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Anna Maria Curci, Nei giorni per versi, Arcipelagoitaca, 2019, pp.  104, € 13,50 Lettura di Giorgio Linguaglossa, Dalla linea elegiaca alla zona neutra dei linguaggi poetici dell’Iper-moderno, La società signorile di massa e la fine del modernismo

Foto Banja Luka, manichini in vetrina

Marie Laure Colasson, foto, manichini in una via di Bruxelles, 2019

Giorgio Linguaglossa

 Dalla linea elegiaca alla zona neutra dei linguaggi poetici dell’Iper-moderno

Il Novecento poetico e culturale,

oltre ad essere stato il secolo delle grandi fratture e delle svolte radicali, è stato anche un’epoca di ribellioni e di subitanee e intense ricapitolazioni di luoghi e di tropi. A fronte dell’intenso sviluppo del pensiero filosofico italiano, la poesia degli ultimi cinquanta anni è rimasta arretrata,  è rimasta attaccata ad un concetto post-modernistico del fare poiesis. È un secolo ancora da esplorare e sottoporre ad esplorazioni cartografiche, a carotaggi stratigrafici, ad un lavoro interpretativo che ne chiarifichi la posizione di cerniera tra il passato «moderno» e l’epoca post-trans-moderna in cui oggi viviamo.

Per un inquadramento del libro di Anna Maria Curci mi corre l’obbligo di fare una digressione sulle due linee di forza stilistiche che hanno coabitato il novecento poetico italiano: la innica e l’elegiaca.

Va detto che il problema della «forbice» tra la componente «innica» rappresentata da Dino Campana e quella «elegiaca» impersonata da Montale, è una escogitazione tattica e strategica di Gianfranco Contini, il quale era interessato, per motivi «politici», a privilegiare la seconda e a dimidiare la prima. L’abilità tattica e strategica del critico consisteva in questo: che questa visione dualistica era stata progettata proprio per obbligare a schierarsi o di qua o di là. Corre l’obbligo di dirlo in modo chiaro e rotondo: questo teorema non corrisponde al vero, o, almeno, non esaurisce il problema della conflittualità tra le linee portanti della poesia italiana del Novecento.

Il punto di vista di Contini, non è da privilegiare, ma da ribaltare.

Ed è quello che io ho tentato di fare con il mio libro titolato La poesia italiana 1945-2010. Dalla lirica al discorso poetico (EdiLet. 2011). A mio parere, la poesia del secondo Novecento e, a ritroso, anche del primo, va vista da questa prospettiva: il progressivo processo di trasformazione della «lirica» e della «anti-lirica» in «discorso poetico», l’abbassamento del linguaggio poetico al piano del parlato e lo spostamento delle tradizionali tematiche paesaggistiche della poesia post-ermetica in direzione delle tematiche urbane, psicologiche ed esistenziali.

Applicando questa prospettiva dicotomica continiana alla poesia italiana del secondo Novecento, accade, dopo la pubblicazione di Satura (1971) di Montale, il dissolversi della linea cosiddetta «elegiaca» di imprimatur continiana. Ecco le parole con cui Agamben riassume la questione: «L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini».

L’identificazione di una «linea elegiaca dominante» è un atto critico che si può, anzi, a mio avviso si deve ribaltare nell’altra linea propulsiva da me proposta: che va dalla lirica al discorso poetico. In questa prospettiva vedremo che il teorema assodato da Contini viene  ad essere caducato (come ad esempio quel giudizio di Contini su Andrea Zanzotto considerato come «il più grande poeta dopo Montale», che rispondeva alla esigenza strategica di dimidiare la novità impersonata dalla neoavanguardia in nome della continuità della «linea elegiaca»). Zanzotto viene valutato come il più grande rappresentante dello sperimentalismo «elegiaco» del secondo Novecento, che trova il suo apice ne La beltà del 1968. Corrisponde al vero che dopo quella data lo sperimentalismo italiano entra in crisi irreversibile e si produce un fenomeno di dislocazione delle «isoglosse» di continiana memoria; avviene che non sarà più possibile identificare una «linea elegiaca dominante» perché si assiste alla polverizzazione dei «modelli», alla disseminazione dei linguaggi poetici, dei «mini canoni», alla privatizzazione e alla tribalizzazione delle tematiche e dei generi poetici derubricati in scritture privatistiche (esemplare è l’opera di Patrizia Cavalli, Le mie poesie non cambieranno il mondo, del 1974). Fenomeno questo squisitamente post-modernistico che sarà bene tenere a mente quando si affronta il problema della valutazione della poesia del tardo Novecento e dei giorni nostri.

Al momento, ritengo che ci troviamo ancora all’interno di questo grande rivolgimento dei linguaggi poetico-mediatici, all’interno del più grande rivolgimento costituito dal villaggio globale. Penso che non siano un caso la disseminazione e la prosaicizzazione dei linguaggi poetici e che esse siano avvenute in contemporanea con l’emergere di una economia planetaria interdipendente tra tutti i paesi del globo. Il Logos poetico non può non avvertire al suo interno questo gigantesco processo extralinguistico.

Anna Maria Curci replica come può a questa situazione di crisi,

di disseminazione e di narrativizzazione dei linguaggi poetici e delle tematiche ricorrendo alla struttura più classica: la quartina privata della rima e opportunamente prosaicizzata. Il libro infatti è costituito da 173 quartine nelle quali il dettato classicistico si giustappone al lessico moderno, in tal modo l’autrice romana riesce a condurre il discorso poetico su due piani non ribaltabili e non risolvibili in una pacificazione stilistica, riesce cioè a mantenere a distanza di sicurezza i due discorsi: uno più segreto e nascosto, l’altro più manifesto e visibile. Operazione squisitamente, ancora una volta, post-modernistica. Andare «per versi» in tempi «perversi», è questa la consapevolezza che muove l’autrice romana che trae le conseguenze stilistiche da questa impostazione, infatti avviene una liquefazione delle tematiche tradizionali della poesia di queste ultime decadi: lo psicologismo, il privato, l’orfismo, il topologico, l’oggettoalgia. Ecco, tutte queste tematiche vengono emulsionate e posticipate a data a venire, emerge la consapevolezza che la poesia non può che confrontarsi con la zona «neutra» dei linguaggi poetici di oggidì.

Il problema è che oggi non è più possibile attingere ad una tradizione poetica stabile. Oggi una operazione poetica consapevole è costretta a reinventarsi la realtà (che è una nostra costruzione semica e semiotica del reale), e a reinventare ogni volta di nuovo la quadratura stilistica; non si può fare altrimenti, perché si entra in collisione con la realtà promulgata dalla omologia dei media e della cultura mass-mediale. Realtà (reale) e poesia si pongono così su piani contrapposti ed estranei. Tra i due contendenti non si dà via  di mezzo, non è possibile alcuna conciliazione o pacificazione stilistica.

C’è qualcosa. C’è la crisi.

C’è la crisi che tutti attraversiamo come si attraversa una piazza ventosa. Ci diciamo: «il vento è questa cosa che diciamo crisi, che ci ostacola e ci sospinge indietro», e andiamo avanti. Il nostro andare è un andare contro vento, ma in modo inconsapevole. Ci siamo talmente accostumati a questo vento che ci ostacola e ci imbriglia, e non vediamo più il vento che sempre più forte ci colpisce con le sue raffiche.
«Crisi» in greco significa problema, ostacolo. Ma se non rimuoviamo l’ostacolo la crisi continuerà ad imperversare e a stordirci e a sfibrarci. Più pensiamo in modo positivo che il vento prima o poi cesserà, più pensiamo male e ci inganniamo. E facciamo il gioco della «crisi».

E allora, dobbiamo guardare bene in faccia questa «crisi» e indicarla, chiamarla con il suo nome e cognome. Dobbiamo rimuoverlo questo «ostacolo» che fa «problema». La nostra risposta è una nuova poesia che ha tagliato il cordone ombelicale con la vecchia poiesis e con la recitazione dei Nando Gazzolo e degli Alberto Lupo che mescidano pathos ed epifania. La nuova poesia non potrà più contenere né pathos né tantomeno epifania. Infatti, la poesia della nuova ontologia estetica è inter-fanica per eccellenza, questo penso lo abbiano capito i lettori, ed anche inter-patica. È una poesia raffreddata, ibernata, posta sotto refrigerazione. Anche questo penso sia chiaro.

Anna Maria Curci fa una poesia senza-pathos e senza-epifania. Bene.  Ma resta pur sempre all’interno di quel recinto che si voleva frangere. Una epifania desublimata e raffreddata resta pur sempre una epifania.

È questa una buona occasione per ribadire il nostro augurio per una poesia inter-fanica e inter-patica di là da venire.

Dopo la fine della metafisica rimane la tecnica.

Penso che dobbiamo guarire la ferita che la tecnica ci ha inferto con la medesima tecnica, impiegando il principio della omeopatia. Dobbiamo diventare omologi o omologisti. Fare del luogo della poesia un territorio omologo a quello della tecnica.

Il luogo che la poesia dovrà pensare è, dice Heidegger, der Sache selbst (la Cosa stessa). E qual è questa cosa misteriosa che la poesia deve pensare dopo la fine della metafisica? Risponderei che è il Dentro, ciò che deve essere dentrificato, e il Fuori, ciò che deve essere fuorificato.

«La società signorile di massa» e la fine del modernismo

Oggi, per scrivere poesia veramente «moderna» bisognerebbe porsi in ascolto di ciò che siamo diventati dopo la fine del modernismo. La crisi economica che da diversi anni sta sconvolgendo le economie occidentali ci induce a riflettere sugli esiti indotti dalla crescita economica degli ultimi decenni del novecento, su quella bolla speculativa che ha contaminato l’esistenza di centinaia di milioni di persone qui in Occidente. La risposta a questa crisi la poesia la deve e la può dare con i mezzi della poesia, non ricorrendo a stentorei squilli di tromba. L’epoca delle avanguardie e delle retroguardie è finita da cento anni almeno, bisognerebbe prenderne atto.

Oggi che il modernismo si è esaurito, è chiaro che non si può procedere oltre di esso senza avere chiaro il quadro di riferimento storico, ideologico e stilistico che aveva costituito le basi del modernismo. Il modernismo, che era il prodotto del mondo occidentale in disfacimento che aveva condotto alle tre guerre mondiali, oggi ha più che mai voce in capitolo dato che siamo entrati nella IV guerra mondiale in uno stato di belligeranza diffusa e di apparente normalità. Nelle città dell’Europa occidentale si vive in uno stato di apparente tranquillità, ma il senso di minaccia è ovunque, c’è inquietudine, insoddisfazione, impoverimento degli strati sociali della classe media, impoverimento culturale. Questa situazione sbocca in personalismi di massa, in sovranismi, in xenofobia, nella ricerca di un uomo forte che risolva tutti i problemi.

Oggi le DemoKrature di Orban, Putin, Erdogan,  Salvini, del regime della Polonia, della repubblica ceca, delle repubbliche baltiche rappresentano la risposta in sede politica della crisi del modernismo e delle democrazie dell’occidente dell’Europa.

La crisi del modernismo

La crisi del modernismo si riflette anche all’interno della struttura della forma-poesia: la poesia si cannibalizza, si personalizza, si privatizza, diventa lo specchio dell’autore, della sua vita privata, delle sue ubbie, delle sue idiosincrasie, delle sue nevrosi, si assiste ad un processo di privatizzazione di un genere letterario che invece è stato per secoli pubblico e pubblicistico. Si tratta di problemi estetici e non estetici di enorme portata, soltanto affrontandoli si può sperare di uscire fuori della crisi della poesia e dalla crisi del modernismo. Il privatismo della poesia di oggi è la non risposta a queste grandi questioni che sono sul tappeto.

«La società signorile di massa», come l’ha definita un economista italiano, è una società in via di imbarbarimento e di impoverimento, segna la fine del modernismo.

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Lucetta Frisa POESIE SCELTE da Nell’intimo del mondo – Antologia poetica (1970-2014), puntoacapo, 2016 con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Oggi è il «rivestimento» che significa il «contenuto»; Poesia dichiarativa questa di Lucetta Frisa; Narrare in condizioni postmoderne; Fine del modernismo

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 Lucetta Frisa è poeta, scrittrice, traduttrice. I suoi libri di poesia più recenti:  Se fossimo immortali (Joker 2006), Ritorno alla spiaggia (La Vita Felice 2009), L’emozione dell’aria (CFR  2012), Sonetti dolenti e balordi (CFR, 2013), Nell’intimo del mondo. Poesia 1970-2015 (Puntoacapo, 2016). Ha tradotto vari autori francesi, tra cui due libri di Bernard Noël (Artaud e Paule, 2005 e L’ombra del doppio, 2007), Alain Borne (Poeta al suo tavolo,  2011 ), Claude Esteban (Qualcuno nella stanza comincia  a parlare, 2015), tutti per l’editrice Joker di cui cura la collana I libri dell’Arca insieme a Marco Ercolani. E inoltre: Henri Michaux (Sulla via dei segni, Graphos, 1998), Pierre-Jean Jouve, James Sacré e Sylvie Durbec. Suoi testi in riviste (Poesia, L’Immaginazione, Pagine, Nuova Prosa, Italian Poetry Review ecc.) e in antologie: Il pensiero dominante (a cura di F.Loi e D.Rondoni, Garzanti, 2001), Genova in versi (a cura di S. Verdino, Philobiblon 2003), Trent’anni di Novecento (a cura di Alberto Bertoni, Book 2005),  Altramarea (a cura di A. Tonelli, Campanotto 2006), Voci di Liguria (a cura di Roberto Bertoni, Manni 2007), Poems from Liguria (in trad.inglese) a cura di R. Bertoni (Trauben 2007). Collabora a diversi siti web, tra cui “La dimora del tempo sospeso” e “Perigeion”. Ha pubblicato molti racconti per ragazzi sul quotidiano Avvenire. In prosa ha scritto Sulle tracce dei cardellini (2009) e La Torre della una Nera e altri racconti (Puntoacapo,2012). Insieme a Marco Ercolani l’epistolario fantastico Nodi del cuore (Greco & Greco, 2000), Anime strane (ibidem, 2006, trad. in francese nel 2011), Sento le voci (La Vita Felice, 2009, trad. in francese nel 2011) e Il muro dove volano gli uccelli (L’Arcolaio, 2013).  

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Ieri sono andato al supermercato qui sotto casa mia, a San Paolo (Roma). Ho visto due magnifiche caffettiere per fare il caffè con il «rivestimento» in colori metallici: verde elettrico e azzurro elettrico. Le ho comprate entrambe, una per me e una per un dono ad una amica. L’effetto di quei colori elettrici mi ha stregato. La stessa forma della caffettiera: ottagonale, magnificava i riverberi dei colori metallici. In realtà, ho acquistato le due caffettiere non per le loro proprietà intrinseche quanto per i colori sgargianti e le forme ortogonali che rispecchiavano e moltiplicavano la luce riflessa dai colori elettrici. È l’effetto della diffusione dell’estetico che anestetizza la percezione. L’effetto delle luci diffuse e moltiplicate dell’odierno design attutisce le capacità critiche della ricezione.
Ecco, società liquida, colori elettrici, design. La formula vincente.

Oggi è il «rivestimento» che significa il «contenuto»

Oggi è il «rivestimento» che significa il «contenuto». La «forma» equivale al «rivestimento». La «forma» è diventata un significante. E quello che doveva essere il significato si rivela essere un altro significante… cosicché l’uno moltiplica l’effetto dell’altro. Si ha un effetto moltiplicatore. Un effetto di specchi.

Così come nel Dopo il Moderno non c’è più un discorso poetico nomologico, oggi si accede con agilità alla «forma commento» in quanto  essa permette quella «leggerezza» tanto divulgata da Calvino, che oggi è diventata un anatema e una jattura. Quella «leggerezza» delle forme estetiche si è rivelata un morbo, un virus prepotente e invasivo che ha svuotato dall’interno le «Forme estetiche» e contro il quale non c’è antibiotico che possa combatterlo.

La stessa idea di «rivoluzione» estetica propria delle avanguardie (e con essa l’annessa idea dell’utopia), è passata dalla forma solida a quella liquida e da questa alla forma gassosa, è evaporata nello spazio di un mattino. I comunardi sparavano agli orologi durante la Rivoluzione francese, oggi  si gioca con le poesie come con il «tempo». Oggi, lo dico senza ironia, l’unica forma di composizione poetica «possibile» sembra essere quella di Vivian Lamarque, di Valentino Zeichen e di Valerio Magrelli: forme gassose, abitate da enunciati ironici e da mottetti di spirito, abilitate al consumo privatistico, voyeuristico…

Poesia dichiarativa questa di Lucetta Frisa

Poesia  dichiarativa questa di Lucetta Frisa. Stile neutrale, quasi oserei dire funzionale alla sua dizione poetica; un impianto linguistico che assimila lo spettatore al lettore e il monologo al «vestito» linguistico, che tende alla forma monologica per sua intima, innata pulsione quale segnale, spia del perché il silenzio rumoroso sia oggi, nel Dopo il Moderno, la collocazione ideale, ubiquitaria, del discorso poetico chiuso, sigillato nel suo bronzeo cofanetto con una triplice serratura, dentro il sarcofago che la cultura del Novecento ha predisposto per la «poesia».

Si comprende allora come il discorso poetico di Lucetta Frisa tenda a prendere le distanze dalla connotazione del «poetico» così come lo abbiamo frequentato nel recente Novecento: come super modellizzazione del linguaggio funzionale, ed ambisca ad una campitura narrativa. Infatti, la conduttura metrica della poesia frisiana adotta il verso «libero», con il suo moto prosastico, con l’a capo che aziona il freno a mano, la rima assente, la non paronomasia, la non metafora, la non sinonimia, la non catacresi, etc. Tutto ciò contraddistingue questa poesia e la connota come accortamente prosastica. Tutti gli strumenti della retorica sono stati lasciati cadere nel pozzo senza fondo di una tradizione naufragata, quella del secondo Novecento… Quello che rimane è un frasario «impuro», «sporcato», colto nella sua aseità: «Se esiste la chiave di tutti i libri», sarà in qualche luogo non-luogo, remoto assai sembra asserire la Frisa; e affiorano gli incipit che replicano alla normatività del discorso assertorio-suasorio:

Portatemi via conducetemi disse alle parole
che la attendevano scalpitando davanti alle porte spalancate
e chiuse gli occhi…

Echeggiano, qua e là, explicit catartici. Tuttavia, è la normatività dello stile monologico-protocollare che invade la pagina:

Da qualche parte c’è grandezza
la cerco fuori dall’alfabeto c’era negli atomi
mi sono detta quando ero lì sul divano…

foto-donna-macchina-e-scarpa.

Narrare in condizioni postmoderne

Nel 1979 il filosofo francese Jean-François Lyotard dà alle stampe un pamphlet di circa un centinaio di pagine, tratto da una ricerca sul «sapere» commissionata in origine dal governo canadese, che diventerà decisivo per la storia delle scienze umane in generale e della filosofia in particolare: La condizione postmoderna.

La tesi di base è nota: Lyotard sancisce la fine della modernità, facendola coincidere con l’impossibilità di porre mano – per il filosofo come per lo storico della cultura e delle civilizzazioni – a una «grande narrazione», cioè a una storia che possa essere «macrostoria», vale a dire una storia complessiva e comprensiva della civiltà. Lyotard, con ironia e semplicità, sostiene che, alla luce del «secolo breve» e delle acquisizioni dello strutturalismo, ogni tentativo di ricostruzione che voglia dire la totalità sull’uomo e dell’uomo ricade inevitabilmente nella violenza della totalizzazione, e nell’ingenuità di una descrizione che non può, costitutivamente, rendere giustizia a ciò che è stato detto, fatto, pensato, narrato, costruito, reso arte, immaginato nella sua molteplicità e irriducibilità ad unicum.

Ogni narrazione è una prospettiva, che ha una storia e una geografia concreta e delle premesse (più o meno) inconsce, che la condizionano inevitabilmente dall’origine. Pensare di liberarsene è illusorio e tracotante: siamo consegnati irrimediabilmente e irriducibilmente condannati al «frammento».

Quest’idea è stata una determinante portante per più di un trentennio all’interno delle scienze umane europee, e un costante avversario teoretico (il che ne attesta la diffusione e, in qualche modo, la legittimità anche se in forma negativa) per quelle di origine, metodologia e stampo anglo-americano. Tuttavia, dovremmo farcene una ragione.

lucetta-frisa-antologia-copFine del modernismo

Oggi, per scrivere poesia veramente «moderna» bisognerebbe porsi in ascolto di ciò che noi siamo diventati dopo la fine del modernismo. Forse, la crisi economica che da diversi anni sta sconvolgendo le economie occidentali ci induce a riflettere sugli esiti indotti dalla crescita economica dei decenni trascorsi, su quella bolla speculativa che ha contaminato anche l’esistenza, qui in Occidente, di centinaia di milioni di individui. La risposta a questa crisi la poesia la deve e la può dare con i mezzi della poesia, non ricorrendo a stentorei squilli di tromba… l’epoca delle avanguardie è finita da cento anni almeno, bisognerebbe prenderne atto.

Oggi che il modernismo si è esaurito, è chiaro che non si può procedere oltre di esso senza avere chiaro il quadro di riferimento storico e ideologico che aveva costituito le basi del modernismo. Il modernismo, che era il prodotto del mondo occidentale in disfacimento, che aveva condotto alle tre guerre mondiali, oggi ha più che mai voce in capitolo dato che siamo entrati nella IV guerra mondiale in uno stato di belligeranza diffusa e di apparente normalità. Nelle città dell’Europa occidentale si vive in uno stato di apparente tranquillità, ma la minaccia è ovunque. Ben venga dunque una poesia della «normalità apparente» come questa di Lucetta Frisa, che ha sentore che quella «normalità» è finta, fittizia, prodotto di una illusione ottica.

The only way of expressing emotion in the form of art is by finding an “objective correlative”; in other words, a set of objects, a situation, a chain of events which shall be the formula of that particular emotion; such that when the external facts, which must terminate in sensory experience, are given, the emotion is immediately evoked… The artistic “inevitability” lies in this complete adequacy of the external to the emotion.

(T.S. Eliot, The sacred wood)

Credo che per troppo tempo abbiamo dimenticato questo principio e ci siamo limitati a scrivere dei bei pensieri poetici, dei mottetti di spirito che però non potevano trasmettere emozioni in quanto non costruiti con la formula del correlativo oggettivo ma con la scatola acustica del pensiero lineare, prosastico, unidirezionale… in una parola, informazionale.

Per concludere: la poesia è qualcosa di inassimilabile alla informazione.

 

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Lucetta Frisa

Piccola antologia portatile

Essere soli è essere nell’intimo del mondo.
Antonio Ramos Rosa

.
da I miti, le leggende
(Rebellato, 1970)

.
Se esiste la chiave di tutti i libri
sarà come cedere ostaggi e arrestare
la tela affannosa del ragno. A volte
la guerra finisce e chi è morto
infine morrà travolto da nuova crociata
perché san Michele è venuto col fuoco
su tutte le torri. E ancora il tarlato
scrivano fedele alla storia si annoda
in calligrafie e corre sopra le righe
il bianco messaggio irreversibile.

.
L’altra

.
(introduzione di Attilio Lolini, Manni 2001)
Portatemi via conducetemi disse alle parole
che la attendevano scalpitando davanti alle porte spalancate
e chiuse gli occhi
e partirono verso un’altra lingua che non si poteva raccontare
o raggiungere,
forse solo dentro il sogno di un cane.

.
Da qualche parte c’è grandezza

.

Da qualche parte c’è grandezza
la cerco fuori dall’alfabeto c’era negli atomi
mi sono detta quando ero lì sul divano
a guardare le figure del cielo in un libro pensando
al Big Bang e noi siamo qui in questo cielo notturno
dopo celebrazioni e sepolture
celebrazioni e sepolture volendo
qualcosa d’altro ancora e chiamando gli atomi dentro di noi
sole e luna padre e madre
siamo
nell’emisfero australe con la Piccola Nube di Magellano
o nell’emisfero Nord
dimmi
in quale fibra nervosa siamo
adesso in questo momento
il creato è un attimo di concentrazione
poi ho voltato pagina.
da Siamo appena figure
(G.E.D. Biblioteca della Ciminiera, 2003)

.
L’astronomo
Vermeer Van Delft

Fuori
infinito e abisso
attendono di entrare.
Qui
spazio e corpo uguali
si muovono se mi muovo
si fermano se mi fermo:
brividi di luce e gelo
mi turbano appena le idee.
Sordo a qualunque rumore
se non a quello dei fluttuanti numeri
appoggio la mano sulla sfera.
So le mie tortuose finzioni
per approdare in un luogo dove le curve
da pianeta a pianeta
da teorema a teorema
riposano
rotonde
in questa liscia luce di luna.
Gli scricchiolii del legno
le incrinature del vetro
la polvere
dicono che il vuoto è entrato anche qui
lasciandomi a più fini torture.
Da questa trincea lo tengo stretto
e qualche affilata ipotesi sospende
la mia scomposizione.

.
da Se fossimo immortali
(postfazione di Mauro Ferrari, Joker edizioni, 2006)

.

Terzo autoritratto notturno

Mi vedo camminare nel mio lungo corridoio
senza scarpe a testa bassa congedandomi
dal giorno schiacciandolo coi piedi e in pochi passi
saluto tutti i bei luoghi non visitati
creature e cose amate non amate poi mi siedo
sulla poltrona di mia madre a sentire il suo odore.
Mentre cammino cammina anche il mondo
sento intorno il suo fremito
storie intrecciarsi con il loro fracasso
e un punto esatto di quella strada diventa un fosso, si spacca
il bel pavimento a cera ma io non volo giù, resto lì in piedi.
So che in fondo al corridoio lo specchio al buio continua
a raddoppiarmi sdoppiarmi e fa di me ciò che vuole ma
io non lo guardo mi vedo mentre non lo guardo guardandomi
muovere i piedi.

.
Da Ritorno alla spiaggia
(nota critica di Gabriela Fantato, Milano, La Vita Felice, 2009)

.
Spiaggia dell’Ariana

Gaeta, settembre 2001

Dicono i mistici
che più siamo vuoti e più ci rischiara la luce.
Sul morbido fondo del mare
il guizzo di piccoli pesci
muove solari triangoli
nell’acqua bassa.
Scatto una foto ai miei piedi e ai pesci
e alla mia ombra che entrerà nell’intreccio.
Essere vuoti
è il passaggio nella camera oscura?

Non so se questa pace me l’hai data tu o il tempo
oppure tu in accordo col tempo o il tempo con te
proprio come accade
in un’idea molto antica di armonia.

Non vogliamo leggere il cammino degli astri
ma i pensieri affacciati
sul fondocielo dei bicchieri.
Una folla infantile che saluta
prende il profilo sfatto delle nuvole
poche e bianchissime.
Sentiamo tutto lontano andato via
oggi, in un mezzogiorno di settembre
dentro un globo di vetro fermi
e fuori la neve cade sempre
o si alzano gli spruzzi delle onde.

La luce soffice del dormiveglia
è una penombra che ci sfuoca.
Si è cercato umilmente
il senso oscuro
seguendo sempre un’idea di luce.

Se è l’ultima pagina la leggeremo insieme
penso a uno dei quadri che ci piacciono
con luci di striscio, barocche, la lucerna
sui libri e pochi oggetti intorno.
Non abbiamo più fretta: tutto è qui.
Poco a poco ce ne siamo accorti
accostando sogni e matite
come sotto il banco a scuola
non delusi – non ancora troppo –
dalle nostre illusioni.

L’alluce proprio sul filo della schiuma
tocca il regno del mare, l’infinito è
proprio in quel punto d’alluce
che rabbrividisce si ritira indugia
entra.

L’anteprima dolce della morte
è il viaggio attraverso il sonno
di noi due distesi sulla sabbia
l’uno nelle braccia dell’altro.
Negli antichi sarcofagi gli sposi
stanno affrontando il nulla
tenendosi per mano.
Non è triste, anzi, ridendo
incrociamo carezze sulle braccia.

Sono tranquilla troppo tranquilla.
Vorrei due cuori identici
uno morto l’altro vivo
per affrontare il reale
con passione e indifferenza
parallele.

La luce apre il mare
lo richiude il buio
ed è lo stesso mare siamo
le stesse persone
più indifferenti o turbate
dai trucchi diurninotturni.

Nel controluce
ci guardiamo con gli occhi socchiusi
come per scattare una foto:
nessuno in giro
neppure il mare
vogliamo esserci solo noi
noi senza il pensiero della fotografia
(se la luce è alle spalle
se è la più densa del tramonto
se il tuo sorriso di adesso
è quello da ricordare.)

Chiudo le palpebre per entrare
in me improvvisamente notturna
non domandarmi dove sto andando
sono luoghi di troppo buio –
ma forse in qualcosa a metà
sollevato e laterale
come quando ci parliamo noi due
sentendoci stretti, vicini.

Per la prima volta ho sognato mia madre.
Aveva il prendisole bianco
le ho detto fai qualche passo
verso di me voglio fotografarti.
Nell’attimo dello scatto
tu mi hai svegliato.

Sulla spiaggia non leggi
nella borsa gli asciugamani
i libri chiusi le ciabatte ferme
le sigarette che non hai fumato:
dormi.
Infine ti sei concesso
solo a te e a quest’ora meridiana
senza démoni tremito e parole.
Nessuna terra in vista, nessuna nuvola o nave.

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DIECI POESIE di Mario Santagostini da “Felicità senza soggetto”(2014) con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Mario Sironi periferie

Mario Sironi periferie

Mario Santagostini è nato a Milano, dove ha sempre vissuto, nel 1951. Fra le sue raccolte di poesie ricordiamo: Uscire di Città (1972, 2012) Come rosata linea (1981), L’Olimpiade del ’40 (1994), L’idea del bene (2001), Versi del malanimo (2007). Ha inoltre scritto il saggio Manuale del poeta (1988).

Milano Mario Sironi paesagio urbano

Milano Mario Sironi paesagio urbano

Commento di Giorgio Linguaglossa

Ut «pictura poesis», dicevano gli antichi pagani. E Leonardo ha scritto: «La pittura è una poesia muta e la poesia è una pittura muta». Questo semplice assunto ci porta dentro la problematica di che cosa debba raffigurare una poesia. Ecco il punto. Ed è molto semplice la risposta. La poesia deve adottare il punto di vista della pittura, deve raffigurare l’oggetto come se esso fosse un oggetto da dipingere linguisticamente, con le risorse della Lingua. Per alcune ragioni storiche che non sto qui a sintetizzare, la poesia italiana del secondo Novecento ha perduto questo concetto rimanendo impaniata nello pseudo concetto di “meta-poesia”, cioè di un discorso fatto su un altro discorso…(il che sarebbe un bene a patto che ci sia un discorso che precede o a latere). E così via all’infinito la poesia si è amputata le proprie possibilità espressive riducendosi ad un discorso di secondo grado, e poi di terzo grado e così via… ma era (ed è) una falsa strada che non conduce in alcun luogo e che perde di vista l’orizzonte di senso e l’obiettivo dell’oggetto del «che cosa dire in poesia», che è necessariamente diverso dal «che cosa dire in prosa».

Czeslaw Milosz ha scritto: «Certe scene dei film di Fellini e di Antonioni sembrano la traduzione di una poesia, spesso di una poesia di Eliot: basti citare la stanza dell’intellettuale ne “la Dolce Vita” di Fellini, che sembra tratta dal “Canto d’amore di J. Alfred Prufrock” (In the room the women come and go / Talking of Michelangelo); e poco importa che autore o regista abbiano preso in prestito il tema direttamente o indirettamente. In tal modo anche le persone più digiune di poesia finiscono per riceverla, in forma facilitata, dal teatro o dal cinema…».

domenico morelli ritratto di giacomo leopardi

domenico morelli ritratto di giacomo leopardi

Ho visto di recente il film di Martone sul “Giovane favoloso” Giacomo Leopardi. Bene ha fatto il regista a tradurre la poesia di Leopardi in immagini filmiche. Non poteva fare diversamente. Ma è vero anche il contrario, si può tradurre una immagine flimica o fotografica in poesia, basta essere consapevoli dell’operazione che si sta facendo.

Ecco, io ritengo che la poesia di oggi possa ricominciare appunto dalle immagini dei film, della fotografia, delle immagini mentali, della pittura etc. Perché ha perso il bandolo del senso, il «che cosa fare e dire» in poesia e mediante la poesia, che è cosa diversa dal «che cosa fare e dire» in prosa.

E questo è probabilmente il modo migliore per riallacciarci alla più alta tradizione della poesia europea degli anni Venti e a quella del tardo Novecento Europeo. Oggi che il Modernismo si è esaurito, è chiaro che non si può procedere oltre di Esso senza avere chiaro il quadro di riferimento storico e ideologico che aveva costituito le basi del Modernismo. Il Modernismo, era il prodotto di un mondo (occidentale) di stati nazionali in competizione e in disfacimento e aveva accompagnato quel mondo alle tre guerre mondiali. Quel Modernismo oggi non ha più alcuna validità dato che siamo entrati nella IV guerra mondiale tra continenti con economie interdipendenti in uno stato di belligeranza diffusa e di apparente normalità. Nelle metropoli dell’Europa occidentale si vive in uno stato di apparente tranquillità, ma la minaccia è ovunque, diffusa, invisibile. Ben venga dunque anche una poesia della normalità (apparente), purché si abbia consapevolezza che quella normalità è finta, fittizia, ideologicamente locataria della ideologia totalitaria dell’omologismo.

mario sironi paesaggio urbano 1921

mario sironi paesaggio urbano 1921

Poiché avevo un dubbio, ho trascritto in prosa, per i lettori, (cioè senza l’a-capo), le prime sei composizioni di Santagostini, e mi sono accorto che funzionano meglio in prosa che in forma-poesia. Il che, in sé, non vuole essere una osservazione limitativa. La resa in prosa forse aggiunge e non toglie nulla alla resa in forma-poesia.

da Mario Santagostini Felicità senza soggetto Specchio Mondadori, 2014

L’ex comunista

Sono tornato a Cinisiello,
una domenica afosa.
Un motocarro scoperto portava via un cane.
Questa è stata zona operaia.
E io ero, come tanti, comunista.
E pensavo a un avvenire
senza il lavoro, a quando i corpi
ci sarebbero serviti a poco,
quasi a niente. Sono
arrivato a chiedermi di cosa è fatto
un corpo, se merita
soltanto la vita, o già altro.

[Sono tornato a Cinisiello, una domenica afosa. Un motocarro scoperto portava via un cane. Questa è stata zona operaia. E io ero, come tanti, comunista. E pensavo a un avvenire senza il lavoro, a quando i corpi ci sarebbero serviti a poco, quasi a niente. Sono arrivato a chiedermi di cosa è fatto un corpo, se merita soltanto la vita, o già altro].

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Arietta

Ci si ritrovava al bar
all’aperto tra la Breda e via Metauro.
Chi giocava al pallone
contro il muro, o stanava serpi,
o andava per cicute
tra le rotaie dismesse e senza traversine.
Provato come tutti dalla noia
una specie di reduce
esibiva il suo mancinismo
smodato, mi diceva – Tu,
che farai almeno
un miracolo, prima di morire.

[Ci si ritrovava al bar all’aperto tra la Breda e via Metauro. Chi giocava al pallone contro il muro, o stanava serpi, o andava per cicute tra le rotaie dismesse e senza traversine. Provato come tutti dalla noia una specie di reduce esibiva il suo mancinismo smodato, mi diceva – Tu, che farai almeno un miracolo, prima di morire].

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(Pascoli, in prima persona)

E c’erano i colloqui
uomo-rondine,
uomo e rondine e anche te, tuono.
Quando ci racconti
che la scala di Giacobbe
non portava alla lotta con l’Angelo,
ma con le tempeste.
O fai che il volo di due tortore
sia basso, da insetti.

[E c’erano i colloqui uomo-rondine, uomo e rondine e anche te, tuono. Quando ci racconti che la scala di Giacobbe non portava alla lotta con ’Angelo, ma con le tempeste. O fai che il volo di due tortore sia basso, da insetti].

mario santagostini copertina

 

Coda

E come sarà il primo gabbiano
in volo sulle discariche?
Forse, una creatura
ignobile, e attratta dal pattume.
Ma disposta a tutto,
pur di raspare qualcosa.
L’amatissimo Ovidio vedeva gabbiani
dai becchi ferrati.
Eppure, rimanevano in aria.

[E come sarà il primo gabbiano in volo sulle discariche? Forse, una creatura ignobile, e attratta dal pattume. Ma disposta a tutto, pur di raspare qualcosa. L’amatissimo Ovidio vedeva gabbiani dai becchi ferrati. Eppure, rimanevano in aria].

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Arietta delle vespe

Era già luglio, ma qualcuno
riusciva ancora
a sentire gli ultimi temporali di aprile, come
solo le vespe sanno fare
(specie quando si riposava nel pergolato,
ci sentivamo vespe).
Quel qualcuno era Pascoli.
Però che errore, il suo,
il continuare credere ai morti.
Io ho smesso da anni.
Ma quell’uomo beveva.

[Era già luglio, ma qualcuno riusciva ancora a sentire gli ultimi temporali di aprile, come solo le vespe sanno fare (specie quando si riposava nel pergolato, ci sentivamo vespe). Quel qualcuno era Pascoli. Però che errore, il suo, il continuare credere ai morti. Io ho smesso da anni. Ma quell’uomo beveva].

mario santagostini

mario santagostini

Io

Seduto al bar di viale Sarca,
guardavo il giovane cercare un passaggio
verso la camionabile,
dei muti al tavolino quando
si scambiavano segni, e uno diceva
– tra non molto, anche qui.
Gli altri assentivano.
E intorno, solo delle mosche.
Mi sono chiesto se c’è qualcosa
di meglio che essere vivo.

[ Seduto al bar di viale Sarca, guardavo il giovane cercare un passaggio verso la camionabile, dei muti al tavolino quando si scambiavano segni, e uno diceva
– tra non molto, anche qui. Gli altri assentivano. E intorno, solo delle mosche. Mi sono chiesto se c’è qualcosa di meglio che essere vivo].

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Io, appendice. In piazza Tirana, forse nel ’63

C’è chi ha già rubato
tutto il rame del tram ridotto
a carcassa smetallizzata.
Certo, non dovrebbe mai succedere,
però è così. Amen.
Intorno, la passione per quanto
è dismesso ha toccato
l’apice. Si sente che nemmeno
la materia ama finire.
E delegherebbe me a farlo, se potesse.
O l’intera massa umana.

Mario Sironi paesaggio urbano

Mario Sironi paesaggio urbano

Io, nel 1970. Premessa

Era il ’60, qualcuno
parlava di sterminate domeniche.
L’Olona non era stata
ricoperta. Si sentivano le radio
da argine a argine.
L’odore dell’acqua oleosa di benzina
arrivava fino ad uno, due isolati
più lontano. Anche allora, vapori d’agosto nei cortili.
Pensavo: non amo me stesso,
amo questi anni,
la loro felicità senza soggetto.

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(Io, nel 1970)

Ieri, lunedì, sono arrivato
a piedi oltre il dazio,
e ho camminato lungo il Seveso.
C’erano delle vanesse
dal volo sghembo e raso dopo due tuoni in fila.
Ho pensato che le pietre
sanno fare a meno della vita.
Mi chiedo fino a quando.
Forse, il mondo esiste solo
per dare loro la parola, un giorno.

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(Nuovi versi del malanimo)

L’aria è povera d’ozono,
buona solo per i grilli.
Animali sciatti, e in fuga da tutto.
Hanno il loro mondo:
che se lo tengono stretto.
Certo, qui una volta si creava,
poi si è passati al vivere.
Adesso, aspettiamo.

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