Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel 1940, nel cuore più segreto della Sicilia, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra (1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). Ha ottenuto i premi Ragusa, Pisa, Città di Arsita, Gaetano Salveti, Città di Adelfia, il premio della Giuria al Città di Penne e all’Alfonso Gatto, i premi Montale e Sikania per la poesia inedita. Nel 1980 gli è stato conferito il Davide di Michelangelo, nel 2000 il premio internazionale Ultimo Novecento- Pisa nel Mondo per la sezione Teatro e Poesia, nel 2005 il Premio della Presidenza del Consiglio. Nel 2014 esce con Progetto Cultura di Roma, in un unico libro, la sua produzione poetica, Cinquantanni di poesia. È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010 con la direzione di Sergio Campailla , insieme a Fabio Pierangeli ha tenuto un laboratorio di scrittura creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008, un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.
Nota di lettura di Giuseppe Talia
Essere fedeli a se stessi. Cosa significa oggi la fedeltà ad un proprio statuto di poeta? È una domanda principe. È la domanda che si dovrebbero porre i nuovi o vecchi poeti generazionali, i quali, a dispetto della storia letteraria della seconda metà del ‘900, con lo spartiacque generato da Montale con Satura (1971) e Pasolini con Trasumanar e Organizzar (1971) e l’avvento di Alfredo de Palchi con Sessioni con l’Analista (1967) sulla scena poetica, non hanno avuto altri modelli che le così dette scuole minimali milanesi e romane di Milo de Angelis e di Valerio Magrelli.
Possiamo solo immaginare, e immaginiamo bene, le reazioni di Salvatore Martino agli ultimi due nomi di cui sopra. Martino, che per tutta la sua vita di attore/poeta ha sempre dedicato la sua ars poetica ad un ideale estetico rigoroso, basti pensare alle centoventidue sbarre dell’auto-consapevole prigione “azzurra” del sonetto in cui il poeta indaga, nella forma regolare di terzine e quartine, la Meditatio mortis della poesia di fine secolo. Chiude il cerchio del ‘900, dopo aver cercato di ri-fondare Ninive con la maestranza e l’alto valore etico-estetico in un “atto fondativo”, il riconoscimento di elementi formali e materiali attraverso apposite norme giuridiche di poiesis.
Un tipico esempio di narrazione nevrotica La Fondazione di Ninive, di letteralizzazione della nevrosi, una variegata tassonomia di isterismi, di cortocircuiti del sistema nervoso in generale, in cui il tempo interno (E poi starsene a ragionare… Se sapessi quanto fu lungo…) e il tempo esterno (Quando/piove strade…) si accavallano, si avvicendano l’uno all’altro come il lampo e il tuono.
Scrive Donato di Stasi nella introduzione alla Fondazione di Ninive, “Ardente di classicità, Salvatore Martino continua a occuparsi del regno della crudeltà, indagando la fondazione della capitale assira, Ninive, giocando una straordinaria partita spazio – temporale sulle ceneri della Storia e della civiltà umanistica.”
E quando un Poeta arriva, dopo un lungo percorso, a distillare dal magma di una vita dedicata alle Muse, poesie che concentrano tutta l’energia e tutti i raggi nella kora spettroscopica, allora il lettore consapevole non può esimersi dallo scandaglio che misuri non solo la profondità ma anche lo spessore degli strati, dei sedimenti e dei processi che agiscono nella costruzione del sé poetico.
La massa ha finalmente rapito la poesia
e cosi ci hanno sconfessati.
Questa silloge inedita di Martino è un lascito testamentario, un manoscritto ritrovato nella sabbia:
“Anche se l’errore è sempre dietro l’angolo, ignotum per ignotius, per insidiare una improbabile conoscenza di dare un nome all’amore, gettò le sue mani dentro il Nulla.”
Giorgio Linguaglossa
2 febbraio 2018 alle 9.59
Non c’è dubbio che Salvatore Martino sia stato un poeta che non ha goduto della «visibilità» maggioritria, e pensare che si tratta di un autore di lunghissimo corso, il primo libro, Attraverso l’Assiria, risale al 1969, si tratta di cinquanta anni di poesia, ma è anche indubbio che anche poeti di alto livello come Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher nel secondo novecento hanno goduto di scarsissima considerazione. Il problema posto, quindi, può essere derubricato a non problema, poiché L’Ombra delle Parole non considera tra i suoi criteri di valutazione quello della «visibilità». Per noi tutti i poeti partono, alla staffetta, su un piano di parità ontologica. La differenza la fa la valutazione estetica, solo quella. Certo, è da dire che la poesia italiana dagli anni sessanta non ha aiutato Salvatore Martino nel suo tragitto verso la «poesia», anzi, gli ha frapposto ostacoli, stilistici, politici (di politica estetica), estetici… una lunga storia che il pezzo introduttivo di Mario Gabriele ha fotografato con precisione.
È senz’altro vero quello che scrive Mario Gabriele: «I poeti del Sud, in un certo senso, si sono autoemarginati con la loro poesia, minoritaria e monotematica, legandosi al paesaggio e agli affetti familiari, saturando l’ambiente, tra realtà e mito, all’interno della cosiddetta “civiltà contadina”», ma è senz’altro vero che la rivoluzione del ’68 in Italia ha visto la poesia italiana in una posizione di sfruttamento del demanio, i poeti si sono fatti una casa propria e si sono auto dichiarati poeti, l’antologia di Berardinelli e Cordelli Il pubblico della poesia (1975) fotografava con precisione questa nuova realtà dei «poeti massa» e dei «poeti di fede», che si auto nominavano «poeti» senza aggettivi… mi correggo: con una miriade di aggettivi qualificativi.
Ecco, siamo arrivati al punto dolente: L’impiego degli aggettivi e degli attanti concreti. Se chiedete ad un poeta italiano come si regola dinanzi a questa cosa qui al massimo ti guarda come un marziano.
Il fatto è che ben pochi poeti del secondo novecento si sono posti il problema della de-fondamentalizzazione della «forma-poesia» (intendo dire delle ripercussioni che tale fenomeno ha avuto all’interno della forma-poesia), fenomeno intervenuto in Europa (non so in America ma mi sembra che li le cose non siano state diverse). Ecco una serie di problemi: che cosa significa decostruzione in poesia? Che cosa significa la dis-locazione dell’io? Che cosa significa dis-locazione dell’oggetto? – Ecco, un poeta che non si pone questi problemi è un «poeta di fede», dobbiamo credergli sulla parola, dobbiamo credere che lui sia veramente un poeta anche se non capisce niente di che cosa significa la tridimensionalità in poesia e il quadri dimensionalismo in poesia. Come disse una volta Brodskij: «dal modo con cui metti un aggettivo capisco che tipo di poeta sei».
Non c’è dubbio che Martino metta gli aggettivi in un modo consequenziale e qualificativo, ovvero, unidirezionale come gran parte della poesia italiana del secondo novecento, ma io mi chiedo sempre più spesso se non ci sia un altro modo per infilare nel verso gli aggettivi e i sostantivi, se, insomma, non ci sia una diversa ontologia estetica delle parole, se insomma, i tempi non siano maturi oggi per un Cambiamento radicale del paradigma poetico nella poesia italiana.
Salvatore Martino, Inediti (2018-2019)
Mi chiedono talvolta
perché porto due cerchi d’oro
nella mano sinistra
la mia fedeltà al teatro
– gli rispondo –
la fedeltà alla poesia
*
L’errore si aggira
nel santuario che cercavi
murato nel silenzio
dove attratto
dalle catene del sapere
chiuso dai confini di pietra
dallo scacchiere delle scienze
ti sarà rivelato
il luogo della polvere
*
Caduto ogni pensiero di salvezza
gettò le sue mani dentro il Nulla
felicemente chiuso
in questa delirante soluzione
*
Disseccare le nuvole
era la sua occupazione preferita
perché detestava la pioggia
e sognava che il sole
bruciasse
la tunica delle sue arterie
*
Gli prese lo sgomento
quando gli Dei lo obbligarono
a gonfiare le vele verso casa
abbandonata con gioia da venti anni
per insidiare una improbabile conoscenza
degli altri e di se stesso
del mistero che attiene all’universo
Per tutta la sua vita
aveva tentato invano
di dare un nome all’amore.
Avvicinandosi alla fine
lo chiamerà
l’ignoto con il più ignoto
ignotum per ignotius
… con il nome di Dio.
E barattò gli onori clamorosi
dell’oriente e dell’ovest
per la follia della creatività
*
Due poeti dell’antichità
sospesi sopra una nuvola di cotone:
– Nei nostri Conviti ti ricordi?
si diceva che la poesia
era una rara avis
concessa solo a pochi.
Un falso tutto questo!
Nell’era tecnologica
lo vedi?
una pletora di modesti individui
si professa poeta
e persino creduti
incoraggiati pubblicati.
Fantastico!
La massa ha finalmente rapito la poesia
e cosi ci hanno sconfessati
*
S’innamorò della verità
senza conoscerla
e rimase stordito
quando la stessa
gli pronunciò
il suo inevitabile rifiuto
*
Costruì la sua saggezza
in un quadrante con due lancette
deciso a controllare il tempo
che vegliasse come un cavaliere
il suo oblio desiderato
*
Distrattamente aprendo
la cassa dei giocattoli
Iddio mi confessava:
talvolta credo
di essere ateo anche io
*
Caduto ogni pensiero di salvezza
gettò le sue mani dentro il Nulla
felicemente chiuso
in questa delirante soluzione
*
Distese sulla sua fronte
un velo di oscura conoscenza
perché si perdesse
l’effimero nell’eterno
in una geometria
di concavo e convesso
*
Gli proposero un viaggio
scegliesse lui la destinazione
il battello sul Nilo
l’Apadama a Persepoli
le rovine di Cnosso
Voglio recarmi a Delfi
gli rispose
e sbugiardare l’oracolo e la Pizia
*
Aveva fatto tante volte avanti e indietro
sul pavimento dell’inferno
*
Come quel Genio antico
studiava il volo degli uccelli
sperando che un giorno
la sua anima
potesse contraddire
Newton e la sua gravità
*
Gli prese lo sgomento
quando gli Dei lo obbligarono
a gonfiare le vele verso casa
abbandonata con gioia da venti anni
per insidiare una improbabile conoscenza
degli altri e di se stesso
del mistero che attiene all’universo
*
Se hai il sospetto
di vivere senza scopo
il tuo potenziale nientificante
agghiaccerà l’anima
e la condizione del vivere
raggiungerà quel “nichilismo passivo”
del quale parlava Nietzche
*
Camminava le strade ambigue della sua città
sperando d’incontrare un uomo
calpestato dalla folla
col quale dialogare delle parole
che inquinano i cieli del silenzio
*
A volte temo
che la tragica lezione del nazismo
ci abbia insegnato
la riduzione dell’uomo a cosa
….e oggi la tecnologia
sembra avanzare
sopra questa strada
*
A volte mi chiedeva una penna
e un foglio bianco
così la poesia lo possedeva
*
La strada della conoscenza
conduce alla Cappella Solitaria
dove colui che ti ama
ha inciso la stele della tua condanna
*
Se non vivi della tua stessa stima
ma dell’approvazione degli altri
sarai accessibile
alle insinuazioni dell’anima
che ha forza di seduzione
e astuzia infernale
Per rubare l’espressione coniata da Gianfranco Contini verso Eugenio Montale, direi che è “una lunga fedeltà” questa che oggi Salvatore Martino consacra alle ragioni della poesia e che Giuseppe Talìa e Giorgio Linguaglossa ben colgono nelle rispettive note.
Ma a mio parere, soprattutto se mi rivolgo alla sua prima stagione lirica, la poesia di Salvatore Martino non si assimila nella sua pienezza se non si accostano proprio quei suoi verdi versi a quelli di D’Arrigo e di Cattafi, da un lato, e al senso del passaggio di Benedetto Croce nella Estetica del Novecento poetico italiano, dall’altro.
gino rago
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Salvatore Martino è un poeta di lungo corso che non ha lasciato mai vuoto il Secondo Novecento con le sue opere: un lungometrista autonomo che ha avvertito l’esigenza di scrivere poesia di fronte al continuo ricambio della società e della Storia, maturando la sua preparazione, poetica e stilistica, con la lettura e la frequentazione di poeti stranieri, coltivando amicizie nel mondo dello spettacolo e della cultura. Qui ha assorbito tutte le “occasioni” poetiche prolungate fino ad oggi, riempiendo 50 anni di poesia convogliati nell’Autoantologia di testi dal 1962 al 2013, a cura di Donato di Stasi, per le Edizioni Progetto Cultura. Se ogni poeta ha una propria classe stilistica, dove collocare Salvatore Martino? Il suo è un universo linguistico multiforme e labirintico, di tipo “classico”, divergente da qualsiasi intermezzo sperimentale, non rientrante nel suo Dna linguistico. Lo chiamerei un Aedo, per la moltitudine di storie accumulate intorno a molteplici eventi in cui la liturgia dell’Ombra e dell’Eros sono la sublimazione dell’Essere. Qui sta il vero punto di centralizzazione culturale di Martino come pluridicitore di eventi di lungo respiro, mai un riduttore di parole e di emozioni. Il mutevole non è assorbito dal linguaggio, ma dai fatti che più irrompono nella memoria e nel profondo dell’inconscio. Esiste in Martino un bisogno interiore di accomunarsi con il lettore traducendogli la realtà; il tempo, il punto sovrano e direzionale delle cose, i mesi, gli anni, lo squilibrio della morte e l’armonia della vita, le stagioni, l’amicizia, il chiaroscuro e il buio, immettendoli in un unico canto. Una poesia referenziale? Forse! Ma esiste come canzoniere con quella punta di tristezza che sottolinea la lettura dei suoi versi.
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Ringrazio Talia e Linguaglossa per lo spazio dedicatomi e per lle puntuali osservazioni sulla mia poesia. E ringrazio altresì Gabriele e Rago per le belle parole dedicate ai miei versi. Avrei gradito magari un accenno più dettagliato ai miei aforismi, che peraltro riscuotono scarsissimo interesse presso i frequentatori del blog.
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Salvatore Martino
tra Kavafis e Cattafi, tra visioni, immagini, parole
Konstantinos Kavafis.
Mare al mattino
Possa restare qui. Mirare anch’io un po’ di natura.
Azzurri luminosi e gialli lidi
del mare al mattino e del cielo terso: tutto
è bello e nella luce immerso.
Possa restare qui. E illudermi di vedere ciò
(e davvero li vidi un attimo appena mi fermai);
e non vedere anche qui i miei abbagli,
i miei ricordi, le visioni del piacere.
Salvatore Martino
Allegro ( molto espressivo)
Ritrovi l’azzurro all’improvviso
più aspro il sole in questa valle
e disperato
la terra si squarcia verso il mare
Oltre l’agave in fiore
i templi gli oleandri
le case bianche
contro limoni e aranci
anch’esse divenute una rovina
Riconosci gli odori di lontano
il passo dei carretti dipinti
le braccia spinate dei fichidindia
il tempo immutabile
dentro l’arenaria
Il sud
il mio sud
irripetibile e giallo
dentro il suo sfacelo
e il vento rabbioso di scirocco
l’isola bruciata contro il cielo
Bartolo Cattafi
Di ritorno
Sono stato a lungo in quelle zone
un soggiorno spossante
sono tornato sporco di fuliggine
emaciato
gli occhi troppo sensibili alla luce
potrei lavarmi
tentare di rifarmi
ripartire ancora se ci fosse
un corpo da curare
una piccola base di partenza
e invece non c’è più niente
un grumo rovente di pensieri
e voi stessi non mi capite
perché non è venuto il vostro tempo.
( Nei 3 poeti Kavafis, Martino, Cattafi, ogni lirica sembra essere un esercizio sul filo dello spasimo se non un tentativo di tenere a bada la morte senza tranelli linguistici né trappole verbali ma forti tutti e 3 di immagini nitide a suscitare l’urgenza delle parole, secondo l’idea di Brodskij del rapporto immagine-parola)
gino rago
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Caro Gino sono orgoglioso per questo accostamento a due grandi poeti che hai voluto dedicare ai miei versi.
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La Cina è vicina. La nuova poesia è vicina, accettiamo la sfida del Futuro
cari amici e interlocutori,
siamo alle soglie di un cambiamento radicale del mondo oggi conosciuto, la Cina con i suoi due miliardi di abitanti e una economia in rapidissimo decollo sta mettendo in crisi gli assetti geopolitici ed economici del globo; lo si voglia o no dovremo tutti fare i conti con i cambiamenti geopolitici ed economici che il prossimo futuro, anzi, già il presente ci impone. Non possiamo sottrarci a questa sfida, né possiamo pensare che da sola l’Italia, possa fronteggiare gli eventi per trarli a suo vantaggio. Il Memorandum, ovvero, con il linguaggio pragmatico dell’inglese, l’Understatement, cioè con un linguaggio pseudo giuridico, l’Accordo sui principi non potrà essere evitato: da una parte la CIna con i suoi due miliardi di uomini e donne in multiforme sviluppo, dall’altra l’Italia che tra venti anni sarà sotto i 50 milioni di abitanti, in declino demografico ed economico.
Che cosa pensano di fare i nostri sovranisti che tubano con Orban, Putin, Xi Jinping (習近平, 习近平, Xí Jìnpíng; Pechino, 15 giugno 1953)?, con il Presidente della Lituania e con i Presidente dell’Austria?, di poter fare da soli? di continuare a fare i furbetti?, di mettere nel sacco la potenza cinese? – Che cosa pensano di fare i poeti italiani dinanzi a questi eventi macro storici? Pensano di continuare a scrivere alla maniera dei nipotini della linea lombarda e dei nipotini malaticci dei magrellisti di Roma? Pensano veramente di continuare a coltivare le molcedini del cuore della poesia femminile che va di moda in casa Einaudi e la poesia dei topologisti milanesi di casa Mondadori? Ma davvero siamo diventati così sciocchi da non percepire l’immane sommovimento che i nuovi continenti economici, militari e politici, le novità del nuovo mondo che bussa alle porte del vecchio continente?
Io penso che ormai i tempi siano maturi in Italia per mettersi seriamente a lavorare per una poesia all’altezza dei tempi nuovi e delle nuove sfide politiche, economiche ed esistenziali che la crisi del vecchio assetto dei continenti e delle Potenze occidentali ha determinato.
Il nostro pensiero di una nuova ontologia estetica non è accaduto per caso o per la velleità di singoli o per velleità auto pubblicitarie. Siamo alle soglie di un nuovo mondo che attende ancora la sua nuova poesia.
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Una poesia scritta qualche minuto fa:
Messaggio della Signorina Anais con Risposta di Cogito
dottor Cogito,
devo vedervi per una questione di grande urgenza
il futuro della filosofia tedesca è a repentaglio,
ho bisogno di incontrarLa al più presto,
la prego di venire al caffè Freud alle nove in punto,
domani mattina.
Sua devota estimatrice.
Anais
gentile Signorina Anais,
sono qui, nel giardino sotto casa, annaffio le margherite,
mi creda, è un’occupazione rispettabile e ricreativa.
lo spirito ne guadagna, e così anche l’umore;
delle questioni della filosofia se ne occuperà qualcun altro.
Cordiali saluti.
Cogito
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Beppe Salvia, definitivo.
***
A scrivere ho imparato dagli amici,
ma senza di loro. Tu m’hai insegnato
a amare, ma senza di te. La vita
con il suo dolore m’insegna a vivere,
ma quasi senza vita, e a lavorare,
ma sempre senza lavoro. Allora,
allora io ho imparato a piangere,
ma senza lacrime, a sognare, ma
non vedo in sogno che figure inumane.
Non ha più limite la mia pazienza.
Non ho pazienza più per niente, niente
più rimane della nostra fortuna.
Anche a odiare ho dovuto imparare
e dagli amici e da te e dalla vita intera.
C’è chi, al contrario di me, non dispera,
che con salute e forza e virtù e buona
fortuna, si arrivi a morire dopo
tanti bei giorni, pieni di tantissime
cose di questo mondo o di un altro mondo;
o dopo tanti giorni e quella gioia soltanto
povera dei giorni. Io son felice,
a questo mondo, solo di questo e spero
che a me il destino procuri con le sue
pesti e le pietà e i suoi dolori
un solo giorno più bello di tutti questi
miei dolorosi giorni; o di questo mio
dolore si dimentichi per un solo
giorno.
(Quanto fu lunga la mia malattia,
e tanto amara la mia vita in quella
fu stretta e spiegazzata come un cencio,
e io pallido e stanco come un mondo
intero dovessi sopportar tutto
su la mia schiena, faticavo tanto,
m’immaginavo mondi tutti assai
più lievi e volatili di questo mio,
che tanto m’affliggeva e tormentava,
e vaneggiavo di nascoste verità
e cieli quieti di pensieri chiari
ove più mio l’animo affranto potesse
dimorare, e non trovavo queste
cose che non esistono, e soffrivo)
I miei malanni si sono acquietati,
e ho trovato un lavoro. Sono meno
ansioso e più bello, e ho fortuna.
È primavera ormai e passo il tempo
libero a girare per strada. Guardo
chi non conobbe il dolore e ricordo
i giorni perduti. Perdo il mio tempo
con gli amici e soffro ancora un poco
per la mia solitudine.
Ora ho tempo per leggere per scrivere
e forse faccio un viaggio, e forse no.
Sono felice e triste. Sono distratto
e vagando m’accorgo di che è perduto.
M’innamoro di cose lontane e vicine,
lavoro e sono rispettato, infine
anch’io ho trovato un leggero confine,
a questo mondo che non si può fuggire.
Forse scopriranno una nuova legge
universale, e altre cose e uomini
impareremo ad amare. Ma io ho nostalgia
delle cose impossibili, voglio tornare
indietro. Domani mi licenzio, e bevo
e vedo chimere e sento scomparire
lontane cose e vicine.
Ma oltre queste verità e dentro queste
vuote parole ho perso la misura.
Ora io so soltanto che son seduto
a questo tavolo e che per tanto buone
ragioni ho tempo e odio da spendere.
E mi basta così senza nemmeno
maledire. Non è perdere al gioco,
e poi fa bene vivere. Un’arte
marziale voglio imparare, di che sempre
si possa indugiare di far male.
Un teatro astratto di colpi e pensieri
per i giorni neri. E poi le gioie e insieme
con gli amici far niente.
Viene la sera, è vero, silenziosa
piove una luce d’ombra e come
fossero i nostri sensi inevitabili
improvvisi, noi lamentiamo
una più vasta scienza.
Aver di quella il frutto
appariscente, la bella brama,
e l’ombra perfino, di sussurri
e di giochi, come bimbi.
Ma io lo so Serena io non posso,
in questi tempi segnati dal segreto
di cui s’invade
la nostra intimità,
vivere adesso se non con tale affanno
e così lieve.
Di questo amaro stento già si fa più vero
un sentimento pago di letizia, al modo
che alla sera insieme
andando per le strade
chiare, l’ho visto, d’ombra
e di segreto,
noi siamo tra i perduti lumi
esseri più miti di chi
venuto prima di noi
ebbe solo a soffrire
salvi quasi per caso,
e in questo prodighi.
I baci sono bellissimi doni.
(I versi di Salvatore Martino mi hanno riportato alla mente questi versi, che voglio condividere con tutta l’Ombra)
FL
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caro Lorusso,
ma questo Beppe Salvia è un Corazzini in minore! e con sessanta anni di ritardo!, è francacmente una poesia da archiviare e dimenticare, con tutte quelle svenevolezze e sdolcinatezze e tristezze che rendono insopportabile la sua voce. La poesia di Beppe Salvia è un perfetto esempio di come non deve essere la poesia. Oggi abbiamo bisogno di ben altro! (scusami lo sfogo)
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“La poesia di Beppe Salvia (Potenza 1954 – Roma 1985) nasce nell’arco temporale successivo a Satura di Montale (1971), a cui alcuni critici fanno risalire l’origine, se non la causa scatenante di un’involuzione progressiva, formale e sostanziale, all’insegna di un minimalismo elegiaco e autoreferenziale, della scrittura in versi nell’ambito della letteratura italiana. Per quanto i testi più intensi di Salvia, legati a vicissitudini stilistiche a cui non sono estranee le influenze dello sperimentalismo della neoavanguardia, siano pienamente riconducibili a una matrice lirico-elegiaca, è indiscutibile il valore estetico ed espressivo della sua opera più rappresentativa, Cuore (cieli celesti), a riprova del fatto che gli stilemi critici precostituiti sono spesso inefficaci laddove pretendano ricondurre la storia della poesia a linee guida schematiche e rigide e il giudizio sulle singole opere a categorie sterili e classificatorie.
La scrittura di Salvia è densa, formalmente compatta, profonda. La sua breve vicenda creativa si risolve, nei libri editi, in poco più di un centinaio di testi, tra versi e prose (in prevalenza versi), in cui traspare una filigrana emotiva fitta quanto fragile, sorvegliata da un’intelligenza che sembra voler stringere la presa sull’opera come fosse il riflesso immediato, contingente e precario, dell’esistenza.”
(da una mia nota critica su Beppe Salvia uscita in rete).
Come per Beppe Salvia, anche nel caso di Salvatore Martino la liquidazione sommaria di un’ esperienza creativa e di scrittura di grande complessità formale e contenutistica deve necessariamente essere rivista. Non si tratta di etichettare opere intere come elegiache o passatiste, ma di entrarci davvero criticamente, respirarne la vita e la passione che ne alimentano stile e contenuto. Talìa, Rago e Gabriele, con mia soddisfazione, lo stanno facendo. Forse solo tu, Giorgio, dovresti tornare umilmente su certi schemi classificatori che ti hanno portato e ti portano a liquidare troppo sommariamente opere e autori che non si accordano con la tua visione critica, che ritieni progressiva, quindi a leggere in modo troppo prevenuto l’evoluzione della letteratura italiana degli ultimi cinquant’anni.
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Noto che la manìa di rispondere con i versi è oramai consolidata in questo blog e me ne felicito, poiché la inaugurai io per primo con gram “scandalo” di chi era già da tempo un affezionato al blog stesso.: e che l’eresia sia la mia ragione di vita è oramai nota a tutti e me ne felicito: non una facile opposizione, o un bastian contrario, ecc., ma la sostanza stessa del mio vivere. Ma questo mio modo di dire e di procedere non a tutti è piaciuto – questi tutti poi hanno abusato oltre ogni maniera educativa di questo mio fare che ho donato malvolentieri.
Questo mio punto di vista eretico ha trovato un alleato proprio in Salvatore Martino a cui dedico la mia riconoscenza e stima di certo ricambiata.
———————————
Poco tempo fa sono stato invitato a un Convegno internazionale a Taurisano, dietro Lecce, con gran folla di filosofi d’ogni paese europeo: a me è toccato l’onore di chiudere il Convegno con la mia lettura del mio poema “Tholosae Combustum – MDCXIX – suscitando vere scene di deliquio tra i presenti, perché ho sviscerato nei versi del poema tutta quel “regno della crudeltà” di cui dice Donato Di Stasi: ho dunque tradotto in poesia (lirica) la filosofia atea di Giulio Cesare Vanini, ho superato gli esami dei filosofi presenti, ho ascoltato i loro plausi e applausi, insomma :
“Fantastico!
La massa ha finalmente rapito la poesia
e cosi ci hanno sconfessati”
e ho dunque realizzato questi versi di Martino Salvatore e mi felicito con me stesso, ma innanzi tutto col filosofo salentino che mi ha donato il suo furore!
antonio sagredo
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I versi di Salvatore Martino hanno mille anni. Possiamo continuare così. Oppure, dopo aver tremato per l’uomo nero che si nasconde dietro la tenda della doccia – non per i mariti bianchi che bruciano le mogli – e adesso per la Cina che vorrebbe prendersi il cielo italico con tecniche confuciane di squisito pragmatismo – gridare al lupo al lupo! – Ma la Cina fa politiche millenarie, non nevrasteniche…
Fa bene Salvatore Martino a portare ad esaurimento il suo compito: la brevità è un traguardo, e queste poesie lo dicono chiaramente. Poi verrà il nulla, che è esaurimento o, per meglio dire, rovine, cenci, rimanenze… per tutti, che si abbia coscienza del passato oppure no.
Tempo millenario è anche il tempo in cui viviamo. Ho idea che per comprendere questa dimensione dovremo rivedere la validità della memoria storica; guardare all’oggi con l’affetto che riserviamo all’infanzia. Essere già del tempo a venire.
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E il vecchio leone tornò a ruggire e la tigre del tempo smise per un attimo di sfilacciare il corpo del poeta. Salvatore Martino affila il calamo (e con lui il sottoscritto) e torna a sentenziare sul proprio destino e sui destini deragliati della poesia. Sceglie per questo ritorno sulla scena letteraria la forma di un aforisma straordinariamente liricizzato.
Vorrebbe “disseccare le nuvole”, ovvero sentenzia che il senso non risiede nella facile seduttività della frase a effetto, né nelle lacrime da taschino, ma nell’asciutta consapevolezza che il solo bruciarsi conduce la scrittura dalla banalità del particolare all’unicità dell’universale.
Ecco squadernata la debolezza vera della poesia attuale: difetta di tensione ontologica e si chiude nel periplo ombelicale del vate di turno.
Salvatore non esita a “gettare le mani dentro il Nulla”, perché non teme di fare appello alla verità e di sprofondare il proprio sguardo nell’abisso, aspettandosi che l’abisso faccia altrettanto con lui.
Si dipanano poi altri aforismi con il loro sottotesto di dolore calcificato, di appello a un mondo sempre più sordo: l’ho sempre sostenuto, i poeti ricevono in dotazione due scarpe sinistre e con quelle devono percorrere i sentieri della vita. Lamentarsi serve a poco. In fondo Montale, prima del Nobel vendeva duecento copie; dopo il Nobel, duemila. Se andate in libreria un qualsiasi Carneade vende più romanzi di tutti i poeti del globo terracqueo.
Sono tuttavia convinto che verranno tempi nuovi e nelle varie giravolte della Storia Salvatore Martino e altri meritevoli troveranno il loro giusto posto nel Parnaso.
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La cultura è spazzatura e l’arte ne dipende come la nettezza urbana dall’immondizia. Parlare di contenuto di verità a proposito dell’arte moderna è come parlare di immondizia dello spirito.
L’oggetto dell’estetica è qualcosa che non sta né qua né là. E l’arte non ha modo di acciuffarlo, se non con l’accalappiacani, o l’acchiappafarfalle. In ciò, il concetto di arte è affine a quello delle nuvole. È un concetto rarefatto. È un concetto meteorologico.
L’arte che vuole essere fondazionale, si ritrova ad essere funzionale, perché l’arte non fonda più alcunché tranne la propria metessi con lo spirito fatto di immondizia. Così, l’arte scopre la propria natura meteorologica e merceologica. L’arte suprema è la forma suprema di merceologia dello spirito.
L’arte suprema di Baudelaire ha mostrato che quella «promesse du bonheur» che essa promette è, in realtà, una truffa, in quanto essa è sempre meno sicura della sua esistenza e della sua sopravvivenza nella società delle merci. L’arte però risponde alla propria insussistenza con il ritorno del rimosso, ripresentando ogni volta quella promessa fedifraga sapendo della menzogna ma tacendo. Ed ecco come il silenzio si insinua nella sua struttura con il ritorno del rimosso. Baudelaire ci ha mostrato in maniera indiscutibile quanto quella promessa di felicità sia una truffa dello spirito servile e quanto la pacchianeria sia vicina all’arte nella sua più alta espressione.
«L’oggetto dell’estetica si determina come indeterminabile, negativo. Perciò l’arte ha bisogno della filosofia, che la interpreta, per dire ciò che essa non può dire e che però può esser detto solo dall’arte, che lo dice tacendolo. I paradossi dell’estetica le sono dettati dall’oggetto: “Il bello richiede forse l’imitazione schiavistica di ciò che nelle cose è indeterminabile” (P. Valéry) […]
Il momento ripetitivo del gioco è copia del lavoro non libero, così come la forma di gioco che domina al di fuori dell’estetica, lo sport, ricorda obblighi pratici ed adempie incessantemente la funzione di abituare incessantemente gli uomini alle esigenze della prassi…» (Adorno Teoria estetica)
In una parola, il Bello, concetto arcaico e ingenuo, presuppone sempre la borsa della spesa, la sporta piena di delizie dolciarie da supermarket. Dà l’illusione del piacere dell’immediatezza. E invece è il piacere dell’immondizia. Il momento del piacere nella fruizione di un’opera d’arte, non può essere intuitivo né immediato se non nella forma rozza del realismo ingenuo, che ingenuo non è perché sottoposto alla mimica e alla mimesi del «reale». Quindi, il problema si ripresenta sempre allo stesso modo. E risponde alla medesima domanda: Quest’arte è realistica? È rispondente ai criteri di ciò che intendiamo per realismo?
Il fatto è che nell’epoca del crescente impoverimento dello spirito soggettivo, di fronte al factum brutum dell’obiettività sociale, l’arte è costretta a dichiarare bancarotta e a recedere a ironizzazione dello stile floreale, a parodia dello stile.
Quindi, stabilire che cos’è il «reale» e che cosa intendiamo per reale è sempre prioritario per l’arte che non voglia apparire in funzione decorativa o utilitaristica. Però, l’arte che va a letto con il «reale» recita la parte della concubina fedifraga, e non è neanche tanto seria quanto vorrebbe apparire. Epperò, la poca serietà dell’arte è sorella della sua natura fedifraga.
«Mediante la moda l’arte va a letto con ciò cui è costretta a rinunciare e ne trae forze che si atrofizzano sotto la rinuncia; senza di questa, tuttavia, l’arte non ci sarebbe. L’arte, come apparenza, è il vestito di un corpo invisibile. La moda è il vestito come assolutezza. In questo la moda e l’arte si capiscono» (Adorno, op. cit. p.447)
Direi che la moda è il vestito del corpo visibile, e l’arte di quello invisibile.
«Il concetto di corrente alla moda – moda e arte moderna sono termini linguisticamente affini – è un caso disperato« (Adorno, op. cit. p.447)
Nell’ambito della comunicazione globale, arte e nettezza urbana vanno a braccetto. Quel tanto di spirito soggettivo che trasuda dai suoi belletti, richiama alla mente l’abito della Signora Sosostris.
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Il vento scialbo ha l’occhio vigile pretende
l’allegria a serramanico e
dissangua il cielo scarso.
Lo squarcio è tutto intero, la mina
sull’attenti inafferata.
Per Sagredo e Linguaglossa.
Alé OMBRA.
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Scambio di sms
1- Giorgio Linguaglossa
Messaggio della Signorina Anais con Risposta di Cogito
dottor Cogito,
devo vedervi per una questione di grande urgenza
il futuro della filosofia tedesca è a repentaglio,
ho bisogno di incontrarLa al più presto,
la prego di venire al caffè Freud alle nove in punto,
domani mattina.
Sua devota estimatrice.
Anais
gentile Signorina Anais,
sono qui, nel giardino sotto casa, annaffio le margherite,
mi creda, è un’occupazione rispettabile e ricreativa.
lo spirito ne guadagna, e così anche l’umore;
delle questioni della filosofia se ne occuperà qualcun altro.
Cordiali saluti.
Cogito
2- gino rago
sms per il dottor Cogito e per la signorina Anais
Signorina Anais, Dottor Cogito,
Herr Kammarell ha strappato il saggio su Kleist.
A nessuno interessano
i tre gradi dell’essere nel linguaggio senza parole.
Se si nomina l’enigma
i parlanti si rendono incompensibili
anche se pronunciano fiumi di parole.
Se si pronuncia la parola arcano
quanti sono disposti a credere che è
l’essere stesso dell’uomo
e che vive nella verità del linguaggio.
E che dire del mistero
e della pantomimica messa in scena dell’arcano.
Il poeta rimane senza parole
nel parlare,
muore al mondo per la verità del segno.
Rätsel, Geheimnis, Mysterium
siete Voi due, Dottor Cogito, Signorina Anais.
(gino rago)
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Ringrazio Borghi, Sagredo, Mayor Tosi e di Stasi che hanno commentato i miei versi con indicazioni che mi saranno utili in un eventuale processo creativo.
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caro Salvatore Martino,
non ho commentato i tuoi aforismi avendo preferito soffermarmi sulla tua opera poetica già consolidata. Sai benissimo che per esprimere un commento su un lavoro appena ON AIR, da te apportato su questa Rivista, occorrono ulteriori riconferme e pubblicazioni, a riprova delle tue nuove scelte poetiche,.per non farle apparire, da parte di qualcuno, come Curiosités estétiques. Spero che non ti abbia deluso, e buon lavoro per le prossime presentazioni.
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