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DIALOGO A PIU VOCI SU VARI ARGOMENTI: La Nuova Ontologia Estetica, il Frammento, il Dopo Satura di Montale, Fernanda Romagnoli, Poesie di Osip Mandel’stam, Kjell Espmark, Anna Ventura, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Commento di Angelo Maria Ripellino a Osip Mandel’stam, Donatella Bisutti

foto palazzo illuminato

Io, da critico militante (oggi il termine è caduto quasi nel ridicolo), della Nuova Ontologia Estetica, non posso che rivendicare la mia funzione non conciliativa

Giorgio Linguaglossa

16 maggio 2017

[…] Io, da critico militante (oggi il termine è caduto quasi nel ridicolo), della Nuova Ontologia Estetica, non posso che rivendicare la mia funzione non conciliativa, il diritto del critico a non assolvere ad alcuna funzione suasoria e conciliativa e di recitare in pieno la mia funzione di parte, non conciliativa, contraddittoria, che sa di portare in sé una istanza del contraddittorio e del diverso; insomma, per tornare a noi il critico non deve smussare gli angoli e le differenze che intercedono tra la poesia di Luciana Gravina e quella di Fernanda Romagnoli, per dire, ma deve porre la questione come questione problematica, sulla quale operare una scelta, delle scelte, nella consapevolezza che le differenze in poesia non sono un «indifferenziato» agnostico e anomico ma sono il sale della biodiversità della poesia.

onto Fernanda Romagnoli volto

Fernanda Romagnoli, grafiche di Lucio Mayoor Tosi

Anna Ventura

16 maggio 2017 alle 10:25

Altamente lodevole, esemplare, l’attenzione critica che Donatella Bisutti finalmente rivolge ad una voce poetica, quella di Fernanda Romagnoli, trascurata dalla critica di regime,forte della sua stessa ignoranza.C’è tanto oro, nel grigio magma delle parole,oro ignorato e negletto, e che tuttavia talvolta si svena, se c’è qualcuno capace di operare il miracolo.

gino rago

16 maggio 2017 alle 12:06

Condivido in pieno i giudizi di Flavio Almerighi, di Anna Ventura e dello stesso Giorgio Linguaglossa sui finissimi valori di Poesia della Romagnoli e anch’io esprimo ammirazione per Donatella Bisutti per essersene meritoriamente occupata.
Ma in me lavora un tarlo. Che è questo: perché la Romagnoli parla di ‘Oggetti’ e invece Jorge Luis Borges, in un suo componimento tra i più riusciti, parla di ‘Cose’ (“Cosas”)?
L’Ombra delle Parole in più occasioni ha articolato persuasivamente le sue risposte. Ma sarebbero davvero gradite le risposte-meditazioni a questa domandina semplice di Sabino Caronia, di Claudio Borghi, di Salvatore Martino, ma anche degli altri agguerriti lettori del nostro Blog che, di solito, non lasciano commenti.
Non è questione oziosa stabilire ‘una’/ o ‘la’ differenza fra ‘oggetti’ e ‘cose’ nel fare poetico del Novecento lirico non solamente italiano…

egilllarosabianca Kartine

16 maggio 2017 alle 12:24

Avrei voluto non commentare ma, poi perchè no a mio modo Fernanda Romagnoli non é donna non un uomo non una madre si intrattiene molto dentro se e con altro il suo sguardo va oltre, quando lessi “Il tredicesimo invitato”rimasi senza fiato.
Questo é forse il più bell’articolo dell’Ombra per me.
Un poeta tra i grandi la Romagnoli e la Donatella Bisutti affronta argomenti, considerate ancora oggi zone di frontiera dai razionalisti quelli che stanno non solo coi piedi per terra e che nella terra sprofondano fino alla cintola,é questo il regime la linea di confine?

Andrea Margiotta

16 maggio 2017 alle 12:38

Altro critico che ha fatto spesso il nome di Fernanda Romagnoli è Paolo Lagazzi. Ha ragione Giorgio Linguaglossa: due opere poetiche molto lontane, quelle di Gravina e Romagnoli. Personalmente, non saprei per quale “partito” votare. Nei testi critici che contrappuntavano l’opera della Gravina, ho notato il nome di Mario Lunetta (che saluterei, se passasse da queste parti). Ricordo che venne come ospite in un mio programma televisivo, di poeti e cose poetiche, realizzato per la Rai, qualche anno fa. Eravamo praticamente opposti – come idee sulla poesia e, probabilmente, come idee sul mondo o come Weltanschauung – ma riuscimmo a dialogare con lucidità e ragionevolezza (forse perché sono stato, da ragazzo, un militante comunista? Andato via, un paio d’anni prima della caduta del Muro, dunque in tempi non sospetti; e molto prima dell’elegantone Fausto Bertinotti, che – strano scherzo del destino – mi mandò un sms per sbaglio, qualche anno fa…
Dico io: tra tutte le combinazioni numeriche possibili, beccò proprio il mio numero di cellulare?). Che esista un Dio delle cose, un po’ burlone? (Alcuni fisici non credono al caso…). Continua a leggere

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Lucia Gaddo Zanovello POESIE da Asincrono scacchiere (Poesie scelte 1962-2015) Ed. Progetto Cultura 2016 pp. 200 € 12 «Ogni scrittura floreale, e sommamente quella delle rose, eleva lo sguardo ai vertici di perfezione del mondo»; «Nel retro della scrittura poetica di Gaddo Zanovello c’è un po’ di tutto ciò, del profumo benefico della gioia e della acedia, dell’ombra, della obscuritas, e della luce dell’alba, della tristitia, della gioiosa jocunditas e della cura» Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Lucia Gaddo Zanovello foto ornamento astratto azteco

ornamento astratto azteco

Lucia Gaddo Zanovello è nata a Padova nel 1951; scrive dalla prima adolescenza e dopo un periodo giovanile dedicato a  diverse attività lavorative, ha poi impegnato la maggior parte del suo percorso professionale come docente di ruolo nella scuola media.

Appassionata di ricerca storica, di letteratura, di filosofia morale e di spiritualità, ha condotto studi, fra gli altri, su Nicolò Tommaseo e sul friulano Pierviviano Zecchini, medico chirurgo laureato a Padova nel 1825, traendo dall’ombra meriti e singolarità di questo personaggio, che si distinse anche come fervente patriota e filelleno. 

Ha pubblicato le raccolte di poesia: Porto Antico, Edigam, 1978; Bramiti, La Ginestra, 1980; Da serpe amica, Padova Press Edizioni, 1987; Semiminime, Padova Press Edizioni, 1988; Per erbe piú chiare, Edizioni Dei Dioscuri, 1988; nel 1998, per le Edizioni Cleup (Cooperativa Libraria Editrice Università di Padova), la raccolta retrospettiva relativa agli anni ’88 -’98, in cinque volumi: Nóstoi (che include Fiordocuore), Fatalgía, In lúmine, La trilogia del volo, La partitura; Il sonno delle viole, Cleup, 1999; Un parlare d’acqua, Cleup, 2000; Solargento, Cleup, 2000; Memodía, Marsilio, 2003; Silentissime, Imprimenda, 2006; Ad lucem per undas, Joker, 2007; Amare serve, Cleup, 2010; Illuminillime, Cleup, 2011, Rodografie, Cleup, 2012; Buona parte del giorno (Premio Milo 2012), Incontri, 2013 e Disforia del nome, Biblioteca dei Leoni, 2014.

Nel gennaio del 2009 è uscito per le edizioni Cleup, il libro-intervista Amata Poesia: Antonio Capuzzo intervista Lucia Gaddo Zanovello.

Nel 2004 il compositore di Patrasso Sotiris Sakellaropoulos (1952-2010) ha tratto da Memodía, quarta sezione (Canto di luce) e  nel 2005 da La partitura, prima sezione,  per archi, voce e pianoforte, omonime opere musicali reperibili in CD. Nel 2010 la scrittrice Rika Mitreli ha tradotto in greco sei testi tratti da La partitura, pubblicati nel numero di maggio della Rivista “Thea” (Thèmes de Sciences Humaines) di Bruxelles, a fianco di un ampio saggio commemorativo dedicato all’opera del musicista scomparso. Nel 2016 pubblica l’antologia Asincrono scacchiere (Poesie scelte 1962-2015), Ed. Progetto Cultura.

foto vuoto con due sediePrefazione di Giorgio Linguaglossa ad Asincrono scacchiere (Poesie scelte 1962-2015) Ed. Progetto Cultura 2016 pp. 200 € 12

Il primo libro di Lucia Gaddo Zanovello risale al 1978: Porto antico, seguito da Bramiti nel 1980. Si tratta di libri ancora lirici, ma di un lirismo passato al setaccio di una vocazione autentica che in seguito la poetessa affinerà e distillerà. Viene qui presentato al lettore un percorso di circa quaranta anni durante il quale la poesia italiana ha subito profondi e irreversibili mutamenti della sua forma-interna. Dagli anni Settanta, anche il paese è cambiato, e sono mutati gli scenari interni e internazionali. È caduto il muro di Berlino, si è dato il via alla unificazione europea, nel frattempo è iniziata dal 2001 la quarta guerra mondiale ed oggi siamo entrati nella quinta guerra, quella invisibile e trasparente della competizione via internet. Nel frattempo, il capitale finanziario ha assunto la guida dell’umanità grazie ad un atto di fede nel nuovo Moloch. Mai tanti cambiamenti epocali si sono concentrati in un così breve lasso di tempo. Tuttavia, a volte la Musa sembra non accorgersene e preferisce frequentare non gli schieramenti delle fantomatiche e improbabili post-avanguardie ma i trivi e i refoli di poeti spesso perduti e dimenticati dai più. 

Sandro Montalto nella prefazione a Consapevolvenze (2015), tracciava il filo conduttore che attraversa l’intera produzione poetica di Lucia Gaddo Zanovello: «Dal punto di vista formale questa silloge ricalca sostanzialmente i moduli di tutta la produzione dell’autrice: improvvisi ed eloquenti addensamenti di rime e allitterazioni soprattutto a fine testo; vocaboli rari e preziosi; portati apparentemente opposti dal latino e dal gergo anglofono; virate ottenute grazie al cambiamento di una o due lettere; episodi aforistici; ritmo elegante ma imprevedibile; il procedere più reticolare che lineare del dettato; i momenti in cui si infittiscono i contrasti, la coesistenza dei contrari, talvolta vere e proprie sinestesie […] Si registra anche la comparsa di quelle che potremmo definire parole-feticcio, che compaiono praticamente in tutte le raccolte: “viola”, “grigio”, “oro”, “abbraccio”, “incontro”, “ombra”, “abbandono”, “sangue”. Va però sottolineato come per la poetessa il linguaggio non sia un rifugio ma piuttosto un armamentario di strumenti con i quali leggere e abitare il mondo: Gaddo Zanovello non si rinchiude dietro barriere di parole colte ma approfondisce il linguaggio per avvicinarsi il più possibile alla trama dell’esistere nel mondo. Il linguaggio è per lei gioia come lo è l’osservare i fenomeni della natura o condividere uno sguardo o scambiare un bacio […] Un amore per il linguaggio che non appare mai disgiunto dall’amore per le cose, per le persone e per la realtà quotidiana […] Infine, l’attenzione e l’amore per la natura, dalla quale imparare i cicli, l’entusiasmo della primavera e la pazienza dell’inverno […] Possiamo dire, fuori da ogni abusata e semplicistica formula critica, che, pur con le sue ovvie oscillazioni ed esplorazioni, tutta la produzione di Lucia Gaddo Zanovello (specialmente in seguito a Nostoi, della ricapitolazione in cinque volumi apparsa nel 1998) si configura come un enorme e ininterrotto poema».

Che Lucia Gaddo sia finita per approdare ad una raccolta denominata rodografie (2012), ovvero, ad un trattato sulle rose, scrittura floreale su una materia affatto floreale, a questo punto non deve sorprendere. Ecco il preambolo dell’autrice:

«Ogni scrittura floreale, e sommamente quella delle rose, eleva lo sguardo ai vertici di perfezione del mondo. L’anima s’inebria dell’ineffabile profumo di questo fiore affascinante; la forma delle sue variegate corolle, iridate dalle sfumature di colore sempre nuove… richiama per intero l’ideale di bellezza […] Ma fra gli esseri che vivono sottoposti a morte è quella umana la più tormentata e fragile delle avventure. Si viene al mondo per sottrazione dall’originario stato di compiutezza e di intangibilità nella madre, per patire subito il difetto, la vulnerabilità e l’abbandono, nella certezza di dover attraversare il dolore». Così la poesia si ritrova ad essere «un parlare d’acqua» mentre «passa la cometa di un pensiero / nel giardino delle idee», un alato alito, un effluvio di «illuminillime» (dalla omonima raccolta pubblicata nel 2011), «avverbio policorde, anche per aspetto fonico, e contraddittorio, oscilla fra un significato e il suo opposto, un minimale e un massimale insieme… Il termine riflette i toni della scala del buio e della luce, dall’apparente sua assenza (illumine, senza luce e illune, senza luna) alla sua massima brillantezza che orna il Creato che tutto illumina e riempie di grazia» (dalla nota dell’autrice al volume).

foto scala con ringhieraNella poesia di Gaddo Zanovello c’è tutta una fenomenologia di «albescenze», di «radianze», uno sfavillio di  «fiaccole», di «vivide luci», fino allo sfumare del «vespero» e, infine, si giunge alle «fiaccole stellari», alle «lunule». «È così che il brillio della volta celeste vira nell’umano prillio».

Ortega y Gasset definisce l’uomo un «animale fantastico-tecnologico» in quanto capace di modificare il mondo secondo i propri progetti, immedesimandosi e forgiando idee e immagini sul mondo per inventarsi un piano di attacco alla circostanza, per costruire, insomma, un mondo interiore. Per il filosofo spagnolo, i poeti sono i più adatti a costruire queste immagini del mondo interiore, essi sono gli esseri più fantastici e, fantasticando, contribuiscono a creare le condizioni per una più consona abitabilità del mondo. Questo è quanto di più vero si possa immaginare per la poesia di Gaddo Zanovello. La sua poesia, esemplarmente anti intellettualistica è, in realtà, un potente strumento «fantastico-tecnologico» perché apre nuove strade alla libertà della immaginazione.

Il titolo di questa Antologia, Asincrono scacchiere, riprende l’intestazione di alcuni inediti dell’ultimissima produzione poetica della poetessa di Padova, e vuole essere una metafora della vita traslata alla poesia: una scacchiera dove avvengono eventi asincronici, non legati alla freccia del tempo ma dipendenti da altre dinamiche insondabili e ancora sconosciute.

La jocunditas e la tristitia, sono il basso costante di questa poesia. Un inno alla gioia trattenuto e silenziato che si esprime in parole delicate e ombrose, in una versificazione gentile e suadente. La fantasia e la memoria sono le costanti di questa poesia, i due motori immobili che sovraintendono al discorso lirico di Lucia Gaddo Zanovello.

Acedia, tristitia, taedium vitae, desidia sono i nomi che i padri della Chiesa danno al senso della vanità che proviene dal pensiero della morte, con tutto ciò che questo pensiero induce nell’anima. E, insieme alla tristitia, l’acedia, l’heideggeriana «incuria», che poi è una traduzione letterale del termine greco, in-curia, ovvero, l’assenza di cura, quella «Tristitia-Acedia» opera del «demone meridiano» che lancia i propri strali e i suoi malefici influssi sulla Musa verbigratia che parla per Verba. Del resto, nella poesia di apertura de Le fleurs du mal, Baudelaire pone sotto il segno dell’acedia (sub specie di ennui) la sua opera poetica. Tutta la poesia di Baudelaire può essere intesa, da questa angolazione, come una lotta mortale contro l’acedia e, insieme, come tentativo di ribaltarla nel suo contrario. Il dandy rappresenta, secondo Baudelaire, il tipo perfetto di poeta, una sorta di misteriosa reincarnazione dell’accidioso. Forse, prefigurazione dell’essenza del nichilismo. Affettazione dell’essenza del dandysmo come cura suprema dell’arte dell’incuria, rivalutazione della acedia nella versificazione urticante che cade sotto il segno della malitia e del rancor, della pusillanimitas e della evagatio mentis, la distrazione che tanto infesta le menti dei poeti posti sotto il segno del demone meridiano. Nel retro della scrittura poetica di Gaddo Zanovello c’è un po’ di tutto ciò, del profumo benefico della gioia e della acedia, dell’ombra, della obscuritas, e della luce dell’alba, della tristitia, della gioiosa jocunditas e della cura. Lo spirito di questa poesia, nei suoi diapason, è colto come da un raptus sibillino e gioioso proprio di certe scritture poetiche inniche con la loro verbosa litania cantarellante sostenuta dalla anafora e dalla replicatio. Lucia Gaddo Zanovello incide con acribia su questo tasto il proprio stile e la propria verbositas acediosa e gioiosa. E la sua scrittura ne trae giovamento. Le poesie più belle di questa antologia sono quelle dove più intensamente la gioia equivale alla tristitia dell’umbra e si mesce con la dulcedo dello spirito querulo incantato sul «viride rigoglio» della vita.

Layout 1.

da Asincrono scacchiere (2016)

Da Porto Antico, 1978

L’appuntamento

Rode il sasso
un pesce senza fiume
piange
mulini vuoti
e parche mense
alla cascina
di muti sensi
che accecano la gloria.

.
Gloria

.

Quanto piú
l’inno
spande la gloria
nei riccioli
di una giornata
di foglie secche,
piú l’alito
squama le sue ali
ardenti.

.
Serale

.

Vesto di ghiaccio
intere ore d’inverno
struggendomi di noia
e di pensieri.
La lana ostile
mi raggrinza il cuore
di brividi.

Affiora un vapore disperato
come di gabbia.

Lucia Gaddo con L Troisio e Cesare Ruffato

Lucia Gaddo con L Troisio e Cesare Ruffato

Da “Ma il pensiero, no”

.
Novembre

.
Umili
inchineranno i petali
ai giardini
e piegheranno le ali albine
agli angeli
i nebbiosi nastri densi del mattino
che danzano filando sopra i fossi
piantonati dalle fruste rubre
del salix alba cinerino.

Tutto il respiro si è speso nelle attese
ed è cimato il sogno
dai solchi del passato,
argilloso incanto

bevuta vita rorida bellezza
sorbita di una felice
idea non corrisposta.

Cede la sabbia alla marina,
clessidra
del tempo filiforme,
lucente, vivida vetrina
che chiude tutta l’onda
dentro l’orizzonte.

.
Da “Muti e cresca dell’universo il fiore”

.
Auscultare

.
Sorvegliare
pieghi di libri,
fogli disgiunti
di espressi segni divisi,
messaggi in vetri tinniti,
nidi turriti, pigoli gridi

ammarati arrivi di viaggi longevi,
coltri lanose ai riposi festivi.

Lèggere frasi leggére salire
fra stormi di voli
e scoprire schiarite di amore
nei veli cilestri del cielo che apre
a tramonti sereni

e trovare che il tempio del tempo
s’intana nel mare
con tutto il colore del sole nel cuore
e di fuoco non muore.

Da Silentissime, 2006

.
Fialba

.
Sorge e sfavilla
una fiaba d’alba lilla
e il mar che vacilla
d’eterno canto scintilla

inestinguibile culla
creature incantate
dai raggi d’aurora
narrate.

Lieve si leva, chiara e canora
– sguardo teso di brezza –
onda amorosa, distesa carezza,
alta respira e beata
dai veli cilestri dei cirri.

Scorre albino il mattino
al solívago sfondo marino
sul colmo rotondo del mondo.

Foto Silenzio mutevole

Da Ad lucem per undas, 2007, “Per undas”

Volvenze d’acqua

I

Liquida lama permeando incide,
ogni terrena cavità seconda
e di specchiata luce inonda
con la ciclicità dell’onda

da fango a linfa, da falda a fonte
per vento che prosciuga a cielo che provvede,
risorgive nubi aduna lieve
e in piova filigrana riconcede

per dolci pozzi e per fiumi amari
per mari e umori
in murmure d’esistere giocondo,
per l’immenso fare e il suo gorgo
che immerso rugge, avaro sugge
e, disavveduto, illuta il mondo.

Da perenne lastra d’algida purezza
con passo che ruscella dirompente
corrente di torrente che zampilla
gesto che scintilla dorso e scaglie
al pesce che sfavilla
nel bagliore acuto del fragore
che dal tuono oscuro
lucido silenzio ridistilla

alle sitienti umane mani e alle ferine gole,
dalle radici avvinte nella tana
a steli di dovizie,
inizio sapiente e necessario
indizio che genera inudito.

II

Aqua agua anguis, liquida vena d’Eva,
sangue del mea culpa, vortice abisso avito
che stagni nel rogo desolato dell’abbandono
chi spianta dal libro della vita,
di assoluta neve vai
in segni di fronda sulla Terra,
per ebbro flutto che gli avelli arsi
delle umane zolle esonda.

Dilavi con le rapide mutanti della docilità
la nudità del travaglio che assolve e innalza
e rinnovando rivesti di tunica limpida
l’essenza che cura.

Goccia che bacia ogni piega
del deserto d’amore in dolere santo
con stille d’incanto e suono di pianto.

Polla sorgiva, in getto di Eternità
immergi profonda
e avis alba riemergi, a ridivenire,
l’umanità feconda.

Da Buona parte del giorno, 2013

foto sbarre nell'atmosfera

Ritorno

Non si trovò nulla al ritorno che fosse nel ricordo.
Un passato imperfetto si sgolava
dal cigno delle meraviglie
che solcava l’anima
remigando solo nel buio delle luci notturne
da poco regolate sull’acceso.

Un nuovo ieri si leggeva nelle cose
stravolte da chi non sa.
Poco resiste dell’ordine
che fu quotidiano corso,
evento noto, gesto abituale.

I morti parlano, ho saputo poi,
dalle righe vergate a mano
sugli oggetti consumati;
il tempo li ridona a chi recede
al tepore e alla carezza
del fanciullo che ignorava
il vólto esatto dei sarà.

Un solo istante e tutto muta il quadro

diverge e scosta
lo strappo al cuore della vita
che risale il cinghio della meta ormai raggiunta.

E fra gli astanti muti s’annoverano in tanti
che giú guardano
nel mare freddo e alto
dell’azione temeraria di esser sé,
nell’azzardo fiero di volere ancora
tener fede alla promessa
sorrisa dentro l’infinito abbraccio dell’amore.

da “Disonomíe”

De cantare

Quidam sulle cinque punte dei petali di un fiore in volo
è formidabile
si dice
la luce sembra di questo mondo ma ciò che vede
non è fermo come appare come lo mette a fuoco
non è che gioco
d’insieme
respiro di parti accordate a vivere
qui ora che va il battito del cuore centrifugo
che tiene i gravi in orbita segnatamente lei
transfuga nel loro
sorpresa d’anni molti trascorsi
sopra e dentro lei che perse molti amori strada facendo
nati a questa stessa vita
che morti le dicono sono
restino altri ancora a dire fare baciare
e sguardi attenti dettano a lei
che la stanchezza non tiene piú di sei ore
e poi riprova a camminare e a dire e a fare
giú e su per la via del campo santo dell’esistere minato
che l’ama e tiene divinamente
per mano in giro girotondo dentro questo mondo.

foto il vuotoda Asincrono scacchiere

Il silenzio dell’anima

Felicità è questa bonaccia piatta
umido grigiore che non è tempesta
mi basta questa
per non andare alla deriva
all’altra riva
un sole che aspetta
nel fermo della brezza
altra carezza
che chiede un po’ di sosta
un velo di pazienza

ma la bellezza è già nel nido
che emerge dal galleggio,
un infimo d’arpeggio
appena percepito.

Dove vada a parare
questo tratto di mare
non è dato sapere.
Godere intanto si deve
la stasi forzata, il beccheggio
che pare infinito,
scontato la barca si muova,
scelta dovuta
all’invito del vento.

7.9.14

Senza sponde

Le molte trascorse lune
oltre il monte nero della notte
scheletrita
atterrano
sugli oceani di sabbia
delle solitudini
immerse immense
in ogni nascita risolta.
Uno da due.
Cosí sempre si genera
ingenerosa vita
nei separati abbandoni
quando il fuoco del respiro
arde in gola
e prende a pulsare il sangue
nelle reti spinose delle vene.

Il buio che contiene
accende della luce i vivi
sul campo minato della gara,
tiene alto il nodo
scorsoio che regge
ma incatena
e lascia senza freni al precipizio
la sconfitta.
Facile scommessa di vittoria
al tempo inetto delle fiabe,
quando tutto azzurro pare il cielo
e dolce il centro dell’idea
che il vero non confonde;
il buono tace
e il bello serra fermo il filo
dell’amore, anche al cuore
che palpita e che teme
nel letto di neve
di promesse
e cede in sorte e al vento
le sue sponde.

18.1.13

 

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IL “NUOVO REALISMO” e il PROBLEMA DELLA “NUOVA ONTOLOGIA”. Il Silenzio, Il Limite, il Linguaggio, la Morte – COLLOQUIO A PIÙ VOCI (Flavio Almerighi, Gabriele Fratini, Giorgio Linguaglossa, Lucia Gaddo, Giorgio Fontana) avvenuto su questa Rivista il 28 ottobre 2015 CON UNA POESIA di Czesław Miłosz “Ars poetica” (1957) nella traduzione di Paolo Statuti e Pietro Marchesani

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Giorgio Linguaglossa

28 ottobre 2015

  1. Scrive Umberto Eco nel post https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/03/19/umberto-eco-il-realismo-minimo-il-dibattito-sulla-fine-del-postmoderno-non-tutto-e-interpretazione/ 

«Noi abbiamo invece la fondamentale esperienza di un Limite di fronte al quale il nostro linguaggio sfuma nel silenzio: è l’esperienza della Morte. Siccome mi avvicino al mondo sapendo che almeno un limite c’è, non posso che proseguire la mia interrogazione per vedere se, per caso, di limiti non ce ne siano altri ancora».

Il problema posto da Eco, quello del “Limite”, coglie nel segno. Non c’è solo il “Limite” della “Morte” ma anche il “Limite” del linguaggio. E dove è che il linguaggio mostra con maggiore evidenza il suo statuto di “limite”? La mia morte, la morte dell’ente uomo equivale alla morte del mio linguaggio. Il limite del mio linguaggio è la mia morte. Ma, al contempo, i linguaggi sopravvivono con gli altri esseri umani. E allora, qual è quella cosa che ci rende manifesta la presenza del «limite»? È ovvio: nell’arte e nella poesia che adombra (mai termine è stato più adatto, nel senso che fa ombra e ne è l’ombra) il “Silenzio“. Ogni Lingua ha i propri confini nel «silenzio». Il mare magnum della lingua confina e sconfina nel “silenzio”, e tutte le lingue messe insieme confinano e sconfinano nel “silenzio”. Il “silenzio” è ciò che sta al di là della lingua (e al di qua), ed è lui l’attore che mette in moto la forza inerziale delle lingue. Il “silenzio”, dunque, è il vero motore immobile che mette in azione tutte le lingue, ma questo silenzio noi lo avvertiamo, ne possiamo percepire la presenza soltanto per il mezzo della poesia e dell’arte suprema. In tal senso, ed entro questa problematica, io credo che dobbiamo porre la questione del “realismo”. Il “realismo” sta dentro la lingua, utilizza le sue categorie logiche e filosofiche, ma la lingua, ogni lingua, muta, è immersa in un viaggio perenne, in un moto di traslazione, è sorretta da una forza inerziale che ha dato il via alla traslazione delle lingue verso… verso il silenzio dell’universo al termine del pianeta terra e di esso universo.

Ritengo utilissimo il concetto di «limite» come quel qualcosa contro cui va a sbattere ogni categoria sia essa debole o forte. Per quanto grande sia la volontà di potenza del mondo della tecnica, anche essa dovrà prima o poi arrestarsi impotente di fronte alla barriera del «limite».

«Il primo principio delle cose è il nulla» scrive Leopardi il 7 agosto 1821. Il motivo è che per Leopardi «nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere o non essere in quel modo (P. 1341). Perché la solidità delle cose ha come principio il nulla, «tutto è nulla, solido nulla». (Leopardi)

Mi sembra che il modo più autentico con cui possiamo affrontare la questione del “realismo” sia questo: tenere sempre presente i concetti di “limite” e di “nulla”. E ha fatto bene Eco a ricordare che il Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo pecca di realismo ingenuo, cioè di un concetto di realismo come lo può avere un analfabeta del secolo XX. E sappiamo quanti guasti abbia fatto il pensiero così semplificato nel secolo XX. Semplificare il pensiero significa portarsi dentro la barbarie.

  1. Roy Lichtenstein 1993 – LARGE INTERIOR WITH THREE REFLECTIONS – Tape, painted and pirnted paper on board (87 x 233 cm)

    Roy Lichtenstein 1993 – LARGE INTERIOR WITH THREE REFLECTIONS – Tape, painted and pirnted paper on board (87 x 233 cm)

    gabriele fratini

28 ottobre 2015 alle 12:55 Modifica

Interessante articolo che mi aggiorna sul vacuo percorso della filosofia negli ultimi sette anni, da quando lasciai l’università nella crescente convinzione che la filosofia si stesse incartando in sottigliezze sempre più vane. Sono comunque compiaciuto che si torni a parlare di realismo, sia pure in modi rivedibili. Un saluto.

  1. almerighi

28 ottobre 2015 alle 12:55

Io penso che il bello della filosofia sia proprio nel fatto che all’atto pratico il pensiero filosofico non serve assolutamente a niente, anzi si tende a dire che uno che “filosofeggia” praticamente sta gettando il suo tempo. Eppure è il pensiero filosofico che assume una valenza gigantesca quale terreno fertile per nuovi modi di concepire qualsiasi cosa, dalla politica, all’arte e soprattutto poesia, fino a alla costruzione delle scienze, quelle esatte escluse. Quindi parlare di filosofia realista a mio avviso è un ossimoro anche piuttosto sgraziato. Diciamo piuttosto che mancano i pensatori, quelli buoni sono invecchiati, di giovani l’orizzonte è scarso.

  1. Roy Lichtenstein Masterpiece

    Roy Lichtenstein Masterpiece

    giorgio linguaglossa

28 ottobre 2015 alle 18:32

Ecco una perspicua sintesi del pensiero di Maurizio Ferraris. Dal sito editori Laterza:

«Non si può fare a meno del reale, del suo starci di fronte e non essere disponibile a negoziare. Sia quello che sia, ci renda felici o infelici, è qualcosa che resiste e che insiste, ora e sempre, come un fatto che non sopporta di essere ridotto a interpretazione, come un reale che non ha voglia di svaporare in reality.

La realtà è socialmente costruita e infinitamente manipolabile? La verità è una nozione inutile? Il ‘nuovo realismo’ è anzitutto la presa d’atto di un cambio di stagione. L’esperienza storica dei populismi mediatici, delle guerre post 11 settembre e della recente crisi economica ha portato una pesantissima smentita di due dogmi centrali del postmoderno: l’idea che la realtà sia socialmente costruita e infinitamente manipolabile, e che la verità e l’oggettività siano nozioni inutili. Le necessità reali, le vite e le morti reali, che non sopportano di essere ridotte a interpretazioni, sono tornate a far valere i loro diritti.

Quello che ora è necessario non è tanto una nuova teoria della realtà (né meno che mai una ‘teoria della nuova realtà’, che suona minacciosa anche solo a leggerla), quanto piuttosto un lavoro che sappia distinguere, con pazienza e caso per caso, che cosa è naturale e cosa è culturale, che cosa è costruito e cosa no. È qui che si aprono le grandi sfide, etiche e politiche, e si disegna un nuovo spazio per la filosofia.

È questo il senso di queste pagine, sintesi del lavoro degli ultimi vent’anni di Ferraris, nelle quali la critica del postmoderno è solo una premessa necessaria. È questo, soprattutto, il senso di una grande trasformazione che – a livello mondiale – ha investito la filosofia, portandola fuori dai vicoli ciechi che nel secolo scorso hanno indotto molti a parlare della sua fine».

«La realtà è socialmente costruita e infinitamente manipolabile e la verità è una nozione inutile: questo è stato il pensiero “postmoderno” che ha dominato negli ultimi decenni. Una visione della vita per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni, possibilmente da non prendere troppo sul serio, e un approccio al mondo per cui basta desiderare e siamo in grado di cambiare la nostra vita. Il postmoderno ha pervaso ogni ambito della quotidianità, dalla politica, all’arte, alla letteratura, alla dipendenza dal linguaggio delle fiction e dei reality, così finto da sembrare vero. Maurizio Ferraris critica senza riserve questo modo di pensare e propone di tornare alla realtà dei fatti e delle verità appurabili, che esistono e sono evidenti, inemendabili. In questo “Manifesto del nuovo realismo”, che sintetizza gli ultimi venti anni del suo lavoro, indaga su alcuni concetti chiave degli ultimi decenni: emancipazione, autorità, illuminismo, decostruzione, critica, realtà, verità. Ferraris sostiene con forza il ruolo della filosofia per argomentare e difendere il realismo filosofico. “L’umanità deve salvarsi, e occorrono il sapere, la verità e la realtà. Non accettarli, come hanno fatto il postmoderno filosofico e il populismo politico, significa seguire l’alternativa, sempre possibile, che propone il Grande Inquisitore; seguire la via del miracolo, del mistero e dell’autorità”».

Ritengo che se si intende il “reale” come quella cosa-che-sta-di-fronte, sicuramente siamo fuori strada, per il semplice fatto che il “reale” sono anch’io che lo osservo e che lo guardo vivere (anche io mi posso guardare vivere mentre che vivo, ma è soltanto una astrazione mia mentale questa). Dunque, prima di parlare di “realismo” dobbiamo domandarci che cosa sia il “reale”, a patto, però, di non ricadere nelle forme di realismo ingenuo come quello di Tommaso e di Lenin di «Materialismo ed empiriocriticismo», ma mentre il primo viveva nel mondo chiuso e totalitario della Scolastica, il secondo preparava il mondo chiuso e totalitario del comunismo. Io, francamente, vorrei evitare che qualcuno tornasse a pensare in modo analogo, che si tornasse a una filosofia come quella di Tommaso e di Lenin.

Il problema che io mi pongo e che vorrei sapere dai filosofi è questo: è tutto il discorso riducibile alla ontologia? Non si dovrebbe allora parlare di una Nuova Ontologia prima di discutere di un “nuovo realismo”? Ecco, vorrei tanto avere dei lumi in proposito.

  1. roy lichtenstein interior with Built in Bar

    roy lichtenstein interior with Built in Bar

    giorgio linguaglossa

28 ottobre 2015 alle 19:41

Ars Poetica  – Czesław Miłosz (1957)

Ho sempre aspirato a una forma più capace,
che non fosse né troppo poesia né troppo prosa
e permettesse di comprendersi senza esporre nessuno,
né l’autore né il lettore, a sofferenze insigni.
.
Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente:
sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse,
sbattiamo quindi gli occhi come se fosse sbalzata fuori una tigre,
ferma nella luce, sferzando la coda sui fianchi.
.
Perciò giustamente si dice che la poesia è dettata da un daimon,
benché sia esagerato sostenere che debba trattarsi di un angelo.
È difficile comprendere da dove venga quest’orgoglio dei poeti,
se sovente si vergognano che appaia la loro debolezza.
.
Quale uomo ragionevole vuole essere dominio dei demoni
che si comportano in lui come in casa propria, parlano molte lingue,
e quasi non contenti di rubargli le labbra e la mano
cercano per proprio comodo di cambiarne il destino?
.
Perché ciò che è morboso è oggi apprezzato,
qualcuno può pensare che io stia solo scherzando
o abbia trovato un altro modo ancora
per lodare l’Arte servendomi dell’ironia.
.
C’è stato un tempo in cui si leggevano solo libri saggi
che ci aiutavano a sopportare il dolore e l’infelicità.
Ciò tuttavia non è lo stesso che sfogliare mille
opere provenienti direttamente da una clinica psichiatrica.
.
Eppure il mondo è diverso da come ci sembra
e noi siamo diversi dal nostro farneticare.
La gente conserva quindi una silenziosa onestà,
conquistando così la stima di parenti e vicini.
.
L’utilità della poesia sta nel ricordarci
quanto sia difficile rimanere la stessa persona,
perché la nostra casa è aperta, la porta senza chiave
e ospiti invisibili entrano ed escono.
.
Ciò di cui parlo non è, d’accordo, poesia,
perché è lecito scrivere versi di rado e controvoglia,
spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza
che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento.

(Czesław Miłosz, Poesie Adelphi, Milano, 1983, traduzione di Pietro Marchesani)

Ars poetica?

.

Ho sempre desiderato una forma pù capiente,
che non fosse né troppo poesia né troppo prosa
e permettesse di capirci non esponendo nessuno,
né l’autore né il lettore, a sublimi tormenti.

.

Nell’essenza stessa della poesia c’è un non so che di sconveniente:
nasce da noi una cosa che non sapevamo fosse in noi,
quindi battiamo gli occhi come se saltasse fuori una tigre
e immersa nella luce si sferzasse i fianchi con la coda.

.

Perciò giustamente si dice che la poesia sia dettata dal daimonion,
anche se è esagerato affermare che sia di sicuro un angelo.
Difficile dire da dove nasca l’orgoglio dei poeti,
se spesso si vergognano che si veda la loro debolezza.

.

Quale uomo ragionevole vorrà essere una città di dèmoni,
che fanno i padroni in casa sua, che parlano molte lingue,
e come se non bastasse loro di rubargli bocca e mano,
provino per propria comodità a cambiargli il destino?

.

Poiché oggi è apprezzato ciò che è morboso,
qualcuno può pensare che io stia scherzando
o che abbia scoperto un modo nuovo
di elogiare l’Arte tramite l’ironia.

.

Un tempo si leggevano soltanto saggi libri
che aiutavano a sopportare dolore e infelicità.
Ciò tuttavia non è come guardare mille
opere provenienti da una clinica psichiatrica.

.

E inoltre il mondo non è come ci sembra che sia
e noi siamo diversi da come ci vediamo nel nostro delirio.
La gente quindi mantiene una taciturna integrità,
guadagnandosi così il rispetto di parenti e vicini.

.

Scopo della poesia è quello di rammentarci
come sia difficile restare la stessa persona,
perché la nostra casa è aperta, la porta è senza chiave
e invisibili ospiti vanno e vengono.

.

Ciò di cui qui parlo non è affatto poesia.
Perché i versi si possono scrivere di rado e malvolentieri,
con una insopportabile costrizione e solo sperando
che non i cattivi ma i buoni spiriti ci scelgano come loro strumento.
 (1957, Versione di Paolo Statuti)

Versione inglese

Translated By Czeslaw Milosz and Lillian Vallee

I have always aspired to a more spacious form   
that would be free from the claims of poetry or prose   
and would let us understand each other without exposing   
the author or reader to sublime agonies.
.
   In the very essence of poetry there is something indecent:   
a thing is brought forth which we didn’t know we had in us,   
so we blink our eyes, as if a tiger had sprung out   
and stood in the light, lashing his tail.   
.
That’s why poetry is rightly said to be dictated by a daimonion,   
though it’s an exaggeration to maintain that he must be an angel.   
It’s hard to guess where that pride of poets comes from,   
when so often they’re put to shame by the disclosure of their frailty.   
.
What reasonable man would like to be a city of demons,   
who behave as if they were at home, speak in many tongues,   
and who, not satisfied with stealing his lips or hand,   
work at changing his destiny for their convenience? 
. 
It’s true that what is morbid is highly valued today,   
and so you may think that I am only joking   
or that I’ve devised just one more means   
of praising Art with the help of irony. 
There was a time when only wise books were read,   
helping us to bear our pain and misery.   
This, after all, is not quite the same   
as leafing through a thousand works fresh from psychiatric clinics.
.   
And yet the world is different from what it seems to be   
and we are other than how we see ourselves in our ravings.
People therefore preserve silent integrity,   
thus earning the respect of their relatives and neighbors.  
.
The purpose of poetry is to remind us   
how difficult it is to remain just one person,   
for our house is open, there are no keys in the doors,   
and invisible guests come in and out at will.
.
What I’m saying here is not, I agree, poetry,   
as poems should be written rarely and reluctantly,   
under unbearable duress and only with the hope   
that good spirits, not evil ones, choose us for their instrument.
.
(Berkeley, 1968)

Commentando questa poesia di Czeslaw Milosz Ars poetica del 1957, scrivevo su questo blog:

Proviamo a ragionare intorno a ciò che vuole dirci il poeta polacco nella poesia sopra citata:
Il momento espressivo-metaforico della forma-poesia è uno spazio espressivo integrale (che può essere colto in un sistema concettuale filosofico, che oggi non c’è per via della latitanza di pensiero estetico da parte dei filosofi). Il momento espressivo coincide con il linguaggio, e il linguaggio è condizionato dai linguaggi che l’hanno preceduto… se il momento espressivo si erige come un qualcosa di più di esso, degenera in non-forma (si badi non parlo qui di informale in pittura come in poesia!), degenera in mera visione del mondo, cioè in politica, in punto di vista condizionato dagli interessi di parte, in chiacchiera, in opinione, in varianti dell’opinione, in sfoghi personali, in personalismi etc. (cose legittime, s’intende ma che non appartengono alla poesia intesa come «forma» di un «evento»).

Il problema di fondo (filosofico, ed estetico) della poesia della seconda metà del Novecento (che si prolunga per ignavia di pensiero in questo post-Novecento che è il nuovo secolo), è il non pensare che il problema di una «forma» non può essere disgiunto dal problema di uno «spazio», e quest’ultimo non può essere disgiunto dal problema del «tempo» (tempus regit actum, dicevano i giuristi romani). Ora, il digiuno di filosofia di cui si nutrono molti auto poeti, dico il problema di pensare questi tre concetti in correlazione reciproca, ha determinato, in Italia, una poesia scontatamente lineare unidirezionale (che segue pedissequamente e acriticamente il tempo della linearità metrica), cioè che procede in una sola dimensione: quella della linea, della superficie… ne è derivata una poesia superficiaria e unidimensionale. E, si badi: io dico e ripeto da sempre che il maggiore responsabile di questa situazione di imballo della poesia italiana è stato il maggior poeta del Novecento: Eugenio Montale con Satura (1971), seguito a ruota da Pasolini con Trasumanar e organizzar (1968). Ma queste cose io le ho già spiegate nel mio studio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010 edito da EiLet di Roma nel 2011.

In questa sede posso solo tracciare il punto di arrivo di questo lungo processo: il minimalismo e il post-minimalismo.
Con questa conclusione intendevo tracciare una linea di riflessione che attraversa la poesia del secondo Novecento, una linea di riflessione che diventa una linea di demarcazione.
Delle due l’una: o si accetta la poesia unidirezionale del post-minimalismo magrelliano (legittima s’intende), che prosegue la linea di una poesia superficiaria e unidirezionale che ha antichi antenati e antichi responsabili (parlo di responsabilità estetica) precisi; o si opta una linea di inversione di tendenza da una poesia superficiaria a una poesia tridimensionale che accetta di misurarsi con una «forma più spaziosa», seguendo e traendo le conseguenze dalla impostazione che ha dato Milosz al problema della poesia dell’avvenire. La poesia citata di Milosz è un vero e proprio manifesto per la poesia dell’avvenire, chi non comprende questo semplice nesso non potrà che continuare a fare poesia superficiaria (beninteso, legittimamente), ma un tipo di poesia di cui possiamo sinceramente farne a meno.

  1. roy lichtenstein interior series

    roy lichtenstein interior series

    Lucia Gaddo Zanovello

28 ottobre 2015 alle 22:03

Post parecchio interessante, come pure i commenti. Ritengo l’esercizio della filosofia un corroborante (talora però sterilmente defatigante) ginnasio del pensiero, che si nutre del confronto delle idee fra ‘atleti della mente’. Ora mi sto esercitando sulla bontà di certe ‘decisioni prese a maggioranza’ e su alcuni mutamenti registrati su alcune ‘verità’ o significati che paiono imparentati più col costume (che muta) che con l’assoluto. Poi penserò, mi auguro con maggior profitto di quanto non ne abbia tratto finora, a cosa si intende per ‘buon senso’ e ‘senso comune’.
D’altro canto, anche per me, fortissimamente, la poesia è una delle vie della conoscenza. Nel mio caso, temo, l’unica possibile. Ma se ‘credo’ di vedere per davvero qualcosa che mi fa paura, muoio di paura per davvero, cosa c’è di oggettivo in questo, se non l’allucinazione?
Forse una sorta di corruzione salvifica del pensiero ‘prosastico’, fattosi inabile o insufficiente, trasforma in evento poetico quella particolare scelta estetico stilistica del linguaggio, che è anche il risultato sinergico della rete espressiva determinata dalle circostanze linguistiche e spazio temporali che hanno preceduto l’evento.

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  1. roy lichtenstein citazione make-up

    roy lichtenstein citazione make-up

    giorgio linguaglossa

29 ottobre 2015 alle 10:31

Giorgio Fontana su Il Sole 24 ore del 12 marzo 2013 così scrive a proposito del saggio di Walter Siti Il realismo è l’impossibile:

Siti chiarisce subito che la metafora delle parole come specchio della realtà — di un mondo già dato e interpretato, che è sufficiente “raccontare” — è un errore capitale. L’unica arma nelle mani della letteratura è quella di uno specchio deformante, o persino un colpo di magia: il giovane Dickens che guarda la scritta di un bar attraverso la porta a vetri e invece di coffee room legge moor eeffoc, ed è colpito da quel dettaglio. Dall’esatto contrario del quotidiano.

Con una definizione magistrale, il realismo è dunque “quella postura verbale o iconica (talvolta casuale, talvolta ottenuta a forza di tecnica) che coglie impreparata la realtà, o ci coglie impreparati di fronte alla realtà”. O più poeticamente, “una forma di innamoramento”.
Il vero realismo cade infatti sotto l’incantesimo di una scena, di un dettaglio, e da essi estrae un mondo intero: perché li ama con “parole folgoranti che azzerano i distinguo […], dettagli sottratti al flusso della consuetudine e gettati a illuminare il mistero”. Si invaghisce degli oggetti per ciò che sono, e il loro “effetto di reale” è tanto più inutile al preteso funzionamento di una storia tanto più è autentico. In una frase, “secolarizza il mondo solo per re-incantarlo”.

Questa professione di fede in un realismo che sembra quasi rovesciarsi nel misticismo è anche una dichiarazione di poetica, e aiuta a comprendere meglio l’opera dello stesso Siti — ma soprattutto, aiuta a illuminare certe zone d’ombra della narrativa contemporanea.
Le nuove correnti “pseudo-realiste” — racconti del precariato, romanzi storici, autobiografismo spinto e ritorno al romanzo psicologista — falliscono nel loro intento proprio perché vengono sedotte dall’immagine dello specchio: sono così disperatamente bisognose di documentare che dimenticano le possibilità del proprio mezzo. La dignità dell’esperienza è elevata a dignità del racconto “perché è successa davvero”, “perché assomiglia alla realtà”, e tanto basta.

Ma il vero scrittore realista (Stendhal, Flaubert, Zola) disvela un mondo possibile che non è mai dato come ovvio, bensì è “un intarsio traforato e instabile che può crollare in un soffio se lo scrittore appena si distrae”. Il cosmo sottoposto all’incantesimo della narrazione è estremamente fragile, e non ha nulla a che vedere con il bisogno di verosimiglianza.

36 commenti

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L’IMMAGINE NELLA POESIA CONTEMPORANEA – DIALOGO A PIU’ VOCI avvenuto sull’Ombra delle Parole: Gezim Hajdari, Steven Grieco, Giorgina Busca Gernetti, Letizia Leone Giorgio Linguaglossa, Flavio Almerighi, Lucia Gaddo Zanovello

Le Trou Noir, lithographie et dessin (1992) de Jean-Pierre Luminet

Le Trou Noir, lithographie et dessin (1992) de Jean-Pierre Luminet

Steven Grieco

Steven Grieco

Caro Gezim,

finalmente ti scrivo! Mi ha fatto molto piacere vederti mercoledì scorso con gli altri della redazione de L’Ombra, così ci siamo potuti conoscere un po’ meglio.

Leggendo la tua poesia, Gezim, e meditandola, ho visto bene come anche tu hai l’istinto, che appunto è istinto prima ancora di essere scelta cosciente, di esprimerti in poesia attraverso una immagine visiva forte.

In effetti, io penso che la poesia, quella italiana sicuramente, ma anche quella di tante altre lingue, abbia sofferto molto negli ultimi decenni proprio perché si è allontanata dall’immagine visiva come veicolo del sentimento poetico e della riflessione profonda, preferendo invece uno stile basato sulla riflessione “oggettiva” delle cose. Intendo una oggettività che doveva vedere “il vero della vita”, invece è andata sempre più a basarsi sul consenso sociale, sull’approvazione del prossimo, una sorta di borghesia della poesia, che ha sicuramente dato qualche buon risultato (posso pensare in inglese a un Philip Larkin, un Robert Lowell) ma che ha presto fatto il suo tempo, e non ha aiutato i poeti più giovani a trovare una propria voce al di fuori di questo schema troppo restrittivo troppo ridotto.

Va bene, io non voglio fare una grande analisi della questione, non sono nemmeno equipaggiato criticamente per farlo, so soltanto che la mia lettura di tanti e tantissimi poeti dei nostri tempi mi ha portato a questa sorta di conclusione. Un linguaggio poetico si è inaridito, e, complice la situazione culturale che viviamo attualmente, non è più ahimé successo niente di nuovo, o solo in rare occasioni, grazie a rari poeti.

Questa visione immaginifica della poesia è una cosa che, a quanto pare, siamo però in tanti a condividere. Sicuramente, fra questi, Giorgio, tu e io.

Non so se hai visto il mio post che abbiamo messo sabato scorso su “L’Ombra delle parole”, sul tema dell’autoritratto. Erano composizioni le mie nelle quali non solo affronto la questione dell’autoritratto in poesia, ma cerco di mostrare come il rapporto soggetto-oggetto così caro a una certa visione del mondo, viene in qualche modo privata della sua supposta “universalità” quando l’oggetto non è più necessariamente il volto del poeta, ma diventa invece il paesaggio (della Natura o urbano) in cui egli si identifica totalmente (così come oggi noi capiamo che senza l’ambiente non sopravviveremo a lungo). Questa identificazione porta la consapevolezza del modo in cui noi come artisti interveniamo sul mondo, come in realtà lo plasmiamo e come il mondo plasma noi, quasi invisibilmente.
In effetti, c’è stata una discreta risposta da parte dei lettori, che hanno scritto dei commenti anche molto belli. Sia in quella occasione, ma anche in mesi precedenti, Giorgio e io abbiamo come dire affrontato questa questione della dimensione immaginifica nella poesia.

La cosa strana è che Giorgio e io non abbiamo mai formulato un programma comune, ma il dibattito è nato in modo naturale nel corso degli ultimi mesi. Questo ovviamente perché tutti e due condividiamo certe idee fondamentali sulla poesia.

Ecco, io pensavo, perché non ti unisci anche tu a questo dibattito? Non si tratta di teorizzare la nostra ispirazione, ma di dire cose al di fuori della poesia che però vertono sulla poesia. Possiamo arricchirci tutti insieme. Proprio perché i nostri stili sono da tempo formati, ma lo stesso non è vero per i poeti più giovani che forse sarebbero felici di seguire un dibattito di questo tipo.

Un caro saluto e buon lavoro,

(Steven Grieco)

2015-04-23 18:19 GMT+02:00 gezim hajdari <gezim_hajdari@yahoo.it>:

Gezim Hajdari Siena 2000

Gezim Hajdari Siena 2000

Caro Steven,

come stai? da un po’ di tempo no ci sentiamo, comunque ti leggo sempre con piacere sulL’Ombra, sia come poeta, che critico e traduttore. Scusa la mia latitanza sui commenti del blog, a dire la verità non sono bravo per niente nel scrivere recensioni di critica. Credimi. Inoltre, a causa delle difficoltà economiche, che sembrano non avere mai fine, vivo senza internet in casa.
Intanto trovo l’occasione per ringraziarti di cuore delle tue belle e nobili parole relative alla mia poesia pubblicate ieri sul blog di Giorgio. La tua osservazione sulla mia poesia è verissima, acuta e assai particolare. E’ proprio come scrivi tu, la poesia balcanica è molto legata al mito, all’oralità e all’epica. I miei provengono dal Nord d’Albania, dove regno per 500 anni il Kanun, Codice Giuridico Orale, Codice d’Onore per gli Albanesi delle Alpi. Quindi i miei avi Montanari, che resistettero all’occupazione Ottomana, dal 1479 al 1912, in assenza di uno Stato Giuridico Ottomano, si autogovernarono tramite il Kanun. Questo Codice si basava sulla parola, non c’era nulla di scritto. Alla base del Kanun, c’erabesa, la parola data, la promessa, la fedeltà alla parola. Tutta la vita del montanaro, dalla nascita alla morte, era disciplinata dalle le leggi orali del Kanun, che si tramandavano di generazione in generazione, di padre in figlio. Questa tradizione orale creò una patrimonio epico inestimabile: l’Epos Albanese, che comprende Epos popolare, Epos eroico, Epos dei prodi. Come tu sai meglio di me, tale tradizione ha origine nella lontana età micenea. Ancora oggi, pur se sono trascorsi più di tre mila anni, la poesia balcanica è rimasta balcanica, come è rimasta omerica quella greca.
Il poeta-rapsodo della mia stirpe è stato sempre un uomo coraggioso e impegnato, che si spingeva oltre la propria arte guidando la propria comunità nel labirinto della vita quotidiana a intendere in modo retto e impegnativo verità superiori. Nella Grecia antica, Sofocle era un buon cittadino, impegnato, due volte stratega di Atene e facente parte dei sei magistrati che fecero la Costituzione della sua Città-Stato.
Nella Grecia arcaica il letterato cantava alle vicende, mentre nel periodo classico il letterato parlava sempre al popolo, considerandosi portavoce della comunità, incaricato da una missione civile, pedagogica della intera cittadinanza, che aveva rapporti diretti con lui ed era insieme pubblico, giudice e committente. A Roma il letterato svolgeva una funzione pubblica nella sua qualità di cives romanus.
Mio padre sapeva a memoria più di 10 mila versi. Nella mia infanzia, prima di dormire, io dovevo imparare 100 versi a memoria, era un dovere per ogni membro della famiglia degli albanesi del Nord. Tutto questo per non far morire la memoria millenaria della stirpe. E’ così che si sono tramandate le Veda Indiane, le opere di Omero e di Socrate. Non a caso quest’ultimo non scrisse nulla sulla pergamena dell’epoca, riteneva che la scrittura uccidesse la memoria. Ha provato anche Platone di non scrivere dicendo che fare il filosofo è un modo di fare, di essere e di pensare, non di scrivere. Ma per fortuna poi cambiò idea e decise di scrivere i suoi trattati filosofici e spirituali.
E’ per questo che io scrivo non per essere creduto ma per tramandare la memoria alle prossime generazioni. Comunicando con l’Occidente come balcanico, cercando di fondere la grande tradizione epica balcanica con la grande poesia lirica del Novecento europea. Penso che sia questa la differenza tra me e i miei colleghi migranti in Italia e in Europa, che diversamente da me scrivono come se fossero dei poeti del luogo. Si tratta di una brutta trappola che ha intrappolato molti miei colleghi in Francia, Inghilterra e in USA.
Comunque ne parleremo con calma durante i giorni del Festival di Campobasso.
Un caro saluto e a presto.
Gezim Hajdari
 

 POESIE EDITE E INEDITE di Steven  Grieco SUL TEMA DELL’AUTORITRATTO O DELL’IDENTITA’ O DEL POETA ALLO SPECCHIO con un Appunto dell’Autore e un Commento critico di Giorgio Linguaglossa – “Senza titolo”, “Autoritratto”, “Autoritratti”, “Tre veglie nel sogno” | L’Ombra delle Parole

giorgio linguaglossa 2011

giorgio linguaglossa 2011

caro Flavio,

qualche giorno fa, conversando con Antonio Sagredo, qui a Roma nei pressi della Metro San Paolo dove abito, mi rivelava che aveva adottato un verso di un altro poeta di cui non ricordava il nome ma che cominciava con M, ma, proseguiva, aveva avuto il sospetto che M avesse preso a prestito quel verso da un poeta precedente (infatti stava facendo ricerche…). Insomma, il verso era: «La pupilla armata convoca il delirio». Io ho risposto a Sagredo che il verso aveva una sua bellezza baroccheggiante ma che non avrei mai potuto scrivere un verso del genere, non corrispondeva alla mia filosofia e al mio stile, ma, aggiunsi, capivo però che era un verso dotato di un certo fascino, anche se di un tipo di fascino che non amavo e che non condividevo.
Fin qui la storia.
Perché l’ho raccontata?, l’ho raccontata per rispondere indirettamente a Flavio Almerighi. In fin dei conti, la poesia è un corpo unico che attraversa i secoli e i millenni, è un rimando continuo, una citazione continua e una risposta alla citazione… le filastrocche dei cantautori invece sono filastrocche e basta, non comunicano tra di loro se non per le necessità di mercato e musicali della musica applicata ai testi. La poesia, e questo è importante, è restia alla musica applicata, vive di se stessa.

      • flavio almerighi

        flavio almerighi

        almerighi

        2 maggio 2015 alle 14:43 Modifica

        Caro Giorgio, Sagredo da riformattare a parte, trovo la tua risposta un po’ semplicistica. Io non sto parlando dei soliti noti da De André in giù, io sto parlando di una stirpe di poeti, molto più musicali del poema giocagiò della Perrone o dell’erotismo poelnta e osei della Leone, giusto per citare un paio di nefandi post recentemente apparsi, che hanno prestato poesia alla canzone, Parlo per esempio di Roberto Roversi, di Pasquale Panella di Pier Paolo Pasolini se pure in tono più minore, e anche con Piero Ciampi.. Con questi dobbiamo fare i conti, e il post con le poesie di Grieco così asciutte e così belle mi ha fornito lo spunto per parlarne. Non possiamo classificarli a facitori di filastrocche per meri motivi commerciali.

        “Il mare
        al tramonto
        salì
        sulla luna
        e senza appuntamento
        dopo uno sguardo
        dietro tendine di stelle
        se la chiavò”

        Ti ricorda qualcosa?
        E’ una canzone di Zucchero, dirai. Sbagliato.
        E’ il plagio di una poesia di Piero Ciampi da parte di Zucchero, che solo in seguito ad una causa intentatagli riconobbe il “furto” e citò la fonte nelle ristampe del suo disco. Non è che il povero Sagredo ha preso il verso da Ciampi?

    1. Giorgina Busca Gernetti

      Giorgina Busca Gernetti

      Colpisce subito, di Steven Grieco, la “clarté” del dettato, sia in prosa sia in poesia.
      Che ciò derivi dall’assidua frequentazione degli Haiku o dalla sua intima natura non si potrebbe affermare con certezza. Spicca evidente, però, il linguaggio elegantemente semplice, in cui le parole si susseguono con naturalezza senza ricerca di artifici retorici o di un lessico raro.
      È molto utile la parte critica introduttiva in cui il poeta illustra la sua concezione di autoritratto e di uomo allo specchio, aggiungendo una parte diaristica: ciò consente al lettore di non sentirsi disorientato di fronte alle poesie molto originali, rispetto agli autoritratti in poesia di noti poeti.
      Parafrasando la frase di Harold Pinter citata da Steven Grieco, sostituendo a “muovi di un millimetro e l’immagina cambia” “sposta di un istante”, la nostra immagine riflessa dallo specchio sarebbe egualmente diversa da quella di un istante prima, poiché, secondo me, la visuale muta secondo lo stato d’animo che non è mai immobile nello spazio e nel tempo, ma sempre in tumulto e in divenire. Non siamo e non sembriamo sempre gli stessi.
      Gli autoritratti di Steven Grieco e l’uomo allo specchio non sono immagini fisse come in una fotografia ormai stampata, ma sono eventi, quindi atti in divenire in cui può accadere che il personaggio creda di poter vedere una cosa che gli è nota e invece, guardando bene, ne vede un’altra, sebbene simile, come i fiori bianchi del pero o altre fioriture di altri alberi.
      Anche la fotografia, non solo l’immagine resa dallo specchio, non coincide perfettamente con l’identità del soggetto. La fotografia trasforma la nostra immagine in relazione a tanti fattori che un bravo fotografo conosce (non mi riferisco al ritocco fotografico). L’immagine resa dallo specchio spesso è diversa da uno specchio all’altro, in relazione alla qualità e alla forma della superficie riflettente, alla luce e all’eventuale antichità dello specchio.
      Tutto, dunque, è relativo, quindi l’autoritratto né si prefigge di riflettere perfettamente l’identità del soggetto, né vi riesce, pur volendolo, sia con i colori, sia con le parole.
      Non analizzo una ad una le pregevoli poesie di Steven Grieco perché gli farei torto: la vera poesia si spiega da sola. Mi attira, però, “Senza Titolo”:
      .
      Nessun branco di cervi nella radura.
      .
      La concentrazione invisibile
      alla sorgente ferma del pensare:
      allora, senza nemmeno uno specchio,
      vedesti l’immagine di te stesso.

      (1986)
      .
      Credo anch’io che l’immagine più fedele del soggetto, senza bisogno di specchio, sia nel profondo del pensiero, nella mente, nell’animo. Forse!

      Giorgina Busca Gernetti

        • Corrige: “susino”, non “pero”.
          Comunque entrambi gli alberi da frutto hanno una splendida fioritura bianca molto simile a “quell’altro biancore”.
          GBG

          Lucia Gaddo Zanovello
          Lucia Gaddo Zanovello

          Lucia Gaddo Zanovello

          2 maggio 2015 alle 16:09 Modifica

          Credo che ciascuno di noi sia talmente in continua mutazione da risultare molto difficile l’autoritratto, sotto qualunque forma, non può trattarsi che di un’istantanea. Quello che ha del mirabolante è l’eventuale ‘riconoscersi’, il che accade raramente. Nelle istantanee che restano o non restano del temporaneo resiste l’attimo di di ciò che fummo. Personalmente avverto sempre come se ci fosse in me qualcosa di morboso quando mi faccio osservatrice di fotografie, quasi fossi a spiare, in una sorta di bird watching, quel che accade ai corpi sottoposti al passaggio terreno. Un indagare che ha dell’origliare, talora anche con occhi di contemplazione, o dello scrutare per conoscere o riconoscere qualcosa di ciò che si ritiene perduto.
          Tanto mi interessa l’attimo dell’”io nascosto” in ciascuno di noi, che forse può essere solo ‘sfiorato’, proprio come dice Steven Grieco nella sua poesia, da parermi, questi, attimi di verità, che qui, nelle poesie di Steven Grieco trovo in abbondanza.
          Avverto anch’io in questi testi il nitore orientale della sintesi felice, come in quello più volte citato del susino, dove trovo il folgorante assunto “incredulo/ guardai a lungo quell’altro biancore”.
          Ma sono rimasta molto impressionata in “Autoritratti”, da passaggi come questo: “Niente sgretola l’ignaro che non vede,/ aggiogato, indistruttibile:/ che continua la sua fuga, si disfa e/ si ricrea, di corpo in altro corpo.” o quest’altro: “…i visi gettati qua e là:/ gli sguardi che dormono incatenati.” che sono, secondo me, da studiare e ristudiare.

    1. Steven Grieco

  1. Grazie a Giorgio per questi commenti su precisi aspetti della mia poetica. Non ha fatto che arricchire il mio lavoro. In effetti, se la critica e l’analisi letteraria devono servire a qualcosa, è proprio a questo: illuminare il senso di una scrittura, contestualizzarla, dare strumenti per interpretarla meglio. Da quando ci conosciamo (un anno, poco più), Giorgio ha spesso preso coraggio e commentato la mia poesia, che viene detta “difficile” (a Delhi come a Roma), e non posso dire quanto gliene sono grato.
    Riguardo a Fenollosa, fantastico! Bisognerebbe che ciascun poeta si leggesse quei passi, per avere in mano oggi uno strumento potente – la comprensione della dinamica profonda dell’immagine, della sua ontogenesi (posso usare questo termine?) – per lasciarsi alle spalle un certo ristagno e meglio capire come la strada della poesia può andare avanti.
    Un importante studioso cinese-francese, Francois Cheng, parla proprio di questo nel suo splendido libro “L’Écriture poétique chinoise”, 1977, édition revisée 1982, Éditions du Seuil, Parigi.
    Premetto che la visione cinese, e specificamente taoista, ci rende un mondo Cielo-Terra-Uomo, inteso come un insieme unico e interconnesso e ininterrotto, un Pieno che viene messo in moto dinamico dal soffio inesausto del Vuoto. (E scusatemi per questa affrettata riduzione di un pensiero grande e importante.)
    Su questa base, l’unicità della visione estetica cinese nasce dal primo, primordiale, tratto del pennello, quello che traccia una linea nera sul foglio bianco (il Vuoto), e che è lo stesso per calligrafia, poesia e pittura. Perché in tutte e tre queste arti, l’espressione è sempre veicolata dal’immagine visiva. Nel caso della calligrafia e della poesia, quell’immagine è costituita dall’ideogramma, essere complesso che cela in sé molteplici significati, e che a volte sembra dotato di una sua coscienza, e perfino di poteri speciali (ma poi nella pittura si aggiunge spesso una poesia nella parte dove sta il vuoto, ciò che imprime al quadro, ossia alla dimensione spaziale, anche il senso temporale).
    L’uomo è dunque pienamente partecipe della realtà del mondo in ogni suo minimo particolare, che lui stesso plasma; egli è sempre tutt’uno con la natura e l’ambiente, che lo pervadono e che lui pervade.
    Come tradurre questa nozione in realtà poetica?
    Nel periodo Tang i poeti iniziano a parlare di parole piene e parole vuote. Le parole piene sono sostantivi e verbi (divisi in verbi di azione e verbi di qualità), le parole vuote sono pronomi personali, avverbi, preposizioni, congiunzioni, etc (pag 30).
    A pagina 33 del suo libro, Cheng dà un esempio che vi traduco:

    Sonno di primavera ignorare alba
    tutto intorno udire canto di uccelli
    notte passata: rumore di vento, pioggia
    i petali caduti, chissà quanti…

    E dice: “il lettore è invitato a entrare… nello stato un po’ vago del dormiente appena sveglio. Il primo verso non colloca il lettore davanti ad uno che dorme, ma lo situa al livello del suo sonno, un sonno che si confonde con il sonno della primavera. Gli altri tre versi, sovrapposti, “rappresentano” i tre strati della coscienza del dormiente: “presente (gorgheggio di uccelli), passato (rumori di vento e pioggia), futuro (presentimento di una felicità troppo fuggitiva e vago desiderio di scendere in giardino per vedere il suolo coperto di fiori). Ciò che un traduttore maldestro tradurrebbe, con un linguaggio denotativo, in “mentre dormo in primavera…” “intorno a me sento…” “mi ricordo che…” “e mi chiedo…” … evocando cioè un autore perfettamente desto… che fa un commentario al di fuori delle sensazioni.”
    Aggiungo l’ovvio: qui il poeta non usa quelle parti del discorso che subito lo differenzierebbero e lo allontanerebbero dal mondo circostante, riproponendo la contrapposizione soggetto-oggetto, chi ode-sente-pensa e cosa viene udito-sentito-pensato. In questo modo, attraverso il poeta, l’udito-sentito-pensato, e cioè l’ambiente circostante, si rivela per quello che realmente è: ossia, realtà viva, in qualche modo senziente, specchio dell’uomo, così come l’uomo è specchio di esso.
    Ecco perché tutto questo ha a che fare con l’autoritratto.

da dx Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino e, a sx  Gezim Hajdari Roma presentazione del libro Delta del tuo fiume aprile 2015 Bibl Rispoli

da dx Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino e, a sx Gezim Hajdari Roma presentazione del libro Delta del tuo fiume aprile 2015 Bibl Rispoli

caro Steven,
è indubbio che l’elemento visivo della poesia (quello che io chiamo il congegno ottico) sia stato quello che è stato maggiormente trascurato e sacrificato. La poesia italiana ha dapprima (con Pascoli e D’Annunzio) sopravvalutato l’elemento sonoro rispetto a quello visivo, con la conseguenza che le poetiche del decadentismo (come si dice nelle Accademie) hanno coltivato quasi esclusivamente una poesia di stampo lineare sonora. Una mentalità conservatrice che si è mantenuta pervicacemente fino ai giorni nostri a cui ha dato un appoggio notevole la disconoscenza della rivoluzione modernista avvenuta nella poesia europea nel Novecento, la disconoscenza dell’imagismo di Pound, delle idee di Fenollosa, degli Haiku cinesi e giapponesi. Oggi forse sono maturi i tempi per portare la nostra attenzione sugli aspetti visivi della poesia, sul rapporto soggetto oggetto (anche questo inteso sempre in modo meccanicistico e lineare come posti l’uno di fronte all’altro). Da questo punto di vista Laborintus (1956) di Sanguineti non differisce da Le ceneri di Gramsci (1957) di Pasolini, entrambe le operazioni si interessavano esclusivamente degli aspetti fonici, lessemici e lineari della poesia. Le cose non sono cambiate poi sotto l’egemonia dello sperimentalismo post-zanzottiano il quale era incapace di considerare una poesia come un congegno prevalentemente ottico, come un poliedro quadridimensionale. Questa arretratezza generale della poesia italiana del secondo Novecento si manifesta chiaramente oggi che il percorso si è compiuto. La poesia di un Umberto Fiori, come quella di un Cucchi da questo punto di vista non differisce da quella di un Magrelli, sono tutte filiazioni di una impostazione conservatrice dei problemi di poetica, costoro fanno una poesia lineare, non sanno fare altro. E qui la lezione che proviene dalla tua poesia è utilissima per far capire a chi ha orecchie per intendere, che è ormai tempo che la poesia italiana imbocchi la strada di una profonda riforma interna, pena la propria assoluta inessenzialità.

Se leggiamo la prefazione ai Novissimi (1961) di Alfredo Giuliani ci accorgiamo di quanto sia minimo lo scarto di novità impresso alla poesia italiana da questa nuova teorizzazione:

“Non soltanto è arcaico il voler usare un linguaggio contemplativo che pretende di conservare non già il valore e la possibilità della contemplazione, ma la sua reale sintassi; bensì è storicamente posto fuori luogo anche quel linguaggio argomentante che è stato nella lirica italiana una delle grandi invenzioni di Leopardi. Due aspetti delle nostre poesie vorrei far notare particolarmente: una reale “riduzione dell’io” quale produttore di significati e una corrispondente versificazione priva di edonismo, libera da quella ambizione pseudo-rituale che è propria della ormai degradata versificazione sillabica e dei suoi moderni camuffamenti. (…) Il nostro compito è di trattare la lingua comune con la stessa intensità che se fosse la lingua poetica della tradizione e di portare quest’ultima a misurarsi con la vita contemporanea. Si intravede qui un’indefinita possibilità di superare la spuria antinomia tra il cosiddetto monolinguismo, che degenera nella restaurazione classicistica, e quella “mescolanza degli stili” o plurilinguismo, che finisce in una mescolanza degli stili. (…)”

(g.l.)

  • Scrive Novalis: «La filosofia è propriamente nostalgia (…) è desiderio di sentirsi ovunque a casa propria».
    Davvero strano che Novalis non si sia accorto che aveva appena dato una definizione impareggiabile della «poesia». Da allora, dal Romanticismo è iniziato il problema dello spaesamento, dell’essere fuori-luogo, del sostare straniero in ogni terra e in ogni dimora. L’antica unità di soggetto-oggetto, il mondo omogeneo dell’epos è divenuto irraggiungibile, noi viviamo continuamente in preda ad una scissione. Anche nell’immagine riflessa dallo specchio noi vediamo la nostra scissione, la nostra irriconoscibilità. Queste poesie di Steven Grieco sono, in un certo senso, lontanissime dalla poesia, mettiamo, di un Gezim Hajdari. Per Grieco l’io si è definitivamente perso nel mondo (e non c’è alcuna ermeneutica in grado di restituirgli una pallida parvenza), per Hajdari l’io si è «dissolto» nel suo mondo primordiale, va alla ricerca del «senso» nella boscaglia del mondo primordiale (di qui il mito dell’Africa). Per Grieco la boscaglia del senso è diventata irraggiungibile, se non per istanti, brilla per un attimo e poi scompare per sempre nella oscurità dell’indeterminatezza. Per Grieco non si dà autoritratto se non per attimi, lampeggiamenti, preveggenze… per Hajdari l’autoritratto è dato continuamente nella «erranza» da un popolo all’altro, da un paese all’altro, in una continua ricerca che non diventa mai fuga…
    Per Steven Grieco la ricerca dell’autenticità sfocia nella labirintite (esistenziale, non semantica), nella infermità del tempo e dello spazio; in Hajdari, invece, non si dà mai labirintite (né semantica, né esistenziale, di qui la poetica in Hajdari del’«io disperso» e in Grieco dell’«io nascosto»), né disorientamento del suo tempo-spazio. Forse è questo il motivo che spinge Grieco a cercare nuove forme spazio-temporali nella sua poesia mentre per Hajdari il tempo è comunque secondario rispetto alla vastità dello spazio…
    Forzando un po’ i concetti, direi che nella poesia di Grieco siamo davanti ad una estetica del vuoto e nella poesia di Hajdari invece siamo davanti ad una estetica del pieno. Nel «pieno» l’io di Hajdari ricerca i bordi, la periferia dell’io mediante il giganteggiamento dell’io, il virilismo panico, la femminilizzazione del mondo; nella poesia di Steven Grieco siamo invece nel «vuoto», quella dimensione che per il Tao precede il dualismo di Yng e Yang e che dà vita al cosmo dualistico. Il vuoto è inteso come bordo del Reale, la linea della sua interna traumatica fenditura che consente il rivelarsi della Cosa (Das Ding), dove è soltanto tramite il Vuoto che si può accedere, per attimi e trasalimenti, al Pieno.
    La Cosa assume le sembianze di un vuoto centrale, di uno iato, di un buco, il suo essere una crepa all’interno del significante rende al tempo stesso la Cosa, Das Ding, un vuoto e un pieno, una Cosa e una non-Cosa, evidenziandone il carattere di Estimo. Questa estimità caratterizza la cosa mediante il suo carattere di Entfremdet, di una estraneità che abita al centro dell’io.
    E siamo arrivati al nocciolo delle questioni estetiche della poesia moderna. Al centro di me stesso c’è un vuoto, un buco, un abisso che ingoia tutte le parole, le svuota, le rende meri significanti.. in questo buco nero precipita tutto e tutto si dissolve, e tutto rinasce ma in Altro, in guisa irriconoscibile, Entfremdet
    Forse la poesia è stata l’ultima tra le arti del Novecento a scrollarsi di dosso l’ideologema del realismo in poesia, non ci si è resi conto che ciò che noi percepiamo come realismo in poesia è sempre altra cosa dal realismo della visione della vita quotidiana; perorare intorno ad una poesia realistica è perorare intorno al nulla. Sia Gezim Hajdari che Steven Grieco fanno una poesia che ha l’immagine al suo centro, pur se con sviluppi diversissimi, le immagini, in entrambi questi poeti sono “autofigurative”, celebrano se stesse, non rimandano ad altro (tipo il quotidiano o la vita privata), se non per il tramite di se stesse. La “visione” del poeta non è più la raffigurazione confortante di ciò che avviene al di fuori di noi ma è una celebrazione di ciò che avviene al di dentro delle immagini. Sono immagini autocelebrative. L’immagine diventa la pallida celebrazione di un rito, ciò che resta del «sacro» dopo la scomparsa del «sacro» dalle società dell’Occidente.
    L’immagine ci mette dinanzi a temporalità discordanti. Ogni immagine è portatrice di una propria temporalità, e tutte insieme designano la belligeranza universale meglio di quanto potrebbe fare qualsiasi arte realistica. Ma l’immagine è soltanto un equivalente surrogato, un taglio del Reale, come scriveva Benjamin l’immagine è una costellazione di presente e passato nell’attimo in cui viene attualizzata nell’ora, nell’adesso, per noi posti nel presente. Per questo noi guardando o leggendo una immagine vediamo di essa alcune cose, ed altre ne vedrà chi verrà dopo di noi in un continuum infinito.
    Una poesia che proceda per immagini forse è quella che oggi può veicolare nel lettore, meglio di altre, quel complesso intellettuale ed emotivo di cui parlava Pound agli inizi del Novecento, quella «dialettica dell’immobilità» sulla quale cogitava Benjamin. In tal senso sono significative le citazioni di alcune «immagini» della poesia di Steven Grieco fatte da Giorgina Busca Gernetti, immagini che danno il senso di una dialettica dell’immobilità.
    Forse soltanto una poesia che proceda per immagini è quella che meglio esemplifica un’Estetica dell’Ombra.
    Ogni immagine celebra la festa della vita, la molteplicità delle cose, ogni immagine è un inno alla vita e dilaziona la morte… ma ogni immagine è anche specchio dell’ombra, vive nel chiaro scuro ché, altrimenti, nella pienezza della luce, diverrebbe invisibile. Ma ogni immagine, di per sé, senza il montaggio, non può nulla, diventa insignificante; è il montaggio, come ci hanno insegnato il cinema e la televisione, che rende significanti le immagini in movimento, o le immagini immobili.
    Nessuna immagine nasce spontaneamente, o interamente composta, ciascuna immagine proviene dalla storia vivente, dall’attimo, dallo Jetzt. La fisiologia della visione ci spinge a leggere le immagini come una composizione coesa, come un tutto, e invece si tratta di una composizione polifonica dove sono le immagini e suggerire la nascita di altre immagini.
    In fin dei conti, l’immagine non è altro che una presenza dell’assenza.

    (g.l.)

  • Immagini naturali nelle poesie di Steven Grieco.
    *
    “nel grigio smisurato del cielo;”
    “un albero sconosciuto / in una nuvola di fiori”;
    “Ah, sì, il susino…”:
    “sulla terra nera”;
    “il susino fiorisce solo di bianco”;
    “quell’altro biancore!;
    *
    “ma sì li vedo, gli alberi da frutto sono fioriti”.
    ***
    Quasi un haiku:

    “ma sì li vedo,
    gli alberi da frutto
    sono fioriti”

    GBG

  • “Io disperso” e “Io nascosto” nella poesia di Steven Grieco

    “Perché loro, nella loro astuzia
    non posarono gli arnesi fin quando,
    foggiata una seconda realtà di te,
    non ti ebbero disperso.” (“Senza Titolo” 1996)
    ***
    “Guardai ancora
    il paesaggio fece balenare mille sguardi

    allora entrai profondamente in quelle nuvole
    cercando l’archetipo, la forma insita
    quando una voce squillò
    “Niente!”

    e con mano tremante sfiorai l’Io nascosto”
    (“Tre veglie nel sogno”, 3)

    GBG

     
  • Steven Grieco

    Caro Giorgio, vedo benissimo cosa intendi nel primo dei tuoi due commenti (quello di ieri sera). E’ illuminante infatti rileggere, come hai fatto tu, quel brano tratto dalla Introduzione di Giuliani a “I Novissimi”.
    Mi hai ricordato come nel 1973-74, quando iniziavo a capire bene l’Italiano e a voler scrivere in questa lingua, mi trovai fra le mani “I Novissimi”, che mi veniva presentato come volume in grado di creare una profonda frattura creativa con la poesia italiana così come si era scritta fino ad allora. Già allora tutti noi poeti, di qualsiasi paese o lingua occidentale, sentivamo che era successo qualcosa di irreparabile sul versante culturale; che in Occidente, non solo dopo la 2a Guerra Mondiale e l’Europa divisa in due campi opposti, ma adesso, con l’instaurarsi della società del consumo, la scrittura poetica, e l’arte tutta, non sarebbero mai più state le stesse. “I Novissimi”, quindi, rispondeva sicuramente ad un’esigenza sentita da tutti.
    Leggendo quella introduzione critica, e poi le poesie stesse offerte in quella antologia, trovai spunti indubbiamente interessanti, ma sentii anche un peso invisibile su di me come poeta più giovane, il peso di una ipoteca formulata da poeti più grandi che dicevano “come si deve scrivere poesia”, e che solo questa strada era ideologicamente e letterariamente possibile, pena la totale irrilevanza dei propri scritti. Predicavano una totale decostruzione di ciò che gli artisti della prima metà del Novecento e la storia recente, avevano già in massima parte decostruito.
    Ricordo anche i tanti articoli di Pasolini nel “Corriere della Sera” di allora, in cui teorizzava la morte della poesia e dell’arte in genere, lasciando sottintendere che in campo letterario lui e pochi altri (Moravia, e qualche poeta) erano gli ultimi rappresentanti di una letteratura che appunto andava morendo sotto i colpi della società capitalista e consumista.
    Il guaio è che sulla “morte della poesia” (meglio dire, oggi, su un suo silenzio generazionale o bi-generazionale) Pasolini aveva perfettamente ragione, la sua era una analisi dura e sostanzialmente vera. Ma Pasolini, come tutti gli egocentrici (forse lo siamo spesso anche noi!), non capiva che lui e altri come lui erano parte integrante del problema, che proprio le sue teorizzazioni esclusivistiche, arroganti e individualistiche affrettavano questo processo di decadenza.
    Pasolini non offriva niente alle generazioni di poeti più giovani: avrebbe invece dovuto fare il suo meglio per fornire loro una sorta di road map per attraversare la palude, invece di ripetere “non c’è più niente da fare per il malato”.
    Ed eccoci qui a capire, dolorosamente, quanto in quegli anni il sentiero di una possibile poesia attraverso la palude fosse invece rappresentato da ben altri poeti: gli Herbert, i Vasko Popa, i Transtroemer, i Gennadij Aygi, i Mihalić, i Tarkovskij, perfino qua e là un Bonnefoy, tanto per citarne qualcuno. E lasciatemi aggiungere a questa lista incompleta anche Mark Strand, e Caproni, e perché no il Luzi di “Nel magma” (e un Enzo Mazza, che ha scritto qualche libro di poesia molto bello, ricevuto sempre con il silenzio riservato a chi non apparteneva alla clique.) E poi appunto altri come loro, che avevano però tutti in comune, chi più chi meno, la volontà, la spinta, di esprimersi attraverso l’imagine, il “congegno ottico”, come dici tu, Giorgio.
    Io penso che nelle tue teorizzazioni sulla poesia come portatrice di una sostanza immaginifica “quadri-dimensionale”, ci siano molti spunti, moltissima ispirazione, si intravede un mondo possibile, più entusiasmante di tante ideologie lessemico-fonemiche.
    Certo, gli anni passano, nuove generazioni si affacciano a questo orizzonte. C’è quindi bisogno di andare sempre avanti, studiare, capire cosa una poesia immaginifica possa offrirci oggi. In inglese da sempre si usa l’espressione “imagistic poetry”, che però è espressione ancora piccola, non veicola pienamente questo potenziamento dell’immagine di cui stiamo cercando di parlare qui.
    Sarebbe bello che poeti e critici offrissero anche essi la loro visione critica sulla questione, contraria o meno, polemica anche, ma sempre costruttiva. Insomma, che venga a crearsi una piattaforma di dialogo, e che da questa scaturisca ……… una visione.

     
  • letizia leone

    Steven Grieco appartiene a quella “merce” rara di poeta-filosofo quasi del tutto inesistente in Italia, sebbene noi vantassimo robuste radici dantesche che poco hanno fruttificato!
    Da qui una parola poetica forte, di inesauribile ricchezza che continuamente richiama e sollecita riletture e approfondimenti.
    Una parola che provocata dal visibile immette nell’imprevedibilità della visione, nella sua impermanenza o nel suo riflesso in uno specchio.
    Oltre ai poeti convocati da Grieco e Linguaglossa nelle loro ricche riflessioni, riporto questo testo di Paul Celan nella traduzione di Barnaba Maj:

    Innanzi al tuo volto maturo,
    in solitario cammino fra
    notti che pure trasformano,
    qualcosa venne a fermarsi,
    che già un tempo fu tra noi, non
    toccato da pensieri.

    Mi sembra un ulteriore esempio di predicato che diventa “evento” ed interpella.

    E poi vorrei ricordare un grande maestro novecentesco del “congegno ottico” e della resa iconica del linguaggio: il marginalizzato Giovanni Testori, basti pensare ai suoi lussureggianti “Trionfi” o alle “Suite per Francis Bacon”, la sua ékphrasis, la critica-scrittura sull’arte che approda infine alla serie pittorica delle Crocifissioni…
    Forse l’arte contemporanea ha intravisto quel “mondo possibile” quando estremizza e fa del volto stesso dell’artista il teatro operatorio, (Orlan) offerta di carne alle possibilità del linguaggio e della forma…ma si aprono altri territori dove portare in gita scolastica i minimalisti.

     
    • Steven Grieco

      Bellissima la citazione da Celan, poeta che non ho ricordato nella mia lista, per mia insufficienza. E dire che Celan l’ho praticato per anni e anni e anni, anzi andai al ponte Mirabeau (allora studiavo a Parigi) pochi mesi dopo la sua scomparsa, per capire…
      Grazie a Letizia Leone.
      E certamente mi leggerò Testori. Grazie dei suggerimenti.

       
  • Steven Grieco

    Scusatemi se ho dimenticato ieri di tradurre la citazione di Harold Pinter. Comunque Giorgina Busca Gernetti, commentandola e volgendo il concetto nella sua dimensione spaziale (assoluto colpo di genio!!!), ha reso quella citazione supremamente accessibile, penso, a tutti i lettori.
    Sono rimasto molto colpito dalla profonda somiglianza fra il Tao e gli Upanishads. Infatti, tutti e due hanno portato certi uomini a pensare profondissimamente l’Essere, facendo loro scoprire che al “centro” del proprio essere esiste un vuoto. Non un parmenideo non-essere, non un terrore ontologico, bensì un Vuoto indicibile, foriero di ogni inizio, di ogni creatività, di ogni apparire fenomenologico del mondo.
    E’ per questo che il nichilismo occidentale (che però tanta ricchezza di idee e di ispirazione ha dato al pensiero filosofico e all’arte d’Europa) non può esistere in Asia, almeno non nel senso di “Nulla – Divenire – Ritorno al Nulla”. In Asia la memoria del mondo travalica la vita unica, travalica la Storia, travalica il DNA; ricorda la vita ad ogni cosa, fa germogliare il seme, fa decomporre il cadavere, fa nascere il pensiero umano, fa rotolare il sasso giù per la china. Soprattutto vede in ciò che sembra “non essere”, potenzialità, creatività allo stato primordiale.
    Pervaso come sono da questo senso delle cose, ho cercato di capire in quale specifico modo tutto ciò verte su di me, poeta: e capisco che io lo individuo in quel punto mentale, quell’attimo psichico, in quel territorio grigio del pre-pensiero (che sparisce l’attimo che ci accorgiamo della sua esistenza) – in quel luogo (o tempo?), insomma, che esiste prima che il pensiero “auto-cosciente” inizi a sgorgare, prima che cogitazione diventi ideation, formulazione ideativa, immaginifica, espressione.
    Così, per me, “concetto” è anch’esso “immagine”, ma solo in quel primo momento, quando questo si affaccia alla mente pensante. Se non immagine, sicuramente “figurazione”, il cui etimo affonda nel senso di “toccare”, “palpare”. Chissà, è forse per questo che i cinesi crearono un alfabeto di ideogrammi (concreti ed astratti nel contempo). E’ in questo senso, anche, che l’idea astratta, la concettualizzazione porta con sé emotività, fragilità umana (così come lo fa l’immagine).
    E comunque il grado di astrazione del nostro pensiero è sempre in bilico, se lo stesso etimo di “astratto” viene da ab-trahere, e l’etimo di “concetto” viene da cum-capere. E’ interessante notare come nelle lingue euro-asiatiche (il sanscrito non fa eccezione) le parole più astratte e concettuali comunque affondano in etimi di significato concreto. Vedi “idea” nel dizionario etimologico online.

    idèa: voce connessa a eidèo che ha il senso di “vedere”, non che l’altro di “sapere”, “conoscere”, e ad eideos, “vista”, “intuizione”, “imagine”, dalla stessa radice del lat. vìd-eo, “vedo”.
    E’ il pensiero corrispondente ad un oggetto esteriore, o, come altri definisce, la Imagine d’un oggetto, sulla quale la mente fissandosi e confrontandola con altre imagini forma giudizi e raziocini; d’onde il senso secondario di Tipo, Modello, Primo concepimento d’una opera, Abbozzo.

    Forse non esistono nella lingua degli uomini, parole “astratte” in senso assoluto. Possiamo solo partire da una certa concretezza per arrivare all’astrazione.
    Parlando di nichilismo e assenza di nichilismo, non si pensi che io voglia in qualche modo mettere pensiero asiatico e pensiero occidentale su diversi scalini di una sedicente scala di valori o di una qualche gerarchia. Io individuo soltanto l’eccellenza che in modi talvolta divergenti ciascun sistema ha saputo dare all’uomo.
    Vorrei dire che stiamo qui parlando, soprattutto quando parliamo come poeti e artisti, delle fonti del pensiero ideativo e immaginifico, e si tratta di un fatto comune agli uomini di tutte le civiltà. Per cui vogliamo sì individuare i limiti fra un sistema di pensiero e l’altro, ma vogliamo anche trovare, laddove questo esiste, la comunanza fra i due. Per fare ciò è necessario decostruire in qualche misura la inaccessibile fortezza del pensiero filosofico-psicologico occidentale (nel senso che questa spesso non riesce a dialogare con altri sistemi), e anche decostruire l’immagine troppo fumosa, “intuitiva”, “spiritualeggiante”, “misticheggiante” del pensiero asiatico.
    Io ho constatato che il rigore di un ragionamento filosofico consecutivo e logico appartiene in genere ai sistemi di pensiero di tutta l’area euro-asiatica (l’unica che conosco).

    Finisco dicendo che mi è piaciuto molto questo pezzo nel commento di ieri di Lucia Gaddo Zanovello: “Personalmente avverto sempre come se ci fosse in me qualcosa di morboso quando mi faccio osservatrice di fotografie, quasi fossi a spiare, in una sorta di bird watching, quel che accade ai corpi sottoposti al passaggio terreno. Un indagare che ha dell’origliare, talora anche con occhi di contemplazione, o dello scrutare per conoscere o riconoscere qualcosa di ciò che si ritiene perduto.”
    Questa è già una poesia, e molto precisa e tagliente, sulla condizione dell’uomo nel XXI secolo.

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OTTO POESIE DEGLI ANNI OTTANTA e NOVANTA di Lucia Gaddo Zanovello SUL TEMA DELL’AUTORITRATTO O DEL POETA ALLO SPECCHIO O DELL’IDENTITÀ

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 Lucia Gaddo Zanovello è nata a Padova nel 1951; scrive dalla prima adolescenza e dopo un periodo giovanile dedicato a diverse attività lavorative, ha poi impegnato la maggior parte del suo percorso professionale come docente di scuola media. Ha condotto studi, fra gli altri, su Niccolò Tommaseo e sul suo corrispondente friulano Pierviviano Zecchini.

Per la poesia ha pubblicato: Porto Antico, Edigam, 1978; Bramiti, La Ginestra, 1980; Da serpe amica, Padova Press Edizioni, 1987; Semiminime, Padova Press Edizioni, 1988; Per erbe piú chiare, Edizioni Dei Dioscuri, 1988; nel 1998, per le Edizioni Cleup, la raccolta retrospettiva relativa agli anni ’88 -’98, in cinque volumi: Nóstoi (che include Fiordocuore), Fatalgía, In lúmine, La trilogia del volo, La partitura. Ed ancora Il sonno delle viole, Cleup, 1999; Un parlare d’acqua, Cleup, 2000; Solargento, Cleup, 2000; Memodía, Marsilio, 2003; Silentissime, Imprimenda, 2006; Ad lucem per undas, Joker, 2007; Amare serve, Cleup, 2010; Illuminillime, Cleup, 2011, Rodografie, Cleup 2012, Buona parte del giorno (Premio Milo 2012), Incontri 2013 e Disforia del nome, Biblioteca dei Leoni, 2014.

Nel gennaio del 2009 è uscito per le edizioni Cleup, il libro-intervista Amata Poesia: Antonio Capuzzo intervista Lucia Gaddo Zanovello. Nel 2004 il compositore di Patrasso Sotiris Sakellaropoulos (1952-2010) ha tratto da Memodía, quarta sezione (Canto di luce) e  nel 2005 da La partitura, prima sezione,  per archi, voce e pianoforte, omonime opere musicali. Nel 2010 la scrittrice Rika Mitreli ha tradotto in greco sei testi tratti da La partitura, pubblicati nel numero di maggio della Rivista “Thea” (Thèmes de Sciences Humaines) di Bruxelles, a fianco di un ampio saggio commemorativo dedicato all’opera del musicista scomparso.

Per la saggistica ha pubblicato: Faedo di Cinto Euganeo, in “Città di Padova”, anno VIII, n.1, 1968; L’eremo del Monte Rua, ibidem, anno IX, n.1, 1969; Considerazioni del Tommaseo sulla poesia in una lettera inedita a Pierviviano Zecchini, in “Lettere Italiane”, Leo S.Olschki, Firenze, 1988; Scrittura poetica e funzione estetica in “Punto di Vista”, (Rassegna italiana di Lettere ed Arti), Libraria Padovana Editrice, n.36, 2003; L’epico innesto etico nell’etimo di Cesare Ruffato, in Per Cesare Ruffato. Testimonianze critiche, Marsilio, Venezia, 2005; Quando il silenzio accende, per “La colpa di scrivere”, luglio 2006 ora anche in appendice ad Illuminillime; Per un’etica dell’apparenza, recensione a Strategie dell’occhio di Francesco S. Mangone, ne “Il Fiacre n.9”, 2007.

Lucia Gaddo con Luciano Troisio e Cesare Ruffato

Lucia Gaddo con Luciano Troisio e Cesare Ruffato

“Personalmente avverto sempre come se ci fosse in me qualcosa di morboso quando mi faccio osservatrice di fotografie, quasi fossi a spiare, in una sorta di bird watching, quel che accade ai corpi sottoposti al passaggio terreno. Un indagare che ha dell’origliare, talora anche con occhi di contemplazione, o dello scrutare per conoscere o riconoscere qualcosa di ciò che si ritiene perduto.”

(Lucia Gaddo Zanovello)

diabolik particolare di  Eva Kant R. Lichtenstein

diabolik particolare di Eva Kant R. Lichtenstein

L’oca

Non so vivere
che come un’oca spenta
tra la folla.

So del mio occhio attonito
del mio vezzo goffo
del caracollar malfermo
alla corrente.

Conosco l’argine penoso
che m’accoglie
vinta
alla nemica sponda.

Bramiti, 1980, p. 83

.
Ortoscopia

Qualcosa scricchiola
la mia corazza
e mute danze
trilobate
conducono
la mia carcassa
a formiche senza preda

un cuoco leggero
oscilla
le mie antenne
sulla zuppa delle mie zampe.

Semiminime, 1988, p. 161

Da serpe amica

In quest’agile spelonca
dove tutto è mite
io mi posso acciambellare,
su di un ammainar di vele
vuota d’orgogli
residuo pigolante
di soli accesi
a coccolare
lenti minuti albini,
a gettar griglie
per arenare soffi
bercianti inallegrati.
Con altre mani
con altri lini
accolgo
sinfonie d’effetti
e dopo i crudi passi
del mattino
ho gli occhi tondi
di serpe amica.

Da serpe amica, “Metamorfosi”, 1987, p.30
Charles Baudelaire 3

Io sono un capolinea

un self-service
uno snack-bar.

Io sono un pronto soccorso
un motel
e un generale d’armata.

Io sono un capro,
una spalla
e un muto zerbino,

sono tana e palcoscenico
un’urna vivente
un’antenna, una chiave
un frigorifero

io sono un ampio parcheggio
al capolinea delle vostre necessità.

Da serpe amica, “Taccuino di viaggio con interni”, 1987, p.62

.
Un’idea di seta

si svolge
nel cielo dei desideri

non chiudere la luna
nel baule della notte
quando libera gioca
coi chiarori della sera
e mi sorprende
alta e nuda
dove non la cerco

i lunghi suoi capelli
scesi sulle case
brillano i pensieri di malia
spandono speranze sulla malinconia

come pietra riposo
sul cuore della terra
come segno sulla pagina
un punto fermo.

La partitura, armonie, 1998, p.45

varietà dell'identità

varietà dell’identità

Identità

Perché fondono segnando
il doppio procedere
da nascita e da morte,
lo stupore dell’alba
e la notte terrena
accendono verità
se il pensiero
impaniato di illusione
di stordite apparenze
si fa magnete impazzito
e la storia
è meta perduta.
Ci fanno scorta
il cielo stellato
e l’opale dell’aurora
catturati
nell’iperspazio della promessa,
voti congiunti di luce
perché l’Uno
con parole di opposto colore
propone lo stesso
monogramma di vita.

La partitura, armonie, 1998, p.46

.
Un me migliore

Quando tutti i figli del mondo
saranno figli nostri
da amare,
l’arco che ci chiude
sarà colmo
di vita,
perché fiori di tenerezza
rivivranno,
carni e ceneri
riamate,
e la memoria
tornerà un oggi senza tramonti.

I virgulti recisi
saranno ombrose
querce serene.

Le domande
tutte
muteranno in lucide risposte
che brillano
di un sole arguto e alto,
anche nella notte
e tu sarai
un me migliore.

La partitura, armonie, 1998, p. 56

.
Incomunicabilità

Dico a te
che affiori
dall’anima
con moto labile
inadatto agli aliti mutevoli
di superficie.

Afferro della tua verità
i sintomi
come alghe
fuggono
la mietitura.

Necesse
una bara di cristallo
per carcerare strette
quelle ali
inafferrabili
di polvere:
il tuo io
che affiora
quando non guardo
e dilegua
come stendo la mano
incontaminato
e puro

ma dove?

La partitura, un suono nuovo, 1998, p.70

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DIECI POESIE INEDITE di Lucia Gaddo Zanovello “Asincrono scacchiere” SUL TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO –  . . . . . . . . . . Giovedì 26 febbraio 2015 ore 18.00 Presentazione del volume di ALEKSANDR S. PUŠKIN 32 Poesie CFR Edizioni 2014 traduzione di Paolo Statuti Presenta GIORGIO LINGUAGLOSSA Introduzione critica di ANTONIO SAGREDO con interventi di WANDA GASPEROWICZ, SILVANO AGOSTI “LE STORIE” Libreria Bistrot Via Giulio Rocco, 37/39 ROMA (Metro San Paolo)

 

François Clouet

François Clouet

L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ(non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

Antonio Ligabue

Antonio Ligabue

 Lucia Gaddo Zanovello è nata a Padova nel 1951; scrive dalla prima adolescenza e dopo un periodo giovanile dedicato a  diverse attività lavorative, ha poi impegnato la maggior parte del suo percorso professionale come docente di ruolo nella scuola media. Appassionata di ricerca storica, di letteratura, di filosofia morale e di spiritualità, ha condotto studi, fra gli altri, su Nicolò Tommaseo e sul friulano Pierviviano Zecchini, medico chirurgo laureato a Padova nel 1825, traendo dall’ombra meriti e singolarità di questo personaggio, che si distinse anche come fervente patriota e filelleno.

Ha pubblicato le raccolte di poesia: Porto Antico, Edigam, 1978; Bramiti, La Ginestra, 1980; Da serpe amica, Padova Press Edizioni, 1987; Semiminime, Padova Press Edizioni, 1988; Per erbe piú chiare, Edizioni Dei Dioscuri, 1988; nel 1998, per le Edizioni Cleup (Cooperativa Libraria Editrice Università di Padova), la raccolta retrospettiva relativa agli anni ’88 -’98, in cinque volumi: Nóstoi (che include Fiordocuore), Fatalgía, In lúmine, La trilogia del volo, La partitura; Il sonno delle viole, Cleup, 1999; Un parlare d’acqua, Cleup, 2000; Solargento, Cleup, 2000; Memodía, Marsilio, 2003; Silentissime, Imprimenda, 2006; Ad lucem per undas, Joker, 2007; Amare serve, Cleup, 2010; Illuminillime, Cleup, 2011, Rodografie, Cleup, 2012; Buona parte del giorno (Premio Milo 2012), Incontri, 2013 e Disforia del nome, Biblioteca dei Leoni, 2014. Nel gennaio del 2009 è uscito per le edizioni Cleup, il libro-intervista Amata Poesia: Antonio Capuzzo intervista Lucia Gaddo Zanovello. Nel 2004 il compositore di Patrasso Sotiris Sakellaropoulos (1952-2010) ha tratto da Memodía, quarta sezione (Canto di luce) e  nel 2005 da La partitura, prima sezione,  per archi, voce e pianoforte, omonime opere musicali reperibili in CD. Nel 2010 la scrittrice Rika Mitreli ha tradotto in greco sei testi tratti da La partitura, pubblicati nel numero di maggio della Rivista “Thea” (Thèmes de Sciences Humaines) di Bruxelles, a fianco di un ampio saggio commemorativo dedicato all’opera del musicista scomparso.

Lucia Gaddo Zanovello

Lucia Gaddo Zanovello

 

 

 

 

 

 

Fluttuanze

Oggi è un giorno da salto con l’asta.
Se chi visse qui, che so, un secolo fa
tornasse d’incanto
dai fatti suoi
sotto il suo tetto, ora mio
che direbbe.
Quale incredulo lampo negli occhi
gli sortirebbe nel vedere ciò che ho fatto di questa sua terra.
E venisse qui a sbirciare dal futuro chi verrà
riconoscerebbe in me se stesso?
Dicono qui vivesse un bandito,
poi un maggiorente distinto del luogo,
ora son io a calcare la rivoltata zolla,
il controverso strato d’ombre
che aggiungono ombra.
Io tengo ai fiori
ai miei e a quelli di mia madre,
bulbi che si moltiplicano al buio della siepe.
La polvere dei muri si accatasta negli uffici della burocrazia.
Ma solo il trasloco delle rondini mi pesa,
e l’aver dato asilo a tanti non ripaga amori mai dimenticati.
Pienezza di solitudine distante abita qui
non perversi misogeni migrati prima
del cielo di oggi, prima di questo mio giro a vite
di questo salto con l’asta.

Se tutto ciò che non udimmo udissimo dall’eco degli spettri
quale sarebbe il nostro restare in multi parsimoniosa vita
entrare ospiti nelle stanze di questo mondo.

.
Lanci

Sciogliesse qui la vita
nel pomeriggio in disparte
presso il marciapiede dell’ombra
prima della pioggia
nell’uno dei due giorni possibili
quando nutre il tempo chi comprende,
allora sarebbe risolto il dubbio
e mi potrei non risvegliare.
Tramonterebbe il giorno per altre pupille
e sorgerebbe l’alba di nuovo
col suo profumo avverso di malinconia
per altra via
senz’orma andrebbero i passi
guardandosi intorno
la porta chiusa alle spalle
senza luce e ritorno
tanto che, a voltarsi,
si sarebbe perduto perfino l’orizzonte.
Ma sempre parla una voce
come vento che sostiene
fermo
come una madre
che della sua nutre la vita
prima dell’inizio e anche dopo la fine.

(19.5.14)

Antonio Ligabue (1899 1965) Ritorno ai campi con castello, 1950-1955, olio su faesite

Antonio Ligabue (1899 1965) Ritorno ai campi con castello, 1950-1955, olio su faesite

Semina

Ogni parola ha un’anima
se nominata esiste
sparsa in chi legge
con diverso suono su diverso gambo
come bimbo in grembo
significando esulta
e frange orli
dormienti facendoli attenti
a punti focali inconsumati.

Per ogni intelletto un’eco diversa
diatomee primigenie in anfratti nuovi
modulano voci spaiate,
come anche i cieli
tersi o gonfi di nubi
rimandano frasi discordi
o accordi che invocano sperando.
Vive parole in ombra o luce
tessere musive o sassi levigati
a tessere vaghezza
d’essere e restare.

Il mondo
è un dire che germoglia.

(17.8.14)

.
Il silenzio dell’anima

Felicità è questa bonaccia piatta
umido grigiore che non è tempesta

– mi basta questa
per non andare alla deriva
all’altra riva –

un sole pallido che aspetta
nel fermo della brezza
chiede un po’ di attesa
un velo di pazienza

ma la bellezza è già nel nido
che emerge dal galleggio,
un infimo d’arpeggio
appena percepito.

Dove vada a parare
questo tratto di mare
non è dato sapere.
Godere intanto si deve
la stasi forzata, il beccheggio
che pare infinito,
scontato la barca si muova,
scelta dovuta
all’invito del vento.

(7.9.14)

Antonio Ligabue Autoritratto

Antonio Ligabue Autoritratto

Equivoci

Si reputa
e non è

si vede venire avanti la vita così
come non la si aspetta
ed è gioco di prismi e rifrazioni
pulsate dagli abbagli.

Si fosse saputo che era quella
l’ultima volta
ci si sarebbe affrettati
nonostante la pigrizia folle del dopo
che ora si para davanti ai rimpianti.

Restare indietro
è non avere risposto alla chiamata

rammarico è trovare che si è smarrita
una parte di sé.

7. 11. 14

Sottovoce

Pagine d’esistenza impilano
negli scaffali
di chi reputa di essere in vita.

A quanti fini e a quale fine tende
la fine del giorno e di questo giorno
che non sa le parole.

Certo i suoni intorno e i cicalecci
sui fili del dire e del ridire
trasportano nuove
a volte
a volte inceppano in replay
fino ad esaurire l’energia
e il cuore rimane al palo del déjà vu.

I rari assoli dei rigogoli in festa
si perdono nel frastuono
del grigio che parla a vuoto,
solo rumore, che segnala scomposto
presenze forse innocenti.

Le gipsoteche dei cimiteri
e i sepolcri involontari
risuonano nelle veglie sorde dei vivi
che non distinguono tra i riverberi
le verità libere dei morti.

(10.11.14)

Antonio Ligabue Autoritratto

Antonio Ligabue Autoritratto

 

Adesso

A guardia dell’abisso
sta l’indifferenza
che non vede.
A Nietzsche importava
e si smarriva a tratti nella collera
per l’irresponsabilità dell’arroganza
di chi crede di sapere.
È la febbre a matrioska di domande che divora.
Fu la stessa nequizia veleno a Simone.
Toglie il respiro l’innocenza di vittime
all’altare.
Cecità di cuore corrotto
non ascolta che per salvare la sua falsità.

Nell’irripetibilità del gesto
sta la storia
e progresso è ciò che è ben fatto adesso.

Per la luce che c’era
non dispera la sera.

(11.11.14)

.
Sveglia la notte

Sguardo di chi sale a bordo
quasi in paralisi da stupore
sul palmo sinistro il profumo del cielo.

Sferraglia ancora la corsa
senza obiettare ritorni

fortuna che c’è la luna
da cui guardare giù

si vedono i rami alle strade
che districano l’albero della vita.

È che la morte si annida in ognuno

la corteccia spacca di getti nuovi
tutte le stagioni
e in ogni specie dilaga inconsolabile
nulla che dica ragione d’esser qui

meraviglia che ascolta.

Imparo da quel che ero ciò che non so

la tenerezza dell’agguato di un ricordo
sveglia la notte.

(10.12.14)

 

Antonio Ligabue Autoritratto

Antonio Ligabue Autoritratto

 

 

 

 

 

 

 

 

Hic et nunc

si sta sulle spine.
Nel passato riposa
l’irriducibile
al futuro sono appesi il sogno e la speranza.
Non ce n’è speranza dice il suicida
non ho colpe, l’assassino
e ciò che ha fatto gli pare divino.

Esce dal quadro la cornice
si posta all’infinito
occhio che si perde alle galassie
immaginate.

Il nome che ci porta
fra i galleggi travolge
inaffondabili carene
entro le onde del tempo
che scroscia
come l’Iguazú alla fine del mondo.

Nel profondo del fuoco
il gelo
siderale
del disamore.

Dilatano le pupille per vedere
nell’imbrunire dell’ora
qualche luce, se sarà.

(12.12.14)

.
Resa

Ripiega la colonna al sonno della stanchezza
e germogliano dal riposo i peduncoli delle meraviglie.
Fanno capolino dal silenzio come i pensieri
si generano come fiamma che illumina e non brucia.
Dall’ulivo delle responsabilità
al frantoio d’ogni frutto maturo
giungono sul carro dell’ordinatore
creature nate per le fauci della distruzione
passano
e sanno di essere Giona nel ventre del mostro.
Presta la fede e non ridà il capitolo mai.
Capitola, invece, prima o poi
scende dal piede dell’esposizione
disperde come le voci e i sorrisi
di chi ha veduto il diorama di guerra qui.

Dall’arco dei giorni le frecce dell’invisibile
scagliano orme.

(13.12.14)

Antonio Ligabue Autoritratto

Antonio Ligabue Autoritratto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Senza peso

A capriole i giorni rotolano
fra luce e buio
nel pianeta dei folli
che non sanno d’esserlo
ordine c’è solo nel corto fiato
sincrono di chi gioca al ribasso
mete che restano nell’hic et nunc
ma l’arte travalica i giorni in atterraggi
scomposti a rischio di rompersi il collo.
Il fuoco innesca dall’anima
che non si adatta a nido alcuno
deborda costante nell’insoddisfazione
di essere dov’è, fuori da ogni contesto
in contrasto perenne d’armonia. Inadatto
sistema che ha scordato tutti i perché
oltremondo, persa valigia e connotati
resta vitreo punto di osservazione
algido sguardo perso
nel non capire più la ragione di tanta
ricercata solitudine, come se il tempo non avesse
peso, i minuti non fossero piombo sul ramo dell’attesa
fra un vuoto e l’altro
il vuoto non pesa.

(21.12.14)

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DELLA MUSICA O SUGLI STRUMENTI MUSICALI di Antonella Zagaroli, Paolo Polvani, Giuseppina Di Leo, Lucia Gaddo Zanovello, Lidia Are Caverni, Eugenio Lucrezi, Loris Maria Marchetti, Annamaria De Pietro, Leopoldo Attolico, Ambra Simeone

picasso astratto musica

picasso astratto musica

 

Antonella Zagaroli

Antonella Zagaroli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Antonella Zagaroli

“Potrei entrare nel labirinto
in quel vortice dove tutto si confonde
e il bianco accoglie ogni senso,
forse mi scoprirei come sono

nuda vertigine profumata.

Per rivelare la cadenza al ritmo
ti incontrerei sugli scogli, vergine madre mia”.

(1998)

 

“canto e brindo
con chi sa ascoltare nomi in risonanza,
all’orecchio strumento m’inchino.”

Fra tenerezza e turbamento
madre e suo nutrimento,
dai pori della terra semente aria

la maschera ritrova il suo senso,
nella corda d’altalena
nell’occhio della memoria, a schegge:

“Arresa al mondo possibile
dischiudo il crocicchio claustrale
per te, elisir accoccolato entro ogni cunicolo.”
Da Primo alfabeto 2002
È l’ora rosa
rintoccano le foglie
sui dorsi dei cavalli
su pietre che evaporano
vita solitaria,
nella dimora a bocciolo
avanza il centro che accoglie,
lascia inermi.

Dopo gli scrosci al buio
rrurr rrurr rrurr rrurr
la tortora si risveglia alla pienezza.
La riconducono primitive dee
danzando
in mezzo a parole senza pelle.

Dal flauto l’alito cresce alto
sfiora il confine al cielo
ridiscende
lentamente
in ogni organo,
torna a terra in continuità.

Da Venere Minima 2010

 

violino_Barroco

violino_Barroco

Paolo Polvani

La violoncellista

La violoncellista estrae dal pozzo della notte
un alveare volante, le rotaie
della metropolitana, un tonfo,
un garrulo stuolo di cornacchie,
il vento che gonfia le lenzuola, il vento
che fa di marzo un maestro di nitidezze.

L’archetto si profuma di laghi.

La violoncellista ci abitua ad ogni sorta di miracolo marino
la testa gonfia di singhiozzi
percorre le incongruenze delle periferie
i sussulti dei treni inghiottiti dalla nebbia
i tornanti scoscesi dell’amore.

La violoncellista esibisce a volte un sorriso che non è di questo mondo
ricorda le beatitudini del bosco
siepi di rosmarino spalancate sulle palpebre.

Ma io voglio vedere le sue gambe voglio vedere
se l’alba le disegna una città di mare sulla fronte.

Paolo Polvani, Murge 2013

Paolo Polvani, Murge 2013

L’ultima dimora di Tchiajkovski

Di Tchiajkovski abbiamo visto l’ultima dimora
passando in pullman di sfuggita
e ora è qui che ci abbaglia
ci fa lacrimare seduti
e dimenticare che ci ospita la pancia luccicante di un teatro.

Le passeggiate lungo i viali della Neva.
Le bocche che si cercano sono finestre sigillate
che scoprono i denti in un ghigno obliquo.
Queste sono le carezze che distribuisce il violino.

Le pozzanghere riflettono il cielo
di una profonda estate
cielo di velluto e smalto col fiato di uccelli fiduciosi.
Questi sono i vibranti schiaffi dei timpani.

I fulmini che scaglia il flauto si nutrono dei brividi
che costeggiano la vita come un mare perenne,
grigio e tormentato e austero Baltico,
solcato da battelli e dalle barbe dei loro capitani.

I caldi abbracci degli ottoni convergono all’ombra dei palazzi
interrogandosi sulla direzione della notte,
sui messaggi del vento,
sul moto ondoso delle morti e sul brulicante
prato delle rinascite.
Il maestro cavalca l’onda del fiume scintillante
ne conosce le anse fruscianti d’erba, i segreti anfratti,
conosce le carezze dei salici fulgenti.

Ma è il sole che si agita e che ci fa tremare.
L’orchestra invita il sole a splendere più forte.

 

musica tra gli egiziani

 

 

 

 

 

Giuseppina Di Leo

Quaresimale
(pausa)

Chiasmo stupore e sogno.
La lingua balbetta precisi rigori
parole di fiele da stille di miele
suoni d’inverno in converse primavere.

Per due soldi e un rancio di pane
sul punto solleva a gola d’organo
il basso la nota del pianto cattedrale.

(da Slowfeet, Gelsorosso 2010)

giuseppina di leo

giuseppina di leo

Il silenzio, silenzio non è. Se in questo silenzio
si ferma il giorno. Nell’ora della compieta
le parole fanno parentesi graffe
senza testa né coda;
tra riquadri luminosi evidenzia la pietra
i solitari profili umanoidi restano assorti in posa.
Dicono che tutto viene rimandato, pazientemente
separano note taciturne da porre al fondo dell’io
da chissà quale piano virtuale racchiuso dentro.
Ora, che un acuto bizzarro scaccia via anche il sole.

(2010 / 18 giugno 2014)

Stradivari 1681

Stradivari 1681

Lucia Gaddo Zanovello

Volúmine

Tiene cosí alto il tono
questa verità
che assorda
vibrando
tutte le stelle dei sentimenti
che trapungono
di malinconica meraviglia
il cobalto della notte.

Erma salì
profetica e perfetta
èmato enfiando nelle vene
igneo sguardo
a contemplare
l’errante errare
di quest’isola nel mare
che ha radice qui nel centro
dell’abisso che non vedi.

Canta ora con un’eco di risacca
a squarcia fiordo dentro il cuore
della musica interiore

la ridico come posso,
ma è una rana dentro il fosso
che una luna ha tinto in rosso.

(da Memodia, 2003) Continua a leggere

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ANTOLOGIA DI POESIA ITALIANA CONTEMPORANEA – Antonio Sagredo, Chiara Moimas, Meeten Nasr, Franco Fresi, Lucia Gaddo Zanovello, Vincenzo Mascolo, Ambra Simeone, Patrizia Pallotta

Parnaso 1

Parnaso1

 

 

 

 

 

 

teatro Politecnico 1974, Antonio Sagredo

teatro Politecnico 1974, Antonio Sagredo

 

 

 

 

 

 

 

 

Antonio Sagredo

La metamorfosi della finzione

 

Quando il tempo il vuoto dei miei atti scorre umile e inquieto
possa io convertire il passo umano in ambio dislocato,
il ferro equino calzare come una corona non domata la giostra
di un torneo che muterà rogo e croce in volto circense e scespiriano.

La clessidra il vuoto del tempo e dei miei atti mescola con la cenere,
con una figura che abiura il tratto secco, la matita e il disegno non ornato,
ma le dita schizzano scellerato il segno e la visione di un pensiero declinato
per quella fede perduta nel perdono, per il rimorso di un palco non calcato!

Saprò io con ferrigna mente disseccare un salice e le lacrime custodire
io in un ricordo collassato e nello schianto attutito di un’arteria terminale
cedere io a una stella vespertina la struttura di un marcio crocefisso…
ah, vorrei una misericordia non divina, ma umana per Cristo e Giulio!

E un linguaggio cordigliero da un pulpito d’avorio alle navate vorrei
risonare come vessilli tra ostie insanguinate e mitrate angeliche parole,
quando una clessidra vuota inquieta scorre la gerarchia dei miei atti –
libertini se volete condannarmi, ma pietosi, lacrimosi – come Pierrot!

Roma, 28 marzo 2014
(all’ora quarta)

antonio sagredo Teatro Politecnico 1974

antonio sagredo Teatro Politecnico 1974

 

 

 

 

 

 

 

*

Stermini, e ti lasci andare al sogno ovunque e rosicchiano i secoli
il chiavistello della tranquillità, e t’accorgi inerme come la voce assenta
la lingua nei deserti della consapevolezza e il raccapriccio inventa
un mestiere al poeta, la sua parola tu bevi dal calice dell’inconsistenza.

E i suoni non hanno senso sui ghiacciai, liquidi cessano d’essere Maestri
di canto all’uomo… l’ugola non regge l’errata corrige di una volta che ci sovrasta
e marcia è la matematica e i disegni di un linguaggio che non sai… sfacelo
delle laringi, e il cerebro e il vuoto e il pensiero si specchiano in contumacia!

Non puoi dire se giostra è la finzione, se circo e tornei una imitazione,
i versi, le parole e i sensi sono meno di una tavoletta d’argilla che squilla
adesso come una lanterna antelucana – per l’aurora è un azzardo il giorno!
e i tramonti non hanno più una tazza dove affogare la propria morte recidiva.

E il lutto non s’addice più alle nostalgie dei nastri funebri, a quegli angeli
che sui feretri sono marionette… il conforto agli umani avanzi non è più
un dono e i loro occhi e le lacrime e quelle mani… non sappiamo nulla…
non sappiamo nulla… e il riso è solo un ricordo cartapestato… logoramento

delle felicità e delle tristezze ci corrode il futuro… non è il caos, né la rovina,
né gli stermini – e il divino ci disturba, ci ha succhiato la coscienza, ci ha rubato
la storia e la nostra stessa essenza e la natura e quella terra… io la miravo, e non
è più la mia origine, non più la sede di dei che mai furono – e io, interdetto, me ne vado!

Roma, 10 aprile 2014

Chiara Moimas

Chiara Moimas

 

 

 

 

 

 

 

 

Chiara Moimas

Dafne

Rincorsa da Apollo invaghito
Dafne braccata non sa che fare
inconsapevole d’ essere un mito
vergine e pura vuole restare.

Il dio è vicino stanco e sfinito
già la ghermisce: non può scappare.
– Che il desiderio venga punito.
Che la bellezza possa mutare-.

La chioma fulgida fronda diventa
e già le dita alloro si fanno.
Non è l’ignoto che la spaventa

è l’ansimare d’Apollo, l’affanno.
E’ la sua bocca che il pube rasenta
e trova corteccia. Mirabile inganno. Continua a leggere

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ANTOLOGIA DI POESIA CONTEMPORANEA (VII) – Anna Ventura, Alfredo De Palchi, Michele Arcangelo Firinu, Umberto Piersanti, Lucia Gaddo Zanovello, Franco Dionesalvi, Sandra Evangelisti, Eugenio Lucrezi, Maurizio Soldini, Chiara Moimas

Parnaso1

Anna Ventura

 

Anna Ventura

Le case popolari

Qui ci sono ancora
le case popolari. La porta/ingresso
ha le persiane
di metallo dorato, immette
in un interno scuro,
schermato da una tenda. Da lì
viene la voce del televisore.
La proprietaria
è talvolta una vecchia decrepita, che forse
non ha più di settant’anni. Siede fuori
sopra una sedia bassa,
in mezzo ai vasi dei gerani. Saluta
chi passa ,con lo sguardo
rispettoso e acuto. Il figlio ultracinquantenne,
entra ed esce dalla portafinestra,
lo segue il cane lupo. La polvere
della strada copre i gerani,copre
le ampie sottane della vecchia,
copre la ciotola dove beve il cane. La sorte
ce la mette tutta,
per uccidere la povera gente. Ma loro
resistono. E non piangono mai.

alfredo de palchi

alfredo de palchi

 

 

 

 

 

 

 

Alfredo de Palchi

(2008 alla vigilia della mia operazione al cuore)

Il lavoro nobilita la belva alla vita
trascorsa a grattare il salario della paura
in una giungla di lapidi

si legge, qui giace dio il mediocre costruttore
e qui Cleopatra con una serpe in mano––giglio
offerto a Marcantonio

più in là giace un raccolto di ossi
attribuito al farabutto amico François
accanto a quello di Francesco impazzito di Cristo
e della sua Chiara che per boschi giunse a Todi
da Jacopone, il più folle

e laggiù sotto quel rettangolo di letame
l’altro mio amico Arthur
giace con un abbraccio di zanne invendute

amata amica figlia madre sorella
prontamente perfetta per il mio arrivo
allatta al tuo ombelico il mio spartito di terra.

.
Michele Arcangelo Firinu

Michele Arcangelo Firinu

Stari Most – Vecchio ponte
a Franca

I muri delle città sono fatti di carne:
ridono e gemono.
E tu li senti, tutti i ponti del mondo, gemere ululare
perché il più dolce, il più acuto tra i loro fratelli
è stato abbattuto dai sicari.
I fiumi, che si sono formati
per le lacrime di tutte le guerre
sciolgono le loro trecce di prefiche
sui mari neri.
Voglio una musica dolce, sorda e cieca.
Voglio questa carezza sui lungofiumi
di Parigi e di Roma che hanno la pelle d’oca.
Ecco, la luna offre una benda
e avvolge l’arto fantasma di Mostar.
Lì si levava un riso di fanciulli
come se grandinassero chicchi d’argento.
Ai tuffi degli angeli laceri e felici
gli dei gettavano marenghi d’oro.
Ricordi? La tua snella vita si librava,
aureo amore, verso l’oracolo
dei miei futuri giorni.
La stanza delle molli alcove è ancora lì,
madida di desiderio.
Il tuo chiaro viso si abbandona,
raso su raso,
sulla profusione rossa.
Tappeti e cuscini, tappeti e cuscini
e il mio deglutire ilare, a voce roca,
stanno ancora lì e quei tempi quasi
mi si strusciano addosso,
mi sbavano umidori lascivi sulla guancia.
La bionda vetrata si spalanca
su crosci di fiume e di sole
e il ponte di Mostar
è lì, intatto, d’oro:
vi danzano cherubini tra le note
dell’Elisir d’amore.

.
Umberto Piersanti

Umberto Piersanti

*Diario di bordo

presso la foglia fradicia
del tiglio e dentro l’erbe
fatte quasi bianche,
nel suo rosa sempre più pallido
e tenace, un cespo di ciclamini
si rinserra, fragili i gambi
e curvi, inzuppati d’acque,
ma fino a quando arde
dentro la bruma spessa,
la nebbia nera,
quel rosa che settembre
accese con un suo vento
morbido e celeste?

no, la brina non lo stronca
e non lo schianta il vento,
forse l’eterno è nel pallido
colore che mai si spegne
e alla terra eterna
s’annoda e confonde,
ma dicembre viene
e nel gelo lo spezza

c’era lì nell’orto
un lungo ramo
con i passeri in fila
bianchi di neve,
solo il rosso dei cachi
un po’ trapela
tenace, nel chiarore,
che l’avvolge

e non sei mai solo
come quando dalla finestra
d’un albergo nuovo
dentro ogni macchina che passa,
infinite, coi fari,
tra la pioggia,
i volti dei viandanti
tu intravedi

annota nel diario a bordo
vicende e cose,
minute o immense
questo conta poco,
e le stanche domande
non segnare,
perché un vecchio
corre lungo il mare
e tra le tamerici ingiallite
o spoglie, una sola
è rimasta verde?

appunti, solo appunti
sparsi, il veliero continua
l’incerta rotta

cerca le sue Galapagos,
ogni moto e caduta
lì forse ha un senso,
sale una bruma immensa
spegne astri e quadranti,
la rotta che s’è persa
(dicembre 2009)
*cerca le sue Galapagos: in queste isole Darwin cercava la conferma alla sua teoria sulle origini e lo sviluppo della vita

 

 

 

 

Lucia Gaddo Zanovello

Lucia Gaddo Zanovello

Lucia Gaddo Zanovello

Distacco

Improvvisa respira la morte
ogni interrotta gioia è intorno,
in un lampo senza tuono
diviene fatale l’attimo perduto
il timore non scordato dell’agguato
e tutto il sangue della vita
assorbe avida la terra.

Ma una mano
una mano ancora lascia,
che io possa tornare alla carezza
che non ho data
al gesto ovvio e noto
posato per dopo.
Ho i piatti da lavare
là grida in cucina
quel ‘poi farò’ che più non ho.

Sono nella letizia del sì,
nel sole che infinito mi ha preso
ma per i miei
tornare sarà l’inferno del pianto.

Lasciami delle dita un tocco appena
mi basta
a correggere piano la stanza,
a saggiare la fronte
a far passare un bacio alle labbra.

Certo chi resta presto troverà
sopravvivenza
poi il corso di ciascuno
prenderà la svolta necessaria
per una meta alla mia disgiunta
ma ora
è fuoco di sale che consuma
la ferita
di chi mi brucia accanto,
per questa mia inerte, recisa giovinezza
senza avviso
e senza scampo.

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Franco Dionesalvi

Le coperte

Cos’è che cerco sotto le coperte
e mi s’ingola grazie a quel tepore
forse lo sfarfallio
di quando zia chiudeva le persiane
così la notte rimaneva fuori.
O la stufa, o l’odore della cena
o invece le parole
ma in quelle soprattutto era la nenia
o il battito dei suoni lo stridore
forse quel ricettarsi mi soffiava
la casa in cui non posso più tornare.
Sandra Evangelisti

Sandra Evangelisti

L’amore è imperfetto

L’amore è imperfetto,
nasce da creature imperfette
e si alimenta di moti imperfetti.
Ha fame di odori e di sensazioni
naturali nella loro espressione.
Non ha bisogno di censori e di filosofi,
rifugge dalla matematica degli elementi.
L’amore è semplice
come un bambino che si attacca al seno della madre.
Non ama definizioni e non si fa definire.
C’è o non c’è,
è figlio, forse, di antiche divinità pagane.
Non ha legami con la giustizia e con la morale,
e chi lo asserve a regole fittizie
e gli infligge la prigionia
di categorie della retorica
contribuisce in modo insopportabile
alla tristezza del mondo a venire.
Perciò l’amore si vive e basta.
Dico questo perché l’ho incontrato
sul ciglio della strada
vestito da éfebo con occhi verdi.
eugenio lucrezi e paola nasti 13 nov 2011

Eugenio Lucrezi

Il paradiso di cui parli, vuoi …
a Paola Nasti

Il paradiso di cui parli, vuoi,
senza che veda il vento lanciasassi
di ghiaccio, punteruoli che trapassano
angeli inconsistenti che trattengono
bave di carne, se la neve sfrangia
bandiere di nazione paradiso.

Desolazione di cui parli, vuoi,
in questa notte di buio abbagliante.

Inizia la visione dove cessa,
per eccesso ipotermico di luce,
la febbre figurale del racconto.

Non sai che farne, sconfino dello sguardo.

Sai che non puoi tentare una ventura
con animo di volpe che leggera
lascia sul manto passi inapparenti.

Fuggono ad una ad una, le figure,
anche quelle viziate dalla luce
in una posa illogica, di affanno.

Anima su due zampe che saltella,
t’inoltri, bianca lepre senza manto,
sulle coltri sottili.
In fondo, dove
non c’è niente da fingere, ti aspetta,
mite, la dedizione ad una carne
di quelle che non mangi per rifiuto
di chi non ti appartiene, e che non vuoi.
Maurizio Soldini

Maurizio Soldini

Origami di un volo

Aspettare nel solco della piana
tracciato dall’aratro trascinato
nella zolla che si desta supina,

implume come un passero,
venuto da origami e dalle mani,
che ha smesso di planare nel vento.

Subire le passioni dall’esterno
come da grandine, che piove dall’alto
e brucia e colpisce senza bagnare,

la pelle sciupata dal passaggio di nuvole
a scivolare in antefatti di futuro
a gradire la permanenza nell’assenza.

Senza fretta comprendere nel volo
quanto i secondi scendano nel baratro
dell’insolvenza dei significati,

riavvolgere allora bobine di pensieri
a dispianare voli, salti e svolte,
che giungono così al senso della vita.

Roma, 22 febbraio 2014

 

chiara moimas a Parigi

chiara moimas a Parigi

Chiara Moimas

È QUESTO CHE SI NARRA

Da solo non era felice.
Stanco di aggirarsi
nella perfezione
di valli e di radure.
Inutilmente immortale.

Una scheggia
fu tratta
dal costato possente.
E’ questo che si narra.

Quando lenta
le palpebre schiuse
ogni luce oscurò.
Pallida emerse la luna
balenarono fatue le stelle.
La sua voce echeggiò
negli anfratti
e ruggì nelle gole.
Il piacere sopito
nelle spire si disfece.
Lei con i morbidi artigli
più del ghepardo flessuosa
lo trasse in inganno.
La mela che colse
dentro
aveva il turbinio
che sovverte
l’ordine delle cose.
Precipitarono
angeliche legioni
nei crateri roventi.
Un alito nuovo soffiò
a lacerare le fronde
a scavare nel volto.
Impietoso.
Un pensiero distorto
divelse i cancelli
turbato
del suo essere ignudo.

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