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L’ESTRANEAZIONE È LA CATEGORIA BASE DELLA NUOVA POESIA – Pensieri e poesie di Donatella Costantina Giancaspero, Mario M. Gabriele, Carlo Livia, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Salvatore Martino, Antonio Sagredo, Jan Larrea, Mauro Pierno, Luigina Bigon, Lucio Mayoor Tosi

 

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Giorgio Linguaglossa
19 febbraio 2018 alle 10.00

L’ESTRANEAZIONE È LA CATEGORIA BASE DELLA NUOVA POESIA

L’estraneazione è l’introduzione dell’estraneo nel discorso poetico; lo spaesamento è l’introduzione di nuovi luoghi nel luogo già conosciuto; il mixage di iconogrammi e lo shifter, la deviazione improvvisa e a zig zag sono gli altri strumenti in possesso della musa di Mario Gabriele. Queste sono le categorie sulle quali il poeta di Campobasso costruisce le sue colonne di icone in movimento. Il verso è spezzato e interrotto, segnato dal punto e dall’a-capo è uno strumento chirurgico che introduce nei testi le istanze «vuote»; voglio dire che i simboli, le icone, i personaggi sono solo delle figure, dei simulacri di tutto ciò che è stato agitato nell’arte e nella poesia del novecento, non esclusi i film, anche quelli a buon mercato, le long story, le short story… sono flashback a cui seguono altri flashback che magari preannunciano icone-flashback… non ci sono né domande, come invece avviene nella poesia ultima di Gino Rago, né risposte come avviene, a volte, in alcune mie composizioni.

Altra categoria centrale è il traslato, mediante il quale il pensiero sconnesso o interconnesso a un retro pensiero è ridotto ad una intelaiatura vuota, vuota di emozionalismo e di simbolismo. Questo «metodo» di lavoro introduce nei testi una fibrillazione sintagmatica spaesante, nel senso che il senso non si trova mai contenuto nella risposta ma in altre domande mascherate da fraseologie fintamente assertorie e conviviali. Lo stile è quello della didascalia fredda e falsamente comunicativa che accompagna i prodotti commerciali e farmacologici, quello delle notifiche degli atti giudiziari e amministrativi; Mario Gabriele scrive alla stregua delle circolari della Agenzia dell’Erario o delle direttive della Unione Europea, ricche di frastuono interlinguistico con vocaboli freddi e distaccati, dal senso chiaro e distinto. Eppure, proprio in virtù di questa severa concisione referenziale è possibile rinvenire nei testi, di soppiatto e appena visibili, come nella filigrana delle banconote, delle fraseologie spaesanti e stranianti appena percettibili, appena ridondanti.

Ma tutto questo armamentario retorico era già in auge nel lontano novecento, qui, nella poesia di Gabriele non c’è nulla di nuovo, eppure è nuovo, anzi, nuovissimo il modo con cui viene pensata la nuova poesia che abbiamo denominato nuova ontologia estetica. È questo il significato profondo del distacco della poesia di Gabriele dalle fonti novecentiste; quelle fonti si erano da lunghissimo tempo disseccate e producevano foglie secche, pagine immobili, elegie mormoranti, chiacchiere da bar dello spot nel migliore dei casi, tutta quella tradizione (lirica e antilirica, elegia e anti elegia, neoavanguardie e post-avanguardie) non producevano più nulla che non fosse epigonismo, scritture di maniera, manierate e lubrificate.

Mario Gabriele dà uno scossone formidabile all’immobilismo della poesia italiana degli ultimi decenni, e la rimette in moto… È un risultato entusiasmante… che mette in discussione tutto il quadro normativo della poesia italiana…

Altro scossone formidabile lo dà la poesia-pensiero di Gino Rago che ruota attorno ai pensieri primordiali dell’homo sapiens: il vuoto, l’essere, l’esistenza, il nulla, il senso dell’essere e della poesia con l’ausilio del traslato e della metafora…

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Donatella Costantina Giancaspero
19 febbraio 2018 alle 19:10

Ho qui il libro di Linguaglossa, Critica della ragione sufficiente (verso una nuova ontologia estetica), 500 pagine, l’ho sfogliato di qua e di là, ho iniziato a leggerlo… è un po’ una summa e un riepilogo di alcuni scritti che erano comparsi sull’Ombra delle Parole che affrontano una serie di gigantesche problematiche che galleggiano in questi tempi di debolismo e di epigonismo diffusi. Erano molti decenni (quanti non saprei dire, ma credo che bisogna risalire agli anni settanta) che nelle lettere italiane non venivano sollevate tante e tali questioni: il bello, il vuoto, il nulla, l’esistenza, il tempo interno delle parole, il tempo esterno, lo spazio, la spazializzazione e la temporalizzazione, l’Evento (Ereignis) in arte e tante altre questioni apparentemente slegate e fortuite come il selfie, l’autoritratto, il problema dell’inconscio nella “nuova poesia”… insomma, tali e tante questioni che messe assieme in un libro-zibaldone non si erano mai viste in un libro di critica (militante) in Italia.

E c’è da dire che molte cose sono chiare e lampanti, chiare e distinte direbbe Cartesio, ad esempio la questione dell’essere e dell’essere delle parole, la questione del linguaggio e quella del linguaggio poetico, la questione mandel’stamiana del discorso poetico. Un incredibile excursus su tutte le principali questioni oggi sul tappeto del fare poesia. Perché è bene dirlo con chiarezza: senza affrontare queste questioni non si può scrivere oggi poesia di una qualche serietà, perché è bene che un poeta sia anche un intellettuale e non soltanto un chiacchierone ciarlante, una cicala parlante e scrivente che scrive sulle margheritine e sui broccoli del proprio orto botanico.

Donatella Costantina Giancaspero
20 febbraio 2018 alle 20.30

cari Mario e Antonio,
che Nicolò Ammanniti e Aldo Nove abbiano abbandonato la scrittura in versi la considero una autentica fortuna, quanto a Giorgio Barberi Squarotti, dai, siamo seri, uno che scriveva migliaia di lettere ogni anno piene di elogi a chiunque gli inviasse pseudo poesie, a mio modesto avviso non è una persona attendibile e seria, magari sarà stato serio in altri campi, ma in poesia no, era uno dei tantissimi che voleva accaparrarsi il benvolere di tutti. Ridicolo. Intendo questa acquiescenza alla massa di aspiranti poeti sempre alla ricerca di riconoscimenti e approvvigionamenti. Penso che sia ora di finirla con i complimenti rivolti a tutti, e bene fa l’Ombra che non risparmia critiche a nessuno quando lo ritiene opportuno…
Bisogna ritornare ad essere seri in questo Paese e a non diramare complimenti a nessuno, anche a costo di attirarsi antipatie… la stagione degli scampoli è finita.

*
20 febbraio 2018
Gino Rago

L’atto poetico nel vuoto*

«Ci interessa la forma del limone
non il limone».*

*[Questo scrissero sul manifesto formalista quegli artisti
Nell’ammutinamento sui battelli del figurativismo
E del narrativismo.
Ma fu sera e mattina sulla Forma].

 

I
[…]
Un reziario nell’arena
Con un altro reziario un po’ più antico
Ma nella stessa arena, verso chi tridenti e reti?
Chi o cosa vogliono irretire, senza corazza ed elmo?
Il Vuoto? Vogliono imprigionare il Vuoto
con un balzo estetico.
Perché la bellezza è nel vuoto?
[…]
I due reziari all’unisono: «Perché se sei nel vuoto,
se davvero ti senti nel vuoto, devi agire prima che il vuoto ti risucchi…
È il gesto che salva. È l’urto tra l’atto poetico e il vuoto
che genera lo spazio e il tempo,
perché il vuoto e il nulla non coincidono affatto.
La forma-poesia non è l’inizio
ma il risultato dell’urto dell’atto nel vuoto che fluttua.
Perché il vuoto si può costruire, come al silenzio si può insegnare a parlare,
ma occorrono le parole-stringhe a cinque dimensioni».

II
Roma. Due reziari seduti a un tavolino.
Il bar di via Gaspare Gozzi [la linea B della Metro sferraglia].
A una parete gli occhi e le rughe di Samuel Beckett.
Il barista si avvicina con due tazze fumanti, sorride.
L’uomo somiglia a José Saramago, dice: «Vi ammiro,
voi conoscete la doppiezza delle parole, nelle vostre poesie una parola
tira l’altra e con la stessa parola si può dire la verità».
[…]
– «Una parola davvero scomoda», pensa l’interlocutore non visibile
che siede qui accanto nel bar –
[La verità fa rima con varietà], questo lo affermava il Signor K. nella omonima
poesia di Linguaglossa, dove il Signor K. fuma
un sigaro italiano e cincischia con il revolver…
[…]
«Ma voi non siete ciò che dite, siete dei truffatori, siete…
il credito che le vostre parole vi danno».

* [L’atto poetico nel vuoto è stato costruito come dialogo fra due amici poeti
(Gino Rago e Giorgio Linguaglossa) alla maniera della Nuova Ontologia Estetica) nel quale il parlato fra i due gioca un ruolo estetico decisivo.]

Luigina Bigon
20 febbraio 2018 alle 22.10 Continua a leggere

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DUE POESIE di Mario M. Gabriele (da L’erba di Stonehenge, Progetto Cultura, 2016) con un Commento Giorgio Linguaglossa – Ho un libro sotto mano di Salman Rushdie Imaginary homeland (1999) – Una vecchia fotografia in una cornice a buon mercato pende dal muro di una stanza – Digressioni sulla poesia di Mario M. Gabriele, Aldo Nove, Valerio Magrelli – La pseudo-poesia, la non-poesia, la contro-poesia e la finta-poesia – La poesia dei riflettori mediatici

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Stonehenge

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa 

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Cito dal retro di copertina del libro di Mario Gabriele L’erba di Stonehenge appena pubblicato nella collana da me diretta delle Edizioni Progetto Cultura:

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«L’elemento di distinguibilità della poesia di Mario Gabriele, sta nella rottura con i canoni dello sperimentalismo e con l’eredità della poesia post-montaliana del dopo Satura (1971), vista come la poesia da circumnavigare, magari riprendendo da essa la scialuppa di salvataggio dell’elegia per introdurvi delle dissonanze, delle rotture e tentare di prendere il largo in direzione di una poesia completamente narrativizzata, oggettiva, anestetizzata, cloroformizzata. Di qui le numerose citazioni illustri o meno (Mister Prufrock, Ken Follet, Katiuscia, Rotary Club, Goethe, busterbook, kelloggs al ketchup, etc.), involucri vuoti, parole prive di risonanza semantica o simbolica, figure segnaletiche raffreddate che stanno lì a indicare il «vuoto». Il tragitto, iniziato da Arsura del 1972, e compiuto con quest’ultimo lavoro, è stato lungo e periglioso, ma Gabriele lo ha iniziato per tempo e con piena consapevolezza già all’indomani della pubblicazione del libro di Montale [Satura, 1971 n.d.r.] che, in Italia, ha dato la stura ad una poesia in diminuendo».

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È evidente che nella poesia di Gabriele l’elemento sonoro, fonetico svolga una funzione accessoria: è la continuità ininterrotta delle immagini, dei luoghi nominati, dei toponimi, della nomenclatura ciò che fa una sequenza poetica, non la continuità dei suoni. La tridimensionalità acustica della poesia di Gabriele si comporta come una sorta di megafono della tridimensionalità delle immagini, con raffinati effetti, diciamo, di stereofonia; ma la loro funzione rimane quella servente, quella di accompagnare la tridimensionalità delle immagini in rapida successione. Il loro compito è quello di accompagnare l’immagine, non di suscitarla nella mente del lettore, come accade invece in una semplice poesia performativa orale di tipo narrativo o lirico o anche mimico-teatrale.
 .
mario gabriele
da  Mario Gabriele da L’erba di Stonehenge 2016 Edizioni Progetto Cultura

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(2)

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Una fila di caravan al centro della piazza
con gente venuta da Trescore e da Milano
ad ascoltare Licinio.-Questa è Yasmina da Madhia
che nella vita ha tradito e amato,
per questo la lasceremo ai lupi e ai cani,
getteremo le ceneri nel Paranà
dove abbondano i piranha,
risaliremo la collina delle croci
a lenire i giorni penduli come melograni,
perché sia fatta la nostra volontà.-
Un gobbo si chinò davanti al centurione
dicendo:- Questo è l’uomo che ha macchiato
le tavole di Krsna, distrutto il carro di Rukmi,
non ha avuto pietà per Kamadeva,
rubato gioielli e incenso dagli altari di Nuova Delhi.
-Allora lasciatelo alla frusta di Clara e di Francesca,
alla Miseria e alla Misericordia.
Domani le vigne saranno rosse
anche se non è ancora autunno
e spunta il ruscus in mezzo ai rovi.
Un profumo di rauwolfia veniva dal fondo dei sepolcri.
Carlino guardava le donne di Cracovia,
da dietro i vetri Palmira ci salutava
per chissà quale esilio o viaggio.
Nonna Eliodora da giugno era scomparsa.
Stranamente oggi non ho visto Randall.
Mia amata, qui scorrono i giorni
come fossero fiumi e la speranza è così lontana.

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Dimmi solo se a Boston ci sarai,
se si accendono le luci a Newbury Street.
Era triste Bobby quando lesse il Day By Day.
Oh il tuo cadeau, Patsy, nel giorno di Natale!

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(3)

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La notte celò i morsi delle murene.
Tornarono le metafore e gli epistemi
e una folla “che mai avremmo creduto
che morte tanta ne avesse disfatta”:
Wolfgang, borgomastro di Dusseldorf,
Erich, falegname in Hamburg,
Ruth, vedova e madre di Ehud e di Sael,
Lothar e Hans, liutai.
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Questa è la casa: -Guten Morgen, Mein Herr,
Guten Morgen-, disse Albert.
Qui curiamo le piante e le orchidee,
offriamo sandali e narghilè ai pellegrini
in cammino verso Santiago di Compostela.
Sui gradini dell’Iperfamila,
tra stampe di Kandinskij e barattoli di Warhol,
Moko Kainda sognava l’Africa di Mandela.
-“Doveva essere migliore degli altri
il nostro XX secolo”- scriveva Szymborska,
tanto che neppure Mss. Dorothy,
chiromante e astrologa,
riuscì a svelare le carte del futuro,
né Daisy si dolse del sole africano,
ma dei muri che chiudevano
le terre di Samuele e di Giuseppe.
E non era passato molto tempo
da quando Margaret e Jennifer
(che pure in vita dovevano essere
due anime perfette e pie),
volarono in cielo.
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L’alba illuminava gli angoli bui, gli slums.
Era ottobre di canti e heineken
con la foto della Dietrich sul Der Spiegel.
Riapparve la luce,
ed era tuo il lampo sulle colline
bruciate dall’autunno.
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Ma è malinconia, mammy,
quella che ha preso posto nella casa
dove neanche le preghiere ci danno più speranza.
Fuori ci sono il drugstore e il giardino degli anziani,
l’eucaliptus e il parco delle rimembranze,
la guardia medica per il tuo tremore Alzheimer.
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Fra poco la neve coprirà il poggetto.
Ci sarà poco da raccontare
a chi rimane nella veglia,
dove c’è sempre qualcuno
che parla della lunga barba di Dio
come una cometa
nella notte più silente dell’anno,
quando il gufo da sopra il ramo
sbircia il futuro e vola via.
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Salman Rushdie and Actress Olivia Wilde

Salman Rushdie and Actress Olivia Wilde

Ho un libro sotto mano di Salman RushdieImaginary homeland‘ (1999), una raccolta di saggi sulla letteratura dello scrittore indiano. C’è anche un saggio su Italo Calvino. Il libro comincia così:

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“Una vecchia fotografia in una cornice a buon mercato pende dal muro di una stanza dove io lavoro. E’ la foto del 1946 di una casa nella quale, al tempo in cui fu scattata, io non ero ancora nato. La casa è piuttosto particolare – una casa a tre piani con un tetto tegolato e agli angoli due torri ciascuna con un cappello di tegole. ‘Il passato è un paese straniero‘ dice la famosa frase che apre il romanzo di L.P. HartleyThe God-Between?, ‘essi fanno altre cose là’. Ma la foto mi dice di capovolgere questa idea; essa mi ricorda che è il mio presente che è straniero, e che il passato è la casa, una casa perduta nella nebbia di un tempo perduto”.

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Ecco, nella poesia di Rafael Alberti, come anche nella poesia dei poeti modernisti di inizio secolo (poeti s’intende di valore), c’è questa concezione del tempo passato che la poesia può, magicamente, riaccendere come una scintilla accende un fuoco quasi spento; c’è l’idea di una continuità che la memoria può annodare tra il presente e il passato e la mente può riprendere a cantare, cantare spensieratamente. Ma, il canto spensierato è molto pericoloso, lo abbiamo esperito nel corso della seconda guerra mondiale quando sono emerse le incongruenze e gli irrazionalismi di una intera cultura: l’olocausto, gli eccidi di massa, le deportazioni, la terza guerra mondiale, quella fredda, e la quarta, appena cominciata. ecco, io penso che non c’è più spazio per la poesia che canta, come non c’è più spazio per la poesia della sproblematizzazione, per cui non c’è più metafisica, non ci resta altro che consumare il quotidiano tra un tic e una nevrosi come fa la poesia e la narrativa del minimalismo.

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Io non ho nulla incontrario verso la poesia della «nuova» «non-poesia», e qui penso alla «contro-poesia» di un Aldo Nove; eccepisco un a-priori: l’autore milanese fa, consapevolmente, una pseudo poesia, opera una verificazione del messaggio poetico attraverso la falsificazione. Così quando scrive le «anti poesie» di Maria (Einaudi 2012), la sua «anti poesia» scollima con la «pseudo poesia»; voglio dire che fa poesia laterale, da banda larga, dirige i propri strali contro la vituperata «poesia-poesia», opino avverso la poesia lirica. Ma non coglie il bersaglio. E lo manca perché il bersaglio non c’è, e non c’è perché la poesia lirica ormai la fanno le decine di migliaia di aspiranti al podio della poesia; di fatto, essa è scomparsa dopo La camera da letto (1984 e 1988) e La capanna indiana (1973) di Bertolucci. Semplicemente, non è più possibile fare poesia lirica oggi neanche se un redivivo Attilio Bertolucci scrivesse una nuova Camera da letto. In realtà, Aldo Nove e Valerio Magrelli fanno una poesia della sproblematizzazione, interrogano derisoriamente le tematiche e le icone pubblicitarie della civiltà mediatica e della civiltà umanistica; il primo con gli strumenti culturali del capovolgimento antifrastico, strumento retorico tipicamente novecentesco; il secondo con il gioco ironico che oscilla tra accettazione, manipolazione e intellettualizzazione dei temi e degli idoli della civiltà mediatica. Ma siamo ancora all’interno di una cultura della sproblematizzazione.

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salman 10

salman rushdie

Torniamo alla stanza dove pende una vecchia fotografia. Nel romanzo di Rushdie ‘Midnight’s Children‘(1981), c’è la vecchia casa dei genitori. In una mia poesia (Tre fotogrammi dentro la cornice), riprendo il tema da una foto scattata anch’essa nel 1946: ci sono i miei genitori giovani, appena sposati, che camminano in una strada di Roma nel dopo guerra. Mio padre, calzolaio, tornato dalla guerra come soldato semplice, ha perduto il negozio di scarpe che aveva in viale Libia a Roma, ed è disoccupato, e mia madre è in cinta di mio fratello, io non sono ancora nato.

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Giorgio Linguaglossa Three Stills In the Frame 2015
Neanche Rushdie era ancora nato nel 1946. Entrambi (lui nel romanzo, io nella mia poesia) manifestiamo la nostra contentezza per non essere ancora tra i viventi, ed entrambe le foto sono in bianco e nero. E il mondo che sta attorno alla foto, sia io che Rushdie lo immaginiamo in bianco e nero, monocromatico. Ma la realtà non è mai stata monocromatica, è un difetto delle foto che la rappresentano in bianco e nero.
E qui sorge il problema sollevato da Rushdie citando la sentenza di Hartley: ‘Il passato è un paese straniero‘. Ma è un falso ci dice il narratore indiano, è il presente il vero paese straniero, noi non conosciamo il presente, e il passato possiamo conoscerlo solo attraverso la discontinuità e la disorganizzazione dei ricordi. Il rammemorare non è una azione di continuità tra il passato e il presente, ma è una azione di collegamento tra due frammentazioni, e la poesia e il romanzo di oggi non possono che ripresentare in essi queste duplici frammentazioni. Il poeta moderno cerca di dare al passato una rappresentazione immaginativamente vera mediante una iniezione di memoria; ma è un falso, la memoria non è una linea rettilinea ma un insieme di frammenti disorganizzati e casuali dove si può prendere di tutto e si può perdere di tutto.

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Noi, dico noi per indicare noi gli esiliati del mondo moderno, non possiamo prendere dal serbatoio della memoria nient’altro che frammenti e lacerti irregolari, frantumi di quell’antico specchio che è stata la vita. E saranno proprio questi frantumi che ci possono condurre più da vicino al mondo delle simbolizzazioni. I frantumi sono già dei simboli, afferma Rushdie. Ecco perché oggi non c’è più alcun bisogno di alcun simbolismo. Il simbolo è morto ed è stato sostituito dai frantumi. Oggi, un narratore o un poeta non può più porre mano ad un romanzo alla maniera di Proust per ritrovare il tempo perduto; oggi il mondo si è frantumato e non ci sarà nessun Proust che ci potrà restituire quel mondo nella sua compiutezza. Restano i frantumi, ed è da essi che dobbiamo riprendere a tessere le nostre poesie e i nostri romanzi.
Rafael Alberti appartiene a quel genere di poeti e romanzieri alla Proust che cantano per restituire il mondo del passato nella sua interezza. Ma è un falso, come poi ci ha mostrato Eliot ne ‘La terra desolata‘ (1925).

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Quanto all’Ombra delle Parole, caro Steven Grieco, io penso molto semplicemente che una poesia fatta per la luce dei riflettori mediatici, come la «pseudo poesia» di Magrelli sulle gambe di Nicol Minetti (tratta da Sangue amaro, Einaudi, 2015) che abbiamo ripubblicato su questo Rivista, sia di una estrema banalità, punta tutto sulla luce dei riflettori mediatici, è una pseudo poesia di superfici riflettenti che riflettono tanta luce quanta ne ricevono. In questo genere di poesia non c’è ombra, c’è solo luce. Tutto è stato detto. E tutto può essere dimenticato.

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Per ricollegarmi alla questione dianzi sorta se cioè la poesia contemporanea (la migliore intendo, cioè, per essere chiari, quella di Mario Gabriele) debba o no suscitare emozioni, debba emozionare, bene, io penso che con la categoria del «pensiero emotivo» desunto da Hilman non si vada da nessuna parte. La poesia di Mario Gabriele, come quella di Antonio Sagredo, (penso a Roberto Bertoldo e a Luigi Manzi e altri), non va letta con quella categoria (che io ritengo fuorviante e irrazionalistica). Non c’è nulla nella poesia di Gabriele che abbia un contenuto emotivo, e quindi, da questo punto di vista non può destare emozioni, anzi, penso che non deve suscitare alcuna emozione. Teniamoci alla larga, quindi, da questa categoria spuria, a metà tra psicologia del profondo e estetica della buon’ora. La migliore poesia contemporanea è, di fatto, un manufatto “raffreddato”. Che cosa significa? Voglio dire che il poeta contemporaneo reduce da tre guerre mondiali e spettatore impotente della quarta in corso, non ha più intenzione di iniettare nel proprio DNA poetico alcun pensiero estetico emotivo. Il linguaggio di tutti i giorni si è raffreddato, si è surgelato, è diventato una gelatina, e il poeta dei nostri tempi non può che prenderne atto, deve astenersi dall’intervenire sul piano di una psico linguistica (come si diceva una volta con una terminologia abnorme). Non c’è alcuna psicolinguistica da fare, la Lingua maggiore si è de-psicologizzata (e io direi, per fortuna!). Ecco una ragione in più per considerare superata la poesia lirica, superata in quanto è stata circumnavigata dalla Storia. Il poeta contemporaneo ha a che fare con una cosa nuova: il raffreddamento delle parole; le parole non hanno risonanza, le parole del linguaggio poetico tradizionale hanno perso risonanza, e allora al poeta dei nostri giorni non resta altro da fare che costruire dei manufatti a partire dai luoghi, dai toponimi, dai nomi, diventa nominalistica, diventa assemblaggio di icone, assemblaggio di frammenti (Salman Rushdie afferma che i frammenti sono già in sé dei simboli!). La fragmentation è diventata la norma nel nostro mondo contemporaneo; ovunque ci volgiamo vediamo frammenti, noi stessi siamo frammenti, le particelle subatomiche sono frammenti infinitesimali di altri frammenti di nuclei andati in frantumi in quel GRANDE CIRCUITO che è il CERN di Ginevra, là dove si fanno collidere i protoni tra di loro in attesa di studiare i residui, i frammenti di quelle collisioni. Tutto il mondo è diventato una miriade di frammenti, e chi non se ne è accorto, resta ancorato all’utopia del bel tempo che fu quando c’erano gli aedi che cantavano e scrivevano in quartine di endecasillabi e via cantando….
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valerio magrelli

Valerio Magrelli

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L’igienista mentale:
divertimento alla maniera di Orlan
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La Minetti platonica avanza sulla scena
composto di carbonio, rossetto, silicone.
Ne guardo il passo attonito, la sua foia, la lena,
io sublunare, arreso alla dominazione
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di un astro irresistibile, centro di gravità
che mi attira, me vittima, come vittima arresa
alla straziante presa della cattività,
perché il tuo passo oscilla come l’ascia che pesa
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fra le mani del boia prima della caduta,
ed io vorrei morirti, creatura artificiale,
tra le zanne, gli artigli, la tua pelle-valuta,
irreale invenzione di chirurgia, ideale
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sogno di forma pura, angelico complesso
di sesso sesso sesso sesso sesso.
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Dobbiamo fare un passo indietro.
Per quanto riguarda un poeta che esemplifica bene la mutazione della forma-poesia dagli anni Ottanta ai giorni nostri, devo fare riferimento a Valerio Magrelli. La sua opera d’esordio, Ora serrata retinae, è del 1980, seguita da Nature e venature (1990) a cui fanno seguito Esercizi di tiptologia(Mondadori, 1992) e Didascalie per la lettura di un giornale (Einaudi, 1999), fino al libro del 2014 Sangue amaro (Einaudi).
Bene, è sufficiente leggere i primi due libri per accorgersi che in essi c’era ancora, ed era visibile, una ricerca esistenziale e stilistica. In sostanza, era visibile la crisi dell’«io» nella lettura e decifrazione del mondo. A questo sipario della Crisi avrebbe dovuto fare seguito un ulteriore approfondimento della indagine sulla fenomenologia della Crisi, ma sarebbe occorsa una nuova fenomenologia di indagine e un rinnovamento dello stile. Magrelli, invece, già alla fine degli anni Ottanta intuisce l’esaurirsi di quella miniera stilistica, che il filone aurifero si è disseccato, e invece di proseguire il lavoro di indagine e di scandaglio, pensa bene di ricorrere ad uno stratagemma: d’ora in avanti prende atto dell’esaurimento di un certo punto di vista, diciamo diagnostico e di ricerca della forma-poesia, e abbandona il primo stile di una poesia breve e compatta che rivela un singolo aspetto del reale, per dedicarsi a quella che io ho definito più volte «poesia commento». Il terzo e quarto libro sono infatti eloquenti finanche nel titolo, si tratta di operazioni di «tiptologia», di «didascalie» alla lettura, di «glosse» in margine al «giornale».
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Insomma, si tratta di «finta-poesia». Magrelli con un abilissimo trucco da prestidigitatore, trasforma la «poesia» in «finta-poesia», va incontro alla richiesta del pubblico colto che vuole una poesia poco impegnativa e poco impegnata, una poesia leggera, da intrattenimento ludico-ironico. È tutta la società italiana che dagli anni Ottanta si muove in questa direzione con il debito pubblico che avanza progressivamente a livelli astronomici. È insomma una poesia da debito pubblico alle stelle.
Si intenda, io non esprimo qui una diagnosi di carattere morale, esprimo una diagnosi di carattere estetico: la forma-poesia che si imporrà negli anni Ottanta e Novanta sarà quella del disimpegno (nella punta più intellettualmente arrendevole ci sono Vivian Lamarque e Jolanda Insana, nelle punte di vertice si trova, senza dubbio, Valerio Magrelli).
E qui il cerchio si chiude.
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Quello che molti autori di poesia scrivono e pubblicano dagli anni Ottanta ai giorni nostri sono opere di «finta-poesia», «quasi poesia», «pseudo poesia», «ultra poesia», insomma, sono operazioni che hanno a che fare con la sociologia della poesia e niente con la «poesia». In questo mi sento di dare ragione a Salvatore Martino, ma solo per questo aspetto. Se si va ad indagare che cosa avviene fuori della poesia pubblicata dagli editori maggiori ci sono stati e ci sono poeti che hanno continuato ad esplorare la forma-poesia, ed uno di questi è senz’altro, Mario Gabriele.
Che poi dei critici come Romano Luperini abbiano salutato l’ultimo libro di Magrelli Sangue amaro (2014) come un’opera «rivoluzionaria», è una tesi che illumina piuttosto l’assenza di pensiero critico del critico che non il libro.

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Mario Gabriele volto 1.
Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. In poesia ha pubblicato Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); la tetralogia: Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014). Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento. Si è interessata alla sua opera la critica più qualificata: Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Domenico Rea, Giorgio Linguaglossa, Luigi Fontanella, Ugo Piscopo, Giorgio Agnisola, Mariella Bettarini, Stefano Lanuzza, Sebastiano Martelli, Pasquale Alberto De Lisio, Carlo Felice Colucci,  Ciro Vitiello, G.B.Nazzaro, Carlo di Lieto. Cura il Blog di poesia italiana e straniera Isoladeipoeti.blogspot.it.

 

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Maria di Aldo Nove e la critica di Andrea Cortellessa – La madonnina di Viggiù. Aldo Nove e la pietra dello scandalo – Commento di Angela Borghesi e bilancio di Giorgio Linguaglossa 

 jeff_koons-cicciolina

jeff_koons-cicciolina // Lei era una bambina che qualunque collina
avrebbe voluto avere come sole.
Da tempo immemorabile era bella.

 Aldo Nove è nato nel 1967 a Viggiù, piccolo paese al confine con la Svizzera. Il suo primo libro Woobinda è stato pubblicato nel 1996 da Castelvecchi. Un suo racconto è apparso nell’antologia Gioventù cannibale. Nella collana «Stile libero» sono apparsi Puerto Plata Market (1997), Superwoobinda (1998), Amore mio infinito (2000), La più grande balena morta della Lombardia (2004), Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese… (2006) e La vita oscena (2010). Nella «Collezione di Poesia» sono apparsi le raccolte Nella galassia oggi come oggi. Covers (2001), composta insieme a Raul Montanari e Tiziano Scarpa, Maria (2007) , A schemi di costellazioni (2010) e Addio mio Novecento (2014). Il suo più ampio volume di poesia è Fuoco su Babilonia! (Crocetti 2003).

aldo nove cop Maria
Lei era una bambina che qualunque collina
avrebbe voluto avere come sole.
Da tempo immemorabile era bella.
E più che una bambina era una stella.
Più che una stella era qualunque cosa.
Più di qualunque cosa era amorosa,
più di qualunque amore decorosa:
di tutto l’universo era la sposa.
Ma era troppo piccola: una rosa
che sboccia appena, come ogni creatura
sospesa tra l’eterno e la paura
dei giorni che dei sogni sono mura.
Le mura di chi è nato e non gli è dato
capire più di quanto del creato
gli venga in uno spazio costruito
e dentro un tempo già determinato.
Ma i sogni la sognavano più forte
del sogno che a ogni nato è dato in sorte
prima che nel silenzio della morte
le vite si ritraggano contorte.
Quasi che solo quello si sapesse:
che tutto infine ha fine come il sole
e l’universo e tutto ciò che vuole
vivere sempre, e che vivendo muore.
Quest’era l’infinita nostalgia,
quest’era l’assoluta lontananza
prima che quella luce in quella stanza
dicesse allora e per sempre: Maria.
[…]

[da Maria]

Marie Laure Colasson YZZ Struttura dissipativa 78x34 2020

[Marie Laure Colasson Struttura dissipativa, yzz, 78×35 cm. acrilico su tavola, 2020]

(Antologia di poesie di Aldo Nove)
A Baghdad 9.4.03

Fiumi di figa e di bandiere a stelle
E strisce e di cheeseburger e cartoni
Animati di morti col sorriso
Hollywoodiano e musica carina,
è questo il nuovo ordine mondiale

Tutti disciplinati, non c’è più
Regime adesso ma soltanto fiumi
Di figa e di bandiere a stelle e strisce
E di cheeseburger, cartoni animati
Di morti col sorriso hollywoodiano.

.

Cheesburger II

Al cinema biologico dei corpi
Trasmessi alla memoria di nessuno
Gli spettatori vengono abbattuti
Direttamente sulle sedie mentre
Sognano di mangiare dei Cheesburger

.
Ministro

Dice il ministro che si è commosso
Guardando alla TV quattro straccioni
Morti di fame per decreto U
SA che inneggiano al nuovo padrone

Lo stesso che li ha condannati a morte
Per anni con gli embarghi e adesso li
Ha mezzi liberati e mezzi uccisi,
io a quel ministro spaccherei la faccia

aldo nove

[aldo nove] Adesso è questa/ bolletta dell’Enel. Luglio/ millenovecentottantotto, il due. Sull’/ orologio le

Bolletta dell’Enel

Adesso è questa
bolletta dell’Enel. Luglio
millenovecentottantotto, il due. Sull’
orologio le
diciannove e quarantacinque non sono una ragione
per nessuno, oltre
le mani che stringono senza capire il foglio
del conguaglio, rosse
le linee che contengono le cifre. E alla storia
consegno questo. Né
testimone di me o del mio tempo
vedo inerpicarsi nello stretto dovere
che ancora sgretola tempo e tempo dalle persiane,
dove il deserto è una goccia
che dall’infanzia prorompe
in questa cucina

[da Fuoco su Babilonia! – Crocetti editore, 2003]

.

Mio zio litiga sempre con mia zia

Mio zio litiga sempre con mia zia;
mia zia litiga sempre con mio zio,
perocché in fondo in fondo esiste Dio,
e tutto torna sulla retta via.

Mio zio lavora in Svizzera, a Mendrisio,
non sa nulla di Kant né di Platone,
ma non è deficiente né coglione,
e nell’Olimpo opta per Dionisio

(infatti beve): troppo descrittivo?
Come poesia, però, non è scadente:
almeno testimonia che son vivo

e che ragiono, o forse no (la gente
capisce poco di quello che scrivo
ma quello che capisce è sufficiente).

[da Fuoco su Babilonia! – Crocetti editore, 2003]

.

Perlana ammorbidente

Ricordo che ogni punto dello specchio
si dilatava. Ed io che avevo preso
il rasoio guardavo me che vecchio
mi guardavo, ventiseienne obeso

nonché bambino acuto in italiano,
o innamorato di una di Malnate
nove anni fa. Strinsi forte la mano,
mi recisi la gola. E abbandonate

la schiuma e la salvietta scivolai
per terra. Andando a sbattere la testa
sul detersivo, tutto riversai
tra gli additivi il flusso che si arresta

della mia vita. Mi stupì la strana
ultima sensazione di chi muore
con forte in bocca il novello sapore
del proprio sangue misto col Perlana.

[da Fuoco su Babilonia! – Crocetti editore, 2003]

.

6.320 Lire

Qualcosa di
completamente nuovo, come il wurstel
ripieno di formaggio americano,
che addomesticato dall’acquisto
riposa nello spazio
rimasto tra il prosciutto e gli assorbenti
inerte come il docile stupore
del peso che si scava l’interstizio:
un tonfo sordo. Quattromila lire.

Qualcosa di
tradizionale come
il petto di tacchino, messo sopra
la confezione d’acqua minerale,
in bilico. Seimila
trecentoventi lire.

[da Fuoco su Babilonia! – Crocetti editore, 2003]

enzensberger poker-pato

[Pupe, pepite e reggicalze] Qualcosa di
completamente nuovo, come il wurstel
ripieno di formaggio americano,


da Angela Borghesi Dieci libri. Letteratura e critica dell’anno 2007-08, Libri Scheiwiller, Milano.

Confesso di essere finalmente inciampata anch’io in Aldo Nove. E denuncio subito tutto il mio disagio, la mia incredulità di fronte a tanta pietra dello scandalo.

Fino ad ora avevo scansato dai miei programmi di lettura gli scritti di Aldo Nove come Don Abbondio i ciottoli dal sentiero. A vincere la mia riottosità la pubblicazione nella Bianca Einaudi del poemetto Maria. Ciascuno coltiva anche pregiudizialmente le sue convinzioni. Io sono convinta che nel secondo Novecento la produzione letteraria italiana abbia dato e, nonostante la confusione imperante, continui a dare il meglio di sé nella poesia. Acquisto il libro sperando che questo sia il momento giusto per l’incontro sempre procrastinato e prendo atto dalle notizie di copertina di essere ulteriormente in ritardo: questa non è la prima opera poetica di Aldo Nove.

 Comunque, grazie alla candida veste einaudiana mi accingo con curiosità alla lettura del poemetto. Non senza avere scrutato con la dovuta attenzione l’oggetto: prima e quarta di copertina, ringraziamenti, dedica, citazioni in esergo, indice e il “finito di stampare”. Ciò che circonda il testo è viatico necessario alla lettura, piccolo rito propiziatorio. Apprendo così che il libro è stato stampato in maggio, mese come si sa delle rose dedicato a Maria. Con divertita simpatia mi chiedo se ciò risponda ad una precisa intenzione dell’autore o della casa editrice. L’ipotesi di una tale discreta attenzione al calendario liturgico mi predispone benevolmente alla lettura, se non fosse per il risvolto dove capita di leggere: «trenta canti, ciascuno di sette quartine di endecasillabi fittamente e variamente rimati»; poi si scorrono le due quartine riportate in copertina e i primi due versi (destinati a non rimanere gli unici) tutto sono tranne che endecasillabi. Che si debba fare la tara ai giudizi delle note di quarta è cosa ormai assodata, ma che non siano nemmeno più affidabili per quel che concerne i puri dati formali è negligenza che lascia un po’ d’agro in bocca. Ancor più se andiamo a dare uno sguardo alle citazioni, ben tre e una più dotta dell’altra, che variano da Pier Jacopo Martello a Sant’Ambrogio a Lacan. Non può allora sfuggire che proprio il verso d’apertura del primo canto, quello stesso riportato in copertina, è un martelliano e che, dunque, l’omaggio all’arcade bolognese dà anche il tono d’avvio al testo.

Tuttavia mi consola scoprire che la dedicataria è la nonna friulana di Antonello Satta Centanin, devota macinatrice di rosari. Il tributo alla memoria familiare mi piace. Comincio a leggere. Ma bastano alcuni canti e mi prende la noia. Abbandono, e mi dico che anche per questa volta l’incontro non s’ha da fare.

A riportarmi al testo dopo qualche giorno è un’altra scoperta. Il numero di gennaio 2007 di «Poesia» preannunciava (con il primo piano – come d’uso per il mensile – di un Aldo Nove più giovane colorato e scapigliato) la pubblicazione di Maria anticipandone alcuni canti. Cerimoniere dell’evento Andrea Cortellessa. Mi ero proprio persa tutto quanto.

Se l’accoppiata Nove/Bianca Einaudi, una delle più prestigiose collane di poesia nazionali, meritava un poco di attenzione, quella di Nove/Cortellessa, data la mia considerazione per il critico, esigeva un ascolto più attento, una maggiore disponibilità verso quei versi che non si erano aperti all’incontro.

Simone Cattaneo al Pascià club 2008

Qualcosa di/ completamente nuovo, come il wurstel/ ripieno di formaggio americano

 Corro in emeroteca, mi impossesso del saggio di Cortellessa dal titolo Lo scandalo dell’amore infinito, lo leggo. E, accidenti, questa sì è una lettura sconcertante. Questo il vero scandalo e non le quartine di Aldo Nove. Scandalo nel senso etimologico della parola che il critico si premura di spiegare al pubblico con dovizia di rimandi evangelici e testamentari. La mia vera pietra d’inciampo è proprio il giudizio di valore di Cortellessa. Ma come? A lui queste quartine hanno provocato un’emozione autentica come quella che si prova nel «veder nascere una grande poesia», e in me hanno sortito noia, solo noia? Forse qualcosa non è andato per il verso giusto, forse ero distratta e mi è sfuggita la «assoluta e sbalorditiva naturalezza» con cui Nove fa propria la tradizione dell’innologia mariana. Come, come ho potuto sorvolare su quella quartina così «vulnerante», su quella «straordinaria capacità di contemperare […] il rapimento estatico, l’esilarante attestazione del trascendente, e la più problematica riflessione concettuale, filosofica, speculativa»?

L’aggettivo «esilarante», usato due volte a poca distanza, mi pone un altro problema: chissà, magari non ricordo l’etimologia esatta. Consulto il dizionario ma l’aggettivo in quel contesto continua a non parermi congruo. Passo oltre.

Torno a chiedermi come sia potuto accadere di non aver colto l’«intensità lirica», l’incandescenza, l’iridescenza vertiginosa, la virtuosistica variazione (questa sì l’ho colta, ma appunto è ciò che mi ha infastidito). Insomma, come ho potuto non accorgermi che siamo in presenza di una «grande poesia» che non teme confronti né con Dante né con Rebora, per citare gli estremi cronologici cui Cortellessa rinvia con convinzione. Come mai quando leggo in classe Dante, quello stesso che Cortellessa accosta a Nove, pur povera di fede, mi si increspa la voce e mi tremano le vene e i polsi. Come mai quando ammiro l’annunciazione di Lorenzo Lotto, quella col gatto nero che scappa spaventato, poco ci manca che sia preda della sindrome di Stendhal, e invece rimango indifferente di fronte a questa Maria bambina di Aldo Nove?

Non mi stupiscono tanti e tali aggettivi sempre superlativi. Da tempo ho registrato che in Italia le ultime generazioni di critici e recensori hanno perso il senso della misura. Per loro tutto o quasi è “straordinario”. Mi ci sono abituata, e anche qui faccio la tara che si deve, riconduco questa smania superlativa alla tendenza a dare giudizi che si iscrivono in un orizzonte letterario ristretto (la produzione italiana degli ultimissimi anni), autoreferenziali. Ma non sembra essere questo il caso. L’orizzonte di riferimento di Cortellessa è quanto mai ampio e, questo sì, vertiginoso per nobiltà e qualità letteraria, niente po’ po’ di meno che il Dante paradisiaco al suo acme filosofico e poetico (Paradiso, XXXIII). Dunque, perché ciò che a Cortellessa pare un «“vero” avvenimento» su di me non ha prodotto alcuno sconquasso («squassante» è aggettivo da aggiungere alla serie)? Sono io cieca di fronte a tanta meraviglia o è il critico che ha preso un abbaglio, o meglio è caduto vittima di un’apparizione non così miracolosa come sostiene? La madonnina di Viggiù come quella di Civitavecchia?

aldo nove

aldo nove

 Ma il mio è un problema serio. Cortellessa, ripeto, è critico di valore che per giunta dirige una collana in cui propone testi di giovani poeti degni di interesse. In questo saggio stila giudizi a dir poco lusinghieri su tutta la produzione di Aldo Nove. Che sia la mia ignoranza sul pregresso che limita la mia percezione del vero? È dunque necessario che io corra ai ripari e mi legga l’intera opera del nostro campione. Mi armo della necessaria diligenza e parto nella ricognizione pressoché esaustiva degli scritti narrativi del nostro da Woobinda a Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese passando anche per quel «piccolo ma assoluto capolavoro» che, ancora secondo Cortellessa, è La più grande balena morta della Lombardia. Non senza avere colmato anche il debito poetico leggendo sia il volume pubblicato da Crocetti, Fuoco su Babilonia, che l’altro, sempre einaudiano, delle covers con Montanari e Scarpa, Nelle galassie oggi come oggi. Riemergo dall’affondo un po’ provata ma con una certezza e alcune impressioni.

[…]

Se spogliamo il saggio di Cortellessa dal crepitante involucro aggettivale, la tesi critica di maggior peso rivolta all’intero prodotto creativo del sodale è quella espressa in esordio: Nove è uno scrittore «multiforme», «onnipotenziale», qualità queste che sembrano segnare un vero discrimine critico per Cortellessa da sempre attratto dallo sperimentalismo e dall’oltranza. Senonché in Nove l’oltranza rischia di diventare oltraggio (per citare uno Zanzotto caro a Cortellessa e da lui evocato come uno dei numi tutelari delle quartine mariane). Oltraggio e non per il «costante capovolgimento delle attese» che in Nove sarebbe consustanziale, bensì per una tendenza alla reiterazione del misfatto.

 Prendiamo Woobinda, il suo esordio cannibalesco che pure certa critica non priva di acume e di finezza salutava come una novità, anche espressiva, che sapeva cogliere le mutazioni in atto di una generazione allo sbando. Ho faticato ad arrivare alla fine del libro perché dopo tre o quattro racconti i successivi diventano prevedibili, replicano in ambiti diversi gli stessi meccanismi sociali e letterari. Anche quegli elementi stilistici che potevano apparire nuovi e destare interesse se proposti in serialità limitata, riprodotti senza respiro, spesso senza alcuna ragione di necessità, svelano la loro natura di stratagemmi che li inchioda a rimanere non altro che trovate d’effetto (i lunghi periodi senza punteggiatura con intento imitativo, l’interruzione comunicativa da telecomando con cui si chiudono molti brani).

 Lo stesso vale per quel «capolavoro» della Più grande balena morta della Lombardia in cui lo sguardo si ripiega troppo compiaciuto e nostalgico sul mondo di un io infantile alle soglie dell’adolescenza con una iteratività davvero ossessiva e claustrofobica. Bastano tre o quattro scene di quotidiana vita provinciale in quel di Viggiù per capirne tutte le coordinate fantastiche, etiche e sociali. Così per Mi chiamo Roberta che pure sembra affrontare un universo altro, con un taglio stilistico diverso in cui Nove pare occuparsi delle vite altrui. Invece, anche qui, tutto è già visto e letto. Tutto già in nuce in quell’incunabolo che è Woobinda. I ritratti fantastici e iperbolici dell’esordio diventano qui, ahinoi, ritratti reali non meno segnati dalla frustrazione e dal fallimento. Cambia solo il registro stilistico dovuto alla diversa esigenza di scrittura. Ma quel che più interessa è che Nove usa le interviste pubblicate a suo tempo su «Liberazione» per farne un libro su di sé. Le introduzioni, ampie tanto quanto le interviste, altro non sono che specchi che lo riflettono, occasioni per riparlare della sua infanzia, per citare libri e autori di riferimento, per dare spazio alla sua coscienza etica (Nove è essenzialmente un moralista). Persino il modulo di presentazione che ritorna nel testo e che campeggia nel titolo (“Mi chiamo Roberta, ho quarant’anni”, ecc.) compare nell’opera prima (“Mi chiamo Andrea Garano. Ho ventitré anni”) declinato in multipli. Denuncia tale coazione a ripetere pure il fatto che Nove non si trattiene dal riproporre il modulo nemmeno per il Matteo di Amore mio infinito, per fortuna protagonista unico del romanzo.

sfilata di miss italia

sfilata di miss italia – All’inizio era solo la parola,/ all’inizio era una parola sola./ l’inizio che iniziato trascolora/ nel dubbio della fine che divora

 E lo stile è altrettanto esibito, studiato per épater les bourgeois. Così si susseguono frasi brevissime, spesso di un solo segmento, in una sequenza verticale tesa a riprodurre quella dei versi poetici. Sorge naturale il sospetto che l’andamento fortemente pausato serva a scandire un discorso che qualora organizzato orizzontalmente perderebbe d’efficacia; a dargli senso forza incisività sono gli a capo, più che le tesi sostenute. Forse Nove ha in mente, visti i suoi studi filosofici, la cadenza di certi professori di filosofia i quali, spacciandosi per filosofi, affidano la loro credibilità all’ampiezza delle pause tra una parola e l’altra quasi che, atteggiandosi a nuovi Parmenide, la parola divenisse verbo in virtù dell’aura silente, della densità del vuoto con cui la circondano. O forse anche lui incorre nel vizio espressivo tipico, secondo il Papini di Stroncature, dei filosofi hegeliani: si piglia un termine, lo si ripete (perché la ripetizione è di per se stessa fondativa), lo si gira nel suo contrario, lo si varia, lo si inserisce in una trama evocativa. Il risultato è un assioma impenetrabile ma d’effetto.

 Esattamente ciò che Nove propone in queste due quartine che a Cortellessa invece paiono vulneranti:

«All’inizio era solo la parola,/ all’inizio era una parola sola./ l’inizio che iniziato trascolora/ nel dubbio della fine che divora// l’oceano frammentato del creato/per una volta sola nominato/e nell’eterno poi moltiplicato/in mille forme d’altro rispecchiato.». Dove la serie monorimica della seconda strofe contribuisce semmai a creare l’alone teologico-filosofico a cui è bene abbandonarsi senza porsi l’obiettivo di sondare la profondità insondabile.

Tuttavia, se qualcosa è destinato a durare di Aldo Nove mi auguro sia il sonetto che compare nell’introduzione alla Storia di Alessandra in Mi chiamo Roberta. È un testo riuscito che può rappresentare al meglio la sostanza creativa dell’autore. La sua summa artistica. Ma, appunto, Nove sta pressappoco tutto qui:

 «Sono un ragazzo di cinquant’anni,/ vivo con la mia mamma e il mio papà./ Ho molti libri editi da Vanni/ Scheiwiller. Io, poeta di città.// Sono disoccupato. Laureato/ In storia dell’economia politica./ Stimo Montale, detesto Battiato./ di Pindaro amo la seconda Pitica.// ho vinto il premio “Versi a Pordenone/ ’92”. E al “Città di Torino/ ’99” ho avuto anche una menzione// per un sonetto su Sant’Agostino./ Ho due by-pass. Vivo con la pensione/ di mio papà. Possiedo un motorino

 Ben fatto, niente da dire, e divertente. Persino utile per la didattica letteraria: mettere in fila i sonetti autobiografici di Alfieri Foscolo Manzoni con questo che pure autobiografico non è, ma è di una verosimiglianza generazionale efficace, darebbe agli studenti una precisa idea su che ne è stato dell’intellettuale nella letteratura e nella società italiana.

le gambe ok

Mary non è stronza come Ambra.// Mary è molto più dolce.// Mary studia filosofia.// Mary ha i capelli biondi.// Mary non grida.// Mary ha le gambe più lunghe di Pamela

In effetti, Nove mostra di essere un buon facitore di versi, un discreto artigiano che ha mandato a mente con profitto la lezione dei maggiori e non solo, lezione che sa elaborare secondo la sua visione delle cose e del mondo. In Fuoco su Babilonia la perizia si percepisce, e si potrebbe persino per un attimo pensare, come Cortellessa, che si sia di fronte a una personalità poetica multiforme. In realtà siamo in presenza di capacità virtuosistiche, nel migliore dei casi, ma stucchevoli come a lungo andare tutti gli esercizi di stile. Lo stesso esercizio che, sempre nel migliore dei casi, io trovo in Maria.

[…]

Certo anche Nove sa darci alcune pagine in cui riesce a restituire in maniera persuasiva sensazioni o situazioni di un’esperienza umana universalmente condivisa. Mi riferisco ad alcuni passi di Amore mio infinito, opera edita nel 2000 che, seppure sempre appesantita dall’iterazione di moduli stilistici e strutturali già sperimentati, registra qualche scatto narrativo proprio là dove si toccano momenti di sofferenza del protagonista (la morte della madre, la morte del nonno, con il brano cimiteriale davvero riuscito).

Se invece ha un sapore il poemetto mariano di Nove è quello un po’ nostalgico di un crepuscolarismo epigonico, per giunta privo d’ironia. Chissà che tra le varie memorie del nostro non abbia agito anche quella della campana di vetro sotto la quale le nostre madri e nonne custodivano sul comò la statuetta di cera di Maria Bambina dormiente, adorna di mughetti finti e vestina di seta chiara. Ma, di nuovo, Maria non è che un’altra variazione sul tema, quello delle ragazzine di Non è la Rai co-protagoniste di un racconto di Woobinda che torna, dunque, a funzionare come semenzaio, come crogiolo in cui tutti gli ingredienti sono stati depositati. La Mary del 1996 si è semplicemente mutata nella sua variante estrema, la Maria bambina per l’appunto del 2007. In quel brano, intitolato Pensieri, c’era già in nuce anche il ritmo della giaculatoria. E per un abile manipolatore qual è Nove il percorso dal rap all’inno è una cover in più, un remake:

 «Mary non è stronza come Ambra.// Mary è molto più dolce.// Mary studia filosofia.// Mary ha i capelli biondi.// Mary non grida.// Mary ha le gambe più lunghe di Pamela.// Mary non cerca di rubare spazio alle altre ragazze.// Mary mi fa vivere la speranza di un mondo migliore.// Mary mi fa battere il cuore fortissimo.// Mary è più bella di Miriana.// Mary è molto riservata.// Mary ha il sorriso più bello che esiste.// Mary è del segno dei Pesci.// Mary parla tre lingue.// Mary sconfiggerà questa noia che non ha mai fine.// Mary guarda di profilo con le sue labbra grandi e impazzisco.// Mary balla con moltissima grazia.// Mary ha la pelle profumata.// Mary è tutto quello che possiedo.»

 In mezzo, tappa intermedia tra i due estremi, ci stanno la Chiara e la Maria di Amore mio infinito da cui infatti Nove riprende, di poco variato, l’incipit del poemetto («Lei era una bambina che qualunque collina /avrebbe voluto avere come sole»). Dalla Mary dell’estasi terrestre alla Maria dell’estasi celeste. Ma è un percorso senza sviluppo. Sono le due facce della stessa medaglietta.

le gambe

Credo che inserire delle foto di belle ragazze e delle gambe di belle ragazze nel post riguardante le poesie di Aldo Nove, mi guadagnerà il plauso dell’autore

Nove mi pare bloccato entro quella intuizione originaria, utile e intelligente, dalla quale è partito per una descrizione sociologica e culturale della generazione a lui contemporanea prima in chiave cannibale poi in chiave nostalgica, sempre con rattenuto sdegno etico: e da lì non si è più mosso, ci gira intorno con varie evoluzioni senza trovare, per ora, un nuovo diverso oggetto di descrizione e di riflessione, a differenza di quanto avvenuto per altri compagni di strada degli esordi. Insomma tra il 1996 (Woobinda) e il 2000 (Amore mio infinito) Nove elabora e immagazzina tutto il materiale di costruzione degli scritti successivi e da lì in poi procede per gemmazione. Ancora un ultimo esempio: il primo capitolo del romanzo Amore mio infinito intitolato “Prima cosa”. La bambina, 1982 è connotato stilisticamente dalla resa in chiave imitativa dello sguardo infantile sul mondo; La più grande balena morta della Lombardia riprende e ripropone questa medesima cifra stilistica, con tutto il buffo corredo delle fantasie e delle percezioni abnormi e iperboliche dei bambini, ma dilatandola all’intero libro.

 Quanto alla questione se Nove «c’è o ci fa», mi piacerebbe sapere quante copie abbia venduto Maria tra i seguaci di Comunione e Liberazione o nelle innumerevoli parrocchie italiane. Non avendo a disposizione questo dato, la mia impressione è che il successo di Nove si debba in buona misura al fatto che è un autore redditizio, i suoi libri hanno un mercato assicurato e come è comprensibile l’editoria tende a sfruttare il fenomeno. Ma anche Aldo Nove è ben in sintonia con tale logica e sa individuare di volta in volta il pubblico giusto per il nuovo prodotto. Quindi Nove «ci è», perfettamente consapevole della situazione. E anche qui non c’è niente di cui scandalizzarsi.

Gif Malika Favre 1

Pseudo commento di Giorgio Linguaglossa

Credo che inserire delle foto di belle ragazze e delle gambe di belle ragazze nel post riguardante le poesie di Aldo Nove, mi guadagnerà il plauso dell’autore, il quale sicuramente apprezzerà la mia ironia. Sicuramente, la ironizzazione e la parodia della tradizione crepuscolare italiana sono uno dei cardini della poesia (o meglio, dell’anti poesia) di Nove, il suo progetto di operare una «discesa culturale» di bachtiniana memoria nella poesia italiana, ha avuto successo, è stata una operazione utile come può essere utile ogni operazione di «discesa culturale» in presenza di una tradizione che STA IN ALTO. Personalmente, nutro molti dubbi sulla utilità e sulla efficacia, oggi, in Italia, di una «discesa culturale», siamo già scesi così in basso che ogni forma di ironizzazione rischia di cadere nel vuoto da cui proviene. Semmai, il problema è il «vuoto» della società italiana. Ma lasciamo stare e torniamo alla anti poesia di Nove che riscuote il caldo abbraccio critico di Cortellessa. Personalmente, ho dei dubbi sulla utilità e sull’efficacia di ogni pratica di «carnevalizzazione» della poesia per le ragioni su dette.
Per Bachtin il «carnevale è una forma di spettacolo sincretistica di carattere rituale… e che la vita carnevalesca è una vita tolta dal suo normale binario» (Dostoevskij. Poetica e stilistica 1968). «Il sentimento carnevalesco del mondo» e la «letteratura carnevalizzata» si fondano su una sospensione temporanea e rituale della «normalità» che consente di istituire «un mondo alla rovescia» nel quale per Bachtin si risolve la parodia. E aggiunge il critico russo che, come il riso carnevalesco, così la parodia è «ambivalente», nel senso che non è «mera negazione del parodiato» ma tende ad obbligarlo «a rinnovarsi e a rigenerarsi».

La poesia di Aldo Nove rientra in questo schema categoriale, la sua poesia sospende la «normalità», la «rovescia» ma, purtroppo, la lascia intatta, anzi, la invita a riprendere fiato e a sopravvivere. È questo l’appunto che mi sento di fare alla poesia di Aldo Nove, che la sua parodia (qua e là anche divertente, lo ammetto), lascia le cose della poesia come stanno, anzi, ne rafforzano le componenti conservatrici (cioè, come dice Bachtin «normali»). Devo però ammettere che trovo più effervescenti e divertenti i suoi romanzi piuttosto che le sue poesie, ma anche per la sua narrativa valgono le considerazioni già espresse.
Ho forti dubbi che la anti poesia di Aldo Nove riesca a svecchiare la poesia italiana, la ironizzazione e la parodia la lasciano purtroppo intatta, non la scalfiscono, non la rinnovano. E, alla lunga, leggere questa anti poesia alla fine annoia.

Per chiudere la questione della poesia di Aldo Nove, io direi che essa si situa, in continuità con una impostazione neo (o post) sperimentale della poesia italiana del secondo Novecento, all’interno dell’orbita della Anti-poesia. Ovviamente, questo tipo di impostazione categoriale rende questa poesia sì divertente (a volte) ed effervescente (a volte), ma anche innocua, non innova, anzi, non vuole innovare, vuole soltanto dilettare e divertire il lettore. Non innova la poesia italiana per il semplice fatto che non può nulla né contro né in pro di essa, perché si situa al di fuori della «forma-poesia».

Riporto uno stralcio di un articolo di Corrado Ruggiero del 2008:

«L’uomo occidentale. Cerchiamo allora di ricostruirne i tratti fondamentali. Partiamo dalle pietre che ne sono a fondamento. I libri e gli autori che l’hanno fatta, ci hanno fatti quali siamo. Bisogna arrampicarsi sugli scaffali alti delle nostre biblioteche. Andare alla ricerca di un libro fondamentale per ognuno di noi. Un libro che, forse, finì a suo tempo nel tritacarne dei recensori di professione, quelli che consigliano i libri da leggere settimana per settimana. Laddove questo cui mi riferisco è un libro da leggere e rileggere: per sapere chi siamo, per conoscere come siamo diventati quello che siamo diventati, per decifrare quale destino ci aspetta dietro l’angolo – almeno in termini di perdita – se gettiamo via l’universo di fantasmi e di sogni che abbiamo costruito in tanti secoli. Sto parlando di Harold Bloom e delle 428 pagine del suo Canone occidentale. Un libro che, quando uscì, provocò qualche fuoco di paglia tra gli “addetti ai lavori” ma che, appena appena uscito, finì sugli scaffali alti delle biblioteche. Dove vanno i libri nobili, magari, ma poco sfogliati. Eppure le domande che poneva e ripropone (che cosa vale la pena leggere all’interno della grande tradizione letteraria occidentale? e che cosa è, poi, che fa il letterario essere letterario, appunto? qual è il rapporto tra la letteratura e il Tempo, tra la letteratura e la morte?) sono domande serissime. E fondamentali oggi, a inizio del nuovo millennio tanto più se l’occidente, sopraffatto da una incondita e molteplice globalizzazione, sembra che stia per chiudere bottega.

Che cosa è il canone? e che senso ha l’aggettivo, occidentale, che lo accompagna? Il canone, in un senso immediato e banale, altro non è che l’elenco, il catalogo – normativo – dei libri che ogni studente dovrebbe leggere per essere padrone del filo conduttore, almeno, della tradizione letteraria occidentale. Ma a Bloom non basta tracciare il diagramma dei 26 grandissimi che hanno fatto l’immaginario letterario della nostra civiltà. Per canone, Bloom sottintende la lotta tra il Tempo e la Memoria. Tra il Tempo che si fa ininterrottamente tra infiniti episodi di cui pochissimi sono significativi e moltissimi sono, invece, scorie, ridondanze che ripercorrono sentieri già percorsi, e la Memoria che è costretta a scegliere – per volgari ragioni economiche: non si può ricordare tutto di tutto! – se vuole veramente conservare. Pretendere di conservare tutto significa, in effetti, non conservare niente, alla fine. Un coacervo mostruoso di fatti più simile all’inverosimile catalogo di Bouvard e Pécuchet che all’ordine, distillatissimo, in cui la Memoria previdente e paziente sa conservare ciò che è significativo conservare. E non altro. Se si vuole avere Speranza. Anche se, oggi, “la speranza si vede ridotta”. Leggere, e tanto più leggere opere letterarie, è, dunque, innanzitutto un trovare se stessi al di là delle croste che ci hanno attaccato addosso le ideologie, le storie, le società con i loro assetti, pregiudizi e contrasti. «Di contro all’atteggiamento che riduce l’estetica a ideologia», Bloom sollecita

«una testarda resistenza il cui unico scopo consiste nel preservare la poesia nella sua pienezza e purezza».

Ma quali caratteri deve avere un’opera letteraria perché possa entrare nel canone? perché Dante sì e Petrarca Ariosto Leopardi no (tanto per restare nei confini della nostra provincia)? e perché è Shakespeare a occupare il vertice del canone? Per rispondere bisogna partire da capo. Anzi da un punto insospettabile: dalla nozione di angoscia. «C’è sempre qualcosa in anticipazione della quale siamo ansiosi, se non altro di aspettative che saremo chiamati ad attuare» e «un’opera letteraria suscita anch’essa aspettative che deve soddisfare o cesserà di essere letta». Deve soddisfare letterariamente nel senso che gli sbandamenti dell’umanità, di cui la letteratura si carica, vengono presi in carico, vengono trasferiti in letteratura, appunto. La letteratura è, in fondo, un’isola fatta di parole che, a loro volta, danno vita a immagini che, a loro volta ancora, assumono su di sé i drammi radicali dell’uomo: a partire da quello della paura della morte che «nell’arte della letteratura viene trasmutata nella cerca della canonicità, per congiungersi con la memoria comunitaria o societaria». A questo punto non c’è spazio per una letteratura che aspiri a essere tale solo per il fatto di essere portatrice di una determinata ideologia. Non basta, insomma, essere politicamente corretto per essere – un romanzo, una poesia, un dramma – anche letterariamente accettabile e degno di entrare nel canone letterario. È l’opera letteraria che, con la sua “originalità”, la sua “capacità cognitiva” ovvero la capacità di aprirci gli occhi su mondi sconosciuti, la sua “esuberanza espressiva” che investe il “politico” (corretto o scorretto che sia!) e lo fa diventare poesia, appunto. E l’isola letteraria non è del tutto un’isola! Shakespeare non ha limiti che lo frenino: né in alto né in basso. Niente gli è estraneo e niente gli è precluso: perché non ha fini precostituiti, obiettivi prefabbricati, convinzioni da trasmettere. La sua opera non ha quella pregnanza profetica che è la forza ma anche il limite, se è un limite, di Dante: per cui Dante – con Cervantes – si pone a ridosso, appena a ridosso, di Shakespeare. E, nel mettere questi paletti, Bloom risponde anche al quesito del perché Tizio sì e Caio no!

Ma se Shakespeare è il vertice del canone, è – poi – Amleto il centro di questo vertice. In Amleto si riassumono i drammi e le debolezze radicali dell’uomo. E dell’uomo, anche o soprattutto, in quanto uomo che legge e legge opere letterarie. Leggere è, in generale, un atto solitario. Leggere un’opera letteraria lo è ancora di più. Una pratica che ognuno può affrontare/deve affrontare solo nel chiuso di se stesso. Ed è sempre un dialogo e una lotta, un fare i conti con il se stesso più profondo. Un fare i conti con il Tempo, con il cambiamento, con la Memoria, con la morte in definitiva. Ed è questo appunto, quello che fa dal primo verso del primo atto all’ultimo verso dell’ultimo atto, Amleto. Anche quando non è in scena ma se ne sente, comunque, la presenza. Inquieta. Inquietante: per chi sa leggerlo, per chi sa leggersi. Questo siamo noi, fissati nei nostri libri: secondo i raffinatissimi parametri di Bloom».

(Corrado Ruggiero dalla Rivista “Nuova Secondaria, 8 – 2008”).

La dizione di «forma-poesia» era già stata usata da Franco Fortini nei lontani anni Novanta, quindi ha una lunga gestazione, non è quindi una mia invenzione; me ne sono appropriato perché in modo incisivo serve a far comprendere di che cosa stiamo parlando. Se dicessi semplicemente “poesia“. questo termine sarebbe troppo vago, con la dizione «forma-poesia» intendo una costruzione stilistica tipica di ogni Lingua e di ogni società, essa cambia con la mutazione della Lingua e della società.
Con il termine «Anti-poesia» intendo qualcosa che ognuno può intuire. Detto in parole semplici, dirò che ciascun poeta quando mette sulla carta qualcosa che per lui è “poesia”, ha chiara in mente anche la nozione opposta di «Anti-poesia» che implicitamente e esplicitamente nega la categoria di «poesia».

 Nota

La versione integrale del saggio di Angela Borghesi è pubblicata su Dieci libri. Letteratura e critica dell’anno 2007-08, Libri Scheiwiller, Milano.

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