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Robert Frost, Fuoco e ghiaccio, Adelphi, 2022, a cura di Ottavio Fatica, traduzione di Silvia Bre, pp. 547 € 30, Nota di lettura di Marie Laure Colasson

Robert frost

circa 1960: American poet and 1924 Pulitzer Prize winner Robert Lee Frost (1874 – 1963) holds a stick in both hands at arms length in a forest. (Photo by Hulton Archive/Getty Images)
.

Stopping by Woods on a Snowy Evening
di ROBERT FROST

Whose woods these are I think I know.
His house is in the village though;
He will not see me stopping here
To watch his woods fill up with snow.

My little horse must think it queer
To stop without a farmhouse near
Between the woods and frozen lake
The darkest evening of the year.

He gives his harness bells a shake
To ask if there is some mistake.
The only other sound’s the sweep
Of easy wind and downy flake.

The woods are lovely, dark and deep,
But I have promises to keep,
And miles to go before I sleep,
And miles to go before I sleep.

Sostando presso dei boschi in una sera di neve

Credo di sapere di chi siano questi boschi;
Ma la sua casa è al villaggio.
Egli non mi vedrà fermo qui
A guardare i suoi boschi riempirsi di neve.

Deve sembrare strano al mio cavallo
Sostare qui dove non c’è una casa,
Tra i boschi ed il lago ghiacciato
La sera più scura dell’anno.

Scuote i campanellini dei finimenti
Per chiedere se non c’è sbaglio.
Non c’è altro suono che il fruscio
Dolce del vento e dei soffici fiocchi.

I boschi sono belli, scuri e profondi;
Ma io ho tante promesse da mantenere,
E tante miglia da fare prima di poter dormire
E tante miglia da fare prima di poter dormire.

Acquainted with the Night

I have been one acquainted with the night.
I have walked out in rain—and back in rain.
I have outwalked the furthest city light.
 
I have looked down the saddest city lane.
I have passed by the watchman on his beat
And dropped my eyes, unwilling to explain.
 
I have stood still and stopped the sound of feet
When far away an interrupted cry
Came over houses from another street,
 
But not to call me back or say good-bye;
And further still at an unearthly height,
One luminary clock against the sky
 
Proclaimed the time was neither wrong nor right.
I have been one acquainted with the night.
.

In confidenza con la notte

Sono stato uno in confidenza con la notte.
Sono uscito sotto la pioggia – e sotto la pioggia son rientrato.
Ho camminato oltre le più lontane luci della città.

Ho guardato in fondo al vicolo più triste.
Ho incrociato il guardiano di ronda
E ho abbassato lo sguardo, senza voler spiegare.

Sono rimasto in piedi, immobile, fermando il suono dei passi
Quando da lontano un grido interrotto
Giungeva dalle case di un’altra via,

Ma non per chiamarmi indietro o dire addio;
E più lontano ancora, ad un’altezza ultraterrena,
Un orologio splendente contro il cielo

Annunciava che l’ora non era giusta né sbagliata.
Sono stato uno in confidenza con la notte.

The Vantage Point

If tired of trees I seek again mankind,
Well I know where to hie me—in the dawn,
To a slope where the cattle keep the lawn.
There amid lolling juniper reclined,
Myself unseen, I see in white defined
Far off the homes of men, and farther still
The graves of men on an opposing hill,
Living or dead, whichever are to mind.

And if by noon I have too much of these,
I have but to turn on my arm, and lo,
The sunburned hillside sets my face aglow,
My breathing shakes the bluet like a breeze,
I smell the earth, I smell the bruisèd plant,
I look into the crater of the ant.

L’osservatorio

Se stanco d’alberi di nuovo cerco gli uomini,
bene io so dove affrettarmi – nell’alba,
a un pendio dove pascola la mandria.
Là in mezzo a pigri ginepri adagiato,
non visto io vedo nitide nel bianco
lontano le case di uomini e, più ancora
lontano, le tombe di uomini su un’opposta collina,
vivi o morti, ma tutti da ricordare.

E se per mezzogiorno anche mi stanco
di loro, non ho che da voltarmi sul fianco
e l’assolata collina mi illumina in viso,
il mio respiro è una brezza al fiordaliso che trema,
odoro la terra, la piantina ferita,
guardo dentro il cratere della formica..

(Trad. di Roberto Sanesi)

Wallace-Stevens-Walk-Blackbird-1

versi di Wallace Stevens

.

Robert Frost è stato il poeta preferito di John Fitzgerald Kennedy, è nato a San Francisco nel 1874 ed è morto a Boston il 29 gennaio 1963. È il poeta della natura vista in rapporto di estraneità e di rigetto istintivo verso la civiltà urbana e l’ideologia del progresso storico; è un poeta isolazionista, sostanzialmente astorico, anti sistemico, è il poeta del versante rurale del modernismo americano, di qui il suo linguaggio e le sue tematiche: è un poeta elementare, ripetitivo, isolazionista, regressivo. Nel 1922 escono The Waste Land  di Eliot, l’Ulisse di Joyce, le Elegie duinesi di Rilke, Il castello di Kafka, Sodoma e Gomorra di Proust;  nel 1923 esce La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Ha inizio il modernismo europeo, il 15 giugno del 1925 esce a Torino, per il tramite di Piero Gobetti, Ossi di seppia di Eugenio Montale; nel 1914 esce L’incendiario di Palazzeschi, nel 1930 il primo volume de L’uomo senza qualità di Robert Musil, nel 1923 Wallace Stevens esordisce con la raccolta Harmonium, che contiene la famosa poesia “Sunday Morning”, dove il poeta americano raggiunge un perfetto balancement tra la natura e la civiltà delle macchine; nello stesso anno escono Spring and All di W. C. Williams e New Hampshire di Robert Frost (1874-1963). Non ci possono essere due poeti più distanti tra loro. Il modernismo americano differisce da quello europeo, il primo è erede della lezione di Ralph Emerson e di Leaves of grass di Walt Whitman, oscilla tra sentimento della natura e vitalismo panico, il secondo si orienterà verso la rappresentazione della crisi esistenziale dell’uomo  occidentale prigioniero della tecnica e del progresso. Continua a leggere

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Alfonso Berardinelli, Gli sforzi di Magrelli per convicersi di essere poeta – La sindrome Magrelli – Il caso Italia nella medietà della situazione culturale propugnata dalle grandi case editrici – Il degrado morale, politico e istituzionale della poesia italiana maggioritaria – Commento di Letizia Leone

[ qui sotto, Video dell’incontro dell’11 maggio 2018 con Valerio Magrelli e Franco Marcoaldi alla trasmissione televisiva Quante storie condotta da Corrado Augias su Rai3 alle 12.45 ]

https://www.raiplay.it/…/Quante-storie-62e55f25-48a4-4105-bdf6-dc…

Per chi volesse saperne di più:

https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/09/27/poesie-scelte-di-valerio-magrelli-da-il-sangue-amaro-einaudi-2014-con-un-commento-di-giorgio-linguaglossa/

Complimenti a Giuseppe Talia per la lucidità e concretezza storica della sua invettiva. Il dibattito che ne è seguito è molto interessante e apre trasversalmente a molte importanti questioni estetiche, critiche, sociologiche e anche politiche se perseverare nel fare arte, cultura, poesia nell’attuale situazione di degrado e “ostracismo” non sia già implicitamente un grande “atto politico”. Purtroppo, il caso Magrelli è forse la conseguenza della sparizione della critica letteraria e della logica del consumo che orienta ormai completamente la produzione delle case editrici. Eppure nel coro cerimoniale degli incensamenti d’occasione ho trovato un’altra voce critica (oltre a Giorgio Linguaglossa) “molto critica” e ironica sull’ultimo libro di Magrelli , quella di Alfonso Berardinelli che posto qui di seguito.

https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/05/30/giuseppe-talia-lettera-aperta-a-corrado-augias-gentilissimo-corrado-augias-le-scrivo-riguardo-alla-trasmissione-di-quante-storie-su-rai3-andata-in-onda-giorno-11-maggio-2018-dal-titolo-s/comment-page-1/#comment-35442

(Letizia Leone)

Alfonso Berardinelli, da Il Foglio 22/03/2014, 22 marzo 2014
TUTTI GLI SFORZI DI MAGRELLI PER CONVINCERSI DI ESSERE POETA

Preferisco essere truffato da un bottegaio che da un finto poeta. Per questo ogni dieci, quindici anni, non molto spesso e senza accanimento, sento il bisogno di dire qualcosa sul poeta Valerio Magrelli, che ci aiuta a capire la situazione della poesia, nonché della critica italiana e a me fa subito venire in mente il solito, abusato Karl Kraus, secondo il quale gli scrittori si dividono in due categorie: quelli che lo sono e quelli che non lo sono. Per legge di natura, la seconda categoria è prevalente, cresce e prospera, mentre scovare qualche esemplare della prima, quella dei poeti che lo sono, è un’impresa ardua e poco remunerativa: se lo fai, rischi di condannare una maggioranza e fai la figura del “rosicone” e del “malmostoso”, aggettivi che piacciono molto ai lodatori del “così è, così è bello” e a tutti coloro che, per dubbie ragioni, si sentono invidiabili. Dopo un silenzio di otto anni (segnalato in copertina), silenzio che vorrebbe far pensare alla ventennale afasia poetica di Paul Valéry, esce ora di Magrelli una nuova e accuratamente confezionata raccolta di poesie intitolata amaramente Il sangue amaro (Einaudi, 2014).

Magrelli non è uomo che ami attriti e conflitti, si tiene reticente e prudente ed evita finché può le fonti di amarezza e tutto ciò che lo può danneggiare. Dato che è (come è) il più abile e laborioso promotore di se stesso che si incontri oggi nella poesia italiana, mestiere nel quale si è lasciato indietro chiunque altro, perfino Maurizio Cucchi, ormai quasi dimenticato, Magrelli dovrebbe rivelarci in questo libro che cosa lo affligge e lo amareggia. No, la ragione, letto il libro, resta oscura. Al posto di ragione e senso, c’è in Magrelli un incolmabile vacuum. Ma se la causa appare oscura, chiari e visibili sono gli effetti. Si vede che Magrelli ha una gran paura di non esserci, di non consistere, e cerca di rimediare intensificando le dediche, le epigrafi, i riferimenti, le allusioni, gli appigli, gli agganci, i salvagente. In questo libro il salvagente più esibito sembrerebbe niente di meno che il Kierkegaard di Timore e tremore (debitamente segnalato in quarta di copertina).

Già. Magrelli teme e trema e va in cura dal Socrate di Copenaghen. Avendo sempre avuto l’epigrafe facile e comoda (cita ma non sembra aver letto) Magrelli allunga le mani su tutti gli autori di prestigio, quelli che al momento fanno chic, creano consenso, circolano nell’ambiente. Vent’anni fa osò prendere epigrafi da Simone Weil e da Auden per mettere in salvo un paio di poesiole che un autore dotato di pudore avrebbe fatto sparire nel cestino. Per , diavolo!, su quei versicoli da niente c’erano i nomi di Simone Weil e di Auden e quindi (si era detto l’autore) sono al sicuro: chi mi legge penserà che sto pensando ai massimi livelli, penserà di aver letto qualcosa che in qualche modo avrà a che fare con due degli autori più intelligenti del Novecento. Magrelli gioca e punta infatti a fare il poeta intelligente, il poeta di pensiero. Sulle scatolette verbali che ci offre ci sono le etichette con tanto di nomi-garanzia. Per dentro il pensiero non c’è. Dunque, dov’è il Kierkegaard annunciato in copertina? Cerchiamo Kierkegaard… Le dediche e le evocazioni a vuoto arrivano subito.

La prima poesia si mette sotto l’ombrello di Watteau. La seconda è dedicata a Pagliarani. La terza di dediche ne ha due, a Sanguineti e a Cortellessa. La quarta nomina ripetutamente, in anafora, Schwitters. La quinta fa il nome di Beuys. Seguono due dediche a Pino Varchetta e a Stefano (Giovanardi). E così si chiude la prima sessione. Con la seconda sezione, subito due epigrafi, una da Chateaubriand (che fu rilanciato da Garboli) e una da Montaigne (tutta la città ne parla). Si affaccia un Babbo Natale che qui è definito “gnostico”, come Ceronetti, Calasso e dintorni (farseli amici aiuta). Si notano alcune litanie in rima. Tornano anche, come di dovere, Gesù e Dio. Ne parlano tutti, la chiesa ha ipnotizzato i laici, Papa Bergoglio ha fatto sembrare l’ateo Scalfari un povero ingenuo pieno di pretese. Subito dopo si fa il nome di Gutenberg (il precursore di Steve Jobs!) con un’epigrafe assurda dall’assurdo Jarry.

Le rime ora abbondano. Magrelli ha scoperto il verso regolare e la rima, e si mostra artifex. Una di queste rime sembra anzi un lapsus di quelli che pugnalano alle spalle e dicono tutto del nostro poeta: la parola “poesia” viene fatta rimare con la parola “burocrazia”. E dunque, almeno su se stesso, qui Magrelli dice la pura verità. Ma ecco la terza sezione. Il suo titolo suona impudicamente “Timore e tremore” come quello di Kierkegaard (più avanti si parlerà di “tremarella”). Dunque siamo arrivati al filosofo usato per tenere in piedi il libro come libro di pensiero. Ma Kierkegaard non basta ancora all’autore, che aggiunge due epigrafi sulla paura, una di Kafka e una di Hrabal.

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Lucio Mayoor  Tosi – Poesie inedite con Commenti di Giorgio Linguaglossa

Lucio Mayoor Tosi Sponde 1

Lucio Mayoor Tosi Sponde

 Mayoor  Lucio Tosi è nato a Gussago, vicino a Brescia, il 4 marzo dell’anno 1954. Dopo essersi diplomato all’Accademia di Brera è entrato in pubblicità. Ne è uscito nel 1990, quando è diventato sannyasin, discepolo di Osho (da qui il nome Mayoor: per esteso sw. Anand Mayoor = bliss peacock). Ha trascorso più di vent’anni facendo meditazione e sottoponendosi a ogni sorta di terapia psicanalitica: sulla nascita e l’infanzia, sul potere, sulle dipendenze affettive ecc. Di particolare importanza, per la realizzazione di Satori, sono stati alcuni ritiri Zen dove ha potuto lavorare sui Koan (quesiti irrisolvibili). Vive a Candia Lomellina (PV), nel mezzo delle risaie, dove trascorre il tempo dipingendo e scrivendo poesie. Sue poesie sono state pubblicate on line su Poliscritture, L’Ombra delle parole, e su alcune antologie. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Roma, Progetto Cultura, 2016).

Lucio Mayoor Tosi Composition acrilic

Lucio Mayoor Tosi, Composition

Poesie di Lucio Mayoor Tosi

By night

Una luce chiara gli entrò, da dietro, negli occhi.
Subito lui pensò: io sono due che si sono amati.
Poi anche: Non avrai altro…
Ma qui s’interruppe.
La gente intorno cantava
Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro
per meee…
E lei, guardandolo negli occhi:
– Mi accorgo di non avere più risorse
(insieme) senza di teee.
Più tardi lui le sussurrò anche:
– Sai di Leocrema.
Uno sciame di neutrini
stava attraversando le ombre del corridoio.

*

Alla gara di memoria vinse l’insegnante
della scuola media di Vercelli.
L’anno prima vinsero quelli di Casale.
L’anno prima ancora, non so.
– Chi vinse tre anni fa?
– Per questo è nata la scrittura.
Ma dove l’hai presa quella camicia rosa?
Una notte scura e silenziosa serviva ai tavoli.
Ma fuori già stava piovendo.

*

La donna seduta di fronte ha sul volto la bocca.
Quella di fianco un occhio.
Dal treno all’Università seguendo la linea
marcata dalla biro.
Una sottile cascata di azzurro.
Alberi e rumore di passi.
Il vuoto è alle spalle e un po’ mi sento colpevole.
Ma è solo il terzo capitolo.
C’è anche chi muore nei libri.
Di solito la salma viene fatta scivolare di lato.
Direttamente nel buio che scorre
fuori dalle finestre.

*

Vedete anche voi quel poeta
che sta fuori dalla finestra
e picchia sui vetri?
Che vorrà?
Mi avvicino
ed è già volato via!
Ho l’ufficio al 60° piano.
E’ un largo tappeto persiano.

Lucio Mayoor Tosi Composizione di immagini

Lucio Mayoor Tosi
22 settembre 2017 alle 19:12

Andersen sappiamo tutti chi è, ma forse non tutti sanno di Eckersberg. Era un pittore danese, arrivato dopo il neoclassicismo di Bertel Thorvaldsen e prima di quel meraviglioso pittore che fu Vilhelm Hammershøi. Fantastica la storia dell’arte danese! Direi che è la culla del nichilismo. Eckersberg dipinse dei nudi memorabili, paragonabili ma più raffinati rispetto al noto quadro di Courbet. L’origine del mondo. Fermo restando che senza Courbet saremmo ancora qui a levigarci le pettinature.

Lui e Lei avevano due simil gatti:
Andersen e l’altro Eckersberg. Entrambi maschi.
E castrati.
Andersen amava le camicie bianche
Eckersberg il contatto con la nudità.
“Fetente ma raffinato”, così recitava
la pubblicità.
Ma Lei aveva a cuore Andersen.
Se lo teneva in braccio o sulle spalle,
anche stando in piedi mentre cucinava:
sapori dell’India per loro e bianchi
ma finti spaghetti per Gatto Eckersberg
il nudista.
Lei stava morendo. Lo faceva ogni giorno.
Lui se non aveva da leggere svitava
e avvitava qualsiasi cosa.
John Lennon, Miles Davis, Natasha Thomas.
Lei quei pontili sospesi sul lago. Ma senza nebbia
e nemmeno dragoni. Solo cose per Andersen.
(Se la noia non vi assale, penso io
vuol dire che siete fumatori).
– Tutta l’Europa del sud è un canile.
A cominciare da Courbet. Non è vero, Eckersberg?
Quell’Origine del mondo, appena concepito
con furore. Quel leccarsi le dita…
Lei non rispondeva (stava morendo).
Contemplava le forme molli di un cubo
le bollicine dell’axterol, le lancette
dell’orologio sull’ora e i secondi.
– Probabilmente il sole. Disse Lei.
E non tornarono sull’argomento.
Tranne un giovedì, allorché Lei disse:
– Credo che ad Andersen farebbe bene
un piatto di trippa ogni tanto.
Il cargo dei viveri Okinawa era in ritardo
ormai di tre settimane (sei mesi terrestri).
Salgari sarebbe già partito in missione
con a bordo almeno tre robot ambasciatori
di marca tedesca.
Ma era stagione di polveri.
Difficile poter comunicare, inutile sprecare
Metafore. Si sarebbero perse nel vuoto
tra le lune. Quindi Lui e Lei si misero d’accordo
per spedire un messaggio criptato
al sovrintendente dei beni umani,
Ork il maligno; in realtà un povero cristo
circondato da macchine, alcune a vapore
(per via della pelle che nella stagione delle polveri
gli si seccava. Puntualmente e orribilmente).
“Aghi OrK”, così iniziava il messaggio
“Le bdhko di lk snmlir8jk! Andersen bd in vgeytz!
Si dia una mossa”.
La risposta non si fece attendere:
“Mi sono informato: niente trippa sul cargo Okinawa.
Ma posso mettervi da parte dei pomodori irlandesi”.
E in un secondo messaggio aggiunse:
“Per il gatto ho un Mickey Mouse del ’63.
Il mio l’ha già letto. Lo so, non è divertente”.
Le quattro linee del tramonto si stavano fondendo
nel sogno turco di Moon light.
Lui si tolse le spalline di cristallo, si strofinò gli occhi
e senza dire una parola volle intrattenersi ancora un po’
con Lei, che nel frattempo aveva terminato
di raddrizzare, così diceva, tutti i rametti del prezzemolo.
Fecero programmi. Il letto scandinavo ondeggiava
rumorosamente.
Vista dal giardino lenticolare, la casa sembrava
un traforo di merletti. Ork il maligno, come al solito
stava trasmettendo pensieri sconclusionati.
Lo chiamava Ozio dei poveri. Oppure
a seconda del momento, solo ‘Zio.

Strilli Transtromer le posate d'argentoStrilli Lucio Ho nel cervello

Lucio Mayoor Tosi
22 agosto 2017 alle 19.43

In qualche modo, l’aver letto queste poesie di Wallace Stevens ha condizionato nella forma il mio tentativo di stamane. Ma ci sta che sul finire di agosto si scriva con un diverso ritmo interiore, calmo, quasi rassegnato, sui bordi della metrica.

Apocalisse

Come si sta nell’universo al mattino? Che si fa?
Il grigio tormento di un verso attraversa il cortile.
Inossidabile. Giace la rana sepolta dai diserbanti
le spire del vecchio serpente si rilasciano nell’acqua
tiepida di agosto. Il tempo precipita nelle cave
su Andromeda. Segnali di luce, mattini come perle
quando passa l’onda sui frammenti. E mancano
i volti.
Sillabazione mattiniera, nella compostezza
un po’ come aggiustarsi le vesti nell’ordinario
di una ramaglia sul bordo della statale. In confine.
Passeggiare lungo le strisce bianche per Vercelli
o Alessandria.
Un pianeta sconosciuto è sceso a curiosare sulla Terra.
Tanto vicino che la sua mancanza d’aria si è fatta sentire.
Un lampo simile allo spegnimento, al giornale chiuso
sull’ultima pagina. – Non conosco i nomi delle stelle.
Francesca dice “Buongiorno poeta”, qui è presto-tardi.
Sulle guance piccolissime gocce di sangue. Lamenti.
Un vento contrario scalfisce le strade per canali
nuovi corsi d’acqua. I Dominanti s’aggiustano
su poltrone riservate. Sulla scacchiera tante ruspe.
Da sobrio non saprei come cavare un grammo di lattice
stellare dal brefotrofio Divino. Forse una mangusta
amica, due paesani in gabbia. Non un chicco di grano.
Così s’accende il passato: una sterminata pietraia.
L’orizzonte in alto, sul finire delle stelle al tramonto.
Come bere un bicchiere d’acqua, frizzante e salata.
In piedi
sulle Birkenstock.

Strilli Carlo LiviaStrilli Linguaglossa Sulla parete a sinistra

Giorgio Linguaglossa

23 agosto 2017 alle 11.07

La legge dell’entropia della forma-poesia di Lucio Mayoor Tosi

Il punto di partenza di Lucio Mayoor Tosi non è Cogito ergo sum bensì Dubito ergo cogito. Ed infine, il momento centrale è: Dubito ergo non sum. Lucio Mayoor Tosi dubita della propria esistenza e dell’esistenza di tutto ciò che circonda il proprio io, o meglio, non crede affatto che quello che gli altri vedono sia eguale a quello che i suoi occhi vedono. Per esempio, in questa poesia scopre le «tracce» dell’entropia dell’universo, del suo sgretolamento progressivo, che altro non è che il suo impulso vitale; questa moltiplicazione all’infinito della trasformazione della «materia» dell’universo porta con sé anche la trasformazione della forma-poesia, dell’entropia della forma-poesia che la disgrega dal suo interno e che, disgregandola, produce nuove modalità di esistenza della forma-poesia. Quello di Lucio Mayoor Tosi è lo sguardo stupefatto e meraviglioso di un bambino che, dubitando, osserva il mutare delle cose e pone delle domande ai genitori. Lucio Mayoor Tosi si chiede con una ingenuità disarmante:

Come si sta nell’universo al mattino? Che si fa?

Una domanda senza senso, direi, in quanto domanda piena di senso, essa domanda ha finito col perdere alcun senso, nel senso che non è ragionevole e, come tutte le domande dei bambini non procede con il principio di non contraddizione perché tutte le cose si contraddicono e precipitano nell’imbuto della trasformazione dell’energia e dell’entropia.
Ad esempio, che significa questo verso?

Un pianeta sconosciuto è sceso a curiosare sulla Terra.

Io credo che il suo significato vada oltre il significato grammaticale, direi che è un significato di un universo post-simbolico, Lucio Mayoor ha perduto definitivamente i «simboli», non li riconosce più, epperò non può non procedere che per simbolizzazioni, perché la corteccia cerebrale dell’homo sapiens non può che produrre a getto continuo simbolizzazioni… la simbolizzazione è una funzione del cervello umano. Lucio Mayoor Tosi procede per simbolizzazioni progressive in accordo con la seconda legge della termodinamica che ha individuato nell’entropia la legge fondamentale di organizzazione e trasformazione dell’universo. La sua poesia obbedisce a questa legge, adatta la forma-poesia alle nuove organizzazioni entropiche che vanno da stati di bassa entropia a stati ad alta entropia.

Carlo Rovelli scrive: «L’intera storia dell’universo è questo zoppicante e saltellante aumentare cosmico dell’entropia. Non è né rapido né uniforme, perché le cose restano intrappolate in bacini di bassa entropia… fino a che qualcosa non interviene per aprire la porta di un processo che permette all’entropia di crescere ulteriormente. La crescita stessa dell’entropia apre occasionalmente nuove porte attraverso le quali l’entropia ricomincia a crescere».1]

Francesca dice “Buongiorno poeta”.

Chi è Francesca? Non lo sappiamo e il poeta non si perita di dircelo. Chi sia Francesca non ha importanza, può essere nessuno o chiunque, la cosa non cambierebbe ai fini della poesia. La poesia non si preoccupa di «illustrare», di «rappresentare», di fornire una «spiegazione», non si occupa né di significanti né di significati (come la poesia del novecento), non si preoccupa di «simboli», ma semmai di surrogati, di emblemi, di engrammi, di icone, di segnaletiche, di segni… siamo ormai in un universo post-simbolico, e chi non l’ha capito continua a scrivere come se ci fosse davanti a noi un universo di simboli simbolici. Il neo-realismo dei lirici e degli anti lirici della stragrande poesia che si fa oggi in Italia e in Occidente, la poesia da toponomastica, è semplicemente fuori tempo, non parla di noi…

1] C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, 2017 p. 140

lucio-mayoor-tosi-composizione-3

Lucio Mayoor Tosi, grafica

Lucio Mayoor Tosi
2 settembre 2017

Washo in cerca dei suoi discepoli

Quel giorno– era fine agosto – Washo uscì di casa
come al solito per recarsi al bar del paese: una compressa
col campanile, nei secoli mai dissolta tra le Langhe
e la pianura Padana. Lungo il tragitto si divertì
a fare abbaiare i cani segregati dietro i cancelli delle case;
anche se quella mattina, perché era di mattina, Doly
quasi non si avvide del suo passaggio. Anzi,
proprio non gli rivolse neppure lo sguardo.
«Doly! » disse con voce alta Washo voltandosi indietro
dopo che fu passato. E quella finalmente abbaiò.
Cane sentimentale, pensò Washo.
«A cosa stavi pensando?»
Più avanti toccò al dobermann. Ma anche questi si limitò
a guardarlo da sotto i ferri del suo cancello; il lungo muso
sembrava quello della BMW del suo padrone, solo con gli occhi
più mansueti. Ma nemmeno il dobermann abbaiò. Giusto
un abbaio in risposta a Doly che nel frattempo si era svegliata.
E più avanti il meticcio; che, sì, era tanto bruttarello
ma aveva un bel cortile da sorvegliare. Il meticcio erano mesi
che aveva smesso di abbaiare al passaggio di Washo.
Ah, pensò Washo, la prossima vita ti prenderò io. Perché siamo
oramai amici e ti ricorderai di me.
Al bar si va per ordinare un caffè. E se ce la si fa
per leggere il Corriere dello sport. Caffè? chiese la signora
del bar. Sì grazie. Ma subito Washo si accorse che il grazie
era di troppo, almeno per l’uomo che vuole mantenersi rude
come stesse in famiglia. E c’era un altro avventore.
Quindi Washo provvide a mettersi coi gomiti bene appoggiati
sul banco, con il bagliore dei muscoli in vista per dare prova
di sicurezza interiore. Quindi pensò: ecco, che lo si sappia o meno
questo è l’istante fuggevole della meditazione. Il tempo
che la signora impiega per caricare il caffè dentro il filtro
della Faema ed erogare nella tazzina.
Zucchero di canna.

Strilli Gabriele2Strilli RagoGiorgio Linguaglossa
3 settembre 2017 ore 17.00

La poesia di Lucio Mayoor Tosi sopra postata è il racconto della «ricerca della identità». Il protagonista, Washo, ha perduto tempo addietro, «qualcosa». Questa «perdita» lo guida. Washo prende a passeggiare, oziando.

Quel giorno– era fine agosto – Washo uscì di casa
come al solito per recarsi al bar del paese.

Washo non sa chi è. Prende a passeggiare perché non sa chi è e deve capire chi egli sia veramente; deve percorrere un tragitto (che lui conosce molto bene), questo tragitto è la sua personalissima Odissea mattutina. Va al bar per prendere un caffè. Il narratore è una terza persona che sta fuori della dimensione entro la quale vive e vegeta il protagonista Washo. Passeggiare, quindi, è il modo proprio del protagonista per capire se stesso, per mettersi alla prova.

Il dramma di Washo è che lui non sa chi è:
Al bar si va per ordinare un caffè. E se ce la si fa
per leggere il Corriere dello sport. Caffè? chiese la signora
del bar. Sì grazie. Ma subito Washo si accorse che il grazie
era di troppo…

Washo è un personaggio colpito da amnesia, e quindi da cecità. Egli non vede ciò che vede e non ricorda ciò che non può ricordare, infatti tutta la poesia è svolta al presente. Washo ha perduto qualcosa ma non sa che cosa sia questo qualcosa e non sa neanche di stare cercando questo «qualcosa». Tutta la vicenda di Washo è esemplare di questa condizione di non consapevolezza. Washo è stato colpito da un colpo apoplettico, da una alienazione originaria, ma lui non lo sa e non lo sospetta nemmeno. Il dramma di Washo è che lui vive unicamente nell’Immaginario, vive tra le immagini. Il suo mondo è stato «ridotto» all’Immaginario del presente, egli non ha più la capacità di ordinare il suo mondo tramite il Simbolico, vive in un flusso di eventi immersi in processi di de-soggettivazione che sono anche processi di assoggettamento. La de-soggettivazione va di pari passo con l’assoggettamento della coscienza alienata.

L’uomo è un ente che “nasce” alienato ab origine, perché da sempre costretto a «giocare in difesa». L’universo rappresentazionale attraverso il quale significa il mondo è la conseguenza di uno «smarrimento» mitologico, la «perdita» della das Ding , che lo aliena da se stesso e lo pone in una condizione psicologica difensiva.

Il soggetto alienato ab origine della nuova poesia psicologica, ovvero, la «nuova ontologia estetica» (penso alla poesia di autori come Anna Ventura, Donatella Costantina Giancaspero, Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Francesca Dono, Steven Grieco Rathgeb, Mariella Colonna ed altri), si occupa di questo: di rappresentare, oggettivare l’universo simbolico e immaginario proprio di questo soggetto alienato che «non sa chi è». Il «suo» oscillare esistenziale è il tentativo di gestire il trauma dello smarrimento originario. Questo trauma origina quell’apertura di senso che ci contraddistingue, quel serbatoio di senso attraverso il quale produciamo le nostre rappresentazioni…

Viviamo in una società post-televisiva, che ha sostituito il registro Simbolico con quello Immaginario, ci muoviamo in un ordine di icone e di simulacri.

Strilli Espmark Le labbra dell'insegnanteStrilli Tranströmer2Scrive Lucio Mayoor Tosi:

22 agosto 2017 alle 19.43

Si dice che Aristotele, ma tempo prima anche Lao Tsu, avevano l’abitudine di pensare camminando. Di LauTzu, l’autore del Tao, si racconta che aveva un amico il quale talvolta lo accompagnava nelle sua passeggiate nei boschi; e una volta gli chiese di poter portare con é un ragazzo, perché aveva tanto insistito per poterci essere… Lao acconsentì. Così si addentrarono insieme nel bosco. Tutto bene. Ma un paio d’ore più tardi, verso il ritorno, accadde che il ragazzo, il quale durante tutto il tragitto se n’era stato zitto, sentendosi in dovere di ringraziare disse: grazie Maestro, è stata una bellissima passeggiata! Eppure, quando Lao Tsu fu solo con il suo vecchio amico, gli disse di non portarlo più. Parla troppo, gli disse. Questa storia mi ha sempre fatto ridere: Lao Tzu avrebbe sicuramente cacciato anche me!

*
Ognuno di noi continua a parlare un linguaggio
che lui stesso non intende, ma che ogni tanto, viene inteso.
Il che ci permette di esistere e di essere perciò
quanto meno fraintesi.
Se esistesse un linguaggio in grado di essere inteso,
disse Saurau, non ci sarebbe bisogno di nient’altro.

(Thomas Bernhard – Perturbamento)

Strilli LeoneA proposito dell’innominabile nella «nuova ontologia estetica»

La rappresentazione poetica è quanto scompone letteralmente il soggetto parlante, quanto lo pone nella condizione costitutiva che possiamo definire di impotenza alla nominazione, qualcosa di molto simile a ciò che accade nella teologia apofantica. Perché Das Ding è lì, dentro, al centro del soggetto come un «vuoto causativo», oltre la regolazione omeostatica del principio di piacere e dei suoi tracciati; sta lì come un vuoto tangibile e innominabile. Sta lì cioè come testimone della delusione del desiderio, del suo non avere requie, delusione che si esprime in una ripetizione del bisogno che è un bisogno di ripetizione. E quando Lacan indica nella sublimazione l’operazione che eleva un oggetto alla dignità della Cosa, non fa altro che denunciare, insieme a Freud, l’effettiva illusione di cui il desiderio e, più in generale, il percorso della civiltà sono intrisi.
L’oggetto, per quanto sia bello, non è tuttavia mai questo, non è mai la Cosa. Ecco a cosa mira Lacan. Esso è sempre posticipato, o in anticipo rispetto al compito che gli si chiede di assumere. L’oggetto non è un dato, l’oggetto è un investimento, un serbatoio di nostre proiezioni psichiche e affettive.

«Crediamo che le cose siano lì, al centro, solide, stabili, in attesa di essere riconosciute, e che il conflitto sia ai margini. Ma che cosa insegna l’esperienza freudiana, se non che ciò che accade nel cosiddetto campo della coscienza, cioè sul piano del riconoscimento degli oggetti, è altrettanto ingannevole rispetto a ciò che l’essere cerca? Benché sia la libido a creare i diversi stadi dell’oggetto, gli oggetti non sono mai questo […]. Il desiderio, funzione centrale di ogni esperienza umana, è desiderio di niente di nominabile».1

Sappiamo da Lacan che l’ordine della rappresentazione prodotto dal vuoto causativo della Cosa segue la via del significante, si installa nella dialettica della presenza e dell’assenza. Più il poeta nomina e introduce la presenza, più la parola pone la Cosa in presenza della presenza, più egli scava l’assenza. Più il desiderio del soggetto scava in direzione dell’innominabile e più fa esperienza del suo annichilimento, si trova scalzato, allontanato dal nucleo del suo proprio essere. Annichilimento che riguarda in primo luogo la parola, in quanto desiderio di nominare, di nominarsi. Ma, una volta in prossimità dell’innominabile non c’è che silenzio e ammutolimento. Per questo, come sovente si dice, la bellezza «lascia senza parole», la bellezza è innominabile.

1 J. Lacan Funzione e campo della parola e del linguaggio, in Scritti I, Einaudi, 1970, p. 278

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POESIE inedite di John Taylor “It Was Not Yet Night” (Non era ancora notte) traduzione di Marco Morello con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

foto fumetto

Fumetto design Diabolik ed Eva Kant

John Taylor, poeta, scrittore e traduttore, e Caroline François-Rubino, pittore, lavorano insieme dal 2014. Il loro primo libro, Boire à la source / Drink from the Source, è pubblicato da Éditions Voix d’encre in marzo 2016. Il loro secondo libro, Hublots / Portholes, sarà pubblicato questa estate da Éditions L’Œil ébloui. John Taylor è anche autore di altre sei opere di racconti, di prose brevi e di poesie, di qui The Apocalypse Tapestries (2004) e If Night is Falling (2012). The Apocalypse Tapestries è stata pubblicata in italiano con il titolo Gli Arazzi dell’Apocalisse (Hebenon) et la sua raccolta di prose brevi, If Night is Falling, con il titolo Se cade la notte (Joker), i due libri nella traduzione di Marco Morello. John Taylor è editor e co-traduttore d’una ampia raccolta dei testi del poeta italiano Alfredo de Palchi, Paradigm: New and Selected Poems (Chelsea Editions, 2013). Ha ottenuto nel 2013 una borsa notevole dell’Academy of American Poets per il suo progetto di tradurre le poesie di Lorenzo Calogero — libro che è stato pubblicato: An Orchid Shining in the Hand: Selected Poems 1932-1960 (Chelsea Editions).

Sito di John Taylor (http://johntaylor-author.com/)
Sito di Caroline François-Rubino (http://www.caroline-francois-rubino.com/)

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Sono convinto che Antonio Sagredo sbaglia quando paragona la poesia di Timothy Houghton a quella di Pasternak, Un errore che fa spesso la critica è quella di leggere la poesia contemporanea con gli occhi rivolti al passato, e invece è l’esatto opposto ciò che noi dobbiamo fare, leggere la poesia di oggi con gli occhi rivolti al futuro. E poi non possiamo addebitare a un poeta di oggi la colpa di utilizzare nella sua poesia i simboli e gli oggetti della vita di oggi. Ogni poesia è figlia del proprio tempo, nel bene e nel male, e ciò che ci accomuna è molto più forte di ciò che ci divide.
Per tornare alla poesia di John Taylor che qui presentiamo in alcune poesie, noi lo conosciamo quale bravissimo traduttore della poesia italiana in inglese, le sue traduzioni delle poesie di Lorenzo Calogero hanno riscosso il plauso e l’ammirazione di un poeta traduttore come Steven Grieco-Rathgeb, e non era affatto facile rendere in inglese i modi ellittici tipici della lingua letteraria italiana in inglese. Voglio dire che non deve trarre in inganno l’apparente semplicità del lessico e della sintassi di John Taylor, la sua icasticità è massima, è quasi scultorea, punta all’essenziale di un dettaglio, di un oggetto per metterli in evidenza. In fin dei conti il fine della poesia è questo: mettere in evidenza certi scorci linguistici che rimandano ad altro. John Taylor non mette mai in evidenza gli scorci linguistici per se stessi, per fare una poesia bella o eufonica, ma per qualcosa d’altro che sta dietro e sotto il testo letterario. E questo per me è già sufficiente, vuol dire che Taylor ha ben digerito la lezione di Un William Carlos Williams e di un Wallace Stevens, un po’ meno, mi si conceda, quella di un Lorenzo Calogero il quale di frequente gira intorno all’oggetto linguistico con le sue onde foniche concentriche. Qui, in Taylor, non abbiamo onde concentriche ma direi uno stato di quiete apparente interrotto dal susseguirsi di brevissime scosse telluriche. Mi chiedo quanti tra i poeti italiani sono capaci di fare altrettanto?, di essere rastremati fino all’eccesso come in Taylor?. Certo, se mettiamo a confronto la poesia di John Taylor con quella di Pasternak non rendiamo un buon servizio né all’uno né all’altro, ogni poeta vale per sé e per quello che può portare alla poesia universale progressiva (o regressiva) dell’Occidente. Si presti attenzione agli incipit delle poesie di John Taylor, sembrano accadere quasi per caso, o per rimozione di un precedente verso, di un ricordo, o per amnesia di qualcosa d’altro. E questa non è una caratteristica precipua della migliore poesia contemporanea?

Parafrasando le parole di un critico russo Boris Groys: «la vittoria del materialismo in Occidente ha portato alla totale scomparsa della materia… sicché è diventato evidente che la materia come tale è nulla. Sembra che sia giunta l’ora dell’apocalisse…», e invece nulla, non è accaduto nulla qui in Occidente, tutto continua come prima e meglio di prima. A causa della Crisi e grazie alla crisi.

  • B. Groys Lo stalinismo ovvero l’opera d’arte totale Garzanti, 1992 p. 28
  • Disegni nei testi di Caroline François-Rubino.
John Taylor

John Taylor

John Taylor

It Was Not Yet Night

sometimes / for a while
you no longer know

this dusk will be darkness
at the end

an absence of light

not this soothing twilight

over the snow
Non era ancora notte
a volte / per un po’
non sai neanche più

che questo crepuscolo diventerà oscurità
alla fine

un’assenza di luce

non questa distensiva penombra
sopra la neve
*

sometimes it is
thicker haze

every slope almost imaginary

a slope
a plain
as it happens

they are there

*

a volte è nebbia
più spessa

ogni pendìo quasi immaginario

un pendìo
una pianura
guarda caso

eccoli là

 

sometimes so much light
what must pass
can be seen

not what must
remain

later

the night unclothes
what is constant

envelops the momentary
in a black shroud

a not entirely black shroud

that also must vanish

.
*

a volte in così tanta luce
si può vedere
ciò che deve passare

non cosa deve
rimanere

più tardi

la notte spoglia
ciò che è costante

avvolge il momentaneo
in un nero sudario

un sudario non completamente nero

che anch’esso deve svanire

Alfredo De Palchi e John Taylor Firenze 2012

Alfredo De Palchi e John Taylor Firenze 2012

 

bands of haze
fingers across a field

if darkness could caress you

sometimes

this caress
mere thickening twilight
a handful of light
soon scattered

beyond any desire

*

sciarpe di nebbia
dita attraverso un campo

se il buio potesse accarezzarti

talvolta

questa carezza
semplice crepuscolo che infittisce
una manata di luce
presto dispersa

oltre ogni desiderio

*

talvolta persistono alberi
più vicini a te
di quanto avessi immaginato

emergono

anche i più scuri
recano luce
un’improvvisa rassicurazione buia

*

sometimes trees persist
closer to you
than you had thought

they emerge

even the darkest
bear light
a sudden dark reassurance

 

sometimes
in daylight
it is ever going to be night

in your heart

light laced
with black

in whatever brightness

when sunlight warms
with its gentle embers of coal
remember this

every
day
night
the dark warm brightness

*

a volte
anche in pieno giorno
sta comunque per farsi notte

nel tuo cuore

luce venata
di nero

in qualsiasi splendore

quando la luce solare riscalda
con le sue gentili braci di carbone
ricorda questo

ogni
giorno
notte
la scura calda luminosità

*

where twilight hovers blue
over the valley
where a moment
seems ever-changing
then motionless

sometimes

blurred trees
bushes hedges
patches of darkness
in the leftover light

recall
the brighter
missing light

*

dove il crepuscolo si libra blu
sopra la valle
dove un momento
sembra cangiante
poi immobile

talvolta

alberi offuscati
cespugli siepi
chiazze di buio
nella luce rimasta

ricordano
la più luminosa
luce mancante

Marco Morello

Nasce a Torino nel 1956. Si laurea in inglese nell’80 e lo insegna da allora nelle superiori. Scrive poesie liriche dal ’72 al ’79, virando successivamente verso lidi ludolinguistici, attestati da fitta collaborazione con il Bartezzaghi di “Tuttolibri”, Accavallavacca, Anno sabbatico, ”Lessico e nuvole”. Pubblica tre raccolte di versi: Semplicità (’76), Quartine per ‘Lù (’01), e 111 haiku (‘05). Dirige per anni l’aperiodico “Poesia nella Strada” e collabora come critico e traduttore a “Hebenon”, rivista internazionale di  letteratura. Sue punzecchiature letterarie, oltre a giochi di parole e poesie, sono ospitate dal foglio elettronico “il giornalaccio”.

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LA POESIA DI WALLACE STEVENS  di Franco Toscani ‘Prima idea’ e critica della ‘pathetic fallacy’ (Parte II)

Wallace Stevens. Photo of Robert Frost and Stevens at the Casa Marina Hotel in Key West, ca. 1940

Wallace Stevens. Photo of Robert Frost and Stevens at the Casa Marina Hotel in Key West, ca. 1940

  1. ‘Prima idea’ e critica della ‘pathetic fallacy‘

La lingua, nel suo dire essenziale, intende far parlare le cose stesse, di cui “dice” anche il suono e il colore. Nelle poesie e nei saggi pubblicati in The necessary angel   il nesso fra poesia, musica e pittura appare molto stretto ed è più volte ribadito. Scrive ad esempio Stevens: “in poesia le parole, più di ogni altra cosa, sono suoni” ( cfr. AN 107-8,114). E di “dimensione musicale del colore” si è parlato a proposito di Harmonium [1] . Giustamente Fusini, nel suo saggio introduttivo alle Notes , ha osservato che nel poeta americano l’arco acustico è a fondamento dell’arco semantico, “prevale un alfabeto di suoni, soglia preliminare a ogni costituzione in lingua” (N 9,11).

La poesia-immaginazione è “pensiero pulsante nel cuore” che “grazie al candore, ci dà sempre di nuovo la forza/ di ritrovare di ogni cosa l’immacolata natura” (N 62-3), dice le emozioni e i sentimenti di cui l’umanità è sempre stata povera (cfr. Large red man reading , H 512-3, AA 72-3) , non permette che le cose anneghino nell’indifferenza e nello squallore del mondo.

La poesia parte dal disincanto circa la nostra presunta centralità nel mondo: “Di qui sgorga la poesia: viviamo in un luogo/ che non è nostro, e, molto di più, non è noi,/ ed è cosa crudele malgrado i giorni di gloria” (N 64-5). Anziché la nostra centralità, troviamo il centro informe e fangoso, il “muddy center” da cui proveniamo e al quale siamo destinati.

Siamo sorpresi e sconcertati: “ La vita insensata ci trafigge coi suoi misteriosi rapporti” (N 62-3). Nella poesia Nuances of a Theme by Williams (compresa nella raccolta Harmonium , 1923), il poeta scrive contro ogni ipotesi di umanizzazione della natura, rivolto ad una “ancient star”: “Splendi sola, splendi nuda, splendi come il bronzo/ che non riflette il mio volto né alcuna interiorità / del mio essere, splendi come fuoco, che non riflette nulla./ Non partecipare ad alcuna umanità/ che ti soffonda della propria luce./ Non essere chimera del mattino,/ mezzo uomo, mezzo stella./ Non essere un’intelligenza,/ come l’uccellino di una vedova/ o un cavallo vecchio” (H 28-9, 615).

Come ha notato Fusini, v’è una nostalgia dell’origine in Stevens, ma in lui il principio non è logico e razionale, l’esperienza umana è sempre in riferimento al nulla d’esperienza e a quell’ arché alogos  da cui dipende.

 La mente non è all’origine della creazione dell’idea. Stevens vuole risalire alla “prima idea” che permetta l’apertura dello sguardo autentico sulle cose: “Com’è terso il sole se visto nell’idea,/ purificato nella remota chiarità di un cielo/ liberatosi delle nostre immagini e di noi…/ (…) C’era un progetto del sole e c’è ancora./ C’è un progetto del sole. Il sole, ghirigoro d’oro,/ non sopporta alcun nome, ma è/ nella difficoltà di ciò che essere è” (N 58-9).

wallace stevens

wallace stevens

Guardando il sole nella sua nudità essenziale, il poeta trova finalmente il centro che cercava, la ragione del mondo. Pensando il mondo senza il superfluo delle maschere umanistiche, si diventa “a thinker of the first idea” (N 70-1, L 426).

 L’astrazione  consiste allora nell’accogliere il sole come “prima idea”, senza sovrapporre ad essa l’ “umano, troppo umano”. Il progetto del sole sovrasta, determina e condiziona ogni progetto umano. Ciò in cui noi siamo compresi, irrimediabilmente ci sfugge. Non viviamo in una terra cartesiana, il cielo non è il nostro specchio, come crede la pathetic fallacy  degli uomini. Le nuvole, che “vennero prima di noi”, “sono parte di ciò che ci precede, parte del centro fangoso che c’era prima che respirassimo, parte del mito fisico prima che iniziasse il mito umano”  (L 444): è questa l’ astrazione  accessibile ai poeti.

Ora, il concetto di un Dio antropomorfo è al centro della “fallacia patetica”: “Un Dio antropomorfo è semplicemente una proiezione di se stessa fatta da una razza di egoisti, che è per loro naturale considerare sacra” ( cfr. L 349-350, 444; H 214-5, 630-1). Un “Dio troppo, troppo umano” impedisce di godere e di misurare la vita per quella che è (cfr. H 370-1). Se un Dio ci dev’essere, “deve dimorare quietamente”, “essere incapace di parlare”, muoversi silenzioso, come il sole o la luna, scrive Stevens nella poesia Less and Less Human, O Savage Spirit  (1944, H 392-3), già dal titolo di sapore nietzscheano. Dio va piuttosto identificato con l’immaginazione che aiuta l’uomo a vivere meglio (cfr. Final  Soliloquy of the Interior Paramour , H 570-1).

La metafisica ha completamente stravolto e capovolto le cose: “The adventurer/ In humanity has not conceived of a race/ Completely physical in a physical world” (H 386-7). La povertà maggiore è della metafisica, nonostante il suo solenne richiamo agli alti ed eterni valori. “La più grande povertà – scrive il poeta in questa stessa pagina di Esthétique du mal  – è non vivere in un mondo fisico”, rappresentarsi un mondo dietro il mondo, rimanere irretiti nella pathetic fallacy .

All’inizio, però, il venir meno del mondo metafisico provoca sgomento e disperazione: “Che freddo baratro/ quando i fantasmi sono spariti e il realista turbato/ vede per la prima volta la real tà” (H 378-9). Ciò avviene soltanto all’inizio, non si resta paralizzati dal turbamento ; tutta la poesia di Stevens è un invito forte e costante ad andare oltre il “freddo baratro” per vivere in modo più ricco la realtà, anche e soprattutto grazie all’aiuto dell’immaginazione.

[1]   Cfr. R.S. Crivelli, Stevens, grande poeta della luce e del colore ,ne “il sole-24 ore”, 9 ottobre 1994.

wallace stevens quotes 5Wallace-Stevens-Walk-Blackbird-1

The Emperor Of Ice-Cream

Call the roller of big cigars,
The muscular one, and bid him whip
In kitchen cups concupiscent curds.
Let the wenches dawdle in such dress
As they are used to wear, and let the boys
Bring flowers in last month’s newspapers.
Let be be finale of seem.
The only emperor is the emperor of ice-cream.

Take from the dresser of deal.
Lacking the three glass knobs, that sheet
On which she embroidered fantails once
And spread it so as to cover her face.
If her horny feet protrude, they come
To show how cold she is, and dumb.
Let the lamp affix its beam.
The only emperor is the emperor of ice-cream.

from « Harmonium »

L’imperatore del sorbetto

All’arrotolatore di sigari giganti,
quel tutto muscoli, digli di sbattere
in tazze da cucina concupiscenti panne.
Si gingillino le donnette nella veste
che usano indossare e rechino i ragazzi
fiori avvolti in giornali del mese passato.
Sia l’essere il finale dell’aspetto.
Il solo imperatore è l’imperatore del sorbetto.

Prendi dalla cassettiera di abete, senza più
i tre pomelli di vetro, quel lenzuolo
dove una volta lei ricamò delle colombe
e stendilo fino a ricoprirle la faccia.
Se ne spuntano piedi e calli, sarà
per mostrare com’è fredda, com’è muta.
E che affissi la lampada il suo getto.
Il solo imperatore è l’imperatore del sorbetto.

da « Harmonium », traduzione di Giovanni Giudici

Wallace-Stevens-Quotes-1Wallace-Stevens-Quotes-2

Notes Toward a Supreme Fiction

to Henry Church

And for what, except for you, do I feel love?
Do I press the extremest book of the wisest man
Close to me, hidden in me day and night?
In the uncertain light of single, certain truth,
Equal in living changingness to the light
In which I meet you, in which we sit at rest,
For a moment in the central of our being,
The vivid transparence that you bring is peace.

from « Transport to Summer »

 

Note per una finzione suprema

a Henry Church

E per cosa, se non per te, proverei amore?
Terrei il libro più estremo dell’uomo più saggio
stretto, in me nascosto, giorno e notte?
Nella luce incerta della verità singola, certa,
eguale nella vitale mutevolezza alla luce
in cui t’incontro, in cui sediamo quieti,
per un momento nel centro del nostro essere,
la trasparenza vivida che tu porti è pace.

da « Trasporto all’estate », traduzione di Glauco Cambon

 

It Must be Astract

(…)

IV

The first idea was not our own. Adam
In Eden was the father of Descartes
And Eve made air the mirror of herself,

Of her sons and of her daughters. They found themselves
In heaven as in a glass; a second earth;
And in the earth itself they found a green –

The inhabitants of a very varnished green.
But the first idea was not to shape the clouds
In imitation. The clouds preceded us.

There was a muddy centre before we breathed.
There was a myth before the myth began,
Venerable and articulate and complete.

From this the poem springs: that we live in a place
That is not our own and, much more, not ourselves
And hard it is in spire of blazoned days.

We are the mimics. Clouds are pedagogues.
The air is not a mirror but bare board,
Coulisse bright-dark, tragic chiaroscuro

And comic color of the rose, in which
Abysmal instruments make sounds like pips
Of the sweeping meanings that we add to them.

(…)

from « Transport to Summer »

 

Deve essere astratta

(…)

IV.

L’dea prima non era nostra. Adamo
nell’Eden era già padre di Cartesio,
ed Eva rese l’aria di se stessa specchio,

e dei suoi figli e figlie. Si trovarono
in cielo come in uno specchio; una seconda terra;
e nella terra trovarono un verde –

abitanti di un verde lucidissimo.
Ma l’idea prima non era di foggiare
le nubi a imitazione. Le nubi ci precorsero.

C’era un centro fangoso prima che respirassimo.
C’era un mito prima che iniziasse i mito,
venerabile, esplicito e completo.

Da questo nasce la poesia: che viviamo
in un luogo non nostro, e che non siamo noi,
ed è arduo, ad onta dei giorni d’orifiamma.

Noi siamo i mimi. Le nubi pedagoghe.
L’aria non è uno specchio ma lavagna nuda,
quinta fra luce ed ombra, tragico chiaroscuro

e comico colore della rosa, in cui
istrumenti abissali riducono a scricchi
i vasti significati onde li esorniamo.

(…)

da « Trasporto all’estate », traduzione di Glauco Cambon

 

wallace-stevens-riceve-un-premio-1951.j

wallace-stevens-riceve-un-premio-1951.j

Angel Surrounded by Paysans

One of the countrymen:
There is
A welcome at the door to which no one comes?

The angel:
I am the angel of reality,
Seen for a moment standing in the door.

I have neither ashen wing nor wear of ore
And live without a tepid aureole,

Or stars that follow me, not to attend,
But, of my being and its knowing,

I am one of you and being one of you
Is being and knowing what I am and know.

Yet I am the necessary angel of earth,
Since, in my sight, you see the earth again,

Cleared of its stiff and stubborn man-locked set
And, in my hearing, you hear its tragic drone

Rise liquidly in liquid lingerings,
Like watery words awash; like meanings said

By repetitions of half-meanings. Am I not,
Myself, only half a figure of a sort,

A figure half-seen, or seen for a moment, a man
Of the mind, an apparition apparelled in

Apparels of such lightest look that a turn
Of my shoulder and quickly, too quickly, I am gone?

from « The Auroras of Autumn »

 

Angelo circondato da paysans

Uno dei paesani:
C’è forse
un benvenuto alla porta a cui nessuno viene?

L’angelo:
Sono l’angelo della realtà,
visto un attimo affacciarsi sulla porta.

Non ho ala cinerea, né abito smagliante
e vivo senza una tiepida aureola

o stelle al mio seguito, non per servirmi,
ma, del mio essere e del suo conoscere, parti.

Sono uno come voi ed essere uno di voi
vale essere e sapere ciò che sono e so.

Eppure sono l’angelo necessario della terra,
poiché, nel mio sguardo, vedete la terra nuovamente,

spoglia della sua dura e ostinata maniera umana,
e, nel mio udire, udite il suo tragico rombo

liquidamente sollevarsi in liquidi indugi
come acquee parole nell’onda, come sensi detti

con ripetizioni e approssimazioni. Non sono forse,
anch’io, una sorta di figura approssimativa,

una figura intravista, o vista un istante, un uomo
della mente, un’apparizione apparsa in

apparenze tanto lievi a vedersi che se appena
volgo le spalle, subito, ahi subito, svanisco?

da « Le aurore d’autunno », traduz. di M. Bacigalupo

da Wallace Stevens, Harmonium, Poesie 1915 – 1955, a cura di Massimo Bacigalupo, Einaudi, Torino, 1994

 

Wallace Stevens

Wallace Stevens

  1. Un giro attorno al lago

In The Snow Man  (1921) l’uomo è l’ascoltatore del soffio del vento in un paesaggio invernale ; egli ha “a mind of winter” ,  “ascolta nella neve/ e, nulla in sé, vede/ nulla che non sia lì, e il nulla che è” (H 12-13). Ciò sembra molto nihilistico, ma non è così. Lo stesso Stevens rileva in una lettera del 1944 che The Snow Man  va interpretato in  senso  positivo “come un esempio della necessità di identificarsi con la realtà in modo da capirla e goderla” (cfr. L 464; H 12-13,XI; MD 122-3). Le “rupi erose torreggianti sull’Atlantico” di una poesia come  The Irish cliffs of Moher  ( in The Rock , MM 34-35, H 552-3) sono per il poeta “come una ventata di libertà, un ritorno al mondo spazioso e solitario in cui un tempo esistevamo” (L 760).

In The Auroras of Autumn  – ha osservato Fusini nella prefazione all’edizione italiana dell’opera, intitolata La passione del sì – le luci dell’aurora boreale sono “parte dell’innocenza della terra (…). Queste luci non vogliono nulla. Fanno parte, appunto, di una terra né benigna, né matrigna. Ma indifferente, di un’indifferenza che ci salva, tuttavia. Perché non vuole nulla da noi. Solo che stiamo raccolti in essa, come bimbi nel sonno. Il male e il bene non sono un’intenzione della terra” (cfr. AA 27-28,60-61; H 508-9,666, 368-9).[1]

Una volta liberato dalle pastoie metafisiche, “the pensive man” è  “connoisseur of Chaos”, consapevole dell’unità del complesso e della complessità dell’unità (cfr. H 290-3, 641), dell’interrelazione universale che regge tutte le cose e in cui forse si risolve ciò che enfaticamente chiamiamo verità.

Il problema della verità viene da Stevens radicalmente reimpostato in maniera felicemente provocatoria: “Perhaps/ The truth depends on a walk around a lake” (“Forse/ la verità dipende da un giro sul lago”, N 70-71). Così il poeta getta la sua provocazione e il suo sberleffo alla metafisica. La verità è pure in un giro attorno ad uno specchio d’acqua, nell’abitare fra terra e cielo, senza andare a cercare tanto lontano ciò che ci è da sempre molto vicino e che spesso non riusciamo a riconoscere per quello che è. Ci sfugge la misura, ma la misura sta proprio nell’abitare qui sulla terra, nello spazio fra terra e cielo, accettando tutto ciò che questa esposizione significa.

Wallace-Stevens QuotesL’esistenza umana è esposizione all’Aperto e nella sua essenza è rivolta alla cura della terra. La verità dell’uomo si risolve nel problema del suo abitare il mondo e morire. Data l’inseparabilità fra il conoscere e il vivere, decisiva si rivela la questione del luogo . In uno dei suoi Adagia  pubblicati in Opus posthumous , Stevens ha scritto: “La vita è affare di persone, non di luoghi; ma per me è affare di luoghi ed è questo il problema” (OP 158; MM 14).

Allora la poesia sarà, nella sua essenza misurante, individuazione del luogo dell’abitare e la verità “sarà – scrive Fusini nel saggio introduttivo alle Notes  –  conoscenza rivolta al luogo, coinciderà con la ‘cura del luogo’ – come si dice in The rock. Il luogo non è semplice (pre)posizione; quell’ ex  in cui l’uomo è esposto è la casa che dice la separazione, la differenza  in cui l’uomo abita. La ricerca della realtà è cura di questa differenza, di ‘questo luogo, le cose dintorno’” (N 37).

La critica della pathetic fallacy  conduce da un lato a un ridimensionamento dell’umano, a spodestare noi stessi dal trono del mondo che ci siamo arrogantemente costruiti; d’altro lato l’uomo, definito in Esthétique du mal   “the soldier of time” (H 376-7), è pure, in un mondo che mondeggia privo di Fondamento metafisico, misura delle cose, nell’antico senso greco protagoreo e non ancora umanistico. In questo senso, nel saggio The relations between poetry and painting  (compreso in The necessary angel  ), Stevens scrive: “La verità più alta a cui possiamo aspirare, in ogni campo, è che la verità dell’uomo è la risoluzione finale di ogni cosa” (AN 247).[2]

In Chocorua to Its Neighbor  (compresa in Transport to Summer ), la poesia tenta di dire l’umano, ma lo dice in un modo che sfugge completamente alle movenze e ai tratti caratteristici tanto dell’umanismo che assolutizza indebitamente l’uomo quanto di quell’anti-umanismo alla moda che finisce col dimenticare o trascurare ciò che è peculiare dell’uomo stesso, la sua essenziale dignità e povertà: “Dire cose più che umane con voce umana,/ non può essere; dire cose umane con voce/ più che umana, anche non può essere;/ parlare umanamente dall’altezza o dalla profondità delle cose umane, questo è il più acuto parlare” (H 354-5).

Sgombrato il campo dagli equivoci metafisici, ora “The imperfect is our paradise” ( The Poems of Our Climate , in Parts of a World , H 268-9), si ottiene “a new knowledge of reality” ( Not Ideas about the Thing but the Thing Itself , in The Rock , H 586-7, MM 112-3,220-1), il mondo non è più apparenza ingannevole, ma si risolve nella verità stessa (cfr. Landscape with Boat , in Parts of a World , H 310-3). Stevens si muove lungo la strada di un’integrale accettazione del mondo, compreso il suo dolore ineliminabile, sacro e verace (cfr. World without peculiarity , AA 148-151).

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  1. Le tracce dei poeti. Stevens e Char

In un aforisma apparso in  Opus posthumous  Stevens scrive: “La grande conquista è la conquista della realtà” (OP 168, N 59). Forse, a questo punto della nostra ricerca, possiamo capire un po’ meglio quanto qui viene detto. Le poesie di Stevens, come ha ben rilevato Hayden Carruth nel 1952, sono “duri confronti con il reale” (cfr. AN 55), soltanto un poco alleviati dalla bellezza e dall’incanto della parola poetica, “finzione suprema”, appunto. Bisogna, credo, abbandonarsi completamente alla bellezza e alla stupefacente ricchezza delle innumerevoli immagini, metafore, figure, suggestioni che popolano i testi difficili del Nostro, a quel suo peculiare turbinio estetico che insieme  rapisce il cuore e ci costringe a pensare radicalmente.

La poesia di Stevens si concepisce “parte della res”, ad esempio “parte del riverbero/ di una notte ventosa com’è”, vuole essere “poesia della pura realtà”, che cerca il “semplice vedere, senza riflessione. Non cerchiamo/ null’altro che la realtà. Dentro essa,/ tutto, comprese le alchimie/ dello spirito, compreso lo spirito che aggira/ e attraversa, non solo il visibile,/ il solido, ma il mobile, il momento,/ l’avvicendarsi delle feste e i costumi dei santi,/ l’ordito dei cieli e l’alta aria notturna” ( An Ordinary Evening in New Haven , in The auroras of autumn , H 532-5).

Il poeta è alla ricerca della realtà e in un tale compito, dissolte le nebbie metafisiche, l’apparenza si risolve nella realtà, il sembrare nell’essere: “E’ possibile che sembrare… sembrare è essere,/ come il sole è qualcosa che sembra ed è./ Il sole è un esempio. Ciò che sembra/ è, e in un tale sembrare tutte le cose sono” ( Description without Place , in Transport to Summer , H 400-1).

La poesia essenziale è l’ “armonia alta” che si pone “al centro delle cose”, in un rapporto strettissimo in cui, per così dire, la poesia diventa mondo e il mondo diventa poesia (cfr. AA 114-9). L’irreale della poesia deve essere creato a partire dal reale, tutta la forza e tutta la potenza dell’uomo immaginativo si sprigionano soltanto a partire dal reale stesso.

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La poesia è poesia della realtà nella sua piena libertà espressiva e formale; Stevens si premura di ribadire con forza l’autonomia dell’arte, la sua assoluta esigenza di non aderire acriticamente alla realtà, in particolare agli interessi e agli imperativi politici, sociali, ideologici, morali (cfr. L 402-3, AN 38-39, 103): “Il poeta rifiuta i compiti che altri gli hanno assegnato”,  la poesia va valutata essenzialmente con criteri estetici e formali (cfr. AN 109, 176). Ciò non impedisce che vi possa essere un rapporto fruttuoso fra poesia e praxis , dove la poesia – come ha rilevato René Char – si propone come sguardo in avanti, parola che introduce “una salva d’avvenire”, “la vita futura all’interno dell’uomo riqualificato”.[3]

Il poeta attua per tutti una vigilanza strenua, insonne e inquieta, lascia tracce (“Solo le tracce fanno sognare”, per Char) che vanno individuate e interpretate per consentire gli scatti in avanti (il “bel caos”, diceva Nietzsche) dell’esistenza. La “energia dislocante” della poesia consente di istituire un nesso fragile, sempre pronto ad essere spezzato, fra poesia e politica, un nesso che lascia tuttavia sussistere la piena autonomia di entrambe. Cogliere questo nesso e insieme quest’aria di libertà è qui il problema.

In riferimento alla carica utopica contenuta nella poesia, Char ha scritto mirabilmente che essa “è l’amore realizzato del desiderio rimasto desiderio”.[4] Ciò probabilmente vuol dire non che è condannata alla sterilità e all’impotenza, ma che vi è una reciproca necessità e un reciproco richiamo fra poesia e azione, per cui la prima spinge verso un rinnovamento e un arricchimento di senso del reale, la seconda è indispensabile al necessario farsi-mondo della parola.

In qualche modo la parola, nel suo stesso appartenere al mondo, è pure creatrice di mondo, come scrive Stevens in Description without Place (1945): “la parola è la creazione del mondo,/ il mondo ronzante e il firmamento balbettante./ E’ un mondo di parole da cima a fondo,/ in cui nulla di solido è solidamente se stesso” (H 410-1).

E ancora, nella poesia An Ordinary Evening in New Haven : “le parole del mondo sono la vita del mondo” (H 536-7). L’uomo è il suo linguaggio, gli uomini sono “fatti di parole”, “la vita consiste/ di proposizioni sulla vita” (Men Made out of Words , 1946, H 424-5). Tale essenzialità del linguaggio, oggi compromessa e svilita dal chiacchiericcio mass-mediatico imperante nella nostra “società dello spettacolo”, è propria della poesia se essa è, secondo una bella definizione di Ezra Pound, “l’arte di caricare ogni parola del suo massimo significato”.[5]

Dopo aver citato Rimbaud, per il quale “La poésie ne rythmera plus l’action. Elle sera en avant”[6]  , René Char ha scritto: “La poesia condurrà a vista l’azione, collocandosi avanti ad essa. L’essere-avanti presuppone tuttavia un allineamento angolare della poesia sull’azione, come un veicolo pilota aspira a breve distanza, grazie alla sua velocità, un secondo veicolo che lo segue. Gli apre la via, contiene la sua dispersione, lo nutre del suo slancio.”[7].

Per Char, la poesia è “un chant de départ” (“un canto di partenza”), “pensée chantée” (“pensiero cantato”), “tete chercheuse” (“testa ricercante”) che ha per suo corpo l’azione.[8]   La rifrazione della poesia nello “specchio ardente e offuscato” dell’azione apporterà “le signe plus (+) à la matière abrupte de l’action”.[9] La poesia rifonda l’abitare, “non ritma più l’azione, ma va avanti per indicarle il cammino mobile. E’ per questo che la poesia giunge sempre in anticipo. Essa prepara l’azione e, grazie al suo materiale, costruisce la Casa, ma mai una volta per tutte.”.[10]

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  1. Vigore della trasformazione e parola della povertà

Stevens canta l’indissolubile unità non statica, dinamica dell’io e della realtà: “Chi partecipa ha parte in ciò che lo muta” (N 86-87). Il radicale eraclitismo del poeta consiste nella convinzione secondo cui l’essere non si dà che nell’incessante divenire; tutto muta – le fanciulle, le colombe, le montagne -, il reale è costante metamorfosi, ogni staticità è relativa, tutto è incostante. Senza il mutamento che tutto distrugge e porta con sé non si dà vita umana, non si dà nuova nascita; morte e vita, creazione e distruzione sono inesorabilmente intrecciate, ma la vita tende sempre alla propria affermazione, ogni volta crea con la forza di chi deve lottare per sopravvivere, è sempre inizio, di cui la poesia come suprema finzione è parte.

Il poeta canta il vigore della trasformazione come vigore del mondo, forza dell’inizio che il tempo stimola, accresce e poi tradisce. Leggiamo ad esempio nelle Notes  (non a caso nella sezione  “It Must Change”) : “The freshness of transformation is/ The freshness of a world” (H 472-3). Il mutamento viene inteso in modo eracliteo come unione degli opposti: “ Due cose opposte sembrano dipendere/ l’una dall’altra, come l’uomo dalla donna,/ il giorno dalla notte, e dal reale/ l’immaginario. E’ qui l’origine del mutamento./ Inverno e primavera, freddi sposi, s’abbracciano,/ e ne sgorgano gli elementi della gioia” (H 462-3).

Nel suo stesso dar conto della realtà che incessantemente si trasforma, nel suo esprimere ciò che vediamo così come lo vediamo, la “finzione suprema” deve pure “dare piacere”. Per l’ “intelletto incandescente” di Stevens, la poesia è joie de vivre  particolare che ha come riferimento una joie de vivre  generale (cfr. L 404, AN 39, 134). “Alle fondamenta della poesia di S. – ha scritto Randall Jarrell sulla “Yale Review” nel 1955 – c’è meraviglia e diletto, la gioia del bambino o dell’animale o del selvaggio, la gioia dell’uomo nella sua stessa esistenza, e la gratitudine per essa” (cfr. H 671).

Siamo stranieri sulla terra, abitiamo un luogo che non è nostro, ma questo disincanto non è soltanto tragico. Lo spaesamento originario, preso sul serio, conduce a trovar casa in ogni luogo, permette l’abitazione dappertutto. Proprio il mancato possesso, l’impermanenza e la povertà originaria fanno sì che il viandante straniero trovi talvolta, nel suo errare, sollievo e conforto.

Nell’ultima fase della produzione di Stevens (specie in The Rock  e nelle composizioni raccolte in Opus Posthumous ), uno dei temi che ricorrono più frequentemente è quello della povertà, di cui scrive il Nostro  nella poesia To an Old Philosopher in Rome , dedicata a George Santayana, “negli ultimi anni agnostico ospite di un convento di suore a Roma” (H XVII) : “E’ la parola della povertà che più ci cerca./ E’ più antica della parola più antica di Roma” ( H 560-1, MM 54-55).

Coffee Oranges

Coffee Oranges

La poesia, come canto della necessità, del dire essenziale e più dicente, è canto dell’amore e del dolore, del passare del tempo, del nesso indissolubile vita-morte e il poeta, vecchio e vigile, è impegnato a imparare a morire, a scegliere le parole più appropriate per il distacco definitivo: “una lingua per un calmo addio a se stesso, addio, addio,/ le pacate, beate parole, ben intonate, ben cantate, ben dette” ( The Sick Man , H 590-1, MM 116-7). E’ questo il canto della buona morte, che sopravviene a una vita buona e giusta.

Il punto di partenza, ribadisce Stevens in The Sail of Ulysses , è la povertà, lo stato di mancanza e di bisogno, la necessità (cfr. MM 152-3). Qui viene attribuito alla povertà un senso positivo; solo nel riconoscimento della povertà e a partire da essa nasce la ricchezza autentica dell’uomo. Il senso genuino della praxis  va ricondotto alla povertà, allo stato di bisogno. “Need makes/ The right to use” (MM 152-3). Ecco perché Stevens scrive  in The Auroras of Autumn  che “La povertà s’addice al nocciolo saldo del cuore” (AA 78-79).

[1]   Qui sovvengono i versi di Hoelderlin in Stimme des Volks  (Voce del popolo ): “Indifferenti alla nostra saggezza/scroscian ben anche i fiumi, e tuttavia/ chi non li ama?”. Cfr. F. Hoelderlin, Poesie , cit., pp.64-65.

[2]   Mi sembra che questa peculiare considerazione della “ verità dell’uomo” possa  forse essere utilmente accostata a quella che si palesa nell’opera di Michel de Montaigne. Cfr. Sandro Mancini, Oh, un amico! In dialogo con Montaigne e i suoi interpreti, FrancoAngeli, Milano 1996.

[3]   Cfr. R. Char, Sulla poesia , a cura di Gianluca Manzi, in “lengua” n.13, Crocetti editore,Milano 1993,pp. 94-95.

[4]   Cfr. R. Char, Sulla poesia , cit.,p.94.

[5]   Cfr. Cristina Campo, La Tigre Assenza ,a cura di Margherita Pieracci Harwell, Adelphi,Milano 1991,p.240.

[6]   Cfr. R. Char, “Réponses interrogatives à une question de Martin Heidegger”,in Oeuvres complètes , Gallimard, Paris 1983, pp.734-6.

[7]   Cfr. R. Char, “Risposte interrogative ad una domanda di Martin Heidegger”, trad. it. in Gino Zaccaria, L’etica originaria. Hoelderlin, Heidegger e il linguaggio , Egea, Milano 1992,p.213.

[8]   Cfr. G. Zaccaria, op. cit., pp.214, 216-7.

[9]   Ibidem.

[10]   Ibidem.

*

Franco Toscani, saggista e insegnante di Filosofia, vive e lavora a Piacenza, dove è nato nel 1955, è membro del comitato scientifico della sezione Emilia-Romagna dell’Istituto italiano di Bioetica, fa parte del consiglio di redazione della rivista “Testimonianze” ed è redattore della rivista “Filosofia e Teologia”.  Co-autore nel volume di AA.VV., Vita e verità. Interpretazione del pensiero di Enzo Paci , a cura di S. Zecchi, Bompiani, Milano 1991. Ha introdotto vari libri di poesia e con G. Zambianchi ha curato il volume postumo di poesie di N. Vegezzi, Terra e carne d’amore , Grafic Art, Piacenza 1995. Nel 2003 ha pubblicato, presso l’editrice Blu di Prussia di Piacenza, una plaquette di poesie, dal titolo La benedizione del semplice (“Prefazione” di C. Sini).Ha collaborato a riviste e a giornali come  “il manifesto”, “Quotidiano dei Lavoratori”,  “Libertà”, “Il Nuovo Giornale”, “Unità Proletaria”, “In-oltre”, “La Balena Bianca”, “La tribù”, “aut aut”, “Alfabeta”, “Nuova Corrente”, “AlfaZeta”,  “Studi Piacentini”, “Città in controluce”, ”dalla parte del torto”, “Qui – Appunti dal presente”,“Testimonianze”, “Filosofia e Teologia”, “Dharma”,”Odissea”, “Koiné”, “La clessidra”, “La Stella del Mattino”. E’ autore con S. Piazza del libro Cultura europea e diritti umani  (Cleup, Padova 2003). Un suo saggio è contenuto nel volume di AA.VV., Il tempo e il soggetto  (Cleup, Padova 2003), di cui è  curatore insieme a G. Olmi e S. Piazza ; tre suoi saggi compaiono in AA.VV., Sulla via della polis infranta , a cura di S. Piazza, Cleup, Padova 2004. Nel 2004 ha curato con G. Zambianchi il volume La rivolta e l’incanto. Poesia, pittura e scultura in Nello Vegezzi ,Editrice Kairos, Piacenza. Del 2010 è il volume (co-autore S. Piazza) Fede e pensiero critico nell’età globale. Testimonianze per una civiltà planetaria, Cleup, Padova. Nel 2011, per le edizioni Odissea di Milano, pubblica i saggi Gandhi e la nonviolenza nell’era atomica e Luoghi del pensiero. Heidegger a Todtnauberg. Del 2012 è il libretto ‘L’azzurro della scuola degli occhi’. Terra e cielo di Hölderlin e  di Heidegger, CFR, Piateda (So).

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Wallace Stevens (1879-1955) “Sunday Morning”(Mattino domenicale, 1924) – Commento di Giorgio Linguaglossa, traduzione di Massimo Bacigalupo

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  In un articolo del 30 luglio 1992 apparso su la Repubblica Alfredo Giuliani scriveva: «Nei primi versi di Mattino domenicale l’autore ambienta la situazione e disegna uno stato d’animo. Ne deduciamo che lei quella mattina s’è compiaciuta di far tardi, non è andata in chiesa, e per un po’ si sente a suo agio, come se l’angoscia cristiana del rito della messa (“sacrificio e resurrezione”) si fosse dissipata. Ma poi comincia un intenso dialogo di toni alti, tra lei e lui, pro e contro la religione. L’attacco era stupendo:

Complacencies of a peignoir, and late
coffee and oranges in a sunny chair,
and the green freedom of a cockatoo…

Poggioli traduceva “Lusinghe di vestaglia”; bello ma una forzatura, si attribuiva al peignoir  un atteggiamento compiacente di colei che lo indossa. In seguito un altro traduttore cercò di cavarsela con un calco: “Compiacimenti del peignoir”. Ora, il carattere particolare di quell’attacco è nell’uso deliberato di due parole inglesi di stampo francese, e lo stretto accostamento produce un effetto irriproducibile in italiano».

Io, approfittando della parentela tra il lessico italiano con quello francese tenterei quest’altra traduzione:

Complacencies di un peignoir, e a tardo mattino
caffè ed arance su una sedia soleggiata
e la verde libertà di un pappagallo

Wallace Stevens Coffee Oranges

 Il poemetto ha inizio con alcuni indizi di una natura morta piena di colori: c’è un «pegnoir», una «sedia soleggiata», un verde pappagallo, «caffè ed arance», e la descrizione di una ricca signora di condizione borghese seduta nel suo giardino una domenica mattina colta mentre esprime felicità e benessere per il lusso e le belle cose che la vita le offre. Nella prima strofe è detto chiaramente della vita ricca e della bellezza naturale del luogo che dissipa «the holy hush of ancient sacrifice». La signora sta fantasticando, ed avverte tutta la mostruosità dell’interferenza da parte della morte nel processo della vita. Anche il fraseggio stilistico vuole accentuare la soddisfazione dello sguardo e dei pensieri della signora borghese nei confronti della bellezza della vita e della natura mediante una mal dissimulata onustà del dettato. Si evince la sua naturale ritrosia per  « The holy hush of ancient sacrifice» e per la assurde pratiche religiose ad esso connesse.

Wallace-Stevens-mind-Meetville-Quotes  Sunday Morning si presenta come una raffigurazione pittorica, come un polittico della borghese incredulità nell’ombroso dio colui che dispone del «Dominion of the blood and sepulchre». L’attrice del quadro è lì, colta all’improvviso, in un momento di distrazione, di indugio recalcitrante, forse. Ha fatto tardi a recarsi alla messa del mattino, una improvvisa e imprevista languidezza le ha fatto perdere tempo, forse il subconscio le detta questo ritardo inspiegabile rispetto agli obblighi societari borghesi del rito mattutino della messa. Pochi tocchi, pennellate essenziali: «caffè e arance su una sedia soleggiata», con quell’ammicco alla «verde libertà di un pappagallo» In questi primi tre versi abbiamo il quadro completo con i suoi colori primaverili e una inquietudine appena accennata e subito rimossa tra la «verde libertà» del pappagallo e la crisi della signora borghese alla ricerca di una « imperishable bliss» (da notare la raffinatissima coloritura ironica di quest’aggettivo). Lei sogna «She dreams a little, and she feels the dark / Encroachment of that old catastrophe»; «antica catastrofe» come tradurrei io, ma accettiamo «antico sacrificio» come traduce Bacigalupo. Si evince da subito la dicotomia antinomia tra la «verde libertà del pappagallo» e il «Dominion of the blood and sepulchre» (Dominio del sangue e del sepolcro).

 Wallace-Stevens Quotes Sunday morning è un poema in chiave meditativa su una figura femminile che consciamente rifiuta la credenza in una vita dell’al di là; è la vita di qua che ella desidera, anche se non «meaningful», anche se priva di  «imperishable bliss».

Nelle prime quattro strofe la signora borghese dichiara espressamente la sua propensione per le bellezze della vita, per la natura e la sua bellezza, e rigetta esplicitamente i dogmi della religione del sangue e della morte.

Wallace-Stevens-Quotes-2  A questo punto, però, interviene la voce narrante del poeta il quale interrompe la meditazione della signora per esporre la tesi secondo cui «beauty» è «death» e che la morte ha un ruolo supremo nel rivolgimento dell’essere. Ma l’argomentazione di Stevens è sibillina, è una confutazione della confutazione. Dapprima sembra voler confutare la meditazione della signora borghese, sembra parteggiare per  le ragioni che stanno alla base della religione della «morte» e del «sacrificio», ma in realtà il poeta si fa beffe del «heaven» e degli sforzi vani degli uomini per raggiungere quel luogo dove la vita non è più macchiata dalla morte, perché la vita è una buona cosa, e la morte, dalla quale la vita dipende, deve essere anch’essa una buona cosa, afferma con paradossale spirito umoristico Stevens. Cosa c’è nell’immaginario «paradiso»?, «no change of death», i fiumi scorrono verso nessun mare, i frutti maturi non cadranno mai dagli alberi, le immagini associate con la religione e la vita in un al di là, sono tristi e prive di vita.   Come si vede, una argomentazione dal duplice risvolto, che potrebbe apparire ambigua ma che in realtà è chiarissima ed esposta con un fraseggio colloquiale di grande compostezza e, direi, sostenutezza formale. In alcuni passaggi anche  il lessico di Stevens opta per il desueto e l’arcaico come per sottolineare l’austerità e l’importanza di quanto si viene dicendo. Per Stevens compito della poesia è quello di sostituire in qualche modo il ruolo svolto dalle religioni moderne nel fornire forma e significato alla vita umana («poetry and poets must take the place of religion and priests to provide form and meaning for human life»).

Faulkner, Others Get Book Awards

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 La terza strofe esalta la serena numinosità della religione pagana greco-romana attraverso la figura di Giove a fronte della più democratica religione cristiana; la quarta strofe segna invece il passaggio ad una maggiore consapevolezza: sia la religione pagana che quella cristiana sono opera del passato, sono tramontate per sempre. Nella quinta strofe di nuovo affiora il pensiero della morte e la signora è tentata dal bisogno di una duratura beatitudine. Ogni strofe introduce una variazione e una contraddizione rispetto alla precedente.

Uno dei punti più importanti della poetica di Stevens risiede nella convinzione che la bellezza è preda dell’attimo, della sua transitorietà. Tutti moriamo e tutto cambia, così l’idea della permanenza è una pessima e falsa idea, una illusione funesta che preannuncia l’altra grande illusione del «paradiso».  Cristianesimo, induismo e qualsiasi altra religione che si basi sulla permanenza è una illusione, frutto di un desiderio, una proiezione. La permanenza non è altro che il circolo di vita e morte. Religioni, miti, filosofie, culture sono tutte finzioni destinate ad essere dimenticate. Il poemetto vuole dirci qualcosa intorno alla gioia per la scoperta che l’uomo è un essere tendenzialmente e intimamente gioioso: « this happy creature-it is he that invented the Gods».

istevew001p1 Nella sesta stanza il poeta medita sul luogo chiamato «heaven»: “Is there no change of death in paradise? Does ripe fruit never fall?“. Se i fiumi scorrono ma non raggiungono gli oceani, se i frutti maturano ma non cadono dagli alberi, se c’è solo «beatitudine» e non il suo contrario che solo le darebbe significato e consistenza, ne dobbiamo dedurre che esso non sia propriamente questo luogo della eterna felicità, in esso sarebbe impossibile vivere, esistere, e sarebbe oltremodo noioso, insignificante soggiornarvi.

Wallace-Stevens-Quotes-1 Nella settima stanza Stevens descrive la religione del futuro, il nuovo paganesimo nel quale l’intero universo è fatto oggetto di adorazione, nel quale gli esseri umani saranno uniti in fratellanza, uniti nella convinzione che ogni uomo è transitorio, che anche Gesù  (Dio) è morto, è una figura storica e come tale anch’egli sottoposto alle leggi del mutamento e del ciclo vitale della natura. La conclusione è dichiaratamente panica, liberatoria, gioiosa: una voce si annuncia con queste parole alla signora borghese:

Lei ode, su quell’acqua senza suono,
una voce che annuncia: « La tomba in Palestina
non è un chiostro di spiriti indugianti,
ma la tomba di Gesù, in cui egli giacque ».
Viviamo in un vecchio caos del sole…

(Giorgio Linguaglossa)

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Sunday Morning (Mattino domenicale)

I.
Complacencies of the peignoir, and late
Coffee and oranges in a sunny chair,
And the green freedom of a cockatoo
Upon a rug mingle to dissipate
The holy hush of ancient sacrifice.
She dreams a little, and she feels the dark
Encroachment of that old catastrophe,
As a calm darkens among water-lights.
The pungent oranges and bright, green wings
Seem things in some procession of the dead,
Winding across wide water, without sound.
The day is like wide water, without sound.
Stilled for the passing of her dreaming feet
Over the seas, to silent Palestine,
Dominion of the blood and sepulchre.

I.
Compiacenze dell’accappatoio, caffè e arance,
a tarda mattina su una sedia al sole,
e la libertà verde di un cacatua
sul tappeto si coniugano per dissipare
la sospensione religiosa del sacrificio antico.
Lei sogna un poco, sente l’oscuro
peso dell’antica catastrofe, quasi
una bonaccia che oscura luci d’acqua.
Le arance pungenti e le ali luminose, verdi,
paiono oggetti in una processione di morti,
che s’inoltra su acque ampie, senza suono.
Il giorno è un’acqua ampia, senza suono,
calmata perché lei vada coi piedi sognanti
sopra i mari verso la silenziosa Palestina,
dominio del sangue e del sepolcro.

wallace stevens harmonium
II.
Why should she give her bounty to the dead?
What is divinity if it can come
Only in silent shadows and in dreams?
Shall she not find in comforts of the sun,
In pungent fruit and bright green wings, or else
In any balm or beauty of the earth,
Things to be cherished like the thought of heaven?
Divinity must live within herself:
Passions of rain, or moods in falling snow;
Grievings in loneliness, or unsubdued
Elations when the forest blooms; gusty
Emotions on wet roads on autumn nights;
All pleasures and all pains, remembering
The bough of summer and the winter branch.
These are the measure destined for her soul.

II.
Perché dovrebbe dare le sue sostanze ai morti?
Cos’è la divinità se giunge solo
nei sogni e in ombre silenziose?
Non troverà forse nel conforto del sole,
In frutti pungenti e ali verdi, luminose,
o in ogni balsamo e bellezza della terra
Cose da amare come il pensiero del cielo?
La divinità vivrà dentro di lei:
passioni di piogge, umori di nevicate,
dolori in solitudine o esaltazioni incontrollate
quando il bosco è in boccio; folate d’emozioni
su strade roride nelle notti autunnali;
tutti i piaceri e le pene, ricordando
la fronda estiva e il ramo dell’inverno.
Queste le misure destinate a lei, all’anima.

Portrait of Wallace Stevens Wearing a Suit
III.

Jove in the clouds had his inhuman birth.
No mother suckled him, no sweet land gave
Large-mannered motions to his mythy mind.
He moved among us, as a muttering king,
Magnificent, would move among his hinds,
Until our blood, commingling, virginal,
With heaven, brought such requital to desire
The very hinds discerned it, in a star.
Shall our blood fail? Or shall it come to be
The blood of paradise? And shall the earth
Seem all of paradise that we shall know?
The sky will be much friendlier then than now,
A part of labor and a part of pain,
And next in glory to enduring love,
Not this dividing and indifferent blue.

III.
Giove ebbe un parto inumano fra le nuvole.
Nessuna madre l’allattò, né terra dolce diede
movenze ampie alla sua mente mitica.
Passò fra noi, come un re bofonchiante,
magnifico, passerebbe fra i vassalli,
finché il nostro sangue, unendosi, virgineo,
al cielo esaudì il desiderio a tal punto
che anche i vassalli lo videro, in una stella.
Fallirà il nostro sangue? O diverrà
sangue del paradiso? E sembrerà
la terra tutto il paradiso che sapremo?
Il cielo sarà molto più amichevole che ora,
parte fatica e parte anche pena,
secondo in gloria all’amore duraturo:
non questo blu indifferente e divisorio. Continua a leggere

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