della strofa, che rappresenta il pastore incapace di cogliere “uso alcuno, alcun frutto” del perché della vita, permettendo invece la fantasia di accostarsi a quei misteri, seppur illusoriamente attraverso l’immaginazione. Infatti, di fronte all’arcano il pastore non può far altro che “indovinar”, presupponendo l’immaginazione un’intesa con la natura, che non doveva intravedersi in questi versi. Giuseppe e Domenico De Robertis fanno riferimento ad un gruppo di pensieri dello Zibaldone (pp. 3238 – 3245), dove Leopardi spiega bene il privilegio dell’immaginazione di recare barlumi di armonia con la natura , ad esempio si cita “Perocché tutto ciò ch’è poetico si sente piuttosto che si conosca e s’intenda […] Spetta all’immaginazione e alla sensibilità lo scoprire e l’intendere tutte le sopradette cose; [si sta riferendo ai misteri della natura] ed elle il possono, perocché noi ne’ quali risiedono esse facoltà, siamo pur parte di questa natura e di questa università che esaminiamo; e queste facoltà nostre sono esse sole in armonia col poetico ch’è nella natura. […] E siccome alla sola immaginazione ed al cuore spetta il sentire e quindi conoscere ciò ch’è poetico, però ad essi soli è possibile ed appartiene l’entrare e il penetrare addentro ne’ grandi misteri della vita, dei destini, delle intenzioni sì generali, sì anche particolari, della natura”. Interessante risulta la successiva variante alternativa “(Malinconica luna, intendi)” al v. 100, pensata come possibile scelta in luogo di “Giovinetta immortal”.

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Evgenia Arbugaeva Weather_man

Lo studio della Lorenzini rivela come la parola “malinconica” ricorra solo una volta nei Canti leopardiani (appunto in questo caso), oltretutto allo stato di variante, supponendo che non doveva essere tra le predilette del poeta. Infatti, dopo aver condotto una serie di analisi su alcuni appunti dello Zibaldone (pp. 15-20, 79, 170, 1473), la studiosa ritiene che il “malinconico” dovesse essere per il poeta di Recanati qualcosa di diverso dal “patetico”, in quanto non afferente alla sfera delle sensazioni e delle emozioni (queste proprie del patetico appunto), ma ad un’altra legata alla cultura, al progresso e all’incivilimento, e perciò lontana dalla natura; Leopardi stesso definisce la malinconia come “sensibilità moderna”. E proprio appartenendo al mondo moderno il disorientamento, la mancanza di punti di riferimento, di appigli per resistere alla forza travolgente del nulla, la luna diviene in questo canto l’emblema della solitudine dell’uomo moderno, perché con il suo silenzio è l’interlocutrice di un dialogo a senso unico e “mito inarrivabile e algido”. Ad essere accolta fu la lezione originaria “Giovinetta immortal”, forse perché in parallelo col v. 37, in cui la luna è appellata vergine, e col v. 57 in cui è intatta, e perché il suo essere “immortale” , contrapponendosi alla mortalità dell’uomo e alla sua sfera di conoscenza ed esperienza fortemente limitate, conferma quell’indecifrabilità dei segreti del cosmo al pastore.
Nel verso seguente si trova la variante alternativa “(O cara luna)” non ammessa nel testo perché, secondo la posizione di Giuseppe e Domenico De Robertis, avrebbe fatto venir meno il rapporto che lega la conoscenza del pastore (conosco) alla sfera dei sensi (e sento). Infatti quest’ultimo verbo (sentire) viene collegato da Leopardi alla sensibilità dell’uomo, al complesso dell’ emozioni dell’animo, come si può evincere dai numerosi appunti nello Zibaldone riguardo gli studi linguistici sull’area semantica di “sentire”, la sua provenienza latina e i suoi derivati. In particolare nella pagina 3826, nell’ambito di un discorso linguistico sulla derivazione latina dei nomi in –bilis dai supini in –tum, si legge che il sostantivo latino sensibilis e il suo contrario insensibilis, afferenti alla sfera di significato dei sensi,derivano dal supino sentitum, a sua volta valutato in un’altra pagina(2200) “antico part. sentitus [del verbo “sentire”] (regolarissimo), in vece di sensus (anomalo)”,provenendo questo da “sensi (anomalo); perché non dunque quello da sentii (regolare come audii)?”.

Si passerà ora all’analisi delle varianti della quinta strofa, retrocedendo fino alla seconda carta dell’autografo, avendo questa il suo inizio all’ottavo rigo del recto. Al v.110 Leopardi aveva inizialmente scritto nell’autografo “Ch’ogni tuo rischio o danno”, con accanto la variante alternativa tra parentesi tonde “(Che so ben ch’ogni danno)” non accolta nel testo; poi soppresse “tuo rischio o”, sostituendolo con la lezione trascritta sopra “stento, ogni”, che secondo Giuseppe e Domenico De Robertis rendeva “quel male come meno accidentale”, forse perché il vocabolo “rischio” ha una sfera di significato che rinvia all’ “eventualità di subire un danno connessa a circostanze più o meno prevedibili”. Un’altra ipotesi, legata ad un passo dello Zibaldone, si potrebbe formulare su “rischio”, che non sarebbe stato forse molto adatto se riferito al gregge, in quanto in alcuni appunti del Giugno 1822 Leopardi dà una sorta di valutazione della vita come “già condannata o alla sofferenza o alla nullità”, dalla quale soltanto può scaturire la possibilità di aver piacere alla presenza di un seppur infimo beneficio, mentre se al contrario si sopravvaluta la vita, il dolore è assicurato. Il “rischio” sembrerebbe essere quello di vivere la vita come già avviata al dolore se si vuole “godere di qualche cosa”, ma effettivamente è applicabile soltanto all’uomo che non dimentica mai tale “rischio” di considerare la vita sofferente, mentre l’animale, dopo aver placato i fastidi naturali e non indotti da riflessione, può dimenticare ogni sofferenza e riposare gaiamente. Si veda il passo in questione e come effettivamente esso sembri riguardare soltanto l’uomo: “Finché si fa conto de’ piaceri e de’ propri vantaggi, e finché l’uso, il frutto, il risultato della propria vita si stima per qualche cosa, e se n’è gelosi, non si prova mai piacere alcuno. Bisogna […] considerar la propria vita […] come già perduta, o disperata, o inutile, come un capitale da cui non si può più tirare alcun frutto notabile, come già condannata alla sofferenza o alla nullità, e mettere tutte queste cose [cioè la vita come sofferta e disperata] a rischio per bagattelle, e con poca considerazione, e senza mai lasciarsi cogliere dall’irresoluzione neanche nei negozi più importanti, nemmeno in quelli che decidono tutta la vita, o di gran parte di essa. In questo solo modo si può goder di qualche cosa.”.

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eclissi di sole

Dunque “rischio” di un’esistenza di sofferenza, valida forse soltanto per l’uomo, al quale non è semplice come per gli animali obliare la realtà del dolore. La sostituzione “stento” sembrerebbe meglio caratterizzare il mondo animale in quanto delineerebbe una “pena, sofferenza, difficoltà del vivere, soprattutto per mancanza delle cose necessarie” e non un dolore su cui l’uomo medita costantemente. D’altra parte il termine “rischio” ricorre nei primi versi della terza strofa proprio in riferimento all’uomo e allo stato straziante della sua vita: “Nasce l’uomo a fatica ed è rischio di morte il nascimento”, proprio “qui avendosi riguardo solo all’infelicità dell’uomo, da quando nasce”. Inoltre l’uso, il frutto presenti in quell’appunto dello Zibaldone sono riutilizzati da Leopardi proprio nel Canto notturno al v. 97 (“uso alcuno, alcun frutto”), con chiasmo, con il medesimo significato di “utilità, vantaggio”, esito, profitto. E si noti che proprio la voce “frutto” ricorre otto volte nei Canti con tale accezione: Il passero solitario v. 48, Le ricordanze v. 83, Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia vv. 70 e 97, La quiete dopo la tempesta v. 33, Il pensiero dominante v.84, Palinodia al Marchese Gino Capponi v.276, Il tramonto della luna v. 37.
Al v. 117 è verosimile pensare che il poeta avesse per prima trascritto “Dolcemente consumi in quello stato”, aggiungendo poi le parentesi a “Dolcemente”, così declassandolo a variante alternativa, e inserendo sopra con il solito segno di rinvio “senza noia”, che sarà accolto nel testo definitivo. Giuseppe e Domenico De Robertis ipotizzano una correlazione voluta da Leopardi tra il “senza noia consumi” che così si forma e il Coro dei morti al v. 13, dove si ha “senza tedio consuma”. Tale sostituzione potrebbe anche essere motivata dalla possibilità della nuova lezione di evidenziare il motivo dello stato privilegiato del gregge rispetto a quello del pastore e degli uomini (appunto l’assenza di tedio).

Spostandoci nel manoscritto al verso della seconda carta, all’inizio del v. 121, secondo la ricostruzione di Gavazzeni, Leopardi aveva prima trascritto “Sì che”, trasformato poi in “Sicchè”, per tornare infine all’idea originaria, cassando la prima parte della parola “Sic” e riscrivendogli sopra “Sì”, eliminando anche l’accento sulla “e” finale. Al verso seguente si rintraccia semplicemente una “o” trascritta su una precedente “e” tra “pace” e “loco”, così da imprimere una forte disgiunzione e rafforzare forse l’impossibilità per il pastore di accedere a quello stato di quiete riservato al gregge. L’ultimo verso di tale strofa registra un gran numero di varianti alternative, tanto da occupare quattro righe del manoscritto. Innanzitutto Leopardi avrebbe trascritto “Me, se in ozio mi poso”, ponendo accanto, forse nello stesso istante, anche le varianti alternative “(ne l’ozio e il riposo; su, fra, l’. o riposo. S’io giaccio in, e, riposo)” e rifinendo il verso con il successivo “il tedio assale?”. Allora avrebbe pensato di scartare la prima lezione, cassandola e sostituendola con quella che diventerà definitiva “s’io giaccio in riposo”, prendendo probabilmente ispirazione dal gruppo di varianti prima elencate. Tuttavia altre varianti alternative e tutte non portate avanti sono registrate nei due righi successivi: “(Me tosto ov’io mi poso, in sul riposo, allor ch’io poso, compagno al riposo. A me l’ozio e ‘l. A l’uomo l’ozio.)”. Si ha in queste varianti non realizzate l’alternanza tra “poso” e “riposo”, che come già detto derivano dalla medesima radice greca. Giuseppe e Domenico De Robertis pongono la lezione accolta in parallelo con ozioso del v. 130, e forse si aggiungerebbe anche in contrapposizione, delineando rispettivamente l’uno stato d’afflizione per il pastore e l’altro stato di tranquillità per il gregge.

eclissi luna 1

Eclissi di luna

Un’altra supposizione si potrebbe avanzare sulla scelta di accostare le parole “riposo” e “giaccio”, che forse insieme veicolerebbero il significato di “morire”, ma inteso metaforicamente. Come già detto, il “riposo”, che presuppone la quiete e l’assenza di movimento, se poteva essere così un momento di piacere e tranquillità per il gregge, la stessa cosa non accadeva al pastore per il sopraggiungere della noia, causa di sofferenza ed elevata insoddisfazione; infatti la noia che deriva dal “giacere in riposo” è definita nelle pagine 2220-2221 dello Zibaldone “morte nella vita” , “morte sensibile”, “il nulla dell’esistenza”, “e il sentimento di esso e della nullità di ciò che è, e di quegli stesso che la concepisce e sente” nell’ambito dell’antitesi che Leopardi pone tra morte naturale che riguarda il corpo e quest’altra “morte sensibile” ancor peggiore. Si legga al proposito: “le morti e le distruzioni corporali non sono altro che trasformazioni di sostanze e di qualità, e il fine di esse non è la morte, ma la vita perpetua della gran macchina naturale, e perciò esse furono volute e ordinate dalla natura. […] le bestie non sanno che sia noia, né desiderano attività maggiore ec. L’uomo si annoia, e sente il suo nulla in ogni momento. Ma questo fa e pensa cose non volute dalla natura. Quelle viceversa.”, in cui si considera la noia come uno stato di afflizione più grande della stessa morte, in quanto innaturale e riservata ai soli uomini. Inoltre il verbo “giacere” è utilizzato parecchie volte nell’accezione, anche se non metaforica come in questo caso, di “perire”: Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze,vv. 19 – 22 e 24 – 25; Consalvo,vv. 1 – 2 e 5 – 6; Le ricordanze,v. 157; Aspasia,vv. 70 – 71. Si segnala che ricorre anche con altro significato, che non tale morte metaforica, proprio nello stesso Canto notturno, potendo forse rientrare in quella contrapposizione tra il riposo sereno e tranquillo degli animali e quello infastidito e afflitto del pastore, ai vv. 129 – 132

Dimmi: perché giacendo / A bell’agio, ozioso, / s’appaga ogni animale; / Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?”.

Giungendo alla sesta strofa, che, come si è detto, sarebbe stata scritta dopo tutte le altre, questa occupa la metà e l’ultima parte del verso della quarta carta, prendendone tutte le righe rimaste e un pezzo di margine inferiore. La prima variante alternativa della strofa è al v. 137, accanto alla lezione “di giogo in giogo” e a questa facente riferimento: “(monte, balza)”, non realizzata. Giuseppe e Domenico De Robertis notano che questa variante alternativa proviene dal verso 1 della lirica CXXIX di Petrarca“Di pensier in pensier, di monte in monte”. Leopardi sembrerebbe qui prediligere una parola più “pellegrina”, derivata dal latino iugum, per indicare “la cima di monte” con “accrescimento di distanza”. Si potrebbe proporre la congettura che tale scelta sia stata messa in correlazione all’ ipotesi di felicità che si realizzerebbe solo nel caso impossibile di diventare una forza della natura (quindi una rara o addirittura irrealizzabile felicità), volendo così il poeta lasciare alle parole un’immagine di quanta più grande lontananza. Ma la voce “giogo” potrebbe essere stata preferita anche per concordare con il tono solenne della strofa: infatti parrebbe il poeta applicare una sorta di criterio “della lingua conveniente a quel genere, a quello stile, a quel luogo della scrittura”, di cui egli stesso parla nello Zibaldone; tale vocabolo tra l’altro è raro nei Canti se si considera che delle sei volte in cui ricorre due sono concentrate nel solo verso 136 del Canto notturno; oltretutto con tal medesimo significato (monte) si ha nel v. 276 de La Ginestra (il bipartito giogo), mentre con altra accezione si rinviene in Aspasia vv. 102 – 103 (E spezzato con esso, a terra sparso / il giogo: onde m’allegro.); nei Canti, Leopardi impiega le altre due volte il vocabolo al plurale (gioghi): Alla Primavera,v. 26 con significato di “monti” (i ruinosi gioghi) e Inno ai Patriarchi,v. 58 (i nubiferi gioghi). Per quanto riguarda l’utilizzo del “pellegrino” in poesia, realizzato in questo caso proprio per la rarità della voce “giogo”, si legge nello Zibaldone “Per noi italiani è grandissima fonte di eleganza l’uso di voci o modi latini, presi nuovamente da quella lingua, in modo che sieno pellegrini; ma non però eccessivi né come pellegrini, cioè per la forma troppo strana ec. ec né come troppo frequenti latinismi”. Il resto delle varianti in questa strofa si trova negli ultimi due versi: il penultimo, il v. 143, presentava nella prima stesura “Stato che sia, qual s’è covile o cuna,”con “qual s’è” cassato (sia le parole che l’apostrofo e l’accento) e su trascritta la lezione sostitutiva “dentro”. Inoltre viene aggiunta sopra il testo una variante alternativa non realizzata “(paese)”, mentre accanto se ne trovano altre, anch’esse non accolte “(terreno, foresta, ec.)”; sotto queste vi è un altro gruppo di varianti alternative “(dentro qual nido)”. Anche qua, come prima, Leopardi sembrerebbe scegliere per questa strofa vocaboli di sapore “pellegrino” in luogo di quelli più “consueti”, per concernere il luogo e il “momento della nascita”: covile deriva infatti dalla radice del verbo latino cubare, a cui Leopardi dedica parecchi appunti nello Zibaldone in quanto lo stima verbo continuativo da cumbere. Se ne trovano ottime spiegazioni alle pagine 2814 – 2815, dove sono elencati anche i suoi composti: “cubare co’ suoi composti accubare, incubare, decubare, secubare, recubare, ec. il significato de’quali è manifestissimamente continuativo di quello di cumbere (inusitato, fuorché nella voce cubui ec. e cubitum che ora s’attribuiscono a cubare) incumbere, accumbere ec…”.

Oltre che nel verso in questione del Canto notturno, il vocabolo “covile” col significato di luogo in cui dimorare, in particolare per gli animali, si trova in altri due Canti, ossia ne La vita solitaria al v. 73 e ne La ginestra al v. 23, essendo quindi voce rara e “pellegrina”.“Cuna”, derivato dal latino cūna,con significato molto simile a covile, viene impiegato, a conferma della bellezza della sua rarità, ovvero del suo sapor “pellegrino”, solo una volta nei Canti (appunto in questo verso del Canto notturno), mentre un altro utilizzo si riscontra nei Versi Puerili, I nuovi credenti al v. 85.

eclissi galassia

galassia

Nell’ultimo verso della sesta strofa sono tracciate altre varianti alternative non realizzate “(E′ misero)”, in possibile sostituzione a “E′ funesto”,e “(in cuna)”. Nel primo caso, si potrebbe pensare alla preferenza della lezione originaria “funesto”, ritenuta più adatta a delineare una realtà di dolore universale. Infatti Giuseppe e Domenico De Robertis citano un appunto dello Zibaldone alla pagina 2671,in cui Leopardi riportava un pezzo dal Voyage du jeune Anacharsis, proprio perché in esso si accomunava il giorno della nascita ad un dolore intenso: “le jour de la naissance d’un enfant est un jour de deuil pour sa famille”, potendo forse così creare una sorta di contrapposizione tra il “dì natale” e il suo essere “funesto”, richiamando questa parola un’idea di tragicità e morte, essendo “causa di dolore e di lutto”, sfumature che sarebbero andate perdute nell’alternativa “misero”. L’aggettivo “funesto” col significato di “luttuoso” Leopardi nei Canti lo impiega anche in A un vincitore nel pallone,v. 47, Bruto minore,v. 78, Sopra un bassorilievo antico sepolcrale,v. 51. La variante alternativa “in cuna” non fu realizzata forse perché lo stesso vocabolo ricorreva nel verso precedente, generando altrimenti ridondanza; infatti fanno notare Giuseppe e Domenico De Robertis che la presenza del “dì natale” rispetto a “nasce” già ripete per confermare proprio lo stesso concetto di inizio della vita, quasi con “sentenza inesorabile e istantanea”, per cui quell’ “in cuna”, evidenziando ulteriormente tale immagine, sarebbe stato meglio evitarlo. Un’osservazione che si potrebbe fare sulla sesta strofa dell’autografo riguarda la minor presenza di varianti divenute testo per sostituzione e cancellazione rispetto alle altre strofe (una soltanto “dentro”), supponendo che, in base alle considerazioni tracciate precedentemente, questa lassa, ultima e definitiva, fu scritta di getto nel pieno dell’ispirazione, volendo Leopardi lasciare alle parole ivi inserite il messaggio finale del Canto notturno. Un’altra considerazione si potrebbe fare a partire dall’accostamento realizzato da Savoca tra i primi versi della sesta strofa, con il miraggio a divenir volatile, e lo stesso desiderio manifestato nell’ Elogio degli Uccelli. Se forse il poeta compose la strofa dopo aver provato la gioia del rileggersi, si potrebbe pensare che egli si trovasse in una fase di rilettura non del solo Canto notturno, ma anche di altre sue opere. Tra queste, appunto, l’Elogio degli Uccelli, Operetta Morale composta nell’ottobre-novembre 1824, nella quale gli uccelli vengono considerati, tra tutti gli animali, i più felici: “Sono gli uccelli naturalmente le più liete creature del mondo […] volendo dire che sentono giocondità e letizia più che alcuno altro animale”. Essi provano questa gioia perché la natura li ha dotati del “canto” e del “volo” e “del privilegio che ha l’uomo di ridere: il quale non hanno gli altri animali”. Dunque se la strofa quinta si concludeva con la beatitudine della greggia, Leopardi, rileggendo forse l’Elogio degli Uccelli, poteva rendersi conto di quanto fosse limitata quella in confronto ad un’altra provata da quella particolare categoria di animali, più felici di tutti, perché “lo stato ordinario degli altri animali, compresovi ancora gli uomini, sì è la quiete: degli uccelli, il moto.”. Agli uccelli è attribuita la bellezza del “moto”, da collegare forse al vagabondare delle popolazioni nomadi di cui si è parlato, e del “volo”, che permette loro di “godere” ed “essere felici”. Inoltre così come il primo verso della sesta strofa rilancia il sogno del poeta di possedere ali e volare e cantare beato come un volatile, allo stesso modo l’Elogio degli Uccelli si conclude con una simile speranza, pronunciata dal suo protagonista, il filosofo Amelio: “io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita.”.Le varianti alternative presenti nella sesta strofa potrebbero testimoniare una sorta di abbozzo di voci meno ricercate rispetto a quelle accolte, le quali sono mirate alla resa del “pellegrino”, affinché conferiscano alla lassa e al canto di cui essa è degno finale il grado di poeticità che merita. Difatti, per Leopardi la poeticità scaturirebbe dalla “proprietà”della lingua, ossia dalla sua “originalità” rispetto alla contaminazione con altre, ma rispetto anche alla corruzione con altre tipologie del discorso diverse dalla poesia; ancora la poeticità deriverebbe dalla capacità della lingua di esprimere immagini e idee vaghe, vaste e indeterminate. Al proposito si cita la pagina 820 dello Zibaldone, in cui Leopardi dichiara che la ricchezza e la poeticità di una lingua possano insorgere solo se questa attinge alle sue fondamentali caratteristiche, senza prender nulla da altre: una lingua si “chiamerebbe barbara se contro l’indole sua, volesse adottare e accomodarsi all’andamento di una lingua migliore più bella […] Insomma barbarie in qualunque lingua non è né la mancanza di qualsivoglia pregio, né quello che contraddice all’uso corrente, ma quello solo che contraddice all’indole sua primitiva, per conservar la quale ella deve conservarsi anche meno pregevole, se tale è la sua natura, perché i pregi essendo relativi, sarebbe vizio e bruttezza in lei, quello ch’è virtù e bellezza in un’altra, se si oppone alla sua natura in cui consiste la perfezion vera.”. E per Leopardi la lingua italiana era proprio ricca di infinite possibilità e vasta, specialmente quando attingeva a “quella purità e antichità, a quel peregrino in cui consiste l’eleganza”, i cui elementi sono indispensabili per l’armonia della lingua della poesia.

Conclusioni

Dall’analisi dell’autografo e delle sue varianti si è cercato di cogliere il movimento di pensiero del poeta nel comporre la lirica, guidato forse dall’esigenza di intuire il senso dell’incognito ordine che governa l’universo e dei meccanismi misteriosi della natura. Questo lo si potrebbe ravvisare dalla vicinanza in cui, in AN, si trovano le due strofe di riflessione cosmica, la quarta e la sesta, esprimendo queste la possibilità “di una conoscibilità solo poetica di essa natura”. Ed infatti le stesse scelte operate dall’autore sulle varianti sono dirette all’espressione della poeticità. Ed infatti si sono viste prediligere in alcuni casi voci più popolari perché probabilmente più vicine alla natura, dal momento che “prima fonte del bello è la natura, la quale a nessun altro genere di uomini parla sì vivamente, immediatamente, e frequentemente, e da nessuno è così bene, e felicemente, e così al vivo e propriamente espressa, come dal volgo.”. In altri casi la preferenza è data a vocaboli “pellegrini”, il cui grado di poeticità proverrebbe dalla loro stessa rarità e dalla loro provenienza dal “terreno medesimo della lingua nazionale”, in quanto voci discendenti dal latino (e “l’italiano è derivato dalla corruzione del latino”),essendo il latino per Leopardi lingua vicina alla natura, perché antica. D’altra parte, un anno prima della composizione del Canto notturno, nel settembre del 1828, Leopardi aveva formulato, nello Zibaldone alle pagine 4372-4373, una “dichiarazione di poetica all’insegna della natura”, sulla scia di quella relativa al “«dittare» d’amore” espressa da Dante nel XXIV canto del Purgatorio:

“Il poeta non imita la natura: ben è vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca. I’ mi son un che quando Natura parla, ec. vera definiz. del poeta. Così il poeta non è imitatore se non di se stesso. (10. Sett. 1828). Quando colla imitaz. egli esce veramente da se med., quella propriam. non è più poesia, facoltà divina; quella è un’arte umana; è prosa, malgrado il verso e il linguaggio. Come prosa misurata, e come arte umana, può stare; ed io non intendo di condannarla.”. Con queste parole il poeta di Recanati dichiara che la poesia non è tanto imitazione della natura, ma è natura essa stessa, che diviene “verso e linguaggio” quando ispira il poeta. In questo caso allora la poesia è “facoltà divina”, perché è generata dalla natura, e solo in questo caso ha la dote di suscitare immagini dolci e illusoriamente felici all’uomo, permettendogli di volare in alto, liberandosi momentaneamente dalla sua perpetua infelicità.

Nella direzione di un’intesa con la natura, si potrebbero inoltre giudicare la figura del pastore, che cerca attraverso il canto un’intesa con la luna (specchio della natura), e il canto stesso, elemento lirico di antica tradizione (come si è visto nel primo capitolo il canto è legato alle usanze dei Kirghisi e connesso anche alla “tradizione orale dei poemi omerici”) grazie al quale è possibile accostarsi alla natura. Ed infatti nel canto è operante un bisogno di armonia con la natura e con l’ordine che governa l’universo, una ricerca che non ha sbocchi o soluzioni se non per via ipotetica nella sesta strofa, dove è presente uno spiraglio di luce, anche se solo illusorio, dopo la negatività del verso finale della strofa che nell’autografo immediatamente la precede,“A me la vita è male”. Quella seppur minima apertura si potrebbe provare ad accostare ad un passo(pp. 4258 – 4259) dello Zibaldone, datato 21 Marzo 1827:

“Se noi non possiamo giudicare dei fini, né aver dati sufficienti per conoscere se le cose dell’universo sien veramente buone o cattive, se quel che ci par bene sia bene, se quel che male sia male; perché vorremmo noi dire che l’universo sia buono, in grazia di quello che ci par buono; e non piuttosto, che sia malo, in vista di quanto ci par malo […] Astenghiamoci dunque dal giudicare, e diciamo che questo è uno universo, che questo è un ordine: ma se buono o cattivo, non lo diciamo. Certo è che per noi, e relativamente a noi, nella più parte è cattivo […] Se di questi mali particolari di tutti, nasca un bene universale, non si sa di chi; […] se vi sia qualche creatura, o ente, o specie di enti, a cui quest’ordine sia perfettamente buono; se esso sia buono assolutamente e per se; e che cosa sia, e si trovi, bontà assoluta e per se; queste sono cose che noi non sappiamo, non possiamo sapere; […] Ammiriamo dunque quest’ordine, questo universo: io lo ammiro più degli altri per la sua pravità e deformità, che a me paiono estreme. Ma per lodarlo, aspettiamo di sapere almeno, con certezza, che egli non sia il pessimo dei possibili.”.

Si intravede la possibilità, per “creature” o “enti” differenti dal genere umano, che l’ordine naturale sia “buono”, e la relatività nel giudicare benigno o maligno tale ordine, così come nella sesta strofa si rilanciava quell’ipotesi di essere felici volando e divenendo un tutt’uno con la natura, subito messa in dubbio, come se Leopardi volesse aprire un varco misterioso sul senso di tale ordine, che però l’uomo non può conoscere in modo esatto e a cui può solo tentare di accostarsi tramite la poesia, l’immaginazione e il canto.

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Roberta Costanzo

 

 

 

Roberta Costanzo è nata a Catania dove vive. Il brano riportato fa parte della sua tesi di laurea sulle Varianti nella poesia di Giacomo Leopardi.

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Giovanni Testori (1923-1993) “POESIE (1965 – 1993)”, Mondadori, 2012 – Poesie tratte da”Nel tuo sangue” (1973) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa “Testo teatrale piuttosto che poetico”

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Il quadro politico italiano bloccato

Giovanni Testori nasce il 12 maggio 1923 a Novate Milanese. Nel 1941 pubblica, firmandosi Gianni Testori, i primi scritti d’arte su “Via Consolare”, rivista legata al gruppo di Pattuglia, e, sempre per le Edizioni di Pattuglia, nel 1943 escono La morte, Un quadro, i suoi primi testi teatrali e l’introduzione a Manzù, Erbe. Scrive anche un saggio su Henri Matisse per Goerlich di Milano. Inizia la sua attività di pittore. Nel 1947 si laurea in Lettere e Filosofia all’Università Cattolica di Milano, con la tesi “La forma della pittura moderna”, in un primo tempo respinta, perché ritenuta non degna di essere discussa in quella università, in quanto filo modernista, e poi riproposta da Testori con l’espunzione delle parti contestate.
L’anno successivo va in scena al Teatro della Basilica di Milano il suo primo testo teatrale, Caterina di Dio, interpretato da una giovane Franca Valeri. Nel 1949, in seguito all’intervento della Sovrintendenza ai monumenti, Testori cancella gli affreschi, commissionati dai Padri Serviti e raffiguranti i quattro evangelisti, che aveva realizzato nel 1948 per la chiesa di San Carlo a Milano.
Si dedica anche al teatro: nel 1950 scrive Tentazione nel convento e va in scena al Teatro Verdi di Padova, con la regia di Gianfranco De Bosio, un altro suo testo teatrale, Le Lombarde.
Nel 1952 inizia la collaborazione con “Paragone”, la rivista diretta dal grande critico d’arte Roberto Longhi, con un saggio su Francesco del Cairo che crea discussioni e polemiche. Nel 1953 partecipa all’organizzazione della mostra “I pittori della realtà in Lombardia” presso il Palazzo Reale di Milano.
Nel 1954 pubblica nei “Gettoni” di Einaudi, collana diretta da Elio Vittorini, la prima opera narrativa, Il dio di Roserio, incontrando un buon favore da parte della critica.
Intensifica il suo lavoro di critico d’arte: nel 1955 organizza la mostra sul manierismo piemontese e lombardo del Seicento che si tiene a Palazzo Madama a Torino r al Centro culturale Olivetti di Ivrea, e l’anno successivo quella su Gaudenzio Ferrari a Vercelli.
Nel 1958 pubblica, per Feltrinelli, la raccolta di racconti Il ponte della Ghisolfa che apre il ciclo I segreti di Milano. Il libro vince il premio “Puccini-Senigallia” e ottiene subito un grande successo di pubblico. Anche Luchino Visconti si ispira ad alcuni racconti del volume per la sceneggiatura del film Rocco e i suoi fratelli.
giovanni testori 2

giovanni testori

L’anno successivo presenta una seconda raccolta di racconti, La Gilda del Mac Mahon, e organizza la mostra su Tanzio da Varallo, uno dei suoi artisti prediletti, al Palazzo Reale di Torino.
Nel 1960 va in scena, al Piccolo Teatro di Milano, con la regia di Mario Missiroli e protagonista Franca Valeri, La Maria Brasca, terzo quadro della serie “I segreti di Milano”.
Nel 1961 pubblica il suo primo romanzo, Il Fabbricone, e la monografia d’arte Elogio dell’arte novarese. L’anno successivo entra a far parte della redazione della rivista “Paragone”.
Nel 1965 raccoglie tutti gli studi dedicati a Gaudenzio Ferrari in Il gran teatro montano, pubblicato da Feltrinelli. Pubblica inoltre il poema I Trionfi.
Nel 1967 organizza la mostra “Ceruti e la ritrattistica del suo tempo nell’Italia settentrionale”. Va in scena al Teatro Quirino di Roma, con la regia di Luchino Visconti, La Monaca di Monza, anche in questo caso accompagnato da polemiche e da presunti dissapori tra il regista e lo scrittore.
Nel 1969 esce da Feltrinelli il testo teatrale Erodiade. Ritorna ad occuparsi del Sacro Monte di Varallo e pubblica lo studio dedicato alla “Cappella della Strage” del Paracca.
Nel 1974 ritorna, dopo più di dieci anni, a pubblicare un romanzo, La Cattedrale.
Nel 1975 scrive l’introduzione alle Rime di Michelangelo Buonarroti per la BUR Rizzoli.
Nel luglio 1977 muore la madre, Lina Paracchi, e inizia a scrivere Conversazione con la morte, a lei dedicata. Inizia a pubblicare articoli di argomento etico-morale sul “Corriere della Sera”. In seguito sul quotidiano milanese dirigerà la pagina dedicata all’arte. Nel 1978 legge per la prima volta Conversazione con la morte, scritta inizialmente per l’attore Renzo Ricci, al Salone Pier Lombardo e poi in più di cento teatri e chiese di tutta Italia, sempre affollatissime di giovani. Inizia la collaborazione con un nuovo settimanale, “Il Sabato”, espressione del movimento di Comunione e Liberazione.
Nel 1979 viene rappresentato a Milano, nella chiesa di Santo Stefano, dalla Compagnia dell’Arca e con la regia di Emanuele Banterle, Interrogatorio a Maria, che diventerà un evento con rappresentazioni in duecento città e paesi italiani. Il 29 luglio 1980, a Castel Gandolfo, alla presenza dello stesso scrittore, Interrogatorio a Maria ha uno spettatore d’eccezione: Papa Giovanni Paolo II.
Nel 1980 assume la direzione della nuova collana Rizzoli “I libri della speranza”. Il primo titolo è un colloquio tra Testori e don Luigi Giussani, Il senso della nascita.
L’Anno successivo pubblica il monologo teatrale Factum est, in cui la voce di un feto che chiede di aver salva la vita trova una soluzione linguistica assai nuova e sperimentale. Il monologo viene rappresentato da Andrea Soffiantini, per la prima volta, alla chiesa del Carmine di Firenze.
Nel 1982 raccoglie gli articoli a carattere etico-morale pubblicati sul “Corriere della Sera” e sul settimanale “Il Sabato” nel volume La maestà della vita. Nel 1983 pubblica la raccolta di poesie Ossa mea.
L’anno 1985 è all’insegna della rivisitazione della lezione manzoniana, con una rilettura teatrale del capolavoro di Manzoni, I Promessi Sposi alla prova, che viene rappresentato al Salone Pier Lombardo dalla Compagnia Franco Parenti, con la regia di Andrée Ruth Shammah; protagonista, nel ruolo del Maestro, Franco Parenti, l’attore della “Trilogia degli Scarozzanti”. Nel catalogo della mostra “Manzoni. Il suo e il nostro tempo”, pubblica il saggio Ricordi figurativi del e dal Manzoni, un itinerario nelle opere d’arte che si ricollegano alla lezione del grande scrittore lombardo. Riceve il premio Renato Simoni. Una vita per il teatro.
Nel 1987 al Centre George Pompidou di Parigi viene allestita la mostra di disegni “Testori: Erodiade e la testa del Profeta”.
Nel 1988 pubblica il romanzo In exitu, a cui ha lavorato dal 1982, la via crucis di Riboldi Gino, un giovane drogato che grida contro la nuova indifferenza di Milano in una versione ridotta alle esigenze del teatro, il testo va in scena al Teatro La Pergola di Firenze, con la regia dello scrittore, protagonisti Franco Branciaroli nel ruolo di Riboldi Gino e Testori stesso in quello dello “scrivano”. Tiene al Teatro Out Off di Milano un ciclo di tre lezioni sul proprio lavoro, intitolato “La parola, come”.
Nel 1992 esce il romanzo Gli angeli dello sterminio, in cui Testori racconta l’Apocalisse di Milano.
Giovanni Testori muore il 16 marzo 1993 a Milano. La sua ultima testimonianza viene affidata a un’intensa intervista televisiva di Riccardo Bonacina, trasmessa dalla RAI nei giorni precedenti la morte.
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giovanni testori aldo-moro nel bagagliaio della Renault-via-fani

aldo-moro nel bagagliaio della Renault-via-fani Roma 1978

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Testo teatrale piuttosto che poetico
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Le poesie qui citate sono tratte dalla raccolta Nel tuo sangue (1973). A livello stilistico si rinviene la tipica deformazione espressionistica e una stilematica proposizionale da monologo interiore o flusso di coscienza con rime alternate, baciate e intrecciate con i tipici effetti percussivi, ripetizioni, parallelismi, anadiplosi. Davide Rondoni nell’introduzione, richiama le affinità, da Iacopone a Rebora, da Petrarca a Caproni, ma, a parte le affinità vicine e lontane, del tutto discutibili e, a mio avviso, infondate, il flusso di coscienza poetico di Testori  proviene senz’altro dalla crisi di una coscienza cattolica davanti alle risultanze di una società laica sempre più secolarizzata ed estranea al magistero guida della Chiesa. Scandalo e sconforto, disperazione e angoscia sono le polarità in cui si inscrive questa «poesia lirica», caratterizzata da una forte componente espressionistica e drammatica di derivazione confessionale. C’è un eccesso di spiritualizzazione che nuoce alla resa estetica in quanto prodotta come segmentazione di un sovrappiù di eccitazione emotiva; inoltre, la spiritualizzazione ha, da sempre, in poesia, posto un ostacolo all’attingimento di una resa oggettiva, alla oggettivizzazione artistica. Il lettore ha la sensazione di assistere ad uno spettacolo di un’anima in eruzione e alla spettacolarizzazione di un’anima in piena confessione di verità. Si avverte il tinnire di stoviglie di un confessionalismo rabbioso e scabroso. Testori usa la forma-poesia per uno scopo allotrio, per veicolare lo spettacolo di un’anima scissa, lacerata, vulnerata e per pascersi con un sottile compiacimento in essa. Ma, così facendo cade nel pacchiano, nel luogo dell’anima bella disperata e vulnerata. Così operando, esce fuori dalla forma-poesia per attingere il registro ed il genere della affabulazione teatrale di una coscienza martire e martirizzata. Evidente appare la estraneità di questa poesia alla tradizione della poesia italiana del secondo Novecento, incentrata com’è sulla identificazione, tipica della poesia liturgica e spiritualista, tra voce narrante ed estroflessione dello spirito vulnerato. Con tutto quel gusto cattolico del sangue in esposizione e del dolore dell’anima vulnerata e fustigata. Testo teatrale piuttosto che poetico, adatto alla declamazione attoriale dove infatti le doti di Pino Censi eccellono. Nel tuo sangue fu accolto dallo scetticismo e dall’indifferenza della critica. Era un libro a suo modo eretico, trasversale al genere poetico, a suo modo etico, e anche difficilmente intellegibile allo spirito della insorgente civiltà secolarizzata con tutto quel travaglio interiore messo a nudo, per quel crucifige cui si sottoponeva l’autore con tutti gli abiti e gli alibi della disperazione religiosa in bella mostra. A rileggerlo oggi, l’impressione è quella di un affabulatore da teatro piuttosto che di un autore di poesia. Non dimentichiamo che Testori prenderà il posto di Pasolini sulle colonne del “Corriere della sera” nel 1975, quindi un intellettuale istituzionale che contrassegnava un ritorno all’ordine con interventi discutibili nelle tesi spiritualisteggianti, troppo frontalmente negazioniste della nuova realtà del paese che tumultuosamente cercava una via di uscita dallo stato di minorità democratica di un quadro politico partitico bloccato. Era il tempo della strategia della tensione e delle stragi, dell’austerità che seguiva la fine del boom economico, del grande consenso del P.C.I. nelle elezioni del 1975 entro un quadro politico, dicevamo, ermeticamente bloccato. In quel quadro storico, con il suo abito negazionista della via italiana alla modernizzazione del paese, la voce poetica di Testori appariva manifestamente fuori luogo, e forse anche fuori tempo con i suoi crucifige, con la fustigazione dello spirito in mostra. Uno spirito religioso turbato, questo sì.
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giovanni testori agguato-via-fani Roma

panoramica dell’agguato-via-fani Roma

http://it.radiovaticana.va/news/2016/03/03/teatro_della_misericordia_nel_tuo_sangue,_di_testori/1212636

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 Giovanni Testori testi tratti da “Nel tuo sangue” (1973)

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Se è bestemmia
pensarti inesistente,
non Ti chiedo pietà.
Davanti a Te
che ritenevo Dio,
alzo come un pugno
la mia idiota realtà.

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Sono caduto sotto il mio stesso peso.
Non avevo su di me nessuna croce.
“Perché mi lasci?” ha urlato la mia voce.
Parlavo a Te non come Dio,
parlavo al Cristo venduto,
al Cristo sanguinante, perduto.
S’era scomposto Dio nei frammenti del caso,
s’era disfatto come il mio niente,
più atroce e indifferente verso me
del mio stesso io.

1

Nell’ora della mia prossima agonia
potremo finalmente batterci,
Te, luce falsa, ed io.
Tu non sarai più Dio,
sarai soltanto un grumo di sale,
un segno d’unzione sulla fronte.
Poi riderò sfrontato
e Ti dirò:
T’ho vinto,
T’ho spappolato.

.
Gigantesca menzogna,
fandonia sulla fronte,
bacio traditore del profeta
che, senza volerlo, nel cranio
stai marchiato
finalmente, ridotto a un mormorio,
Ti vedrò crollare
abbacinato.

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Se un’ alba o una mattina
di colpo a me riapparirai
con la Tua immane storia
di redenzione ed omertà
a Te riservo
come estrema Tua felicità
la mia fine suicida.
Allora Tu non avrai neppur la forza
di stendere sulla Tua vana eternità
una smorfia di pena e di pietà.

.
T’ho amato con pietà
con furia T’ho adorato.
T’ho violato, sconciato,
bestemmiato.
Tutto puoi dire di me
tranne che T’ho evitato.
Ma Tu non parli,
non dici.
Sei il Dio sordo;
il Dio muto.
Per illuderci di poterTi parlare
Ti sei dovuto incarnare.

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Non è più la nebbia
e nemmeno la vanità della memoria,
è la pena d’aver creduto
che agli uomini fosse possibile
la storia.

.
La storia è possibile
solo a Te che non esisti.
Anche se falsa
la menzogna della Tua voce
è più vera
d’ogni nostra croce.

.
Chi ha distrutto la mia pace
sei stato Tu,
la Tua falsità.
Avessi creduto anch’io
all’inumana omertà
avrei accettato la Tua incarnazione,
questa vile, idiota,
sanguinante delazione.

.
M’aspetti nel buio
come un’affamata prostituta,
come un ladro m’azzanni
nei riposi difficili e ansiosi.
Mi riporti nel letto privo ormai di lui
le Tue stigmate affrante.
Che cosa mi domandi?
Che accetti di baciarle,
di rotolarmi su Te
come facevo sul suo ventre
di figlio delicato,
sulla sua carne,
d’arcangelo rubato?
É lui
non Te che amo.
È lui
il dio vero
il dio giusto
il dio sano.

 

giovanni testori libri

giovanni testori

Tu sei il Dio marcio,
il Dio incarnato.
Sei il Dio Cristo,
il Dio sangue,
il Dio peccato.

.
Sarò me stesso,
sarò vero,
sarò presente,
quando Tu come Dio
sarai per sempre assente.

.
Perché hai gridato
che Ti lasciava
se era Tuo padre
e T’amava?

.
Non ha salvato la storia
la Tua deità.
T’illudi forse di poter salvare
con la Tua umanità
la vegetante bestia
della nostra omertà?

.
La sola passione vitale
è il caso,
la forza d’una natura bestiale
che trasforma in possibile grembo
ogni taglio, ogni umana ferita,
anche se la vita, la povera vita
non ne sarà mai partorita.

.
Anche in Te c’è stato
lo sai
qualcosa di muto e bestiale.
Ti dicevi nato
da una luce celeste.
Eri un figlio che bruciava
la sua stessa natura
nella rivolta della vita futura.

Hai voluto morire come uno
che volesse qualcosa dimostrare.
Ma Tu dovevi soltanto
vivere e amare.

Se come Dio volevi veramente soffrire
dovevi scegliere
un luogo più vile e segreto per morire.
Dovevi fare come le vipere e i cani
che scelgono i posti
più inaccessibili e vani.
Il Tuo sangue non sarebbe stato mai visto
bevuto, mangiato
e nessuno per odio T’avrebbe scordato

Hai presunto di non esser stato mai
veramente figlio
per poter inventare anche Tu
senza carne il Tuo giglio.

.
II

Il giglio inventato
è quello che hai scelto,
amato, lasciato.
É quello che per un’uguale rivolta
da Tua adolescente, fedelissima scolta
s’è fatto profeta del tempo
che era prima ancora di Te,
il tempo senza luce ed ardore,
il tempo che attende
il messia traditore.

.
Ha bruciato quel tempo
nell’incendio della Bestia trionfante.
Ha visto come ogni amante lasciato
che niente più resta
quando chi ama da noi se n’è andato,
soprattutto se, invece d’un maschio violento
o d’un angelo pio,
è un falso, orribile Dio,

.
L’hai amato più degli altri.
Sul desco della Cena
appoggiava la sua guancia
al Tuo volto.
Non era solo una predilezione,
era un’atroce, carnale
peccatrice dedizione.

.
Perché nel dolore
Te lo sei tenuto vicino?
Era il figlio, l’amante?
Era il carnale festino,
il tranello preparato anche a Te
dal destino?

.
Quando dormivi accanto a lui
che accadeva?
Chi muoveva per primo
nel silenzio
i lenzuoli?
Non eri Socrate.
Non puoi barare.
Eri un Dio da stringere
e amare.

L’hai lasciato senza padre
ai piedi della croce.
Mentre morivi
che nome urlava
se non il suo
la Tua voce?

Sulla croce
dagli occhi offuscati dalla morte
vedevi ancora la sua carnale beltà.
Dov’era in quel punto
la Tua superba deità?

.
In che prato,
in che via di perduti
l’hai raccolto?
E perché,
dopo averlo innalzato,
in un’isola
d’orrenda empietà l’hai avvolto?

.
Ha letto i numeri indecifrabili, atroci;
le rose ha ridotto a demenza.
Quello che per Te
era pietà o clemenza
nel Libro increato
s’è aperto nell’unica luce
d’universo insensato.

.
T’aveva baciato
aveva bevuto il Tuo segno
il Tuo sangue.
Quando poi l’hai lasciato
è stato per odio
non per amore
che, invasato,
ha visto la fine
della Tua incarnazione,
l’universo incendiato
e ogni Dio contraddetto,
negato.

.
Mentre Tua madre
sveniva,
s’è avvicinato al tuo ventre.
T’ha sfiorato,
baciato.
Cosa volevi di più?
Nessuno
è stato amato così.

.
Ha raccolto l’ultima goccia
del sangue di Te,
l’ha portata alle labbra,
l’ha tenuta nella sua giovane bocca,
l’ha ingoiata, mangiata.
È stata la comunione unica,
vera.
La Tua chiesa non l’ha vista:
non c’era.

 

giovanni testori Gli-angeli-nascosti-di-Luchino-Visconti-

Gli-angeli-nascosti-di-Luchino-Visconti sul set

Ha sfiorato
i piedi trafitti.
Ha tentato per l’ultima volta
di farTi gli occhi riaprire.
Forse voleva vederTi
sorridere ancora;
ancora voleva
che la Tua umana tristezza
si trasformasse
in divina allegrezza.

.
L’allegrezza silente, carnale
che assieme al cristallo
della Tua atroce deità
aveva trafitto
la sua adolescente,
indifesa beltà.

É stato così
che l’hai vinto.
È stato così che di Te
come Dio
l’hai incinto.

.
III

Hai lasciato anche Tu
sulla neve di quel lontano Natale
una rosa di sangue,
un liquido sconcio e fetale

.
Anche Tua madre
ha gridato.
S’è afferrata alla mangiatoia
quando dal ventre
le uscivi.
Sapeva anche lei
che nascendole Cristo
come Dio le morivi?

.
Solo Tua madre ha capito
l’incomprensibile affanno
di sapere che la sua gioia
era già il nostro danno.
Il danno d’un figlio
che si voleva carne di Dio
nel suo grembo
di serva povera oscura;
un figlio che conosceva da feto
la Sua vita futura.

.
Quando Tua madre
Ti stendeva sul grigio giaciglio
baciava suo figlio
o un mostro atroce e divino,
una carne di pane e di vino?

.
Apriva la veste,
Ti dava il suo latte casto ed antico.
Eri ancora suo figlio
o eri già il suo nemico?

.
Del ventre di mia madre
ricordo il tepore
d’un immenso dolore.
Del grembo della Tua
ricordi il suo povero amore
o invece il Tuo disumano furore?

.
Quando succhiavi il suo miele
pensavi di già
al sapore del fiele?
Hai desiderato anche Tu
d’esser chiuso
dentro il suo ventre,
di restarvi feto marcio
per sempre?

.
Che sarebbe accaduto
dell’umana pietà?
Chi avrebbe incarnato
la vergogna
della Tua carità?

.
Quando con le gengive
il suo seno mordevi
era la pace o la morte di lei
che volevi?

.
Se il sangue è il Tuo segno
La morte è il Tuo regno.

.
Non è Dio chi copula
con la carne e la morte.
Non è Dio chi solo a trent’anni
apre le sue povere porte.

.
Dovevi essere il Dio vero,
il Dio liberante e liberatore.
Sei diventato il Dio schiavo,
il Dio amante, il Dio traditore.

.
Appoggi vicino a me
nel sonno
il Tuo cranio avvolto di spine.
Ti unisci
anche ai Tuoi nemici.
La Tua fame
non ha mai fine.

.
Accarezza con la mano
la sua fronte.
Il sangue che scende da Te
versalo solo su me.
Nessun maschio,
nessuna donna, nessuna prostituta
m’ha inseguito così.
Sei rimasto fermo allo stesso punto.
Ti credevo perduto:
eri lì.

.
Hai rincorso nell’erba
una donna, un’amante?
Hai inseguito qualche bestia ardente,
divina?
Hai portato una vita
che era anima e carne
in qualche oscura cantina?

.
Sei entrato nel letto
furtivo come un amante.
Dovevi sapere che chi ama
domanda la carne per violarla,
baciarla,
non per stroncarla, umiliarla,
negarla.

.
Se allunghi una mano su me
è perché io brucio di Te.
Ma di Te io non brucio.
Di Te sento solo pietà.
Sei un Dio che per avermi
s’è fatto morte, sangue,
viltà.

.
Dovevi accettare il rifiuto
come fanno gli sposi,
gli amanti.
Perché,
ridotto a un feto
di spine e di sangue,
mi ritorni davanti?

.
Che vuoi che Ti dica?
Di prendermi,
entrar nella carne, nel sangue?
La Tua ostia
da tempo ho allontanato da me.
Il vino che la Tua chiesa m’offriva
era una lussuriosa ironia.

.
A chi ho amato
ho dato da bere
con gioia e dolore
il sangue e la carne di me.
Così lui ha fatto con me.
Tu cos’hai fatto di Te?

.
Avessi potuto bere anch’io
non il simbolo vano dell’ultima Cena,
ma il resto che sui chiodi e sui legni
s’era aggrumato di sangue,
sarei diventato un tuo figlio,
un tuo amante.
Così sono un padre
che ha generato suo figlio
con la carne degli altri.
Pel resto
sono un orfano cieco,
demente, vagante.

.
Non è vero.
La croce non si rinnova.
Chi non ha bevuto quel sangue
non potrà berlo mai più.
Chi non è stato Tuo amante
sarà per sempre un passante.

.
Se Ti chiedessi
di stringerti a me,
d’aprire la bocca
incrostata di sangue;
se Ti chiamassi
come si chiama un amante,
resteresti,
fuggiresti da me?
Rispondi.
Non è una diffida.
È l’ultimo dado da trarre,
è l’ultima sfida.

.
La bocca,
la saliva,
il sangue così triste
che m’hai dato…
La ferita sul costato,
il segno come il suo delicato
che alla madre T’aveva legato…
Perché non sei restato soltanto Grazia?
Perché sei diventato anche Peccato?
Hai accettato l’abbraccio.
Hai accettato la voce
che chiama gli amici,
gli amanti.
Sei andato più avanti.
Poi m’hai guardato,
m’hai detto:
non esiste peccato.
In quel punto
eri ancora Dio
o mentivi
per illudermi
che io fossi ancora io?

.
M’hai atteso.
M’hai cercato
nei ritrovi più infami.
Quando infine
ho accettato il Tuo invito
sapevo già
che non m’avresti guarito.
Volevo solo provarTi
che potevo sconciarTi,
gettarTi su un letto,
baciarTi anch’io
come carne di Te,
come Dio.

.
Ti sei levato
assetato,
affamato.
Non m’hai detto:
ti lascio.
Non m’hai detto:
t’ho amato.
Hai guardato lontano.
T’ho chiesto
se Cristo
era simile a Te.
M’hai risposto:
chi è?

.
TogliTi la toga.
Fatti vedere nudo,
ferito, sconciato.
Fatti vedere
come sei nato.
Adesso che di nuovo
come in un furto
T’ho abbracciato,
T’amo più di quando pensavo
che fossi il Dio vero,
il Dio eterno e incarnato.

.
La Tua nudità
è tenera, sconcia,
febbrile.
Sei un angelo,
un animale divino,
una bestia sconfitta
da porcile.

.
Ritrovo in Te
i suoi occhi,
la sua castità.
Non dovevi provarmi
questa Tua parità.
Potrei di nuovo abbracciarTi,
stringerTi ancora di più,
umiliarTi,
strozzarTi,
provarTi che Tu non sei Tu.

.
Cosa mi diresti
in questo punto?
Accetteresti
d’essere ucciso
da chi T’ha cercato,
avvilito,
negato?

.
Non sarei Giuda.
Sarei chi uccide
colui che diceva
d’essere Dio.
Un delitto da strada,
un delitto da camera a ore.
Un delitto soltanto
d’impossibile amore.

.
Dopo un fallimento di Te
non resta che disprezzare ogni deità
e vivere nella disperata certezza
della Tua nullità.

.
É stabilito:
siamo un caso,
molecole di zucchero
che un fortuito accidente
ha nei secoli assommato.
Ma se è zucchero
il sangue di lui che ho amato,
che atroce, demente negazione
la rivolta di Cristo
v’ha incarnato?

.
Perché, se era zucchero anche lui,
non m’hai lasciato amarlo
da felice pagano?
Perché hai voluto che s’aprisse
anche tra lui e me
la ferita oscena,
l’oscena piaga di Te?

Il dolore più vero non si scrive.
È muto, imprendibile, increato.
Del Dio credibile e beato
resta solo la certezza
che lo zucchero facendoci
s’è sbagliato.

.
Ti sei intromessa
tra il suo bacio ed il mio
orrenda lingua di Dio.
Se vedendoTi apparire
come un incubo, un richiamo,
non Ti darò l’estrema gioia
di vedermi morire,
è perché qui c’è ancora lui che va
e va, sola mia pena,
più grande, più infinita di Te,
tigre dell’anima,
jena.

Sei zucchero anche Tu,
immensa storia di Dio.
Uno zucchero marcio come il suo,
come il mio.
Tu che attendi i Tuoi figli
all’ora soltanto della sorte,
getta su di me come sul toro
del segno che in me porto
il manto che copre
il vile, degradato morto.
Hai ancora bisogno
del mio corpo,
di me?
Quando potrò liberarmi
di Te?

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Giuseppe Conte POESIE SCELTE da “Poesie 1983-2015” Oscar Mondadori pp. 372 € 22 “Il progetto novecentista del poeta ligure”, il “Grande Progetto”, “La fuoriuscita dal Novecento”, “La funziona risarcitoria e salvifica della poesia”, con un Commento di Giorgio Linguaglossa

mimmo paladino matematica

mimmo paladino matematica

Nato nel 1945 a Imperia, Giuseppe Conte si è laureato nel 1968 all’università statale di Milano. A Milano per Feltrinelli pubblica nel 1972 il saggio La metafora barocca. Ancora a Milano pubblica la sua prima breve raccolta di poesie L’ultimo aprile bianco (Società di poesia, 1979) seguito dalla più ampia raccolta L’Oceano e il Ragazzo (Rizzoli, 1983). Insegnante di lettere in una scuola superiore di Sanremo, Conte si è dedicato sia alla traduzione (da Whitman, Blake, Shelley e Lawrence) sia alla narrativa nella quale dopo l’esordio con Primavera incendiata (Feltrinelli, 1980), pubblica Equinozio d’autunno (Rizzoli). Nel 1988 presso la Biblioteca Universale Rizzoli pubblica la raccolta di poesia Le stagioni. Negli anni Novanta, dopo aver abbandonato l’insegnamento intensifica l’attività in prosa con i romanzi: I giorni della nuvola (Rizzoli, 1990), Fedeli d’amore (ivi, 1993), L’impero e l’incanto (ivi, 1995) Il ragazzo che parla al sole (Longanesi, 1997) e Il terzo ufficiale (ivi, 2002); con i saggi: Il mito giardino (Tema celeste, 1990), Terre del mito (Mondadori, 1991) e Manuale di poesia (Guanda, 1995) contenente riflessioni sul comporre in versi; con le antologie poetiche: La lirica d’Occidente. Dagli inni omerici al Novecento (1990), La poesia del mondo. Lirica d’Occidente e d’Oriente (ivi, 2003). Ha pubblicato le raccolte poetiche: Dialogo del poeta e del messaggero (1992 e Canti d’Oriente e d’Occidente (1997) entrambe edite da Mondadori, seguite da Nuovi canti (San Marco dei Giustiniani, 2001). Nel 2015 esce il volume Poesie 1983-2015 negli Oscar Mondadori.

Mimmo Paladino

Mimmo Paladino

Commento di Giorgio Linguaglossa

Il progetto novecentista della poesia di Giuseppe Conte. Il Grande Progetto

Gli anni che hanno fatto seguito al ’68 hanno visto la poesia con la “p” maiuscola eclissarsi in un fenomeno di massa. Era accaduto che lo sperimentalismo aveva aperto i rubinetti dell’improvvisazione e dell’interludio. La poesia diventa un fenomeno di massa, col risultato che un sempre maggior numero di autori si auto definisce poeta, ci si comporta da poeti, si richiede la dicitura di poeta. E la poesia rinasce come «poesia-confessione», «poesia della contestazione», «poesia dell’opposizione», «poesia visiva» «poesia corporale», come se il sostantivo da solo non bastasse a designare quella cosa misteriosa che si traduce in tanti vestiti linguistici che replicano le mode del momento in base ad una eclettica euforia espressiva, esibizione narcisistica, stilematica postavanguardistica ormai priva dei freni inibitori dello stile. Il Postmoderno fa irruzione nella società di massa, massificando ed omologando anche la poesia, anzi, rompe gli argini della forma-poesia della civiltà letteraria che si stava congedando, quella, tanto per intenderci dei Montale, dei Pasolini, dei Luzi, per dar luogo ad una pseudolirica informe ed abnorme. Anche Pasolini e Montale contribuiscono, indirettamente e contro la loro volontà, a favorire questo processo col non-stile dei loro ultimi libri e l’adozione di un «parlato» pseudo giornalistico. La prima fotografia di questo pubblico di massa che bussa alle porte della poesia è datata 1975 con l’antologia Il pubblico della poesia, nella quale i giovani curatori, Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, inseriscono un gran numero di autori diversissimi per stile e per maturità poetica. Si narra che leggendo l’antologia, e le autopresentazioni degli autori inseriti, Fortini abbia detto che questi nuovi letterati gli sembravano un po’ simili ai pittori, ormai incapaci di dar ragione della loro opera e di inserirla in un orizzonte culturale. Come notò Berardinelli, era visibile una dimidiata coscienza critica degli autori inseriti, ciascuno di essi si credeva poeta per il solo fatto di esserci. Si era in presenza di una democrazia poetica del tutto autoreferenziale. I presupposti, come notò Mengaldo, “restano quelli di una poeticità privatistica ed effusiva”.

In questo contesto, l’autopromozione diventa una attività a tempo pieno per quegli autori che vogliono differenziarsi dalla massa, ad essi spetta il premio della canonizzazione editoriale, un cronachismo lirico sempre più pervasivo egemonizza la koiné poetica colta. La «poesia privatistica» e l’autoreferenzialità delle pose poetiche di molti autori di punta monopolizzano il gergo poetico che diventa qualcosa di refrattario al senso dei lettori e, soprattutto, diventa un linguaggio corpo separato, un linguaggio per iniziati da profferire durante il rito sacro della rappresentazione orale. I poeti diventano la personificazione di atti di fede, e si comportano anche come tali. Surrogano la un tempo rigorosa costruzione dei testi con atteggiamenti, pose, liturgie, conformismi. L’aura perduta del testo viene interpolata e sostituita dal mito dell’Autore. L’Autore diventa il testo.

Mimmo Paladino

Mimmo Paladino

È in questo giro di anni che si forma la personalità intellettuale di Giuseppe Conte. La reazione del giovane poeta alla democratizzazione della poesia  è immediata e perentoria: rifiuto della massificazione della poesia e la ferma decisione di riproporre una poesia esoterica, mitica, panica, mitomodernista, innica che saltasse la democrazia lirica del decennio precedente per riagganciarsi alla tradizione del D’Annunzio dell’Alcyone, al Foscolo mitico e neoclassico, insomma alla più alta tradizione poetica italiana. Organizza  numerosi episodi mitomodernisti, tra i quali ricordo il convegno “La nascita delle grazie”, un evento organizzato a Riccione dai poeti Giuseppe Conte, Rosita Copioli, Mario Baudino, Roberto Mussapi, Tomaso Kemeny e da Stefano Zecchi. Il poeta ligure ripristina e persegue una poesia che inglobi in sé il Mito e lo «spirito dell’utopia». Scrive Conte nel Manuale di poesia del 1995: «la scomparsa della poesia dalle società occidentali non testimonia una crisi della poesia quanto una patologia di quelle società stesse». Il Novecento è «un secolo di nulla e di morte» (Lettera, 2000), di qui la sua polemica contro quei critici, come Ferroni, che teorizzavano negli anni Novanta una «poesia postuma», Conte polemizza contro la povertà della poesia, contro la demitizzazione della poesia, scrive che «la poesia non è mai stata postuma» (Poiesis 1997), e rivendica per essa un ruolo di guida, una funzione alta. Le Muse «sono correnti di energia vivente che ci richiamano il brivido sacro da cui tutte le arti nascono, lo scandalo, la persistenza del divino nella nostra mente (…) il poeta incontra le Muse ed ha commercio con loro». (Manuale di poesia)

Il primo libro di Conte, L’oceano e il ragazzo (1983) viene salutato da Calvino e da Citati come un libro di svolta della poesia italiana. Vi si trova tutto quello che caratterizzerà la poesia del poeta maturo: il mito del mare e della gioventù, il mito della natura, della fauna dei boschi, il tema del vento etc:

Ho dimenticato tutto, scrivo
perché dimenticare è un dono: non
desidero più che alberi, alberi, prode
di vento, onde che vanno e tornano, l’eterno
rinascere sterile e muto delle
cose

Mimmo Paladino

Mimmo Paladino

È una novità per la poesia italiana. Il timbro delle parole musicali, la voce antica ed austera, la positura certo non demotica, il tono oracolare-prosodico, tutto ciò viene subito interpretato dai contemporanei quasi come un’offesa alla poesia che si faceva in quegli anni, perpetrata ai danni di un pervasivo sperimentalismo. E poi il giovane poeta non perde occasione per sostenere le proprie tesi, di entrare con decisione nelle discussioni sulla poesia, ovunque se ne dia una occasione. Oggi, con il senno degli anni trascorsi, sopite le polemiche di quegli anni, possiamo tracciare una quadro più ponderato della poesia di Giuseppe Conte. Quella poesia era una novità, ma una novità che guardava al passato, che operava uno strappo e una ricucitura con la tradizione recente. Oserei dire che, paradossalmente, la poesia di Conte diventa oggi riconoscibile per via della sua irriconoscibilità; la sua lirica endecasillabica che apparve negli anni Ottanta una provocazione, in realtà riecheggiava quella della alta tradizione del primo Novecento, Conte gettava a mare tutte le impalcature ideologiche che gli ingombravano il passo e si lanciava, lancia in resta, contro le disordinate retroguardie degli sperimentalisti e degli epigonismi rilanciando una funzione risarcitoria, salvifica della poesia di contro alla cultura della barbarie e dello scetticismo.

Il successo arride da subito alla controproposta di Giuseppe Conte che, in una certa misura, viene incontro ad un bisogno diffusamente sentito di reazione alla invasione del post-sperimentalismo. Inoltre, Conte è anche un abile regista di una guerriglia a tutto campo contro le parole d’ordine ormai consunte degli sperimentalisti. E anche questo è un punto decisivo a suo vantaggio, coopta nella sua battaglia per la Bellezza e il Mito una numerosa schiera di poeti e di letterati e ne diventa l’alfiere e il condottiero. Fin qui la strategia pubblica. Per la poesia il discorso da farsi è più sfumato, quell’endecasillabo sonoro e modulato che il poeta ligure adopera con perizia acustica, è il portato di una tradizione illustre, il prodotto di una tradizione lunghissima che affonda le proprie radici fino alle Rime del Petrarca. Non apre una nuova stagione della poesia italiana, piuttosto la chiude, prosciuga i pozzi della tradizione lirica traducendo quella forma lirica in forma lirico-prosodica. Alla fine, al poeta ligure resterà uno stile inequivocabile, distinguibilissimo, maturo, un endecasillabo articolato, ricco di aggettivi e di sfumature coloristiche e acustiche, che non può, però, più essere sviluppato dall’interno, uno stile che d’ora in avanti si prolungherà, oserei dire, grazie alla propria forza d’inerzia. Infatti, le poesie del primo libro non presentano elementi di distinguibilità rispetto agli inediti di questi ultimi anni posti in calce al volume, segno che non c’è stata una peristalsi interna, non si sono verificati sviluppi in quello stile mirabilmente acquisito.

Il mio gusto personale guarda con interesse e favore alla poesia dei Canti d’Oriente e d’Occidente (1997), in particolare nelle parti in cui il poeta ligure abbandona il suo endecasillabo sonoro per abbracciare una forma prosodica aperta, la forma innica però dimidiata con l’ausilio di un pedale basso, quasi prosastico, con il che fa scaturire attriti tra la frase nominale piana e diretta e l’andamento della forma innica che tende a far lievitare verso l’alto il tonosimbolismo della frase nominale. È il modo personalissimo con il quale Conte whitmaneggia e omereggia, assume la posa e la voce del bardo, gonfia il petto e parla gridando a pieni polmoni. Ecco l’incipit del poema «Oh Omero, oh Whitman”:

Oh Omero, oh Whitman, che cosa celebrare, e come posso io ora celebrare, oh mondo, oh notte!

Come posso alzare questa voce avvilita, come posso riempire le cavità dei miei polmoni rattrappiti

e farne due cieli gonfi di nuvole che volano e di foglie invase e rose dall’autunno

e dire «io sono il poeta, il distruttore, io sono il poeta, colui che salva»

e vedere ancora con quale elastica immobilità gli alberi sono intermediari tra l’azzurro e la terra

e mettere il loro ritmo nella carne e nel sangue di un verso – perché ha sangue e carne un verso –

e sentire le città che si offrono alla poesia come una bocca si offre a mille altre bocche in un bacio

e possedere le strade, le piazze, le automobili, le insegne della pubblicità, i grattacieli, le chiese

i ponti, le strade, le cupole, le colonne, i portici, i tetti, i grandi magazzini, i cinema

essere tutti i passanti, i negri, i cinesi, i maghrebini, gli indiani, i rasta, i vietnamiti, gli slavi

sentire tutto vivente come potrebbe essere se in noi la nostra anima cantasse ancora, oh mondo, oh notte!

E io, l’uomo più arido, più solo, io che non credo, io che conosco le vie della disperazione

e io, l’uomo più arido, più libero, io che non faccio nient’altro che fermare parole su un foglio

come potrò aggiungere le mie parole alla distruzione – perché la poesia è rovine, resti, ormai

Non sono d’accordo con chi, come Giorgio Ficara, nella prefazione al volume, individua nella poesia di Conte «una poetica ostinatamente antinovecentista», anzi, al contrario, direi che la ricerca del poeta ligure si è mossa ordinariamente tutta all’interno del Novecento, con l’accortezza di ritagliarsi un proprio segmento di esso che da D’Annunzio passa per Sbarbaro di Pianissimo al Montale degli Ossi rivisto e corretto tramite un «riduttore» narrativo ospitando il traliccio del racconto mitico, per arrivare ad un neoclassicismo tutto suo. C’è, è innegabile, una continuità novecentista, non vedo l’utilità ermeneutica di doverla negare o dimidiare.  E in questa continuità sta, a mio avviso, la forza e il successo del magistero stilistico di Giuseppe Conte. Indubbiamente, quel progetto stilistico di «uscire dal Novecento» (Poiesis, 1997) caldeggiato in più occasioni dal poeta ligure, rimarrà una nobile aspirazione, quel progetto di sortire fuori dal «conformismo dell’arco costituzionale della poesia italiana» (Poiesis, 1997), è rimasto un progetto incompiuto, e non poteva essere diversamente, in considerazione che la via imboccata e perseguita da Giuseppe Conte era tutta all’interno della poesia novecentesca. Per quel Grande Progetto è mancata la forza e la profondità dello strappo, ma, probabilmente, non poteva e non può un poeta singolo, anche il più grande, operare uno strappo di tale portata. Conte ha tentato una rifondazione del linguaggio poetico, ma i tempi non erano forse maturi per questo progetto. Siamo arrivati ormai ai giorni nostri, e quel Grande Progetto, lucidamente intravisto dal poeta ligure, è rimasto incompiuto ed attende ancora oggi chi possa incaricarsi di doverlo riproporre.                                    

Giuseppe Conte

Giuseppe Conte

Giuseppe Conte

Parole estranee a sua moglie

Saranno state le due le tre l’altra
mattina quando sono entrato nel letto e ti ho
parlato. Tu dormivi e ho premuto la
mia palpebra contro la tua calda. Volevo
dirti parole che ci sono estranee, quelle
dell’amore che eterna: era tragica
la mia resa: le regole del gioco cadute. Così dietro
le nostre palpebre non gli occhi, le orbite. Le
nostre dita di pietra i nostri fianchi fondali e
laghi i nostri piedi fluiti e ormai viticci
e nidi per le civette. Non saremo più
insieme. Non ne parleremo mai più. Futuri
venti soffieranno sulle nostre finestre dal mare
lontano noi saremo topi meduse
fiori.

Animali etruschi

Entrano nella morte con i capelli
raccolti dietro la nuca, in un sorriso
prosciugato, abbandonati
su un fianco, inclini a scendere
senza ricordi, hanno mani
estranee, cadute; in molti reggono
lo specchio dentro la destra.

entrano dove non si muore più. Traversano
buio e profondità. riaffiorano
sugli orli di un mare smosso da delfini
volanti, da draghi, da quadrighe
di grifoni.

Non fu un «uomo» questo che vedi sgretolato
in foglie, cortecce, calcinacci, intorno
a un teschio. Fu gioia senza nome, leggera,
di pietre, di ali, di sole.

*

Il grifone dal becco d’aquila, dal corpo
smagrito, più di cane che di destriero,
calato sul dorso del cervo tenero
lo divora.

Ha dorso arcuato il cervo, gambe
di canna. Cade eppure non piange. La sua corsa
finisce davanti al silenzio
di un albero – foreste
nascono da un solo albero, avrà acacie
d’oro e mattini per sé ancora.

Il grifone ha occhi vuoti, ali
ferme, randagio ma ormai di pietra;
non odia, non vuole nulla, non sa
perché: uccidere per lui è un sogno
inevitabile.

Che cos’era il mare

Che cos’era il mare? Aveva
code d’acqua e zampe d’acqua tra le
rocce, levigava i ciottoli, faceva
sigle di luce sulla sabbia: era
profondo ma insensibile, si diceva, e
celibe, individuale, sterile.
In onde riottose o calme
maree saliva e discendeva, circondava
le terre, lui lunare, lui freddo, irriducibile
nel suo votarsi al movimento e all’aridità.
Le navi lo solcavano in lunghe scie.
Ora si è persa la memoria delle tempeste
e dei fari, dei velieri e dei transatlantici, dei
naufraghi, dei carichi di porpora e
di carbone, di Tiro, di Londra.
Era profondo ma insensibile, si diceva, dimora
delle conchiglie, delle famiglie dei
pesci, estinte, ora: aveva fondali viscidi, crateri e
alghe, e coralli.
Tagliava i promontori, reggeva le isole.
Giocava, lui muto, sprezzante, inservibile,
felice nei suoi movimenti
vitali.

da L’Oceano e il ragazzo, Rizzoli, Milano, 1983

Giuseppe Conte cop

Riaverti

È così facile riaverti?
ritrovarti anche dopo l’abbandono
dopo che ti ho derisa, che ti ho detto
odiosa, e che imputavo a te la grazia
mancata di ogni carezza e di ogni bacio.
Oh, allora lo volevo essere un daino
solitario nell’alba, che sa puntare
le narici al tepore di calendula
dei primi raggi. E ti scacciavo, come
se tu fossi infedele al mio desiderio
tu che di tutti i desideri sai
la fonte. Ora sei tornata.
Sei nuova e sei con me, vicina,
anima.

da Dialogo del poeta e del messaggero, “Il Nuovo Specchio” Mondadori, 1992

Giuseppe Conte

Giuseppe Conte

Alle origini

Riaverti così, sentire
in me che tu sei simile
al vento e agli anemoni.
Alle origini. Riaverti
dopo il tempo dell’abbandono
dopo gli oltraggi e l’odio
senza pentimenti, senza perdono.
Sono stato lontano da te
per anni come uno che
vuole essere solo, più
solo di un muro diroccato
più immobile di un sasso
che non lambisce il mare.
Poi abbiamo incominciato a viaggiare.
Dove ci siamo incontrati,
anima? In che piazza di
città, in che prato,
in riva a che torrente?
E ora sei qui, da sempre
simile al vento, ai fiori, ai vulcani.
Alle origini.

da Dialogo del poeta e del messaggero, “Il Nuovo Specchio” Mondadori, 1992

In endecasillabi

A sedici anni, lettore poiché era giusto
allora soltanto di Catullo e di Shakespeare
scrissi per una compagna di liceo
versi come «Nessuna donna mai
fu amata tanto,/ quanto tu sei…»
Dio, non sapevo niente di donne, di amore.
Quella ragazzina bruna, dalle labbra
sporgenti, gli occhi grandi come
due albicocche, ci erano usciti tutti
con lei, fuorché io, il suo cantore.
Io la guardavo, sperduto. Come avrei
voluto abbracciarla, tempestarle
il capo di quel segreto che erano i baci.
Io la guardavo a scuola, per strada,
la domenica alla messa nella Chiesa
detta dai frati. Poi tornavo a casa, aprivo
i libri, Lesbia, Rosalinda, Ofelia
e lei, e i sogni su lei, in endecasillabi.

.
Pallide, cedevoli ragazze inglesi

Da ragazzo, quando mi apparivano
polvere e assurdo il mondo e il mio volto
né alberi né mare mi parlavano.
Non sapevo come chiamare
le agavi torreggianti, il rosso raccolto
in spighe dell’ aloe, non avevo
occhi per loro. Ma leggevo i poeti.
E amavo pallide, cedevoli
ragazze inglesi. Le sognavo nei quieti
e lunghi pomeriggi d’inverno, ricordavo
i baci ricevuti e quelli promessi
e se l’angoscia – quella ineludibile
angoscia d’esser vivi, cui forse è pari
soltanto la gioia in intensità –
se non mi soffocava allora, era per
loro, Mallarmé, Baudelaire,
per la loro musica vera,
e per le pallide, cedevoli ragazze inglesi.

da Dialogo del poeta e del messaggero, “Lo Specchio” Mondadori, 1992

mimmo paladino

mimmo paladino

C’è una dolcezza giù nella vita
IX
C’è una dolcezza giù nella vita
che non cambierei con niente
di ciò che appartiene al cielo.
È quando chissà da che, perché cominciano
fra due bocche estranee sino ad allora
i miracoli tiepidi d’aurora
dei baci.

da “Canti di Yusuf Abdel Nur”, in “Giuseppe Conte, Canti d’Oriente e d’Occidente”, “Il Nuovo Specchio” Mondadori, 1997

1

Non finirò di scrivere sul mare.
non finirò di cantare
quello che c’è in lui di estatico
quello che c’è in lui di abissale
la sua vastità disumana
senza pesantezza, senza un vero confine
la sua aridità senza sete, senza spine
le sue forme in perenne mutamento
sottomesse alle nuvole, al vento
e al cammino in cielo della luna.
Non ne conosco, non c’è nessuna
cosa più docile e più feroce
più silenziosa e più roca
più malleabile e turbolenta
di te, mare.
Ti piace contraddirti perché sei libero
e per i liberi. Ti piace ridere
sotto il bianco tiepido soffio del levante
ti piace saccheggiare con le libecciate
e piangere con nere palpebre tagliate.
Hai visto civiltà passare, quante?
Molto prima degli uomini e degli imperi
molto prima delle montagne e delle foreste
tu eri là.
Celebravi le tue solitarie feste.
Hai visto le triremi dei cartaginesi
le galee armate dai genovesi
numerose come stelle, alte come torri
le navi che portarono in Islanda
i vichinghi fuggiaschi che raccontò Snorri
Sturluson con le sue fisse metafore.
hai visto i polipi scindersi e gemmare
meduse su meduse nei fondali,
i naufraghi invano cercare
tra ghiacci e gorghi la salvezza
e non hai mai mosso un dito per loro,
hai accolto nel tuo silenzio buio i relitti,
li hai incrostati, protetti,
sei un vecchio padrone cinico
una madre troppo carezzevole
sei un amante incestuoso
sei un onanista, un asceta.

e se ti contraddici, è perché sei libero
e per i liberi, non hai dato all’uomo
la possibilità di recintarti, di venderti
di fare di te lotti, proprietà
hai dato fiori di luce senza frutti
hai dato ricchezze, hai dato lutti
ma mai tutto te stesso.
Di te nessuno può dire: sei mio.
Sei di tutti e di un esiliato dio.
Non servi, non ti inchini
se non alla legge delle maree
che un metronomo cosmico ha definito.
Ti amano i solitari, i lussuriosi
che trovano in te tutte le sinuosità
tutte le vischiosità del piacere
ti amano gli increduli, i cercatori
d’oro e di niente,
gli esseri tenuti in scacco da un insano
desiderio di conoscere l’eterno grazie al presente
ti amano i visionari, gli avventurieri,
tu non sei per chi è statico e appagato
ti amano i disperati, prigionieri
di un sogno che non si è mai avverato.

Inedito da Poesie (1983-2015) Oscar Mondadori 2015

Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino Gezim Hajdari 2015 Bibl Rispoli

da dx Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino e, a sx Gezim Hajdari Roma presentazione del libro “Delta del tuo fiume” aprile 2015 Bibl Rispoli

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi tra cui Nelly Sachs e alcune poesie di Georg Trakl. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma con Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto.
Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio PilatoMimesis, Milano Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000 – 2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e Three Stills in the Frame Selected poems (1986-2014) Chelsea Editions, New York. nel 2016 cura l’Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo, sempre nello stesso anno pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Ha fondato la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  – Il suo sito personale è: http://www.giorgiolinguaglossa.com

e-mail: glinguaglossa@gmail.com

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UN SONETTO di Luis de Gòngora (1582), tradotto da Luigi Fiorentino (1969), Giuseppe Ungaretti (1947), Raffaello Utzeri (2013) in una nuova edizione (EdiLet, 2015). Con una nota introduttiva di Raffaello Utzeri e alcune traduzioni del celebre Sonetto 228

Velazquez Las Meninas

Velazquez Las Meninas

EdiLet ha appena pubblicato – dopo “Tutti i Sonetti” di W. Shakespeare – la seconda uscita della collana CLASSICI, diretta dal Prof. Emerico Giachery. Si tratta di una preziosa “Antologia di Sonetti e Poemi” (196 pp., Euro 16) di Luis de Gòngora, tradotti dall’ispanista Luigi Fiorentino (di cui EdiLet ha già riscoperto le poesie, con il volume “Il compiuto discorso”, 2013). L’edizione originaria, ormai introvabile, datava 1970 per i tipi di Ceschina editore, Milano. EdiLet ha provveduto, in collaborazione con la vedova di Fiorentino, Francisca Cruz Rosòn, alla revisione e correzione del testo, che si compone di 32 Sonetti – fra cui il celebre 228Mientras por competir con tu cabello” – e di una nutrita selezione antologica dalla Fàbula de Polifemo y Galatea e dalle Soledades. C’è, ovviamente, il testo a fronte in lingua spagnola. Il paratesto comprende Cronologia, Bibliografia e Note critiche, a cura dello stesso Fiorentino. L’introduzione è di Raffaello Utzeri.

Gongora copertinaArgomentare diffusamente sul barocco letterario spagnolo non sembra indispensabile nel momento in si ripropongono i Sonetos e altri componimenti di Luis de Góngora nella magistrale versione italiana di Luigi Fiorentino, da tempo esaurita nella edizione milanese di Ceschina, datata 1970. Ci sembra infatti che il lavoro del nostro ispanista, accurato e competente quanti altri mai, costituisca per sé una testimonianza di coscienza critica, utile più di un saggio di carattere accademico, completato com’è da un apparato di note in cui ogni osservazione si amplia dal testo al referente poetico generale, il mondo del celeberrimo Autore. La serietà con cui Luigi Fiorentino affronta i problemi del tradurre viene testimoniata già nella sua prima nota: «La traduzione si è sforzata di mantenere la tipica struttura gongorina, conservando dove possibile anche le rime, ma tralasciandole quando per rincorrerle era necessario tradire lo spirito e la lettera dell’originale castigliano o ripiegare su forme arcaiche o termini apocopati».

Nel caso di Góngora, anche una discussione sul significato del barrueco sarebbe piuttosto sterile, dato che don Luis non fu complessivamente barocco, anche se in quello stile, in quella dimensione culturale ed esistenziale fu confinato. Il barocco letterario spagnolo, infatti, si può dire che fu più tipicamente rappresentato da personalità creative distanti e diverse da lui, come M. Cervantes, Lope de Vega, Calderon de la Barca. In realtà, i suoi confini Góngora li delimitò da sé curando l’eleganza, la precisione, la sonorità, la densità semantica dei suoi componimenti: dire che tutto ciò che è suo sia barocco per definizione sarebbe come voler sottrarre una parte del suo repertorio, soprattutto formale, alla classicità o al classicismo. Si potrebbe infatti audacemente definire Góngora classico per “sostanza” e barocco per “accidente” in quanto visse in, e per, un’epoca in cui le certezze del Rinascimento europeo si stavano lentamente ma decisamente consumando nel manierismo dilagante. Come si sa, il barocco è connotato da insicurezza e incertezza esistenziale. Gli artisti, a contatto con i “poteri forti” venivano per primi interiormente contagiati dall’instabilità politica, economica e sociale che nel secolo diciassettesimo non risparmiò nessun popolo e nessuno stato; poi trasmettevano alla società ragionamenti e valori, dominanti nelle corti e nelle cancellerie, dove conoscevano anche creatività e distruttività. Il Barocco conobbe anche suggestioni emotive. Sul piano psicologico spostava l’attenzione dalla pienezza e stabilità dell’Essere che si manifesta nel molteplice, alla precarietà del mutamento in continuo divenire, che fa apparire il vuoto nei cicli periodici di fenomeni mai uguali a se stessi. La paura del vuoto, quell’ “horror vacui” degli atomi dispersi nell’infinità del cosmo, già ipotizzato in metafora epistemica nel De rerum Natura di Lucrezio, produce il clinamen, la deviazione vorticosa di una reazione caotica: nelle Arti del disegno si manifesta come sovrabbondanza di ornamenti e figure tra linee curve; in poesia riempie la versificazione con sovrabbondanza di aggettivi, iperbati e coloriture. Ma Góngora ne trovò l’antidoto mantenendosi fedele nelle forme, almeno in parte, alla tradizione internazionale.

François Clouet

François Clouet

Lo stesso Traduttore nelle note mette in evidenza quante volte il suo Autore prenda le mosse dal Petrarca e dal Tasso. Ma la prova sovrana dell’italianità di Góngora si trova nella struttura stessa del suo sonetto. Un confronto immediato chiarirà tale affermazione.
La rivoluzione culturale causata dall’imperialismo inglese promosso da Elisabetta Tudor modificò anche alcuni parametri letterari. Una dozzina di anni prima che Góngora nascesse nel 1561, Thomas Whyatt aveva introdotto il sonetto, il cui schema fu poi cambiato abolendo il modulo canonico come segue. Sostituiva il noto schema 2 x AB AB (AB BA) + 2 CDE (o poche varianti) con il seguente: AB AB + CD CD + EF EF + GG: tre quartine con rime indipendenti seguite da un distico a rima baciata. Ecco il sonetto pienamente barocco. Con centocinquanta di questi, W. Shakespeare compose un canzoniere non meno profondo di quello del Petrarca, senza curarsi di essere baroque in inglese come in francese. L’autore barocco non si preoccupa della provenienza della formula, ma la ripropone come sfida nella condizione culturale presente e futura. Tutto questo è anche parte della poetica di Góngora; ma il maggior poeta del “siglo de oro” non prediligeva quella forma ormai troppo connotata come tabernacolo del pensiero laico. Essendo religioso, a ventiquattro anni aveva preso gli ordini minori e a cinquantasei fu prete; forse perciò non volle prestare suoi tabernacoli a quel “modus lascivus” che da secoli la Chiesa disapprovava. Nonostante gli apprezzamenti di Cervantes e Lope de Vega, scrisse pochi sonetti, quasi tutti come formalità occasionali, tra i quali: “Alla nascita di Cristo N.S.”; “Sul sepolcro della Duchessa”; “In morte di Donna Guiomar”; e ancora il capolavoro “Alla memoria della morte e dell’inferno” e il finale “Sulla brevità ingannevole della vita”. Già quei titoli riassumono esaurientemente la precarietà di un mondo “secolare” del quale il poeta voleva ma non poteva godere. Con questa modalità Góngora fu perciò sicuramente barocco, restando però classico nel rispetto del canone del sonetto italiano.

Più di qualsiasi racconto critico può però interessare l’esame comparativo di alcune traduzioni dal medesimo corpus. A questo scopo presentiamo il Sonetto 228 a fronte delle versioni di L. Fiorentino e G. Ungaretti, affiancate da un’altra inedita, equidistante da entrambe, qui offerta dal sottoscritto, a scopo di riferimento linguistico contemporaneo nella riscoperta di Góngora.

Gongora

Gongora

Luis de Góngora, 1582

Mientras por competir con tu cabello,
oro bruñido el Sol relumbra en vano,
mientras con menosprecio en medio el llano
mira tu blanca frente al lilio bello;

mientras a cada labio, por cogello,
siguen más ojos que al clavel temprano,
y mientras triunfa con desdén lozano
de el lucente cristal tu gentil cuello;

goza cuello, cabello, labio y frente,
antes que lo que fué en tu edad dorada
oro, lilio, clavel, cristal luciente

no sólo en plata o víola troncada
se vuelva, mas tú y ello juntamente
en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada.

Luigi Fiorentino, 1969

Mentre per emulare i tuoi capelli
oro brunito il sole splende invano,
mentre scontrosa guarda in mezzo al piano
la tua candida fronte i gigli belli,

mentre gli sguardi per carpirle inseguono
tue labbra più che il primo dei garofani,
e mentre il fine collo con disdegno
del lucente cristallo già trionfa,

collo, capelli, labbra e fronte godano
prima che il vanto dell’età dorata,
oro, giglio, garofano, cristallo,

si muti in viola recisa o in argento,
non solo, ma con esso tu in terra,
e in polvere, in fumo, in ombra, in nulla.
Giuseppe Ungaretti, 1947

Finché dei tuoi capelli emulo vano,
vada splendendo oro brunito al Sole,
finché negletto la tua fronte bianca
in mezzo al piano ammiri il giglio bello,

finché per coglierlo gli sguardi inseguano
più il labbro tuo che il primulo garofano,
finché più dell’avorio, in allegria
sdegnosa luca il tuo gentile collo,

la bocca, e chioma e collo e fronte godi,
prima che quanto fu in età dorata,
oro, garofano, cristallo e giglio
non in troncata viola solo o argento,
ma si volga, con essi tu confusa,
in terra, fumo, polvere, ombra, niente.

Raffaello Utzeri, 2013

Finché a competere coi tuoi capelli
risplende, oro brunito, il sole invano
e con dispregio la tua bianca fronte
considera il bel giglio in mezzo al piano,

finché, per coglierlo, ciascun tuo labbro
più che il primo garofano occhi seguono
e il tuo collo gentile in lieto sgarbo
trionfa sullo splendido cristallo,

collo e capelli e labbra e fronte goditi
prima che quel che fu, in tua età dorata,
oro e cristallo splendido e garofano

e giglio, muti in viola sradicata
o argento, e inoltre tu congiunta in quello
in terra, in fumo, polvere, ombra: in nulla.

Sembra quindi superfluo inoltrarsi nelle solite considerazioni critiche di circostanza: i testi parlano da soli, ciascuno trasportando nel tempo la propria datazione, che non coincide precisamente con la sua data. Bisognerà ricordare che tradurre significa non solo amare ma, in parte almeno, anche tradire. Spesso è l’ambivalenza dell’animo umano, che ogni traduttore impersona nell’ambiente che lo informa e lo forma, quella che forse, più della competenza linguistica, determina scelte lessicali e sintagmatiche. Sembra ancora ieri, e in letteratura può essere anche mezzo secolo, quando le traduzioni si dividevano in “brutte fedeli” e “belle infedeli”. Accreditiamo a L. Fiorentino di aver superato quel pregiudizio, ironico ma non troppo, di molti critici suoi contemporanei, grazie alla sua rara competenza sorretta da un equilibrio poetico che lo ha sempre sostenuto.
venezia 4Le due Soledad primera e Soledad segunda del 1613-14 sono poemi quasi lirici ciascuno di quasi mille versi, prevalentemente endecasillabi e settenari. Fiorentino ne ha tradotto meno della metà, privilegiando le parti più significative. L’argomento è piuttosto tenue, un giovane naufrago accolto da un gruppo di pastori è pretesto per divagazioni su temi naturalistici e mitologici. Sono pezzi di bravura per la complessità sintagmatica e la leziosità immaginativa, quasi una sfida dell’intelligenza al codice linguistico.
Molto simile, la Fabula de Polifemo y Galatea contemporanea delle Soledades, ma in ottave ariostesche, cioè di struttura italiana: AB AB AB CC. Anche qui la maestria nella versificazione suscitò ammirazione; il culto del gongorismo fu poi chiamato cultismo. Ma incontrò anche forti resistenze con qualche condanna per la oziosità dei temi e il deprecato modo sensuale nella scrittura di un religioso. Lope de Vega, che aveva lodato i Sonetos, divenne, per onestà intellettuale, un avversario di Góngora: forse anche per questo c’è chi lo antepone a lui come simbolo del secolo d’oro.
L’interesse che suscitano le versioni testuali di Luigi Fiorentino, ciascuna nell’ambito metodologico che il traduttore dichiara, consiste nel fatto che la traduzione non può non essere in sé operazione di esperienza barocca. Nei testi qui presentati, le due lingue sono sorelle, ma non per questo si può fare copia conforme in lingua italiana di una scrittura spagnola. Immaginiamo i risultati di traduzioni da lingue molto distanti dalla nostra, come l’arabo, il giapponese, l’urdu. In questi casi l’unica difesa del traduttore sarebbe produrre una versione più esplicativa che interpretativa: così la “brutta fedele” potrebbe interessare più della “bella infedele”.
Comunque, Goethe sosteneva che la poesia è sempre traducibile. Intendeva dire forse che è anche giustamente tradibile? Teniamo presente questa eventualità, utile almeno in quanto provocatoriamente dissacrante; tutto sommato sembra un’affermazione poco classica, poco romantica, ma forse non poco barocca.

(Raffaello Utzeri)

Luis De Góngora (Cordoba, 11 luglio 1561-Cordoba 23 maggio 1627), poeta e drammaturgo del Siglo de Oro, è il massimo esponente della corrente letteraria conosciuta come “culteranesimo” e, per sua stessa influenza, “gongorismo”. Avviatosi fin da ragazzo alla carriera ecclesiastica (nel 1585 fu nominato economo della cattedrale di Cordoba e prese gli ordini maggiori), ebbe difficoltà con i superiori per la sua attività letteraria: tra i capi d’imputazione con cui l’arcivescovo Pacheco lo accusò di malcostume, c’era anche il fatto di scrivere poesie. Góngora rimase inedito per tutta la vita: le sue opere passavano di mano in mano manoscritte, suscitando polemiche. Era un poeta incontentabile e difficile: aspirava a «fare poco non per molti», elaborando composizioni di alto livello retorico, in equilibrio fra tensioni opposte, irte di concetti e cultismi, di elusioni e allusioni che le rendevano oscuro esercizio per menti erudite, a mo’ di enigmi da decifrare, benché godibilissime sul piano musicale. Con Góngora l’estetica barocca sperimenta le potenzialità multisensoriali e simboliche della parola, aprendosi alla modernità senza rompere i rapporti con la tradizione classica, petrarchesca e classicistica rinascimentale. La novità dell’autore delle Soledades verrà apprezzata pienamente nel ‘900, quando il sentire poetico avrà le giuste affinità per entrarvi in consonanza. Non a caso la cosiddetta generazione del ’27 (Lorca, Guillén, Salinas, Alberti, Alonso, etc.) lo prenderà a modello, riscoprendolo e traducendolo proprio a partire dal terzo centenario della morte.

Luigi Fiorentino (Mazara del Vallo, 13 febbraio 1913-Trieste, 2 agosto 1981) è stato scrittore, poeta, saggista e traduttore. Autore di oltre venti opere originali (poesia, narrativa, critica letteraria) e di numerose traduzioni dalla letteratura spagnola e francese (tra cui Gongora, Chenier, Mallarmé, e classici come il Cid), ha suscitato l’interesse critico, fra gli altri, di Francesco Flora, Enrico Falqui, Paul Fort e Juan Ramòn Jimenez. Dopo le esperienze traumatiche della seconda guerra mondiale, che lo videro nei panni di ufficiale di artiglieria e di internato I. M. I., si è stabilito a Siena dove, nel 1946, ha fondato la rivista «Ausonia». Ha diretto a Siena la casa editrice Maia e ha insegnato storia della letteratura italiana presso la Scuola di Lingua e Cultura Italiana per Stranieri. Successivamente ha insegnato lingua e letteratura spagnola e letteratura ibero-americana presso le Università degli Studi di Siena, Arezzo e Trieste. Di Fiorentino nel 2013 per EdiLet è uscita, a cura di Raffaello Utzeri, l’antologia poetica Il compiuto discorso.

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I SONETTI di WILLIAM SHAKESPEARE – PRESENTAZIONE di Giuliana Lucchini

1609, pubblicati a Londra la prima volta presso Thorpe in formato ‘in-quarto’, sono rimaste 13 copie dell’originale, conservate in Biblioteche di Gran Bretagna e Stati Uniti.
Poesia d’amore fine secolo XVI. Spontaneità e artificio. La naturalezza lirica del sentimento d’amore viene a inserirsi perfettamente entro lo schema pre-costituito del ‘sonetto’ di moda. Petrarca nella mente, i poeti vi si esibiscono intorno alla corte di Elisabetta I. L’amore per la persona, vera o presunta, si concentra in amore per l’arte poetica, ne diventa un solo obiettivo, con tutto il trasporto che l’emozione comporta, sia il sentimento autentico o d’invenzione, messo al tornio dell’arte retorica e dell’immaginazione letteraria a vari livelli di bravura, secondo la forza del poeta coinvolto.
Perché Shakespeare eccelle sugli altri poeti suoi contemporanei? Perché il suo grado di eccellenza si manifesta non solo in un’opera lirica, ma anche in quella drammatica, in cui il suo talento non è più paragonabile, in quanto sovrasta tutti gli altri del suo tempo. Il suo genio creativo è di qualità unica, non ripetibile.

 Shakespeare non  si limita a proseguire la traccia petrarchesca. Shakespeare inventa. Così la rigida forma del sonetto prenderà nome da lui (sonetto shakespeariano/sonetto inglese), per lo scarto inventivo sul sistema rimato con chiusura in distico finale, a soluzione dei 14 versi del testo fissati in pentapodia giambica : ABAB CDCD EFEF GG.
Amore sacro e amore profano: amore spirituale e, per la prima volta in un testo lirico, amore carnale. Il puro afflato celebrativo dello spirito desiderante muove pulsioni scrittorie contaminato da contingenze di realtà quotidiane.
L’opera, composta di 154 ‘sonetti’, si articola per segmenti e gruppi, di argomento e tono diversi. Indirizzata alla persona amata – per la prima volta in letteratura da uomo a uomo – vi si muovono, non per voce propria ma condotti a mano dell’autore, ‘personae’, personaggi reali, almeno tre in rappresentazione : l’amato, oggetto del verso sublime; un poeta rivale che dedica poesie alla stessa persona amata, suscitando gelosie; una misteriosa e sensuale ‘dark lady’ enigmatica traditrice, in virtù della quale si consacra il triangolo amoroso, con effetto di novità per il verso canonico ancora una volta in gestazione anticonvenzionale.

Ad essi si aggiungono i personaggi astratti, quasi tangibili, del Tempo, e della classica Musa, la Poesia. Natura e Morte non mancano, secondo l’immaginativa comune. Il non detto affiora. C’è tutto l’occorrente per una storia d’intrighi. Tale da rendere questo Canzoniere, lirico per natura, pronto ad affrontare anche le luci della ribalta del secolo XXI per un confronto drammatico. Secondo la profezia del sonetto 81, v. 11 : “And tongues to be, your being shall rehearse”.
Gli ultimi due sonetti (153-154) sono invece convenzionali e indipendenti dal contesto (sebbene vi si trovino passaggi ironici che lo connettono a chiusura del ciclo della ‘dark lady’). Vere esercitazioni di composizione poetica secondo canoni classici, le due variazioni, stile poetico-narrativo, possono essere state scritte in qualunque momento della vita del Poeta, a partire da sollecitazioni imitative di unepigramma greco del V secolo, ascritto a Marianus Scholasticus poeta bizantino, inserito nell’Antologia Palatina (in traduzione latina 1603, ma probabilmente tradotto prima in inglese da Ben Jonson – come sostengono gli studiosi).

shakespeare teatroSezione I.

La sequenza si presenta in struttura omogenea per stile e tema. Comprende il ciclo dei sonetti 1-17, d’argomento ‘matrimoniale’: il poeta in pratica esorta il giovinetto a sposarsi, perché la Bellezza eterna che in lui si raffigura possa, in contrasto con il Tempo distruggitore, rinnovarsi e vivere nella sua progenie. Tutto questo, impreziosito di riflessioni su natura e arte, verità e artefatto. Si celebra un mondo spirituale che esalta l’amore platonico del bello e benedice il santo riprodursi della creazione. Sebbene ossequioso, il sentimento d’amore è altruistico e fraterno fra uomini legati da rispetto e amicizia reciproca, con le dovute distanze di ceto, di censo, e d’età – il giovane appartenendo alla più alta nobiltà, bellissimo allo sguardo contemplativo del poeta: distanze sottolineate, nei più alti esiti, dall’uso letterario e aristocratico della seconda persona singolare, thou/thee (e conseguenti thy/thine) – eccezione fatta per il metaforico sonetto 5, che coinvolge il Tempo in modo diretto; e per i sonetti 13, 15, 16, 17, quando già affiora un più disinvolto coinvolgimento di relazione amichevole che permette al poeta di rivolgersi al nobile giovane con il più quotidiano, seppure reverente, uso del you (your/yours).

shakespeareCon la seconda più larga sezione dei sonetti, 18-126, inizia un rapporto interpersonale tra amato e amante, quasi metafisico, sviluppato in atteggiamento d’adorazione da parte dell’amante verso la Bellezza unica e totale – maschile/femminile (Master-Mistress) – che l’amato impersona (reso immortale nel sonetto 20 “A woman’s face, with Nature’s own hand painted”, v.1).
Il poeta prosegue nel tono deferente, con la dovuta devozione, mentre i termini del thou/you si interscambiano in testi susseguenti, a seconda dell’umore. È chiara una maggiore intimità fra poeta e destinatario. La bellezza, di cui l’occhio-pittore diventa lo specchio (son.24), è ancora il miraggio della contemplazione; mentre lo specchio come oggetto, di moda fra i nobili, presentato nel son. 3, si ripropone al son. 22 “My glass will not persuade me that I am old”, v.1, e al son. 77 “Thy glass will show you how the beauties wear”, v.1.
Un nutrito gruppo di sonetti coinvolge il tema della lontananza, in specie per un viaggio, che induce il poeta a riflettere su contrasti di carne e pensiero, conflitti fra occhio e cuore, ombra e sostanza, verità/illusione (son.43,44,46,47, 48, 50, 51, 52,53,54,56). (L’argomento sarà ripreso nei son. 98,113).

Shakespeare s_First_Folio_1623La pulsione emotiva del processo scrittorio porta il pensiero d’amore, platonico e altruistico per il bene dell’altro nella prima sezione, a trasformarsi gradualmente in sentimento ossessivo, al punto da fare vedere al poeta rappresentati in questo amore tutti i suoi altri amori (son.31“Thy bosom is endearèd with all hearts”, v.1), cui rinuncia offrendoli in somma all’amato, (son. 40 “Take all my loves, my love, yea, take them all”, v.1) in uno slancio che supera ogni gelosia. A una sola condizione però, che si escluda l’inganno (idem : “But yet be blamed, if thou thyself eceivest/ By wilful taste of what thyself refusest/ I do forgive thy robbery, gentle thief”, vv. 7-9), portando a concludere “.. yet we must not be foes” (idem : v.14). Problemi di fedeltà/infedeltà sono sviluppati nei son. 41-42. L’amore innocente, devoto alla Bellezza, si trasforma in possessività. L’infedeltà dell’amato, graziosamente accennata al son. 41 (“Those pretty wrongs that liberty commits”, v.1), è chiaramente annunciata come tradimento al son. 42 (“ That thou hast her it is not all my grief ”, v.1. Sospetto, gelosia, sottomissione appaiono ancora nei son. 57-58.

shakespeare b(Tale séguito di testi, ma specialmente il son.42, anticipando per argomento i sonetti della ‘dark lady’, sembra posizionato impropriamente nell’intera sequenza). Non mancano sonetti in cui una certa artificiosità di linguaggio denuncia un raffreddamento di rapporti, un distacco del coinvolgimento emotivo. Il poeta infine si autoaccusa, nei son. 110, 111, 112. Entro questo contesto si situano i sonetti più celebri : il son. 18 “Shall I compare thee to a summer’s day?”, v.1, inno alla bellezza del giovane – per la prima volta il Poeta vi ostenta il valore eternante della sua Poesia; il son. 33 “Full many a glorious morning have I seen”, v. 1 (tradotto anche da Ungaretti e Montale), descrittivo del sorgere del sole, metafora dell’amato (proseguirà nei son. 34 e 35); il son. 49 “Against that time, if ever that time come” v.1, in cui il poeta si fa piccolo di fronte all’amore; il son. 55 “Not marble not the gilded monuments”, v.1, orgogliosa affermazione della superiorità della Poesia sul Tempo; ripetuta nel son. 65 “Sine brass, nor stone, nor earth, nor boundless sea”, v.1; il son. 66 “Tired with all these, for restful death I cry”, v.1, quando il poeta dispera del bene terreno a causa della corruzione dei tempi; il son.116 “Let me not to the marriage of true minds”, v.1, inno all’Amore signore del Tempo, al passo di scoperte e invenzioni.

Il ‘poeta rivale’ fa la sua apparizione nel gruppo dei son. 78/86. Il nostro poeta ne parla mosso di gelosia, ma ostenta la superiorità dei versi propri (son. 81).
Shakespeare_1Il Tempo quale personaggio reale, signore della rovina, è falsariga di tutto il canzoniere, moltiplicazione rinascimentale barocca della Morte. Dopo la prima serie dei sonetti ‘matrimoniali’, in cui risalta nei son. 15-16, torna in scena nel gruppo dei son. 19, 22, 63-64, 123-124, 126. Per contro, il personaggio della Musa ispiratrice è accennato nei son. 21,32,38,78,82,85,100-101,103. La Poesia eternante si identifica nei versi stessi del Poeta mentre innalza il suo monumento alla Parola (son. 15-16/18-19, 54-55, 60, 63, 74,79, 81,107).

La sequenza dedicata alla ‘darl lady’, 127-152, è quasi omogenea nel suo svolgersi, come la prima sezione, uniformemente condotta nell’uso letterario del thou artificioso e nobilitante – e per ciò in contrasto espressivo quando la materia è trattata con ironia e ambiguità di livello basso (sonetti del ‘Will’, 135-136). Fanno eccezione i son. 127,130,138,144,145 (indiretti o con uso della terza persona singolare). Dopo la rivelazione del poeta di avere ‘due amori’ (son.144), esplode nei versi la passione carnale, argomento sempre escluso dalla pratica poetica. Dapprima a passo cauto, con ironia e gentilezza (vedasi il son. 127, e il son. 128, gentile quadretto in cui la ‘dark lady’ suona il virginale); poi gradualmente con violenza, sarcasmo, doppi sensi (osceni). Il poeta libera il suo linguaggio, quasi in una sceneggiatura teatrale. È in gioco la donna a formare il triangolo d’amore, un po’ amata, un po’ detestata, a causa di tresca con il ‘lovely boy’.
Shakespeare 3L’amore definitivamente non è più ‘cortese’. La fisicità prende il posto dell’astrazione platonica.
Nella medesima sequenza si inseriscono due intervalli di meditazione e ripiegamento, dibattiti fra Anima e Corpo (son. 129 “Th’expense of spirit in a waste of shame”, v.1; e 146 “Poor soul, the centre of my sinful earth”, v.1 ). Il mondo dei sensi e il mondo dello spirito sono messi a contrasto. Alcuni sonetti escono dal consueto. Il son. 99 “The forward violet thus did I chide”, v.1, stranamente composto di 15 versi, rientra in una formalità espressiva, comune fra i ‘sonneteers’, di esaurimento dei modelli d’imitazione petrarchesca. Interessante da considerare dal punto di vista metrico il son. 145 “Those lips that Love’s own hands did make”, v.1, lavorato in tetrapodia giambica, l’unico di tale metro in tutto il canzoniere. E il caso del son. 126 “O thou my lovely boy who in thy power”, v.1, in distici a rima baciata, mancante del distico finale (tuttavia ne conserva lo spazio bianco in parentesi), con il quale si è conclusa la sequenza del ‘lovely boy’.

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