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Ingeborg Bachmann, Poesie da Non conosco mondo migliore, con una Nota del traduttore, Silvia Bortoli, con Appunti critici di Steven Grieco Rathgeb e Giorgio Linguaglossa

paul celan ingeborg bachmann

Ingeborg Bachmann e Paul Celan, anni sessanta

Nota del traduttore

I testi della Bachmann* raccolti in questo volume sono prevalentemente abbozzi e frammenti in origine non destinati alla pubblicazione e che non sono passati al vaglio di una cura critica. La loro natura di appunti sparsi, spesso vergati frettolosamente a mano, a volte oscuri, crea non poche difficoltà di lettura, ma ha il grande merito di mostrare la poesia nel suo farsi, nel suo andare a tentoni, trasportando un’immagine o una parola da un testo all’altro, alla ricerca di una destinazione che spesso sarà altrove, in un’altra opera più compiuta e significativa, ma che ha inizio qui, nell’abbozzo e nel tentativo: Questi testi, spesso interrotti, spesso raggrumati in parole dalle quali balugina un senso che resta nascosto e che traspare altrove in modo ancora incompiuto, sono tuttavia di grande interesse perché ci mostrano il laboratorio della poesia di una grande figura della nostra modernità.

Traducendoli ho scelto di seguire il testo senza chiuderne il senso lì dove un’interpretazione troppo esplicita lo avrebbe forzato in modo arbitrario, cercando di offrire una traduzione compiuta ovunque fosse compiuto o largamente plausibile, e accettandone invece la precarietà e la frammentarietà dov’era precario e frammentario, accompagnandolo nella sua incompiutezza anche quando poteva risultare stridente.
Non ho voluto caricare la traduzione di note che per essere esaustive avrebbero dovuto essere moltissime; chiunque conosca un poco la lingua tedesca potrà verificare sul testo originale difficoltà, incongruenze e il modo in cui ho cercato di risolverle.

Tradurre un testo la cui trascrizione è in molti punti ancora incerta e provvisoria non può che essere una proposta, un primo tentativo. In questo primo tentativo mi è stata di grandissimo aiuto Rita Svandrlik, che mi ha confortata nei miei infiniti dubbi con la sua profonda conoscenza della poesia della Bachmann: a lei va tutta la mia profonda gratitudine. Se nonostante il suo aiuto puntuale e generoso vi sono degli errori, la responsabilità è solo mia.

[ndr. Queste poesie sono state scritte a Zurigo, Berlino e Roma, le ultime tappe della vita della Bachmann, nel periodo tra il 1962 e il 1964, alcune anche più tardi]

(Silvia Bortoli)

da Ich Weiss keine bessere Welt, Non conosco mondo migliore, Guanda, 2004 trad. di Silvia Bortoli

Steven Grieco-Rathgeb

21 luglio 2016

 “La realtà acquista un linguaggio nuovo solo tramite uno scatto morale… si ha linguaggio nuovo ogni qualvolta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tenta di rinnovare la lingua in sé, come se essa fosse in grado di far emergere conoscenze e annunciare esperienze che il soggetto non ha mai posseduto. Se ci si limita a manipolare la lingua per darle una patina di modernità, ben presto essa si vendica e mette a nudo le intenzioni dei suoi manipolatori.”

Forse noi non useremmo più la parola “morale” in questo contesto. Ma invece la parola è perfetta nel suo senso di “misura”. La parola subito successiva è “conoscitivo”. E qui sta tutto il senso di quello che la poetessa vuole significare: “immorale” giocare con la lingua, “morale” cercare nella lingua una via di uscita dall’atroce e irrisolvibile dilemma del crimine nazista (che in verità solo un lunghissimo tempo può sanare).
Ricordiamo che questa poetessa ha sofferto la storia e il Nazismo quasi quanto Celan.
E Anna Ventura ha un po’ ragione, la poesia di Bachmann è stranamente fredda, talvolta potente, altre volte quasi incapace di risuscitare dal distacco quasi ossessivo da se stessa, dal rifiuto di ogni scrittura che infine diventa scrittura.
E c’è anche in lei un forte rifiuto dell’immagine come evocazione, come spinta per raggiungere una sponda salvifica, un luogo che purifica l’animo. In questo lei appartiene alla schiera di poeti quali Rozewicz, per cui valeva il famoso dictum di Adorno sulla poesia dopo Auschwitz.
Rozewicz ce l’ha fatta, con il suo tenace istinto di sopravvivenza, a superare i terribili anni 1945-1980. La Bachmann no.
Sicuramente lei, austriaca e di lingua e cultura tedesca, ha pagato con la vita l’essere nata fra quel popolo.

Appunto critico di Giorgio Linguaglossa

Scrive la Bachmann:

«Ho smesso di scrivere poesie quando m’è venuto il sospetto di ‘esserne capace’ anche quando non c’era la necessità di scriverne. E non ci saranno più mie poesie, almeno fino a che non sarò convinta che debbano essercene di nuovo, e allora saranno solo poesie talmente nuove da corrispondere veramente a tutto quel che sarà stato esperito fino a quel punto.»[1]

Per la Bachmann la scrittura poetica si configura come esperienza esistenziale, ricerca di parole autentiche. La poesia è un modo di essere, un fare, una praticaun aprire la soggettività alla irruzione di pulsioni, ritmi, parole che implicano e significano la distruzione del linguaggio poetico convenzionale e la creazione di una nuova soggettività in grado di aprirsi al nuovo linguaggio poetico.

La pratica della scrittura poetica è questa assillante fedeltà al farsi e disfarsi dei versi, lavoro minuzioso e diuturno  alle correzioni, alle frasi tronche, lavoro sugli incipit che si ripetono e si riprendono lungo il farsi del linguaggio, è questo lo stadio aurorale del nuovo linguaggio, un linguaggio più aderente alle necessità espressive della ricerca esistenziale. «La loro natura di appunti sparsi […] ha il grande merito di mostrare la poesia nel suo farsi, nel suo andare a tentoni […]. Questi testi, spesso interrotti, a volte raggrumati in parole dalle quali balugina un senso che resta nascosto e che traspare altrove in modo ancora incompiuto,  […] ci mostrano il laboratorio della poesia di una grande figura della nostra modernità.»[2]

Sono scomparse le mie poesie. / Le cerco in tutti gli angoli della stanza./ Per il dolore non so come si scriva / un dolore, non so in assoluto più nulla.// So che non si può cianciare così,/ dev’essere più piccante, una pepata metafora. / dovrebbe venire in mente. Ma con il coltello nella schiena […]// Adieu, belle parole, con le vostre promesse.

In questi versi della Bachmann si profila chiaramente la crisi del linguaggio poetico convenzionale. Cercare le parole senza prima aver aperto la soggettività ad una nuova dimensione spirituale ed esistenziale significa perdere contatto con il linguaggio. Per la Bachmann il linguaggio poetico o lo si ha o non lo si ha, lo si può acquisire soltanto tramite un lungo viaggio di ricerca esistenziale.

[1]  Ingeborg Bachmann, In cerca di frasi vere, Colloqui e interviste a cura di Christine Koschel e Inge von Weidenbaum, tr. it. di Cinzia Romani, Laterza, Bari 1989, p. 57.

[2]  V. Nota del traduttore in Ingeborg Bachmann, Non conosco mondo migliore, cit., p. 4 (corsivo mio).

Ingeborg Bachmann Hans Werner Henze 1952

Ingeborg Bachmann Hans Werner Henze 1952

Poesie di Ingeborg Bachmann da Non conosco mondo migliore (poesie scritte tra il 1964 e il 1967)

La tortura

Chi mangia col mio cucchiaio
chi dorme nel mio letto
chi spende il mio denaro
Ama, chi si gode
il mio sole? E dov’è questo sole?
È lontano.
Infatti io
sono dove
non posso essere.
Ah, lo permette chi
per un breve attimo di anni
non mi ha
amata, lo permette,
non vedete amici
non lo vedete
che dappertutto
incomincio a scavare la mia
mia tomba,
anche in questa carta in-
cido il mio nome e
penso che non vorrei riposare
ancora, che non risposerò
mai, che
persiste, questo ferro
nel corpo, questo pugno sul
cranio, questa frusta
sulla schiena, che fa
scoppiare il Kurfurstendamm
in una risata stridula,
da mille réclame
grida, che il caffè bollente
mi viene versato sulla
mano, che mi tolgono
la pelle, che mi
tagliano la carne,
mi spezzano le ossa,
e mi murano viva,
allora un piccolo squalo sega
allora salto in acqua,
mi divora, mi
divora uno squalo più grande
un pesce predatore che
si chiama dolore.
E io dondolo la testa
senza capirlo. Laggiù
una nave, passa,
la vedo, voi la vedete amici?

*

Ich trete aus mir
hervor, aus meinen Augen
Handen, Mund, ich
trete hervor aus
mir, Gute und Göttlichem
die diese Teufeleien
gut machen Muss,
die geschehen sind

*

Esco fuori da me,
dai miei occhi
mani, bocca,
esco fuori da
me, una schiera
di bontà e divino
che deve rimediare
alle malvagità
accadute

Gloriastrasse

Per sorella Ammeli

In un letto
in cui sono morti molti
senza odori, in camicia bianca
curati, come una
conversazione infinita,
in una casa in cui
si mangia puntualmente, in cui
la padrona di casa
si chiama morte e molti di più
soffrono ancora. E in molte migliaia
hanno versato il deposito

Nell’estasi della morfina
tra i dolori che
non richiedono nessuna ferita,
nessun inchino, nessun
autografo, nessuna umanità
nessun trionfo, un folle spettacolo che grida vendetta [ – – ]
Tra visite
visite, ma
visitatemi
voi che gridate vendetta

Nel vuoto, quando il
telefono non squilla mai, quando
la conversazione sterilizzata
somministra dosi, supposte, fasciature,
gocce, dosi, dolore che
però non ha dose,
Quando c’è un’unica parola
che a volte un poco
una fessura dell’inferno
ha aperto, sorella, e sorella,
E un viso
ha che ti da
da bere,
e tu ti chini
sulla sua
mano e non
osi dire
quale opera buona
tra le infime
è la più grande,

Gloriastrasse

La grazia morfina, ma non l’opera buona di una lettera.
Domande, massime a fin di bene di amici e sconosciuti.
Arrivano fiori via Fleurop. Un interminabile
telegramma richiede presenza, lontano, chissà perché

Visitatori siedono, condannati, sulla sedia dei visitatori, raccontano
guardando intensamente l’orologio davanti alla sputacchiera e alla vernice chiara,
sputano fuori la buona volontà e una vecchia battuta.

È uscito un nuovo studio sui cacciatori di teste.
Averlo sottomano e già le mani prudono.
La visita importante, introdotta dal camice bianco. dalla notte
è in piedi nella stanza, sola e solleva il bisturi, sempre la notte.

Nel tale e tale anno di questo letto ortopedico, nell’anno della fama
delle vie piramidali e delle eredità dei due sistemi nervosi.
del liquor uno e trino, con cui vengono nutrite le colombe dell’odio,
nel midollo, che resterà,
nel liquor uno e trino e nel midollo, che resterà,
e cosa fonderà la mia fama, e cosa la fama, cosa la fonderà,
qui dove mi alzo in piedi e dico alle mie province, mie
province, voi aspettate, e aspettate dove?
Nel midollo che mi resterà, nel tremore
di questa mano, io lo eseguo, io uccido, io
estraggo il mio cuore da me, lo spedisco
più lontano, è un muscolo selvaggio, dicono,
batte e sbatte le porte e
batte
dove non sono, mi trovano
nella pozzanghera in cui nuotano riso e sapienza.

e cercano un cuore, nelle piccole sfere,
nei tubi di vetro, in una melma di
sangue e una vomitata a fatica una
rigurgitata tra aghi e
bottiglie e bende,
cercano
cercano, il camice bianco cerca,
visita, e io gli regalo
vuoi? voglio
regalarti il tuo cuore.

Tessiner Greuel

Ich hatte da ein schönes Haus.
Dann wurde der Zugang gesperrt.
Die Kleider habe ich aus dem Staub
habe ich aufgehoben, einem armeren geschenkt,
die Bloss Kleider brauchen.
(Steht mir nicht, kein Zynismus.)

Enteignet, Zugug gesperrt.
Baustellen, keine Einfahrt.
Kleider nachgeworfen, ein
Teller dazu, danke gesagt,
obwohl wegen harter Erdberuhng
alles zerbrochen.

Bluhender Bezirk, auf
der Durchreise ein totes Kind,
rash beerdigt, wegen Sommergasten.
In den prachtigen Obstgarten
haben die Freunde sich rechtzeitig
zu Ruhe gesetz.

Orrore ticinese

Avevo una bella casa.
Poi è stato vietato l’accesso.
Dalla polvere ho raccolto i vestiti
raccolti, regalati a uno più povero,
di quelli che hanno bisogno solo di vestiti
(Non mi dona, niente cinismo.)

Espropriata, accesso bloccato.
Lavori in corso, vietato l’ingresso.
Lanciati dietro i vestiti, un
piatto in aggiunta, detto grazie,
benché per il duro impatto sia andato
tutto in frantumi.

Quartiere fiorito, durante il
passaggio un bambino morto,
sepolto in fretta, causa ospiti estivi.
Nei frutteti magnifici
gli amici sono andati in pensione
per tempo.

*

Ich bin ganz wild von
Tod, von dem Taft –
rauschen, von
den Wasserruschen,
ich trag ihn schon
angezogen, das kleine
Kraglein, damit das
Beil weiss, wo mein
Kopf vom Körper
zu trennen ist. Hab ich
das noch, Kopf und
Körper, oh nein,
so tausch ich del Tod,
ich habe meinen Kopf
verschenkt, hingegeben
an die Meute, aber
meinen Körper hat
niemand gehabt, der
wurde am Eingang zuruck-
gewiesen. Ein Herr sagte
mir, sagte nicht einmal, das

*

Vado davvero pazza per la
morte, il fruscio
del taffetà, le
ruches dell’acqua,
l’ho già indosso,
il piccolo colletto,
perché
la scure sappia
dove va staccata
la mia testa dal corpo. Li ho
ancora, testa e
corpo? oh no,
così inganno la morte,
ho regalato
la mia testa, l’ho gettata
al branco, ma il mio corpo
non l’ha avuto nessuno,
all’ingresso l’hanno
respinto. Un signore mi ha detto,
non ha detto neppure, questo

Ingeborg Bachmann cover

Veder nero

Arriva il giorno in cui si vede nero
si fa colazione coi morti
dalla finestra sale la nebbia
tu [ – – ] la chiave perduta

Giorno in cui si vede nero
la colazione con il lezzo scialbo favorisce pensieri di morte
dalla finestra sale la nebbia.
la mattina è spezzata da chiamate
intercontinentali e pensi tremando
al lavoro (Ma quale?)
Fai qualche commissione e corri a perdifiato
per la città. Mezzogiorno [ – – ] dolori
e stanchezza, pranzo per noia
e a minuti il sole. Vorresti
amare qualcuno ma nessuno di «loro»,

 

Anni di lutto

Gli anni non passano, c’è sale
nel caffè e sul pane imburrato,
dev’essere questa la ragione.
I miei vicini malati, neppure a loro
si può portare aiuto,
suonano, non posso aprire,
aspetto qualcun altro.

 

Addio

La carne, ben invecchiata con me,
la mano di pergamena che teneva fresca la mia
deve poggiare sulla coscia bianca,
la carne ringiovanire, a tratti,
perché più rapido si faccia qui il declino.
Sono arrivate in fretta le linee, un po’ infossate,
già tutte sulla muscolatura soda.

Non essere amati. Il dolore
potrebbe essere più grande, sta bene colui la cui porta si chiude.
Ma la carne, con la linea di sfondamento sul ginocchio,
le mani grinzose, tutto accaduto nella notte,
la scapola disfatta su cui non cresce un filo d’erba,
Una volta ha tenuto nascosto il viso.

Invecchiata di cent’anni in un giorno.
Sotto la scudisciata l’animale fidente
ha perduto
l’armonia prestabilita.

 

Memoriale

Gli oggetti
il cestino del pane
l’abbiccì del mattino
e le due tazze
conosci ancora l’abbiccì
del mattino
chi ti porge la mano
oltre il tavolo
dov’è tenuto in serbo?

Nelle mie notti insonni
disinfesto la casa
coi chierichetti
do sempre le mance
e tengo
lontane le tempeste
il temporale si scatena ancora
solo nei miei ricordi
arriva la nettezza urbana
e lava un vicolo
che porta in alto
ma le tue mani sul mio
collo e la terra dei fiori
sul mio viso,
qualcuno chiama la polizia
io invoco il cielo
perché si allentino le mani
che soffocano le mie grida

Cos’è successo al mio
giardino, chi ha
strappato i miei fiori,
quelli azzurri soprattutto, che
stavano per fiorire,
e forse i miei bambini
li avrebbero visti.

Ingeborg Bachmann

Ingeborg Bachmann

Ingeborg Bachmann (1926-1973) nasce in Carinzia, nel cui capoluogo, Klagenfurt, trascorre l’infanzia e l’adolescenza. Dopo i primi studi, negli anni del dopoguerra frequenta le università di Innsbruck, Graz e Vienna dedicandosi agli studi di giurisprudenza e successivamente in germanistica, che conclude discutendo una tesi su Martin Heidegger, dal titolo “La ricezione critica della filosofia esistenziale di Martin Heidegger”. Il suo maestro e’  il filosofo e teoretico della scienza Victor Kraft (1890-1975), ultimo superstite del Circolo di Vienna. Al tempo degli studi ha modo di intrattenere contatti diretti con Paul Celan, Ilse Aichinger e Klaus Demus. Diviene redattrice radiofonica presso l’emittente viennese “Rot-Weiss-Rot” (Rosso-Bianco-Rosso), per la quale compone la sua prima opera radiofonica, Un negozio di sogni (Ein Geschäft mit Träumen, 1952). È tuttavia in occasione di una lettura presso il Gruppo 47 che si ha il debutto letterario. Già nel 1953 riceve il premio letterario del Gruppo 47 per la raccolta di poesie Il tempo dilazionato (Die gestundete Zeit). In collaborazione con il compositore Hans Werner Henze produce il radiodramma Le cicale (Die Zikaden, 1955), il libretto per la pantomima danzata L’idiota (Der Idiot, 1955) e nel 1960 il libretto per l’opera Il Principe di Homburg (Der Prinz von Homburg). Nel 1956 vede la pubblicazione invece la raccolta di poesie Invocazione all’Orsa Maggiore (Anrufung des Großen Bären), conseguendo il Premio Letterario della Città di Brema (Bremer Literaturpreis) e iniziando un percorso di drammaturgia per la televisione bavarese. Dal 1958 al 1963 Ingeborg Bachmann intrattiene una relazione con lo scrittore Max Frisch. Nel 1958 appare Il Buon Dio di Manhattan (Der Gute Gott von Manhattan), insignito l’anno successivo del Premio Audio dei Ciechi di Guerra (Hörspielpreis der Kriegsblinden). Nel 1961 vede la luce la raccolta di racconti Il trentesimo anno (Das dreißigste Jahr), contenente numerosi elementi autobiografici e a sua volta insignito dal Premio per la Critica della Città di Berlino (Berliner Kritikerpreis). Nel 1964 le viene consegnato il premio Georg Büchner (Georg-Büchner-Preis), un anno prima della pubblicazione del saggio La città divisa (Die geteilte Stadt, 1964), ed e’ la stessa repubblica austriaca a onorarne il valore intellettuale e creativo conferendole nel 1968 il Premio nazionale austriaco per la Letteratura (Großer Österreichischer Staatspreis für Literatur). La produzione di Ingeborg Bachmann prosegue con la pubblicazione nel 1971 del romanzo Malina (Malina), prima parte di una trilogia concepita sotto il nome di “Cause di morte” (Todesarten) e trasposta nell’opera cinematografica di Werner Schroeter interpretata da Isabelle Huppert, Mathieu Carrière e Can Togay nel 1991. Solo in forma di frammenti rimangono tuttavia la seconda e la terza parte, Il caso Franza (Der Fall Franza) e Requiem per Fanny Goldmann (Requiem für Fanny Goldmann). Dopo che ancora nel 1972 viene data alle stampe la raccolta di racconti Simultan (Simultan), a cui viene attribuito il Premio Anton Wildgans (Anton-Wildgans-Preis), un incendio avvenuto durante il soggiorno nell’appartamento romano nella notte tra il 25 ed il 26 settembre 1973 la porta alla morte, che avviene il 17 ottobre. Ingeborg Bachmann e’ sepolta dal 25 ottobre 1973 nel cimitero di Klagenfurt-Annabichl. A lei è dedicato oggi il concorso letterario che annualmente si tiene nella città natale in coincidenza della ricorrenza della nascita.

 

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Alejandra Alfaro Alfieri, Quattro poesie da Poesie ultime –  Osip Mandel’štam, Sull’Ellenismo, Sulla differenza tra «oggetti» e «cose» – Commenti

Gif Fellini

Alejandra Alfaro Alfieri è nata a Buenos Aires nel marzo del 1989. Cresciuta in Perù, si è poi trasferita in Spagna e in Italia, dove si è formata come operatrice sociale e dove studia Sociologia, presso l’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma. Ha pubblicato, oltre a vari testi in antologie italiane, il prosimetro De la mente al corazón (“Dalla mente al cuore”), la raccolta di poesie Profunda Eternidad (“Profonda Eternità”), il libro Creadora de un vínculo poético universal, scritto a quattro mani col poeta spagnolo Tomás Morilla Massieu. Ha diretto la “Revista cultural Puertos” di Lima, Perù. Attualmente sta lavorando al suo primo romanzo: El guardián de su verdad.

Alejandra Alfaro Alfieri

Quattro poesie da Poesie ultime

 X.

 Mi dovevo nascondere.
Chissà perché quel luogo era così vasto
ma il posto che io scelsi non lo era abbastanza
per poterlo fare.
Arrivavano feroci i criminali al passo,
sentivo le loro voci.
La suola calpestava ogni mio fiato disperato.
C’era tanta luce fuori, una volta anch’io la vidi
e così era ancora più difficile trovare un angolo dove
non potessi essere mai trovato.
Li sentivo correre, non so se da dietro, vicino o lontano
erano già intorno a me,
sotto un sole infiammante – perfino il colore dell’inferno
era più debole

Io mi sentivo di morire pian piano mentre percorrevo quel corridoio,
illuminato dal nero della lampada al neon
verso la porta di fuga.
Lontano da loro. Lontano da tutti quelli
che non hanno mai compreso
né sono riusciti mai ad interpretare nemmeno nei sogni
che cos’è il personaggio della morte.
La morte dell’amore
dove persino il pensiero è prigioniero di se stesso.
Neanche scomparire potrebbe alleviare questa festa,
interiore, alla rovescia.
Lasciatemi uscire [casomai entrare] non ho più un posto sicuro
per nascondere il dolore.
Avanti bestie, fatevi avanti, prendete il mio corpo
io sono morto.

Gif porta girevole

Senza titolo (in distici)

Quella danza selvaggia entrò, passo dopo passo, un pugno in faccia.
Ho perso tempo – una, due e ancora un’altra volta – Cancellate quella versione,

vi prego.
C’è la luna nel salone – la vedi?

Una luce nel riflesso – osservo col binocolo la recitazione.
In fondo a sinistra, dietro l’angolo, prima dell’attaccapanni,

finalmente, lì seduto, lui appoggiò l’anima
sulla spalliera della sedia.

Lui, in piedi, Lei a parlare, l’uomo invece era pronto a sparare.
Chissà dove nascondeva tutte quelle armi

o perché le portò a casa mia, mi chiedo…
«Vado di fretta», disse…

– la sceneggiatura cinematografica –

Dove avete nascosto il cadavere?, urlava in testa la donna.
Ogni giorno una nuova follia sulla riga del copione,

la ragazza dalle bretelle pronta per combattere
Sta facendo gli esami, adesso torna indietro,

chiede di entrare nel racconto di Iosif
Il titolo è appeso sull’appendiabiti

accanto al cappotto grigio dai bottoni quadrati,
la sceneggiatura restò aperta

tra le mie braccia.
Le mie mani divelsero scure sopra il suo golf nero.

L’assassino degli occhiali restò lì fermo, impassibile,
davanti a me per ricordarci.

che gli sguardi non hanno parole per mentire.
Proprio dietro i suoi cristalli lui ci guardò.

Ritornerei a quella scena,
scommetto che l’ha dimenticata – Lo ammetta!

Se la ricorda?
I giorni come i sassi fanno finta di scontrarsi l’uno con l’altro davanti al mare,

vengono spinti in riva
nonostante da lontano si senta il rumore

di quella guerra
Il regista ha finito il suo lavoro.

C’è un giardino che cresce dentro questa stanza,
glielo dica a quel malvissuto: «Provi a trovarla,

se l’aspetta fuori, lei se ne andrà,
uscirà dalla scena».

Alejandra Alfaro Alfieri volto monocromo

Alejandra Alfaro Alfieri

Il paradigma dello specchio

 III.

I passi, l’uno è sospinto dall’altro, vanno così
insieme, avanti.

Secondo il calzolaio ogni suola porta uno specchio.
Qui si riflette la propria vita.

Lungo la strada si affacciano da un lato diritto all’altro
Quello che rimane indietro fallisce.

Te lo ricorda il monologo che parla dietro la scarpa.
Non esiste un tempo che possa attendere

si va in scena senza paradiso.
«Ma se soltanto mi fermassi giusto per aggiustarmi?»

Guarderei da vicino per poter capirne di più.
Da lontano uno specchio mi fissa, e si frantuma.

l’agonia domina le lacrime di cristallo, cadono in giù.
È arrivato il colpevole! – «Si guardi

nello specchio rotto, la prego».
Fu il passo prematuro, ignoto e immaturo

– «Non sono stato io!»
Passo di fretta; è rimasta la ferita riflessa

sul petto dello specchio.
Davanti alla salita chiede di sfuggire a quel riflesso,

ma nessuno guida la sua barca,
accanto rimane stesa la stessa cornice di parole attaccata al piede

senza un tramonto.

L’incidente

Un minuto di pausa. Il tempo per contraddire la realtà.
Non si torna indietro, non si può.

Tante mani comparivano dal buio intorno
al soccorso, e io rinunciai.

Nessun pensiero era oramai per me.
Il volume delle voci nella mia coscienza – «ma quanti siete?».

È rimasta in ginocchio la signorina con la pelliccia nera.
«Non voglio alzarmi – cos’è successo?».

Chissà se ci sarebbe stato in carne e ossa
fuori dai miei sogni o avrebbe abbandonato un’altra volta

anche questa mia battaglia.
Lo sportello rosso si gira a sinistra.

Sì, ma io svolto a destra.
Ci penso e ripenso:

a quanto ci teneva la mia paura
bisognosa di incontrare lo specchio,

chissà, se per l’ultima volta, o chissà
mai più, un biglietto di sola andata.

Stavo riflettendo su questa cosa, che Alejandra riesce bene quando può, grazie alla sua trazione bilingue, lasciare da parte il «gramma», la «lettera» per acconsentire alla «voce», dare alla «voce» la primazia. In questo modo, che l’autrice fa come sotto ipnosi, riesce a dismettere le regole obbligatorie e costrittive della sintassi, le regole della logica e della significazione, per accreditare la «voce». La sua poesia più riuscita lo è perché si concede alla «voce» interna che si traduce in un parlato come in stato di veglia, tra l’ipnosi e il sonno che sta per finire.

(Giorgio Linguaglossa)

Mario M Gabriele

24 dicembre 2018 alle 16:46

Il secondo testo mi sembra senz’altro migliore. Prevalgono stesure cinematografiche, alla Beckett. E’ una nuova via poetica? o è l’oltre della NOE?

Selfie Jean Aurenche, Marie Berthe Aurenche and Max Ernst

Giorgio Linguaglossa

25 dicembre 2018 alle 9:42

caro Mario,

condivido il tuo giudizio, la seconda poesia è una vetta assoluta; si tratta di una «danza selvaggia», come dichiara la stessa giovanissima autrice. C’è in queste due poesie una forza «selvaggia», dirompente che si abbatte sulla versificazione frantumandola, facendone schizzare i pezzi di risulta in tutte le direzioni; una forza piroplastica, vulcanica che si abbatte come uno tsunami su ciò che «resta» dell’esistenza. In ciò Alejandra Alfaro Alfieri è stata aiutata, paradossalmente, proprio dalla sua natura di poeta bilingue, (spagnolo e italiano) essendo la giovane Alejandra nativa argentina pur se di lontane ascendenze italiane.

Lei con l’italiano ci va a passeggio, lo fa camminare traballando come un orso delle nevi, lo fa irrompere nella versificazione italiana distruggendo tutto quello che si può distruggere, ma, Alejandra fa tutto questo con una genuinità e ingenuità assolute, addirittura con gentilezza, sfascia la struttura sintattica dell’italiano, passa da un fotogramma all’altro, dalla prima alla terza persona e dalla terza persona ad intermezzi anonimi, da inquadrature personali ad inquadrature collettive; la composizione è una vera e propria sequenza cinematografica con zoom e riprese panoramiche…

Altro che la poesia dell’io dei «poeti» che vanno di moda in Italia che celebrano le piccole cose dell’io! Qui c’è un vero tsunami che ha fatto definitivamente a pezzi ciò che restava della versificazione italiana: il verso è scomparso e sostituito da spezzoni, da prosa, da pseudo-versi, da para-prosa, il tutto in un conglomerato di, non so se più ingenuità o ingegnosità, ma, sta di fatto che il risultato complessivo è straordinariamente efficace.

Anche le disconnessioni sintattiche, anche le dismetrie frequentissime e gli evidenti errori sono dei lapsus alla maniera di quelli celebrati da Pasolini nelle poesie di Amelia Rosselli, ma qui c’è, oserei dire, meno preziosità letteraria, meno previsione dell’effetto e più genuinità dell’espressione scombiccherata, più dissimmetria degli isometrismi, più imprevedibilità, direi.

Mario M Gabriele

25 dicembre 2018 alle 10:08

Giorgio ci ha dato un motivo in più,per avvicinarci a questa poesia “Senza titolo” di Alejandra Alfieri, aprendo, selettivamente, un discorso linguistico pluricellulare e fotogrammatico, così ampio, che sta solo a noi decodificarne la spazialità. E’ ciò che mi aspetto dai lettori di questa Rivista anche se oggi è Natale. Grazie.

 Giorgio Linguaglossa

25 dicembre 2018 alle 11:12

Lotman scrive:

«Una statua, buttata in mezzo all’erba, può creare un nuovo effetto artistico in forza dell’insorgere di un rapporto fra l’erba e il marmo. Una statua gettata nella spazzatura, non crea un tale effetto per lo spettatore contemporaneo: la sua coscienza non può elaborare una struttura che sia in grado di unificare queste due essenze in una unità…».

Ecco, quello che è riuscito ad Alejandra è proprio questo, che è riuscita a convertire il linguaggio naturale in «rumore» e a fare una poesia che è in realtà una «composizione di rumori», convertendo questi «rumori» in un nuovo linguaggio estetico. Ha gettato delle «statue nella spazzatura», creando un nuovo effetto estetico. E lo ha fatto con una semplicità e ingenuità quasi incredibili.

Sempre Lotman ci dice che

«dal punto di vista della teoria dell’informazione si chiama rumore l’inserirsi di un disordine, dell’entropia, della disorganizzazione, nella sfera della struttura e dell’informazione. Il rumore spegne l’informazione…

In base a una nota legge, ogni canale di collegamento (dal filo telefonico alla distanza di molti secoli che divide Shakespeare da noi) presenta del rumore che assorbe l’informazione. Se la grandezza del rumore è pari alla grandezza dell’informazione la comunicazione sarà nulla. La forza distruttrice dell’entropia è costantemente sentita dall’uomo. Una delle funzioni fondamentali della cultura è quella di contrapporsi al progresso dell’entropia. In questa azione all’arte è destinata una funzione particolare

[…]
Le braccia spezzate della Venere di Milo, come tutti i casi di annerimento dei quadri a causa del tempo, l’invecchiare dei monumenti storici, dal punto di vista dell’informazione artistica, sono casi triviali di rumore, di affermarsi dell’entropia nella struttura. Tuttavia nell’arte la cosa è più complessa, e una “restaurazione” non decisiva, condotta senza la necessaria cautela e tatto, è impotente a ristabilire quell’ignoto aspetto che il monumento mostrava agli occhi del suo creatore e dei contemporanei…».1]

Forse i poeti italiani di queste ultime decadi hanno letto poco e male Lotman, ma queste cose lui le ha scritte e pubblicate nel 1972, in Russia, beninteso, e il suo libro è stato pubblicato in Italia nel 1990. Il fatto è che oggi la poesia non ha a che fare con il «monumento» originale ma con un «monumento» già portatore di entropia, di «rumore», di trash, di stracci. Oggi chi voglia comporre un «monumento» rotondo e polito è un facitore inconsapevole di Kitsch, un falegname di pacchianerie e di passamanerie; chi pensa che fare poesia evoluta significhi fare dei commenti evoluti, cioè spiritosi e ludici e magari umoristici o intellettualistici, fa Kitsch al quadrato e al cubo. Oggi può fare poesia evoluta soltanto chi voglia consapevolmente comporre secondo le regole del Kitsch e del trash, ed esegua il «monumento» del Kitsch e del trash, cioè un «monumento» di «rumori» e di trash, consapevole di dover operare in ogni caso con i materiali del Kitsch per la semplice ragione che la ragione poetica si è indebolita e che non ha altri mattoni che quelli del Kitsch per la edificazione dei suoi polittici di «rumori» e di trash…

1] J. M. Lotman, La struttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1990 p. 96

 

 Lucio Mayoor Tosi

25 dicembre 2018 alle 11:40

Le due poesie di Alejandra Alfaro Alfieri a me ricordano le atmosfere dense di nulla di Edith Dzieduszycka. La densità del nulla riguardale nostre capacità percettive, è l’emozione di ciò che sta bruciando… come la vita che è fuoco per i corpi. Ed è il riscontro fisico di una comprensione che potrebbe essere anche filosofica.

Il continuo movimento, il percepire senza sé può generare questo tipo di annullamento – conviene pensare alle poesie dei Sufi, a Rumi. Consiglio ad Alejandra di trovarsi un buon maestro zen o, perché di origini sub americane, una curandera.

È il versante mistico della Nuova Ontologia Estetica. L’empirico. L’approccio intellettualistico è comunque utile, altrimenti non capiremmo quello che ci sta accadendo.

Per il resto, la seconda poesia, a me sembra di comprenderla in quanto conosco la tensione del set cinematografico (quando facevo l’art director lavorai a Cinecittà e in alcuni studi a Parigi)… conosco la tensione, e lo svuotamento dei giorni successivi alle riprese.
Alcune sequenze si potrebbero interrompere maggiormente, può essere determinante una maturazione nello stile. Ma su questo fronte siamo tutti in agitazione… Mario Gabriele ha edificato una sponda… conviene tenerne conto.

Redazione-Officina Pasolini e Franco Fortini, due scomodi compagni di strada

redazione di Officina, Pasolini e Fortini, due scomodi compagni di strada

Giorgio Linguaglossa

Sulla differenza tra «oggetti» e «cose»

sulla differenza tra «oggetti» e «cose» ho già scritto un appunto poco tempo fa. Quando un «oggetto» cessa di essere mero oggetto e quanto esso oggetto diventa una «cosa»? – L’ermetismo italiano non ha mai avuto sentore di questa problematica, e neanche la poesia post-ermetica del dopo guerra, tanto meno la poesia dell’incipiente sperimentalismo ne ha avuto cognizione, come non ne ha mai avuto cognizione la poesia lombarda degli «oggetti». La questione è invece di capitale importanza, perché o si fa una poesia di oggetti (ricordate la formula di Anceschi per una «poesia degli oggetti»?), o si fa una poesia di «cose», la differenza è di capitale importanza ma bisogna ragionarci sopra, bisogna sapere di che cosa si parla. Per esempio, Saturno, che vediamo nel gif, è un «oggetto» o una «cosa»?

Ad esempio, la guerra di Troia (che entra prepotentemente nella poesia di Gino Rago) è un «oggetto» o una «cosa»? Quella «nomenclatura» che si rinviene nella poesia di Anna Ventura, quei «brillanti di bottiglia», dal titolo del libro di esordio della poetessa abruzzese del 1978, quelle povere cose che stanno come brillanti nella bottiglia, sono «oggetti» o sono «cose»? Ad esempio nella poesia di Adam Zagajevski ci sono «oggetti» o «cose»?

È inutile tentare di dribblare la questione, non se ne esce. Il problema in verità è antico, già all’inizio del Novecento era stato messo a fuoco da Osip Mandel’štam nel saggio Sulla natura della parola degli anni Dieci di cui cito un brano particolarmente significativo. Sostituite il riferimento al «simbolismo» con la nostrana «poesia degli oggetti» e troverete gli argomenti di Mandel’štam calzanti e acutissimi, in specie riguardo all’«ellenismo» del «vasellame» (leggi «cose» in linguaggio moderno) che usiamo tutti i giorni e alla polemica contro il «laboratorio di impagliatura» dei simbolisti:

Osip Mandel’štam

Sull’Ellenismo

«L’ellenismo è il circondarsi consapevole dell’uomo di vasellame al posto di oggetti indifferenti, la metamorfosi di questi oggetti in vasellame, la personificazione del mondo circostante, il riscaldamento del suo sottilissimo teologico calore. L’ellenismo è ogni stufa vicino alla quale l’uomo siede apprezzandone il calore, come consanguineo al suo calore interno. Infine, l’ellenismo è il monumento sepolcrale dei defunti egiziani nel quale si mette tutto il necessario per il proseguimento del pellegrinaggio terrestre dell’uomo fino alla brocca per i profumi, allo specchietto, al pettine. L’ellenismo è il sistema, nel senso bergsoniano del termine, che l’uomo dispiega intorno a sé, come un ventaglio di avvenimenti liberati dalla dipendenza temporale e subordinati ad un legame interno attraverso l’io umano. Nella concezione ellenistica il simbolo è vasellame e, perciò, ogni oggetto coinvolto nel sacro circolo dell’uomo può diventare vasellame e, di conseguenza, anche un simbolo. Ci si chiede: dunque, è forse necessario uno speciale e premeditato simbolismo nella poesia russa? Non appare esso come un peccato di fronte alla natura ellenistica della nostra lingua che crea forme come vasellame al servizio dell’uomo? In sostanza, non c’è alcuna differenza tra la parola e la forma. La parola è già forma chiusa; non si può toccare. Essa non serve per la vita quotidiana così come nessuno si metterà ad accendere una sigaretta da una lampada. Anche queste forme chiuse sono assai necessarie. L’uomo ama il divieto, e persino il selvaggio mette una interdizione magica, un «tabù» negli oggetti noti. Ma, d’altra parte, la forma chiusa, sottratta all’uso, è ostile all’uomo, è nel suo genere un animale impagliato, uno spaventapasseri.

Tutto il contingente è soltanto immagine. Prendiamo ad esempio la rosa ed il sole, la colomba e la fanciulla. Per il simbolista nessuna di queste forme è di per sé interessante ma la rosa è immagine del sole, il sole immagine della rosa, la colomba immagine della fanciulla, la fanciulla immagine della colomba. Forme sventrate come animali impagliati e riempite di contenuto estraneo. Al posto del bosco simbolista, un laboratorio di impagliatura.

Ecco dove porta il simbolismo professionale. La percezione demoralizzata. Nulla di autentico, originale. Una terribile controdanza di «corrispondenze» che si ammiccano l’un l’altra. Un eterno strizzarsi d’occhio. Nessuna parola chiara, soltanto allusioni, reticenze. La rosa ammicca alla fanciulla, la fanciulla alla rosa. Nessuno vuole essere se stesso».

Commento di Giorgio Linguaglossa

Un nuovo sguardo è già una nuova idea. Le idee le prendiamo dalle «cose». Le mutazioni del gusto già in sé sono nuove idee e le nuove idee sono le «nuove cose». Dal modo in cui usiamo gli oggetti nella nostra vita quotidiana, possiamo trarre un fascio di luce che illumina il nostro modo di utilizzare le parole, giacché le parole sono «cose» in senso fisico, spaziale. Gli oggetti, gli utensili, il vasellame si trovano nel mondo per servire l’uomo, possiamo vivere in un appartamento ammobiliato oppure in un appartamento ricco di suppellettili, di vasellame, di «cose» che abbiamo scelto e che ci accompagnano nella nostra vita quotidiana. La differenza è di vitale importanza. Quando una «cosa» ci parla o riprende a parlarci, ecco, il quel momento si ha una trasmutazione degli «oggetti» in «cose», e gli oggetti indifferenti diventano nostri consanguinei, i nostri compagni significativi. Le nuove «cose» innescano un nuovo sguardo, e noi vediamo il mondo come per la prima volta. Gli «oggetti» morti sono diventati all’improvviso vivi e significativi, sono diventati «cose».

L’«ellenismo – di cui parla Osip Mandel’štam nel saggio Sulla natura della parola – «è il circondarsi consapevole dell’uomo di vasellame al posto di oggetti indifferenti, la metamorfosi di questi oggetti in vasellame…».

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Donatella Bisutti, Poesie da Duet of water (Junpa Books, 2018) – Traduzione in giapponese di Cristina Banella, Traduzione in inglese di Steven Grieco Rathgeb, Commento di Giorgio Linguaglossa

 

foto volto giapponese

Donatella Bisutti è nata e vive a Milano. È giornalista professionista. Ha collaborato in particolare alla collana I grandi di tutti i tempi (Mondadori) con volumi su Hoghart Dickens e De Foe e ha tenuto per otto anni una rubrica di poesia sulla rivista Millelibri (Giorgio Mondadori editore). Nel 1984 ha vinto il Premio internazionale Eugenio Montale per l’inedito con il volume Inganno Ottico (Società di poesia Guanda,1985). Nel 1990 è stata presidente della Association Européenne pour la Diffusion de la Poésie a Bruxelles. Di poesia ha poi pubblicato Penetrali (ed. Boetti & C 1989), Violenza (Dialogolibri, 1999), La notte nel suo chiuso sangue (ed. bilingue, Editions Unes, Draguignan, 2000), La vibrazione delle cose (ed. bilingue, SIAL, Madrid, 2002), Piccolo bestiario fantastico, (viennepierre edizioni, Milano 2002), Colui che viene (Interlinea, Novara 2005, con prefazione di Mario Luzi). È in via di pubblicazione a New York l’antologia bilingue The Game tradotta da Emanuel di Pasquale e Adeodato Piazza Nicolai (Gradiva Publications, New York). La sua guida alla poesia per i ragazzi L’Albero delle parole, è stata costantemente ripubblicata e ampliata dal 1979 e attualmente edita nella collana Feltrinelli Kids (2002). Il saggio La Poesia salva la vita pubblicato nei Saggi Mondadori nel 1992 è negli Oscar Mondadori dal 1998. Nel 1997 ha pubblicato presso Bompiani il romanzo Voglio avere gli occhi azzurri. Fra le traduzioni il volume La memoria e la mano di Edmond Jabès (Lo Specchio Mondadori 1992), La caduta dei tempi di Bernard Noel (Guanda 1997) e Estratti del corpo sempre di Bernard Noel (Lo Specchio Mondadori 2001). Il suo testo poetico “L’Amor Rosa” è stato rappresentato come balletto al Festival di Asti con musica del compositore Marlaena Kessick. Ha curato per Scheiwiller l’edizione postuma delle poesie di Fernanda Romagnoli, dal titolo Il Tredicesimo invitato e altre poesie (2003). È nel comitato di redazione della rivista «Poesia» di Crocetti per cui cura la rubrica «Poesia Italiana nel Mondo», nella redazione delle riviste «Smerilliana» e «Electron Libre» (Rabat, Marocco), tiene una rubrica di attualità civile, «Il vaso di Pandora», sulla rivista «Odissea» e una rubrica di interviste «La cultura e il mondo di oggi» sulla rivista di Renato Zero «Icaro». Collabora a diversi giornali e riviste, tra cui l’Avvenire, Letture e Studi Cattolici, Fonopoli, Leggendaria, La Clessidra, Semicerchio. È membro dell’Associazione Culturale Les Fioretti a Saorge in Francia. Tiene corsi di scrittura creativa per adulti, corsi di aggiornamento per insegnanti anche a livello universitario e laboratori di poesia per le scuole. Ha ideato e dirige la collana di poesia autografata “A mano libera” per le edizioni Archivi del ‘900 in cui sono apparsi finora testi di Luzi , Spaziani e Adonis. È tra i soci fondatori di “Milanocosa”.

Commento di Giorgio Linguaglossa

Questo libro di poesie di Donatella Bisutti, con traduzione in giapponese e in inglese, edito in Giappone per la Junpa Books nel 2018, è stato scritto in punta di pennino, con dei tratti sottili e sinuosi, attenti alla collisione tra l’essere dell’inchiostro e il nulla del bianco della pagina. La poetessa milanese si comporta come un commissario che stia facendo un sopralluogo sul luogo di un delitto presunto. Si muove come se fosse in presenza di un fumus criminis, mette i numeri della presunta azione delittuosa sul luogo, misura le distanze tra il cadavere e le cose, riepiloga l’accadimento con lo sguardo, lo ricostruisce con gli occhi, lo narra con la mente e lo riepiloga con la memoria. La Bisutti è un commissario della poesia, fa così anche con la poesia; definirei questo metodo: crittografia dello sguardo, iconologia prodotto dell’occhio, logometria della visione binoculare. La poesia si sdipana sempre a seguito di un atto di visione passato attraverso il filtro di un sofisticato pensiero iconico e mnemonico prima ancora che estetico. La Bisutti si muove con circospezione, in sordina, in punta di piedi, in punta di penna. Certi giri frastici ricordano il nitore e la raffinata «trasandatezza metrica» della poesia di una Antonia Pozzi e di Fernanda Romagnoli; c’è un elegante distacco dalle cose, un nitore degli oggetti posti a presidio della visione, una gentilezza dello sguardo che è il riconoscibile pegno della modestia, della misura e del rispetto verso le cose. Poesia sofisticata e colloquiale, semplice e altera, elegante e sussiegosa, prodotto di una voce, come dire, antica e modernissima, che ha la tristezza di un brindisi con una persona che non amiamo più da tempo e la gentilezza del commiato nei riguardi di una persona da cui abbiamo preso congedo. In queste perlustrazioni di paesaggi troviamo la serenità di uno sguardo cinematico che disegna nitidi scenari di cartolina (Incendio alle isole eolie, Primavera in montagna) e la tristezza aurorale di altre poesie (Pioggia sulle Cévennes), dove la dizione è satura di nitori algebrici. Poesia come pittura, pittura come poesia, congedo come un incontro, incontro come un addio addolorato ma sereno, dizione decantata al filtro di una osservazione imperturbabile appena infirmata da un non prossimo rumorio in punta di piedi di estranei ancora lontani, talché i quadretti sono ancora avvolti dal salvacondotto della serenità non ancora guasta. Gli estranei immersi nelle distrazioni di un presente sempre più confuso, non possono disturbare la purezza e il nitore di queste poesie tutt’altro che idilliche.

giapponese l'opera di migliore allievo Kiitsu Suzuki ( 1796 - 1858 )

Face of Water
Fire on the aeolian islands

Donatella Bisutti

Traduzione in inglese di Steven Grieco Rathgeb

*

Incendio alle isole Eolie

Sulla costa della montagna l’incendio ha divampato tutta la notte ed ora il cono del vulcano è nero come la sua bocca.
Fuoco dentro e sopra la terra attizzato dal vento forte che ieri ha preso a soffiare dal     mare.
Sulla costa le barche bianche beccheggiando guardano la montagna
 [ bruciare
lontano nel cosmo bruciano silenziose le stelle.

Fire on the Aeolian Islands

On the mountainside the fire raged all night
and now the volcano’s cone is black like its mouth.
Fire inside and on top of the earth fanned by the strong wind that came in yesterday   from the sea.
On the coast the bobbing white boats gaze at the burning mountain far away in the cosmos stars burn silently.

La cascata

Quello che persuade nella cascata è il coraggio con cui affronta il vuoto.
Così è generata la bellezza:
nell’assoluta indifferenza dell’economia di sé.
Come tutto ciò che è pronto a perdersi, incute timore.

Al di là dei suoi velari
intravvediamo non più la misura del Tempo ma la sua sostanza.

Waterfall

What’s convincing in the waterfall is the courage with which it braves the void.
Thus is beauty engendered:
in the absolute indifference to its own economy.
Awe-inspiring, like all things ready to lose themselves.

Beyond its veils
we no longer glimpse Time but Time’s substance.

Primavera in montagna

Neve a chiazze – fango
sui sentieri – qua e là il setoso pennello di un cardo.
Disordine – un’aria provvisoria. Acqua che scorre da ogni parte. Gemme aguzze decise.
Tutto è gonfio.
La natura
dalla perfezione dell’inverno transita per la primavera.

Spring in the Mountains

Snow in patches – mud
on the pathways – here and there a thistle’s silken brush.
Disorder – a makeshift air. Water flowing everywhere. Sharp determined buds.
All burgeons.
From winter’s perfection Nature is on its way towards spring.

Transiti

Le costellazioni
incidono nelle vie d’acqua le rotte celesti.

Transit

Constellations
engrave heavenly routes in the waterways. Continua a leggere

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Poesie di Giuseppe Talia, Roberto Bertoldo, Gino Rago, Mauro Pierno – La nuova poesia richiede un nuovo linguaggio critico – Dimorare nella ontologia debole implica la costruzione di una percezione distratta, diffratta, dislalica, disfanica. Il naufragio del linguaggio – Dialoghi e Commenti

 

Foto Famiglia Adams

porsi in diagonale, in posizione scentrata rispetto all’oggetto, scegliere un punto di vista non esplicito, marginale, laterale, costruirsi una percezione distratta, diffratta, dislalica, disfanica,

Giuseppe Talia

Parto per un viaggio.
Volo con una Musa Low Cost.

Destinazione l’immaginazione.
Un’applicazione ferma. Dove siamo?

Nel trittico del cane. Io, Es e Sé.
Nell’alternativo concept tra pianeti nani;

nella perduta via degli anelli planetari;
nel viaticum della storia allucinata.

Una toccata e fuga fugace.
Un pacchetto, una combinazione

sul planisfero di misura in misura.
Un raid in moto su Marte.

Una foto condivisa su Android.
Villaggi globali di misere capanne.

Un campo di guerra, d’ogive e di speranza.
Un resort di lusso con l’alluce sul capezzolo

di una qualsivoglia Venere o a stritolare ossa
Di bimbi-bambù. In ogni cosa che finisce

e inizia nel Mar Morto come un profugo.

.
Roberto Bertoldo

A tutte le donne che non ho potuto amare
dedico la miseria delle mie poesie
cosicché non abbiamo rimpianti –
le poesie sono la prova della mia mediocrità, lo spasimo ultimo
delle parole che restano nel fodero,
astratte, negli archivi della notte, sfibrati tuoni
della tempesta che mi ha reso l’amore
una querelle infinita. E ora raccontate
la povertà del mio cuore senza sapere lo stupro
che ha screziato di gabbia la pelle di un bimbo,
senza sapere del sole tramortito nelle mie vene.

.
Gino Rago

21ma Lettera a E. L. 

[Dismatriati]

cara Madame Hanska,

ieri ho parlato a lungo con la donna di Somalia
giunta da noi chissà per quali vie.

Se potesse prenderebbe un panno,
pulirebbe tutta la sua vita, cancellerebbe il viaggio,

getterebbe a mare la valigia che l’ha portata fin qui,
dice che ha perso in un sol colpo tutto il suo capitale.

Dio invece non è più tornato dal mio amico di Roma,**
dice di non sentirsi in forma, o forse si vergogna

perché se la spassa tutte le notti con Madame Jovanka,
e le sue damigelle presso l’albergo della felicità.

Si lamenta perché il mio amico**
si è rifiutato di scrivere la recensione sulla creazione…

ma, in fin dei conti, neanche lui si sente troppo bene,
e così prende la tintarella sulla spiaggia sul Tevere

dove l’amministrazione capitolina ha edificato uno stabilimento balneare,
dice che vuole ascoltare le parole del fiume,

quelle sì molto più interessanti della mega creazione.

(** È Giorgio Linguaglossa)

giorgio 1998

da sx Giorgio Linguaglossa, Antonella Zagaroli, Roma, pub di San Lorenzo, 1998 – Questo significa dimorare nella ontologia debole del nostro orizzonte degli eventi

Commento di Giorgio Linguaglossa

Dimorare nella ontologia debole non significa fare una poesia debole, significa porsi in diagonale, in posizione scentrata rispetto all’oggetto, scegliere un punto di vista non esplicito, marginale, laterale, costruirsi una percezione distratta, diffratta, dislalica, disfanica, osservare le cose come di sfuggita. Ecco, per esempio introdurre «Dio» nella poesia come fa Gino Rago e farlo andare in giro a chiedere una «recensione» al suo «amico di Roma», presentare «Dio» in vesti dimesse non significa dimidiarlo o mancargli di rispetto, anzi, il contrario, implica una restituzione di senso, un accettare la realtà delle cose, il reale pensiero degli uomini del nostro tempo i quali hanno retrocesso «Dio» sullo sfondo, in serie B. «Dio» non è più importante di qualsiasi altro disgraziato che calpesta il suolo della terra, ormai «Dio» può essere anche un nostro vicino di casa, ci possiamo anche andare al bar a prendere un caffè.

Questo significa dimorare nella ontologia debole del nostro orizzonte degli eventi.

Accedere alle cose stesse non significa aver da fare con esse come con oggetti, ma incontrarle in un gioco del naufragio del linguaggio nel quale l’esserci esperisce anzitutto la propria mortalità. Si accede alle cose per via della accettazione della propria finitudine, quando scopriamo il nostro essere relittuali, il nostro naufragio di relitti quali siamo. E questo lo testimonia lo Zerbrechen (l’infrangersi della parola) mediante il quale noi esperiamo la caducità e la finitezza del nostro essere mortali e l’essere la poesia un effetto di silenzio, tanto più quanto più il tono è sardonico e metaironico, come in questa poesia di Gino Rago, dove c’è un personaggio, nientemeno che «Dio» il quale interviene negli affari correnti dei mortali, e se la prende con «l’amico di Roma» che «si è rifiutato di scrivere una recensione sulla creazione», sommo oltraggio per il «Dio» il quale non è affatto «morto» come idiosincraticamente edittato da Nietzsche due secoli or sono ma è resuscitato ed ha preso luogo come mortale tra i mortali e costretto a mendicare una «recensione» al pari di un qualsiasi postulante di questo mondo.

«Le tecniche delle arti, ad esempio e prima di tutte, forse, la versificazione nella poesia, possono esser viste come accorgimenti – non a caso tanto minuziosamente istituzionalizzati, monumentalizzati anch’essi – che trasformano l’opera in residuo, in monumento capace di durare perché già fin dall’inizio prodotto nella forma di ciò che è morto; non per la sua forza, cioè, ma per la sua debolezza».1] Non accade a caso che una poesia riesca ad essere «monumento» (in senso heideggeriano) quando viene edificata con le parole anti monumentali, residuali, con situazioni e stati di cose corrivi, quando la paradossalità viene consegnata al lettore nella veste dimessa del relittuale, del residuo, del rimosso. La poesia riesce tanto più significativa quanto più appare dimessa, apatica, anti enfatica, come un accadimento casuale, un infortunio del pensiero distratto, una distrazione del pensiero.

  1. Vattimo La fine della modernità, Garzanti, 1985, p. 95

*

Franco Fortini La città nemica, 1939

Gino Rago

11 agosto 2018 Continua a leggere

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Paradigma dello Specchio – Quindici poesie e prose per quindici poeti a cura di Gino Rago – Poesie e prose di Silvana Baroni, Gino Rago, Ghiannis Ritsos, Guido Galdini, Giuseppe Talia, Mario Gabriele, Zbigniew Herbert, Donatella Costantina Giancaspero, Jorge Luis Borges, Francesco Lorusso, Mauro Pierno, Francesca Dono, Giuseppe Gallo, Lorenzo Pompeo, Lidia Are Caverni, con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Gif La noia

Nota di Gino Rago

Gran parte delle ragioni che mi hanno spinto a indagare nella poesia contemporanea, e di questa [per me la più avanzata] dei poeti scelti e antologizzati, il confronto lirico-dialettico con il paradigma dello specchio è condensata nella missiva a me diretta da Giuseppe Talia, che riporto:

«Caro Gino Rago, è molto interessante questa indagine sullo specchio che stai conducendo in queste pagine. Che cosa è lo specchio se non la storia delle generazioni che si succedono nel corso del tempo. E’ impossibile esprimere – scrive Tarkovskij – la sensazione finale che questo tipo di ritratto produce su di noi. Secondo Lacan, attraverso lo specchio il bambino arriva, attraverso varie fasi, a riconoscere se stesso separato dagli altri e di conseguenza prende coscienza di sé. Ciò che si verifica davanti allo specchio è la costituzione del proprio Io. Il riflesso speculare ricopre per il bambino il ruolo che il Doppio assume per il conflitto narcisistico nell’adulto. Questo testo che ti sottopongo è interamente calato nell’odierno narcisismo, nella doppiezza in cui però la costruzione del proprio Io porta con sé una malattia: la metafora di Nietzsche sul cammello, per esempio. La passione per la libertà, la passione per la creatività, come afferma Massimo Recalcati, non è la passione fondamentale, la passione fondamentale che orienta la vita umana è la passione per le catene. Ecco che allora il set del mio testo è in una palestra, luogo di fatica, di costruzione di un corpo che non è il corpo, quanto, invece, l’idea di corpo. Un luogo di tortura medievale, almeno così io l’ho inteso, con il mio stile».Altre ragioni non meno urgenti a sostegno della idea di indagare la Poesia verso il paradigma dello specchio derivano direttamente dalla domanda che Giorgio Linguaglossa pone alla filosofia:
«C’è una differenza ontologica fra l’immagine allo specchio e l’immagine che sta nella mia testa?», partendo dalla Dialettica negativa [pag.68] di Adorno:«Lo specchio è un concetto aporetico per eccellenza, perché converte il più concreto nel più astratto, e quindi il più vero nel più falso. In ciò lo specchio è l’esatto contrario dell’essere, concetto anch’esso aporetico in sommo grado, perché quest’ultimo «trasforma il più astratto in più concreto e quindi più vero».

I quindici poeti antologizzati hanno in comune una cifra che nella scelta operata è stata per me decisiva: la tensione metafisica, se non mistica, che emerge dai loro versi. Cifra che induce questi poeti a confrontarsi con il mondo visto da uno specchio attraverso il quale scorre la vita, esprimendo o anche soltanto accennando l’indicibile, senza la pretesa di possederne le risposte. Sotto lo sciame degli aerei da bombardamento, il lettore continui a tagliare il suo cocomero.

1- Silvana Baroni

Persa e ritrovata

Semplice, più che semplice
si tratta di allontanarsi e tornare
che non è altro che attraversare – di questo si tratta.
Sul bordo dello specchio schivo il taglio
un colpo di reni e libera! carne igienica finalmente!
Così da non rispondere all’insistente centralino
e smetterla d’appassire nella solita poltrona
a dire al gatto che il filosofo è un disperato assassino
d’omicidi ininterrotti.
Oh vitreo viso! Alveo di buio da cui risorgere!
Certo che mi vedo! Ho la faccia dei miei morti
sono il sosia d’una comunità di conclusi.
Eppure esito, che il sentimento è un lusso
preferisco negarmi, farmi vedova d’oscura innocenza
tornare all’immagine sbaciucchiata, persa
e ritrovata da labbra settembrine
che nel fascio di luce dello specchio ancora son gesti
a garanzia d’accoglienza, giusto il tempo
di stringermi ad ogni loro dettaglio.
Scivolo nei bulbi, attraverso il diametro delle sfere
mi perdo nel tempo perso dalla luna, nel riflesso di lei
che ancora vuole che io sia.

 

2 – Gino Rago

il Vuoto, lo specchio

Cara Signora Jolanda W. ,

[…]
Il mio amico [di Roma]*, quello che si occupa del Signor Nulla,
litiga di nascosto con lo specchio.

Lo fa tutti i giorni, non dategli molto credito,
dice che fa i conti con il Vuoto,

Il Vuoto che capta altro Vuoto.
Il tempo cade sotto forma di polvere, opacizza l’immagine,

sbiadisce le fotografie, scontorna il presente, il futuro e il passato,
il mio amico se la prende con il Signor K.

Una donna, la sgualdrina di Vivaldi, fa un valzer con il primo che passa,
Mario Gabriele mangia una Sacher con panna,

lo vedo attraverso la vetrata della Gebäck der Prinzessin Sissi.
Che volete, i miei amici, quelli della nuova ontologia estetica,

hanno un debole per le pasticcerie.
Adesso lo vedo allo specchio mentre si rade la barba e fischietta.

Una risata da dietro i gerani.

*[Il mio Amico [di Roma] è Giorgio Linguaglossa]

 

3 -Ghiannis Ritsos

Quarta dimesione [da Crisotemi ]

” […] In una grande stanza disabitata era appeso da anni
un antico specchio dalla cornice d’oro. In quella stanza
non entrava nessuno. Là dentro gettavano alla rinfusa
tutto il vecchiume inutile – lampade, poltrone, candelieri, tavolini,
ritratti di antenati e altri di generali deposti, di poeti, filosofi,
vasi di cristallo dalle forme strane, treppiedi, bracieri di bronzo,
grandi maschere di gesso o di metallo, e altre piccole di velluto nero,
teste imbalsamate di cervi e fiere, uccelli
multicolori impagliati, azzurri e d’oro, dai becchi adunchi-
di cui ignoravo il nome-
attaccapanni, armature, consolle e tende pesanti,
di solito color porpora o verde scuro. Quello era il mio rifugio.

C’era un odore di stoffa tarlata, di polvere e frescura. Dunque,
lo specchio, appeso in alto sul muro, concentrava tutta quanta la luce-
era l’occhio
della stanza cieca piena di anfratti.
Quell’occhio
regnava calmo e intramontabile sull’inservibilità e la desolazione,
anzi le immortalava; – memoria sacra nell’oblio profondo.
Una sera,
salii su un baule e mi guardai allo specchio; – non vidi niente –
niente, soltanto luce – una luce oscura, come fossi io stessa
tutta quanta di luce – e lo ero veramente. Compresi, allora,
(o forse ricordai) ch’ero sempre stata luce. Un ragno
passeggiava sul chiarore dello specchio e sul mio viso. Non
mi spaventai affatto” […]

 

4- Guido Galdini

Specchio

è uno specchio per le allodole
o sono allodole per lo specchio
o le allodole sono lo specchio?

Tiziano Scarpa

Pagina del nuovo libro di poesia di Tiziano Scarpa uscito da Einaudi – Ecco qui un mio commento:
parafrasando Charles Simic:
La storia letteraria è un libro di ricette. Gli editori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. I preti sono i camerieri. Gli scrittori sono gli operatori ecologici. I critici letterari sono i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.

5 – Giuseppe Talia Continua a leggere

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Reperti, obelischi e monumenti: verso una “Archeologia fredda degli oggetti”? Il monumento questo oggetto opaco e pesante in uno scritto di Jean Clair. Il monumento nella scultura di Ivan Theimer con un testo ecfrastico di Letizia Leone: “Il monumento ebbro” sulla scultura di Ivan Theimer.

Foto bicchiere in bianco e nero

(Da: Jean Clair, da Ivan Theimer, catalogo Regione valle d’Aosta, 1998)

Vi sono oggetti che credevamo familiari e che, subdolamente, si sottraggono a noi, scompaiono furtivamente dall’orizzonte che pensavamo immutabile, spariscono da una scena che credevamo solida. E poi, un bel giorno, ricompaiono, un po’ strani, fuori posto, incomprensibili. Il monumento, per esempio. Chi oggi, si preoccupa dei monumenti? Chi osa prenderli in considerazione? Chi ne intraprende la costruzione? Li credevamo eterni, o, per lo meno, solidamente radicati nella vita, ed eccoli invece appartenere alla sfera del passato.
Non è certo difficile intuire le cause immediate di tale scomparsa. Chi ha ancora il tempo di edificare monumenti? Chi regna abbastanza a lungo per assumersi il rischio di esserne il committente? Quale architetto o quale artista ha una presunzione tale da decidere di farli rivivere?
Mancanza di tempo da parte dei committenti, degli artisti, nonché del pubblico. Il monumento non è compatibile con la cultura dell’automobile. Si costruiscono edifici di tutti i tipi, municipi, scuole, ospedali, ministeri, musei ‘arte contemporanea, ma nessuno più erige monumenti.

In questa sede sarà utile allora, visto che il monumento è prossimo alla fine, interrogarsi sulle sue origini. La parola “monumento” compare nella lingua del XII secolo, nel periodo che gli storici dell’arte chiamano proto-rinascimento, quando per la prima volta, in Occidente, il patrimonio culturale della tradizione classica viene rivalutato e serve da modello ai primi scultori e architetti del gotico.
Monumentum, in latino, copre un campo semantico piuttosto vasto: ha a che fare con il ricordo: monumenti causa dice Cicerone, “per conservare un ricordo”. Ha quindi a che fare con la cultura in quanto nata dal culto dei morti, e ben prima che la religione ne facesse il luogo di culto degli dei: monumentum sepulcri è la tomba.
Il culto dei morti, tuttavia, può estendersi alla conservazione e all’esaltazione di ciò che di memorabile l’uomo ha lasciato dietro di sé, scritti, memorie, documenti, annali: monumenta rerum gestarum, dice ancora Cicerone. Rousseau chiamerà quest’impresa i mémoratifs, i rammemoranti. Di un’opera notevole per dimensione o erudizione, costituita anche solo di parole, come per esempio il dizionario Treccani, si dirà comunemente che è un monumento.

Ivan Theimer 4

Ivan Theimer

Molto tempo dopo, in Tertulliano, il termine monumentum finirà per indicare l’amuleto, il medaglione che si mette al collo dei bambini. Dall’opera dell’architetto, dalla summa dello scrittore, siamo passati alla categoria del ninnolo e del feticcio.
Evitiamo però di trarre conclusioni affrettate sullo status del monumento nella nostra cultura.
Sottolineiamo invece l’urgenza che presiede alla costruzione del monumento: monumento viene da moneo, ricordarsi, rammentare, dare testimonianza ma, anzitutto, avvertire. Un monumento è un ammonimento. Con la sua presenza ci ricorda quello che tenderemmo a dimenticare: ea quae a natura monemur. Gli avvertimenti che la natura e la stessa cultura ci trasmettono, dice sempre Cicerone, sono veicolati dai monumenti. Richiamo alla legge, a quanto c’è di significativo nel passato, il monumento apre la strada al futuro, informa, predice, annuncia, ispira. Quando Virgilio dice alla Musa che deve ispirare il poeta, è il verbo monere che impiega. Un monumento è una premonizione.

Il monumento ha quindi a che fare con la memoria ma non, come si crede, con la sua parte più sociale, decifrabile, ufficiale e scontata quanto piuttosto con la sua parte più oscura, più selvaggia, meno familiare, quella dei meccanismi di censura, del rimuovere o del riaffiorare, che fanno sì che l’uomo sia non solo l’essere dell’istante presente, come l’animale, ma anche del ricordo e del presagio. Animale storico, gli succede di partecipare al festino degli dei che detengono il futuro. In tale strategia cosmogonica il monumento esiste per aiutarci a togliere i divieti che il presente fa pesare su di noi in modo che possiamo impadronirci di quanto è stato rimosso e intuire quanto accadrà. Freud è stato uno degli ultimi umanisti del nostro tempo ad essere impressionato dai monumenti e ad individuarne il vero significato dietro tanti artifici. Erigiamo monumenti, che ci piace credere immortali, per liberarci dalla paura non tanto della morte quanto dell’oblio, dell’imbarazzo del lapsus, del timore di non sapere decifrare i segni, dell’apprensione dei giorni a venire. La grandezza di una cultura si misura allora in base all’importanza che essa attribuisce ai monumenti, i suoi soli edifici che non servono a nulla. È nella misura in cui le culture si sanno mortali che dedicano all’immortalità questi blocchi che il tempo a sua volta distruggerà.

 

[monumento di Ivan Theimer]

Andiamo avanti: in moneo c’è mens, l’anima in quanto attività dello spirito, facoltà di ragionare, manifestazioni dei caratteri e delle passioni. Il termine deriva direttamente dal greco menòs che ha lo stesso identico significato.
A questo punto sarebbe avventuroso e senza dubbio illecito avvicinare questo termine a témenos, che indica la sezione del tempio consacrata al dio – l’area sacra – e di cui ritroviamo il senso nel verbo latino contemplari, il fatto di entrare visivamente nel campo occupato dal tempio così come si staglia nel cielo.

Allora ricordiamo semplicemente questo: il monumento, che si presenta ai nostri occhi come un oggetto opaco e pesante, grave e inutile, in realtà è legato alla dimensione più recondita, più inafferrabile, più labile e più essenziale dell’uomo: la sua anima. Di una civiltà che non sa erigere monumenti si potrà dire che ha, letteralmente, perduto la sua anima. Continua a leggere

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POESIE SCELTE  di Marco Onofrio da Ai bordi di un quadrato senza lati (2015) con un Commento di Giorgio Linguaglossa

cornelius escher stelle

cornelius escher stelle

Marco Onofrio (Roma, 11 febbraio 1971), poeta e saggista, è nato a Roma l’11 febbraio 1971. Ha pubblicato 21 volumi. Per la poesia ha pubblicato: Squarci d’eliso (2002), Autologia (2005), D’istruzioni (2006), Antebe. Romanzo d’amore in versi (Perrone, 2007), È giorno (EdiLet, 2007), Emporium. Poemetto di civile indignazione (EdiLet, 2008), La presenza di Giano (in collaborazione con Raffaello Utzeri, EdiLet 2010), Disfunzioni (Edizioni della Sera, 2011), Ora è altrove (Lepisma, 2013). La sua produzione letteraria è stata oggetto di decine di presentazioni pubbliche presso librerie, caffè letterari, associazioni culturali, teatri, fiere del libro, scuole, sale istituzionali. Alle composizioni poetiche di D’istruzioni Aldo Forbice ha dedicato una puntata di Zapping (Rai Radio1) il 9 aprile 2007. Ha conseguito finora 30 riconoscimenti letterari, tra cui il Montale (1996) il Carver (2009) il Farina (2011) e il Viareggio Carnevale (2013). È intervenuto come relatore in presentazioni di libri e conferenze pubbliche. Nel 1995 si è laureato, con lode, in Lettere moderne all’Università “La Sapienza” di Roma, discutendo una tesi sugli aspetti orfici della poesia di Dino Campana. Ha insegnato materie letterarie presso Licei e Istituti di pubblica istruzione. Ha tenuto corsi di italiano per stranieri. Ha partecipato come ospite a trasmissioni radiofoniche di carattere culturale presso Radio Rai, emittenti private e web radio. Ha scritto decine di prefazioni e pubblicato articoli e interventi critici presso varie testate, tra cui “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “Lazio ieri e oggi”, “Studium”, “La Voce romana”, “Polimnia”, “Poeti e Poesia”, “Orlando” e “Le Città”.

Marco Onofrio cop ai bordi di un quadrato senza lati

Commento di Giorgio Linguaglossa

da Marco Onofrio Ai bordi di un quadrato senza lati Marco Saya Edizioni, 2015 pp. 78 € 10

L’autocoscienza del vuoto è quella condizione propria dell’uomo moderno che fa esperienza della propria de-realizzazione; la percezione del vuoto non più visto in contrapposizione al pieno ma come complemento necessario e inevitabile del pieno, anzi, come giustificazione della insorgenza del pieno. Il de-realizzato sa fin troppo bene che il vuoto è onnipotente, tanto da non essere più qualcosa che si avverte, ma piuttosto qualcosa in cui ci si stabilizza esistenzialmente, una tonalità affettiva che diventa totalità affettiva, un dentro-fuori che nuota nel vuoto assiologico, che aderisce agli oggetti circostanti, che contamina il soggetto: così tutto appare vuoto e privo di senso. La melancholia viene anestetizzata in ipertrofia dell’io manifesto. Chi avverte il vuoto sente di condurre una pseudo esistenza, staccata dallo sfondo, priva di un orizzonte di senso o di speranza, chi vive vive sovrappensiero o con pensieri laterali, con retropensieri, senza un contatto tangibile con gli oggetti del mondo, chi vive vive «ai bordi di un quadrato senza lati», «di questo sole verde con criniera» che «brilla dall’interno luce nera». De-personalizzazione e de-realizzazione diventano così due facce della stessa medaglia dove il rapporto col mondo viene tagliato fuori dal «tatto», viene a perdere la tattilità delle cose e il mondo perde la caratteristica della tridimensionalità per apparire unidimensionale come un fondale da teatro.

Ecco spiegata l’ossessione del teatro nella poesia di Marco Onofrio, l’ossessione del burattino che si muove secondo i fili invisibili che lo tirano di qua e di là, senza un perché, senza un per come. I movimenti legnosi del burattino rispondono bene come condizione di esistenza alla dittatura del vuoto.  E c’è anche l’ossessione del vuoto, la poesia di Onofrio è, se mi si passa il termine, piena di vuoto, perché  il vuoto straripa nel mondo pieno di a-sensi e pieno di buchi, di voragini, di abissi dall’uno all’altro dei lati del «quadrato senza lati». L’indirezione, l’inorientazione che ne deriva inibisce ogni scelta direzionale (agorafobia) come per la profondità o l’altezza (acrofobia), di qui il rullo compressore della versificazione che tenta di acciuffare il reale per via della sua spinta progressiva e propulsiva. Di qui la sensazione di un periclitare maniacale senza fine nel fondo di un abisso, lo s-fondamento della metaforizzazione, cioè della distinzione tra il proprio-corpo (il letterale) e in non-proprio (il figurato), tra il significante del referente e un secondo significante del medesimo referente; di qui la «disfunzione» (tipico concetto della poesia di Onofrio), questo indebolimento progressivo della condizione esistenziale si risolve, nella sua poesia, in intensificazione del magma lessicale musicale, quasi un linguaggio primario pre-epistemologico (la lingua materna) che giunge per via di intuizione alla immaginazione delle «cose».

Se quella del vuoto e dell’abisso è un’immagine, lo è nel senso di una immagine (la metafora assoluta di Blumenberg) letterale. Il vuoto di Onofrio è dunque un vuoto originario e genetico che crea le cose, non dunque il vuoto inteso come il non-ancora della sua utilizzabilità come nel caso della brocca come «offerta del versato» (Heidegger, Das DingEssere e tempo), un concetto ancorato alla tematizzazione del vuoto trattato come assenza o lacuna che attende di essere riempita e non come pausa indispensabile nel continuum dell’in-fondato che rende possibile l’apparire linguistico della cosa. Ad un mondo ridotto a superficie priva di senso, la poesia di Onofrio risponde con una superficie che introietta il vuoto ricco di a-senso. La sua è una poesia, diciamo, ricca di vuoto, sospesa tra la a-figurazione dello s-fondo e la figurazione oggettiva della metafora, tra la metafora assoluta che giace al fondo del linguaggio primario musicale e la de-metaforizzazione dei processi linguistici nella lingua di relazione. Come lo s-fondo delle sculture di Henry Moore è una superficie tersa e monocorde che meglio riesce a mettere in evidenza la scultura in primo piano, parimenti la poesia di Onofrio soggiace a questa medesima necessità raffigurativa. Ci sono gli oggetti in primo piano ma il fondale è una superficie linguistica a-significativa. Tra gli oggetti linguistici e il fondale non si dà alcuna relazione, sono come giustapposti e muti, sono privi di comunicazione, ecco spiegata l’intensificazione della colonna sonora di cui questa poesia non può fare a meno.

Marco Onofrio alla Biblioteca Casanatense di Roma legge Emporium, 2013

Marco Onofrio alla Biblioteca Casanatense di Roma legge Emporium, 2013

BURLA

«Portate il mimo dell’invisibile, subito:
che bruci ad ogni tuffo del suo cuore».

(Sussurro dalla tenebra infinita)
«… Se il mondo è una pupilla pitturata
l’occhio che lo vede, mio signore
è un battere di ciglia, un colpo, un velo.
Un buco che sfavilla e poi si chiude
all’orizzonte:
nell’azzurro».

«Chi parla?»

(Scalpiccio di passi approssimati)
«Eccomi, padrone. Sono qua.
Burattino ironico e sublime.
Buffo. A disposizione».

«Apre dai due lati il mio portone».

(Fattosi scoperto alla visione)
«La la la, lallalla…»

«Tu. Che cosa ti sostiene?»

«Mi arrangio. I miei fili
si perdono nel cielo…»

«Forza, dunque, fammi divertire».

«Ma certo, Sire!»

(…)

«Ebbene?»

(toltasi la maschera:
mostrato finalmente il volto fero)
«Vieni che ti mangio in un boccone»…

cornelius escher

cornelius escher

PRIMA DI MANGIARE

Briciole di sogni nei pensieri
curvi come virgole di lampi
vengono-scompaiono dal vuoto.

Sale, lenta, l’onda d’alto sale
cresce l’ombra chiusa sopra il fungo
di questo sole verde con criniera:
brilla dall’interno luce nera
e al fuoco freddo nuvole di prosa
e un giorno che non parte e non finisce
come il sospiro sfatto, il reo maniero
di una meretrice che riposa
cotta col vapore del lenzuolo
e con il burro, del civile uomo
che condisce: prima di mangiare.

LA BESTIA

Le trombe spalancavano la luce
tagliando vasti cerchi di silenzio
il veleggiare ai falchi in alto fumo.
Formicolava l’aria degli scavi:
io scorsi in fondo al cielo le visioni
trascorrere nel vuoto universale
le ali remiganti, i folti stormi
passare ombre nere e poi cadere
tra gli ominosi gesti, i sortilegi
e il lembo sconfinato del sentore
non si lasciava intendere o afferrare
la preveggenza acuta e illuminante
indizi come più nefasti segni:
allora che più ardente la potenza
il palpitare ignoto della vita
la brace agli occhi accesi e roteanti
sputava dalla lingua biforcuta
apriva a forza varchi dentro muri
spallava monti, abbatteva ponti
seccava fumigando i gialli fiumi
e poi, scoccando le saette dai suoi archi
mieteva a frotte martiri innocenti
come le spighe verdi in mezzo ai campi:
e fece tenebra di notte a mezzogiorno
e il mondo più non vide cosa alcuna
e da se stesso ovunque il suo contorno
sparì nel lato opposto della luna.

Cercammo Dio: non c’era.
La bestia ci sorprese tutti quanti.
Di tante anime ritornò nessuna.

labirinto

labirinto

LA SCROFA

La morte ci tiene nel suo grembo
ci culla, madre della bocca
che usiamo per mangiare
baciare, parlare, vivere
del cielo che racchiude il nostro corpo:
la soglia da cui esce lo spirito, nel mondo
ed entra il vuoto dell’immensità
lungamente s’insinua, faticosamente
ovunque intorno a noi
è dentro noi. Soffia, mastica, grugnisce
ci impasta lentamente le budella.
È una scrofa che ci nutre
ci mangia, ci fotte, ci caca
ci semina, ci frutta, ci raccoglie.

Siamo i porci della morte:
rotoliamo nel fango
e mastichiamo i ruvidi diamanti
della sua beltà.
Ingrassiamo di dolore
per la baldoria guasta
di una festa grande
che verrà.

«Ascolta bene: è già con te, lì, qui.
Ti sta aspettando da una vita
oltre la porta del tuo ultimo respiro».

.
TUFFARSI

Basterebbe uno scatto di follia.
Una bestemmia di ribellione.
La forza di volerci come siamo
al di là di tutto.

Ogni accenno di ribellione
ci infervora a un dissenso
d’illusione, al fulgore inane
della vita, che cerchiamo vera.

Tuffarsi e via, lasciarsi andare
lungo il sottilissimo crinale
che separa l’ora dalla fine…

E il senso?

QUALE CENTRO

La verità? È una giostra di seggiole
che gira. Anche le seggiole possono
girare – magari in senso inverso,
contromano: così, poi,
vedi quello che tu lasci
andando avanti.
Alcune sono scomode e legnose;
altre ricoperte di velluto.
C’è qualche cavalluccio
dondolante. E si gira,
si gira tutto in tondo
per viaggiare – e il viaggio
è verso dove?
Non si esce da quel cerchio
a non finire.
E intorno a quale centro,
incontro a cosa?

escher Labirinto

escher Labirinto

CERTE LUCI

Che cosa c’è stasera nei tuoi occhi?

Hai lo sguardo strano, e acceso
delle bestie che annusano la morte.
Il battito ti ha, ormai, nella fiamma
terribile del tempo. Sei avvolta
dal futuro che ti fa carbone.
Niente ti potrà salvare.

«Certe luci» dicevi «sarebbe meglio
non spegnerle mai».

Ma tutto – ricordi? – era ancora possibile:
fino a ieri, non so perché è cambiato,
le cose si piegavano a qualunque
desiderio, in fluttuazioni
liquide, in carni tenere
come le onde che si sfasciano
nel mare. Poi, il culmine estatico
coi suoi picchi di magnificenza:
e lo splendore della tua presenza
ti ha portato via, nella fiamma
terribile del tempo. Cantava cantava
il giallo misterioso dei limoni
contro il cupo ardore delle arance
e intanto vedevi sorgere
da dentro, sotto il manto d’aria
il bianco incenerito sulle guance:
l’argento degli ulivi si spargeva
ovunque, diventavi lo sguardo
del vuoto. Ora lo senti il profumo
del tempo, il suono che dorme
sotto i grandi alberi? Brillano ancora
le strisce di sole nell’erba. La gioia
è tutta nel segreto dell’attimo
che accende l’ultimo fulgore
prima della tenebra finale.

.
INFIORESCENZA

La notte passa radiosa
della sua luce invisibile
con gli occhi di una sposa che sorride:
diamanti smerigliati di rugiada
sui vetri dove, tra meno di un minuto
squillerà il mattino.

MONTECRISTO

Ombrosa, isola isolata
incidi il tuo profilo nella luce
d’oro del crepuscolo tirreno
viola contro il fumo di laggiù
lontano, lontano, all’orizzonte
tricuspide, dentro il tuo mistero
impenetrato, chiusa Montecristo:
tu, fortezza di solitudine
immersa nel tuo tempo millenario
al di fuori del tempo
stai, protetta dalla Storia
nel silenzio dell’eternità.

Ma io ti ho visto, ti ho visto
un pomeriggio di cent’anni fa…

(Follonica, 9 luglio 2014)

Cornelius Escher

Cornelius Escher

AI BORDI DI UN QUADRATO SENZA LATI

Il silenzio, oltre il vuoto nero:
il grande spazio interno
l’Uno eterno,
ai bordi di un quadrato senza lati.

L’immenso è troppo vasto
per farsi quietamente
una ragione.

Beati quelli che si accontentano
delle nuvole: io, per me, basto
alle stelle. La mia bocca storta
nello spasimo amaro
della vertigine
è una porta aperta che si chiude
sulla solitudine.

Ecco l’aprile, che non allunga ponti
al tempo della dolce convulsione
e annoda i resoconti delle sere
sopra il viso: e la speranza
è disperazione.

Il filo che mi teneva in piedi
è sempre più liso, sempre più
sottile. Devo afferrarmi
al mondo, ormai,
per non cadere.

.
OLTRE L’ORIZZONTE

L’aria si prolunga da ogni parte
dentro la rete dello spazio vuoto
dal mio corpo oltre l’orizzonte.

Che ci sarà dall’altra parte?
Chi mi attenderà?

In quale Africa del cielo, in quale Itaca
troverò me stesso?

Il sole sarà l’ultimo gradino
dopo il grande passo:
verso le sorgenti del mattino.

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Flavio Almerighi SEI POESIE INEDITE SUL TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO con un Appunto critico impolitico di Giorgio Linguaglossa

pappagallo del Costa Rica

pappagallo del Costa Rica

L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’utopia (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ(non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

 Flavio Almerighi è nato a Faenza il 21 gennaio 1959. Sue le raccolte di poesia Allegro Improvviso (Ibiskos 1999), Vie di Fuga (Aletti, 2002), Amori al tempo del Nasdaq (2003), Coscienze di mulini a vento (Gabrieli 2007), durante il dopocristo (Tempo al Libro 2008), qui è Lontano (Tempo al Libro, 2010), Voce dei miei occhi (Fermenti, 2011) Procellaria (Fermenti, 2013). Alcuni suoi lavori sono stati pubblicati da varie riviste di cultura/letteratura (Foglio Clandestino, Prospektiva, Tratti). Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016).

Toshiko Hirata  Bicchiere

Toshiko Hirata Bicchiere

Appunto critico impolitico di Giorgio Linguaglossa

 Il principio di esposizione paratattica regna sovrano nella poesia di Flavio Almerighi. I frammenti aforistici indicano che è imminente un sisma le cui avvisaglie si lasciano intravedere in queste scaglie, in queste tracce di un linguaggio ridotto a lacerti pseudo aforistici, si tratta di paralipomena, di frammenti conflittuali che non chiedono più di essere pacificati e composti. Forse, nel principio costruttivo di questo sistema instabile e conflittuale qual è la poesia di Almerighi, si può rintracciare una sorta di scorporazione da un testo originario che è stato rimosso. Di qui le sue tipiche domande: «Amore, / cosa faremo dopo l’amore?». È chiaro che per Flavio Almerighi si può poetare soltanto con un linguaggio sobrio e sgombro di petali o di smottamenti del cuore; si può poetare intorno al «non-luogo», cosa non diversa che poetare intorno ai «luoghi», entrambi dissestati e s-postati altrove, secondo il disegno razionale (e irrazionale) che l’economia globale assegna loro. I «luoghi» quindi sono per Almerighi traslocabili ed «affabili», come gli «oggetti», «disciplinati» alquanto che «chiedono educatamente scusa» in quanto «protagonisti» del nostro tempo «d’erotica scolastica». La sopraffina ironia di Almerighi chiama le cose con il loro nome: «mi piacciono le donne quadrate…»,  comprime gli oggetti e le parole che parlano degli oggetti, perché sa che soltanto tenendole/i insieme mediante un collante si può sperare che esse/essi durino almeno il tempo della loro fruizione da parte degli utenti; anche l’«utopia perduta» è uno di questi «oggetti» e, come tale, dotato di valore e messo sul mercato dei non-luoghi sfitti. Nella asciutta poesia di Almerighi puoi notare in filigrana l’economia delle parole non educate e non amministrate che il poeta lascia filtrare con ironica disinvoltura occupato nelle sue faccende intorno agli «oggetti» (ovvero, l’ottimo luogo «utopia imbottita d’erotica scolastica»), tra scoppi di risa compressi e l’ironico motteggiare del cicaleccio di un quotidiano ormai denaturato, insignificante (il nessun luogo).

Davvero, non potremmo definire optima questa poesia di Almerighi, essendosi perduta la chiave ermeneutica per aprirci quei mondi optimi che un tempo lontano definiva il luogo della poesia. È la poesia stessa a reclamare il proprio posto «nel vano degli oggetti», un posto davvero scomodo, e de-territorializzato.

Pappagallo Costa Rica

Pappagallo Costa Rica

d’erotica scolastica

riparliamo del vano degli oggetti,
utopia imbottita d’erotica scolastica
indubbiamente affascinate, studenti affabili
disciplinati e in linea
chiedono educatamente scusa,
prima linea primo vagito
poi futuro inarcato da protagonisti
sui colori rampicanti di sbalordite primavere
canzoni del cuore a rima con torpore,
se stessa vissuta più volte
lasciata crescere, annaffiata a sottintesi
come foglia a distico, perfetta
scordata nel vano degli oggetti

.
alla stazione di Viergne

alla stazione di Viergne
ho ritrovato l’utopia perduta,
reperto interrato schiacciato
crivellato di passi
un marzo, nero fino alla cintola,
mi manchi – dico
anche tu – risponde,

ho lasciato decantare
l’inatteso piacere,
quando un cane, sette vite tutte morte
mi ha morsicato più forte,
ha morso dove una lettrice disattenta
muove di getto su una poltrona rossa
mostrando attraverso le ginocchia,

dura un tempo l’armonia.
l’antisemita muore di sete
e una zanzara sculetta
dentro un destino
facilmente spiegabile,
il fuciliere prende la mira
senza mancare un colpo

Toshiko Hirata Bicchiere

Toshiko Hirata Bicchiere

Quattordici poemi

mi piacciono le donne quadrate
fanno bambini vestiti,
all’occorrenza sono bionde
ma si lasciano sposare al naturale,
tirano fino a notte fonda
e fanno il bagno spesso,

nonostante quattordici poemi
in teoria mai consegnati
e belli come capelli lisci,
stanotte ne ho sognata una
e come odisseo sono uscito presto,
anzi non sono rientrato

¬tempi minimi nonostante tutto
per prendersi il servizio buono,
quell’altrove è sempre qui
torneremo a casa, lei ed io

.
Nessuna tonalità epica

Un uomo e la sveglia del mattino
che tarda, la suoneria scordata,
l’uomo chiede per quale principio
la giornata sia già fredda, già patita

prende altri cinque minuti,
rivede gli amori della vita,
ne bastano solo due, muove le gambe,
ha freddo non ha più sonno.

La giornata scende a dodici ore,
nessuna tonalità greca
nelle lenzuola sfatte del ritorno
stesso mare mai spostato.

Non c’è sconto
dopo l’inverno altro autunno,
inoccupato dal mestiere di vivere
osserva il cuore – guscio di noce
riparare nel mallo.

Pappagallo Costa Rica

Pappagallo Costa Rica

La settima arte

Amore,
cosa faremo dopo l’amore?

Affretteremo l’eloquio, il piacere
autentico. Finto che sia.
Ci fermeremo
come su celluloide la settima arte
per rivederci più avanti a cose fatte?

Gli anni impiccati oscillano,
il tempo misurato a pendolo e baci
corre prima, scompare ladro
e la tristezza un laccio esile lega,
avvince di lacrime fino a riderne.

Del mio riso scorgo la vergogna
abbracciata alla pienezza breve,
su tutto un bisbigliare di farfalle,
e dentro qualcosa lasciato aperto.
Sbatte.

Amore,
cosa faremo dopo l’amore?

.
Nove Maggio 1978

Facevo la Quinta quand’è morto Impastato,
maggio e già era rigido inverno,
stavo abbracciato a un grembo di rose
finendo per pungermi e sanguinare

di tutte le lettere scritte per niente,
sono la più lunga, messo in bottiglia
affidato al mare dal guscio di ceralacca,
arrivo oggi che sono spaccato e vecchio

e voglio per me un po’ d’infinito.

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POESIE SCELTE di Fabio Dainotti da “Selected Poems” Gradiva 2015 “Il canzoniere desublimato” con un Commento di Giorgio Linguaglossa

bello fermo immagineFabio Dainotti è presidente onorario della Lectura Dantis Metelliana, di cui è stato per anni direttore e poi presidente. Condirige l’annuario di poesia e teoria “Il pensiero poetante”. Ha curato la pubblicazione presso Bulzoni de Gli ultimi canti del Purgatorio dantesco (2010). Ha commentato canti del Paradiso e tenuto conferenze dantesche. Ha pubblicato di poesia: L’araldo nello specchio, Avagliano Editore, Cava de’ Tirreni, 1996; La Ringhiera, Book, Bologna 1998; Un mondo gnomo, Stampa Alternativa,Viterbo,2001; Ragazza Carla Cassiera a Milano, Signum, Bollate, 2001; Ora comprendo,  Edizioni Scettro del Re,  Roma, 2004; Selected poems, Gradiva, New York, 2015. Ha partecipato e partecipa alla vita culturale cittadina, prima come membro del Comitato culturale, poi come membro del Comitato per le onorificenze. Ha collaborato e collabora a quotidiani e riviste di carattere culturale, come “Poiesis”, “Misure critiche” e altre. È presente in numerose antologie. I testi presentati sono tratti da Selected poems Gradiva, 2015 N.Y.

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Giorgio Linguaglossa Il canzoniere desublimato

La poesia di Fabio Dainotti è stata felicemente definita da Francesco D’Episcopo «diario quotidiano e sussultorio dell’esserci» (prefazione a L’araldo nello specchio – Poesie 1964-74) edito nel 1996 da Avagliano editore, una sorta di ironica, autoironica e desublimata epopea del quotidiano, ed insieme diario lirico della passione amorosa, canzoniere di una materia non più cantabile ma soltanto orientabile: il rapporto amoroso o lo stato di innamoramento, con tutto ciò che ne consegue in termini di prevalenza del dispositivo ottico e le visioni  in plein air, come dall’alto di un elicottero, rispetto al dispositivo fonetico e fonematico, dove la raffinata lectio dei classici del Novecento risulta perfettamente digerita. Soluzioni penniane si giustappongono su lacerti di ascendenza foscoliana, il tutto immerso in un liquido di contrasto tipicamente post-moderno: un modernismo metaironico che avvolge il dettato come una linda camicia inamidata e stirata. In questa operazione non è più significativa l’assonanza, la rima o il significante, quanto ciò che spegne la tradizionale orchestrazione sonora, ciò che decolora e sbiadisce i vistosi panni novecenteschi. Leggiamo la seconda poesia della raccolta citata, dove il sabiano andante largo si stempera in uno sviluppo poematico di stampo neocrepuscolare:

Il tuo passo spedito non ha eguali
se incedi su scarpine collegiali
 
ondeggia la tua gonna pieghettata
autunnale nel sole la vetrata
 alta dell’edificio mi richiude
ma io le palme a voi tendo deluse
 
non vedi me che ti vedo parlare
all’amica a te unita nell’andare.

Già allora Fabio Dainotti mette a punto la tecnica del contrappunto e del controcanto, che poi utilizzerà in tutta la sua successiva produzione, che è una tipica operazione estetica post-moderna:

Non dovrei attardarmi sotto il cielo
del parco che circonda la tua villa
e non dovrei fumare un’altra sigaretta
fermo nell’umida ombra della notte
col mio inconfondibile trench bianco
neppure dovrei credermi Humphrey Bogart
solo perché son cupo e silenzioso
e parlo poco e vado dritto al sodo
e la lobbia calcata ho bene in testa
con la testa abbassata avanti agli occhi.

diabolik-eva-kant Roy Lichtenstein

diabolik-eva-kant Roy Lichtenstein

Come recita il titolo, L’araldo nello specchio, vuole anche alludere alla condizione narcisistica che contraddistingue le relazioni umane, il carattere riflesso, la sostanza riflessa che contraddistinguono la riproduzione estetica, quasi che la serenità dell’autocoscienza dell’operazione estetica comporti un distacco necessitato e premeditato, donde la predisposizione melanconica e autoironica dell’io poetico. Con il senno di poi, diremmo che sarà questa la cifra stilistica significativa di tutta la produzione successiva di Fabio Dainotti, erede tardo novecentesco della dissociazione lirica che il Novecento ha lasciato in eredità agli ultimi giunti.

“Minuscoli pharmaka, per esorcizzare l’ansia, per compensare perdite e furti del Tempo, a funzionamento ironico, giocoso”, scrive Vincenzo Guarracino nella prefazione  alla plaquette Un mondo gnomo (Milano, Stampa alternativa, 1994). Ma non ci si lasci ingannare dalla apparente leggerezza dei testi, o dalla grazia quasi penniana, Dainotti è un autore che non adopera mai le rime baciate se non quando esse sono veramente indispensabili, citate, mimate per ricordare che esse un tempo fecero pur parte della tradizione alta:

Positiva, chiara
come un mattino di marzo, Sara;
azzurra e amara.
 
Se Sali sull’ascensore,
se poi scendi, amore,
se avvii il motore,
 

col tuo arioso foulard di seta in testa
coi tuoi veloci knicher bocher
saresti una figurina irreale

 se non fosse l’inferno
di quella trafittura
amara, sotto lo sterno.

Nella successiva plaquette pubblicata nel 2001, Ragazza Carla cassiera a Milano trent’anni dopo, ritorna il metodo del controcanto, questa volta ad un autore novecentesco come Pagliarani. È scomparso ogni intento neoverista, ogni impegno populistico, che pur tenevano alta la dimensione dell’impegno dell’opera di Pagliarani, sono scomparsi gli interni piccolo borghesi, è caduta l’illusione di un possibile anche se improbabile riscatto; ciò che resta è soltanto un edonismo post-consumistico dove la delusione del personaggio Carla sta per tramutarsi in depressione:

Anche Milano si sveglia a quest’ora
La Milano com’era (o com’è ora?
La cassiera sbadiglia
frammenti di piacere nell’ora silenziosa
Rotta da primo fragoroso tram;
il corpo consumato
nella notte d’amore ancora duole.
Calze rossetto un’altra fregatura
Pensa: che vada tutto alla malora.

Sono venute a mutare le condizioni sociali e politiche del fare poesia e, paradossalmente, lo stesso oggetto: la ragazza Carla, nonché le condizioni dello stile. Siamo in pieno post-moderno, sembra dirci Dainotti, e questo, oggi, è l’unico modo di fare poesia. La poesia di Ora comprendo (Roma, Scettro del Re 2004) costituisce un raro esempio di come si possa fare un elegante minuscolo canzoniere alla maniera antica, alla maniera di Catullo, Orazio, Mimnermo.

Nell’età che è trascorsa dal ciclostile degli anni Sessanta al computer portatile dell’era internettiana, nel mentre che sono perente, in caduta libera, tutti gli avanguardismi e le parole innamorate, tutti i manierati eufuismi delle poetiche posticce, Fabio Dainotti ci consegna ventuno composizioni con un linguaggio trasparente e leggero, sul filo di rasoio del tratto di penna agile ed algido. Una donna che si assottiglia, si allontana e scompare sul limite interno della cornice del quadro. Ogni composizione è come un fotogramma, sottratto al tempo, deprivato di essenza. Ciò che rimane è un profumo, un alone, un’aura desublimata come solo è possibile nell’età della leggerezza dell’essere. E che la leggerezza sia una tremenda croce che si abbatte sugli abitanti del nostro tempo epigonico, opino non c’è dubbio alcuno, se appena gettiamo lo sguardo su queste poesie così accuratamente trattate da apparire denaturate.

Stefano Di Stasio

Stefano Di Stasio

Che un poeta contemporaneo guardi ai modelli di duemila e più anni non deve in alcun modo meravigliare, perché sono venute a cadere le ipotesi di scritture modernistiche o post-modernistiche, per il loro non essere più all’altezza dei tempi, se per modernismo si intende una poetica che alligni, come un alligatore, sulla superficie della pellicola del Novecento. E non v’è cupezza in questo canzoniere, non v’è magrezza, c’è la scioltezza e l’agilità di un’età che ha perso essenza, e così la passione è occasionale, gli incontri, imbarazzanti mistificazioni o divertite dissimulazioni. Non c’è più il volo di un Hermes in grado di gettare un ponte tra gli umani e l’oggetto amato confinato nella sua bidimensionale incomunicabilità. Gli amanti sono trattati come figurine di seta o trapezisti mossi da una mano invisibile, e i gesti stereotipati sono il frutto del sogno di un burattinaio misterioso che forse ha dimenticato che la vita ha la stessa stoffa del sogno e i burattini, a loro volta, sono il sogno di un orco denaturato e immaginario, e l’orco è l’invenzione di un dio assente, un deus absconditus nell’epoca che ha perduto tutti i suoi dèi.

E’ come se una maledizione avesse tolto la gravità da sotto al tavolo del mondo, così che gli oggetti e i burattini galleggiano sul mare dell’inessenza, sbattuti di qua e di là, senza tempo e senza spazio, in una dimensione sottile come la pellicola di un film. E il burattinaio è un orco che ha dimenticato la propria in essenza e le sue parole sono della stessa pasta delle parole del poeta: questa è la posta in palio, solo così questo canzoniere d’amore può vedere la luce in un mondo dove tutte le luci sono spente. Leggiamo la poesia intitolata “Piove” tratta dall’ultima raccolta:

M’affaccio alla finestra: piove, piove.
E lei chissà che cosa fa? Si muove
svelta in cucina col grembiule, o guida
il suo fuoristrada arancione
pieno di figli che accompagna a scuola
con l’inseparabile cagna sul sedile posteriore;
e poi rimane sola
a Battipaglia e traffica bellissima
col fruttaiolo le mele, si bagna
i capelli sottili, quella trama
preziosa la pelle del suo viso
che sembra la réclame del bagno schiuma
ma è un’antica bellezza levigata,
affinata dai secoli, dal tempo.

Leggiamo un’altra poesia significativa della scomparsa dell’oggetto, “Alma ausente”:

Celeste non ha occhi, veramente:
se guarda me, non vede quasi niente;
eppure l’amo tanto.
Celeste non ha mani, veramente:
infatti m’accarezza solamente
in sogno; piango intanto
da solo tristemente.
Celeste non ha cuore, veramente:
se le parlo d’amore non sente niente.
L’amo ciecamente.

La bellezza da bagnoschiuma o “Celeste” che non ha occhi e che non ha mani e non ha cuore, indicano che veramente il poeta moderno è rimasto senza oggetto; non c’è più una ragazza Carla piccolo borghese che cerca il riscatto e la risalita sociale. Dal punto di vista strettamente sociologico-estetico, l’oggetto ha perduto l’aura che lo rendeva interessante e quindi degno di considerazione in sede estetica. Ciò che rimane al poeta moderno è soltanto il metodo del controcanto: la finzione di accettare l’oggetto come se fosse un soggetto, la finzione di accettare l’esistente come se davvero fosse esistente.

Une femme mariée di Jean-Luc Godard

Une femme mariée di Jean-Luc Godard

Da L’araldo nello specchio, Avagliano Editore, 1996

Ulcus
Per Elvira

Ulcus vivescit ut ignis
Lucrezio

Al lume di candela,
copiose mi discendono,
ma silenziose, in cave gote lacrime,
perché arde la piaga come fuoco.
E impietrano, gocce
di cera. In secchi boschi, tramontato
il sole, i lupi azzannano la luna.

Da Sera, Edizioni Pulcinoelefante, 1997

Sera

In memoria di nonna Anna Maria
Fitti si richiamavano gli uccelli,
il sole impensieriva dietro gli alberi.
Il vento ti levava dalle braccia
la stanchezza di un giorno: era la sera.

Da La Ringhiera, Book Editore, 1998
1

Slanciata tu non sei, neppure bassa
(se muori adorerò la tua carcassa).

Lontana sei più piccola
della mia mano;
vicina
sei dettaglio di labbra, primo piano.
14

Quasi ogni giorno ti vedo passare
col nastro tra i capelli. Mi fa male
non fermarmi con te, con te parlare
a lungo sotto gli alberi del viale.

.
Da Ragazza Carla cassiera a Milano trenta anni dopo, Signum, 2001

.
Anche Milano si sveglia a quest’ora

Anche Milano si sveglia a quest’ora,
la Milano com’era (o com’è ora)?
La cassiera sbadiglia
frammenti di piacere nell’ora silenziosa,
rotta dal primo fragoroso tram;
il corpo consumato
nella notte d’amore ancora duole.
Calze, rossetto, un’altra fregatura.
Pensa: che vada tutto alla malora.

.
Da Un mondo gnomo, Stampa Alternativa, 2002
Alla stazione prossima

Cordoba
Lejana y sola
Lorca

È grassa e ingioiellata la cassiera
e certo m’inganna sul conto, ma devo
abbandonare tutto, ripartire,
un automa, un gnomo, nella neve .

Alla stazione prossima ventura,
destrieri porteranno la mia morte
– una giovane morte tra le rose;
una bevanda d’oro lenirà,
per un istante, la mia sete d’altro,
alla stazione prossima ventura.

Alla stazione delle Effe Esse
il treno è soltanto un locale.
Ma quando parte, quando arriva a Cordoba?
I volti: affilati gioielli
Luce, luce irreale !
Assomiglia a una casa di piacere.
La corona di spine, poi le rose
alla stazione prossima ventura.

.
Da La coscienza captiva in Maliardaria, di Fabio Dainotti di Carlo di Lieto, Simone Editore, 2006.

.

fumetto volto femminile

fumetto volto femminile

Corporale

Per Elvira

L’immenso edificio dei ricordi
Proust

Se sfiori i tasti bianchi e neri come
i tuoi pensieri rondini volate
oltre mare per sempre,
forse è per caso, forse in sogno, infatti
si muove la tua chioma al ralenti.

Ma suono non emette; chi ha tolto
le mie stampe dal muro, chi ha sciolto
a Cloe la cintura e poi fuggì?

Altro tempo. Altro inverno a Marienbad:
mi venivi incontro con le ciocche
ritmiche al tuo marciare musicale,
– frangersi della ghiaia sul vialetto
dei nostri incontri misteriosi, certo
sorvegliati da un occhio che si aprì;

e con i lembi aperti come rose
– ferite delle tue labbra amorose
di quell’amore breve.

Ma ci ripassi per Vicenza, tu?
La rivedi la Villa Malinconica,
sulle rive del Brenta ?

.
Da La coscienza captiva in Maliardaria, di Fabio Dainotti di Carlo di Lieto, Simone Editore, 2006.

.
Cane e padrone

a T. Mann

.
Il mio cane si chiede certamente
se sia saggio passare le giornate
chiuso nel mio studiolo,
sul mezzanino triste.

Fuori la vita celebra
i suoi fasti in questa
foresta innaturale.

A noi sembra degrado, ma qualcuno
più giovane, cresciuto,
se ne rammenterà.

.
Novecento

Chi l’avrebbe mai detto
che i tavolini dei Caffè all’aperto
sono muti e senz’ anima nei pomeriggi deserti,
quando anche la ghiaia celeste ha qualcosa da dire alle statue,
quando i passeri incerti salutano la morte dell’estate
e gli amori impossibili per le belle sconosciute
sono storie narrate a mezza voce
davanti a una pinta di birra in angiporti fumosi,
dove uomini col moncherino sputano al passaggio
degli hollow men che dicono sempre di sì a pescecani col sigaro
dalla cenere così incredibilmente appesa al filo del morire
-trame di seta, materia di sogni,
una tromba solista attacca a suonare
tre note solamente,
chissà dove.

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DODICI POESIE di Ewa Lipska (1945) traduzione e Commento di Paolo Statuti, con un Commento improprio di Giorgio Linguaglossa

Ewa Lipska

Ewa Lipska

 Ewa Lipska poetessa e pubblicista, è nata a Cracovia l’8 ottobre 1945. Comincia a scrivere versi già negli anni del liceo. Debutta come poetessa nel 1961, pubblicando sul quotidiano Gazeta Krakowska la poesie Krakowska noc (Notte cracoviana), Smutek (Tristezza) e Van Gogh. Si diploma all’Accademia di Belle Arti di Cracovia. La poetessa ricorda così questo periodo di studi: “All’Accademia ho seguito i corsi dei professori Adam Marczyński e Jonasz Stern, artisti eccellenti e affascinanti interlocutori, ma non sopportavo l’odore dei colori a olio e della trementina. Mi interessava di più la storia dell’arte. Inoltre sapevo che con l’aiuto delle parole potevo dire qualcosa di più che dipingendo i quadri. Ma gli anni dell’Accademia mi hanno insegnato come si “legge” un quadro, e spesso mi piace utilizzare queste letture pittoriche. Dal 1970 al 1980 lavora presso la prestigiosa casa editrice  Wydawnictwo Literackie, dove cura le collane di poesia, continuando la sua attività creativa. Dal 1995 al 1997 direttrice dell’Istituto Polacco di Vienna. Cofondatrice e redattrice di diverse riviste letterarie, tra cui il mensile “Pismo”. Vicepresidente del PEN Club polacco. Ha ricevuto molti prestigiosi premi nazionali e internazionali per la sua creazione letteraria. Le sue poesie sono state tradotte e pubblicate in quasi 40 lingue. Autrice di numerose raccolte poetiche, tra le ultime: “Ja” (Io, 2004), “Pogłos” (Rimbombo, 2010), per la quale ha ricevuto il premio “Gdynia”, e “Droga pani Schubert…” (Cara signora Schubert…, 2012). Ha scritto inoltre diversi testi poetici di canzoni di successo.

Per il suo anno di nascita e per quello in cui uscì il suo primo volume  “Wiersze” (Poesie, 1967), Ewa Lipska, che è indubbiamente una delle più importanti poetesse polacche contemporanee,  appartiene al gruppo di poeti della “Nowa Fala”, in polacco “nuova ondata” o “nouvelle vague”, o detta anche “generazione ‘68”, vale a dire gli autori nati intorno alla metà degli anni ’40, come: Stanisław Barańczak, Adam Zagajewski, Ryszard Krynicki, Julian Kornhauser e Krzysztof Karasek (nato nel 1937).

Ewa Lipska

Ewa Lipska

La poetessa tuttavia rifiuta ogni appartenenza a qualsivoglia gruppo  e da anni manifesta coerentemente la propria individualità creativa, sempre peculiare, come peculiari ed espressivi sono la sua dizione poetica, le metafore, la densità di significato, il paradosso. Qualcuno a tale proposito ha detto che la creazione di Ewa Lipska è nella poesia polacca contemporanea, quello che l’ablativo assoluto è nella sintassi latina, cioè un sintagma a sé stante.

La sua poesia bella, ironica, inquietante è il frutto di una sofisticata intelligenza, talvolta rovente, malinconica, ma sempre umana. Piotr Matywiecki, poeta, critico letterario e saggista scrive: “La poesia di Ewa Lipska si distingue per la sua immaginazione insolitamente vivace. Con sorprendente disinvoltura nel suo mondo si può paragonare una classe scolastica alla storia dell’umanità, il traffico stradale al moto della mente, una malattia a un avvenimento pubblico. (Questo è anche il “metodo” poetico della Szymborska)”.

Ed ecco cosa scrive il prof. Włodzimierz Wójcik,  storico della letteratura, critico letterario e saggista: “Il mondo dell’immaginazione poetica di Ewa Lipska è straordinariamente ricco – esso attira e affascina. Sembra essere compreso tra la vita reale e la sfera del sublime. Con un’ala tocca la terra, le città, i villaggi, la vita di tutti i giorni con le sue difficoltà, le sofferenze del corpo e dell’anima e con il suo grigiore; con l’altra è unito a ciò che è angelico, sognato, desiderato… Il mondo reale e il mondo dell’immaginazione poetica  creano una autentica armonia”.

Per concludere vorrei riportare alcune domande e risposte tratte da una interessante intervista con la poetessa, realizzata tempo fa dal poeta, prosatore e traduttore letterario dalla lingua italiana Jarosław Mikołajewski.

Ewa Lipska

Ewa Lipska

Scrivere è una gioia?

   Ripeto spesso che scrivere è il più importante aneddoto della mia vita. Ma non parlerei di “gioia”, perché il processo creativo è difficile e a volte anche ingrato. Una piacevole occupazione è quella di prendere delle note, di scrivere degli schizzi. E’ un po’ come toccare le corde di un violino. Ma poi bisogna comporre la melodia o l’intero concerto.

Qual è la più grande gioia del poeta?

   Le poesie che diventano care al lettore, gli incontri con la gioventù. Mi rallegrano anche le lettere che ricevo dai giovani amanti della mia “gioiosa creazione”.

Come agisce la poesia?

   È una questione individuale. Dipende dal lettore stesso e dalla sua preparazione intellettuale, dalla cultura letteraria, dalla sua immaginazione. A volte apprezziamo un autore, ma non lo amiamo. Ci saranno sempre quelli che preferiscono il pesce e quelli che invece sono vegetariani. A volte riusciamo a gustare la letteratura, la pittura, la musica. “Non riesco a trovare alcuna differenza tra la musica e le lacrime” scrisse Fredrich Nietzsche, e in ciò risiede di sicuro questo segreto. Il segreto del gustare. Ritrovo questa disposizione spirituale nelle sale da concerto. Similmente è con l’amore. Sappiamo che c’è, ma non riusciamo a definirlo. Per fortuna ciò non è necessario. Sappiamo soltanto che ci crescono le ali e che ci solleviamo nell’aria. Il poeta cerca due, tre, qualche parola per descrivere le emozioni, il caos e l’armonia.

E qual è la cosa più importante?

   La cosa più importante è il senso della vita. È la consapevolezza di riuscire a realizzare qualcosa dei nostri sogni. Ciascuno di noi può inventare una lampadina ed essere un Edison. E forse l’amore, che è al di sopra di tutto.

Ewa Lipska cop

Commento improprio di Giorgio Linguaglossa

Quando ci accingiamo ad entrare dentro la poesia di Ewa Lipska ci accorgiamo che non abbiamo in tasca la chiave da far girare in quella serratura. Sono versi che sembrano minimalisti ma che in realtà sono ultronei, sfiorano il truismo per slanciarsi subito dopo nell’iperuranio dell’assoluto e dell’assolutorio; versi che fanno del contraddittorio e del principio di non contraddizione i perni attorno cui ruotano tutte le metafore e le fraseologie, dove il contraddittorio viene adottato per dimostrare la falsità del principio di non contraddizione e del principio di ragione sufficiente, poiché la terra e la storia degli uomini vengono rivisitate con l’ausilio dell’ossimoro e della tautologia, mediante frasi sentenziose e assertorie appunto per rimarcare e sottolineare la profondissima non assertoricità del reale, ove il tutto assertorio si capovolge e diventa il tutto interlocutorio derisorio. Per la Lipska, l’assurdo e il derisorio sono il reddito di cittadinanza del reale, della storia e degli uomini che la abitano. Gli uomini sono i titolari di questo reddito di cittadinanza a scadenza fissa, un po’ come i titoli di stato, con delle differenze che vanno dai titoli trimestrali e quelli decennali e ventennali che beneficiano di un tasso più alto e che valgono, fin che valgono, fin quando lo stato non dichiara default. La storia ha senso proprio perché non ha un significato e perché rischia sempre di finire nel default. Qui sta l’elemento del comico e del derisorio di questa poesia, che essa si presenta nelle vesti del sardonico e del comico mentre che ci intrattiene con l’insulso e l’assoluto, con il falso e il similoro.
A mio avviso la chiave per entrare dentro la poesia di Ewa Lipska sta in questi versi:

cerchiamo nervosamente
il certificato di garanzia
che mantiene la parola.

Il problema è, appunto, che non c’è alcun certificato di garanzia per la parola se non la parola stessa, cioè, quanto di più effimero e transeunte ci possa essere nel creato. Appena pronunciata la parola passa, invecchia e scompare. E allora, quali parole pronunciare? La risposta credo sia semplice: Non pronunciare nessuna parola, oppure, pronunciare la tautologia o la filiazione delle fraseologie l’una dall’altra:

Nei viaggiatori c’è il treno. Battono in essi le ruote.
E nelle ruote c’è l’eternità. Nell’eternità c’è la paura.
E nella paura c’è il silenzio. E nel silenzio il più silenzioso.
Nei viaggiatori c’è il treno. E il continuo gioco delle ruote.

Ma forse il problema non è soltanto nelle Parole. Da questo angolo visuale il problema rimarrebbe insoluto e insolubile; il problema potrebbe essere visto anche da un altro angolo visuale… da un altro universo…

da Ewa, Lipska 20 poesie, Edizioni CFR, luglio 2014

L’esame

L’esame per il posto di re
andò a meraviglia.
Si presentarono alcuni re
e un apprendista re.
Fu scelto re un certo re
che doveva essere re.
Ottenne punti extra per le origini
l’educazione spartana
e per il sorriso
che prese tutti alla gola.
In storia rivelò
notevoli capacità di sorvolare.
La lingua obbligatoria
risultò la sua madrelingua.
Quando toccò il tema dell’arte
avvinse il cuore della commissione.
Uno dei membri della commissione
avvinse un po’ troppo forte.

quello era davvero un re.
Il presidente della commissione
corse a chiamare il popolo
per consegnarlo solennemente
al re.
Il popolo
era rilegato
in pelle.

.
A due voci

– Non sarò più tua moglie.
– Non sarò più tuo marito.
– I bambini non capiranno cos’è accaduto.
– Bisogna mandarli al cinema.
– I segugi dei miei pensieri hanno fiutato
la separazione.
– Una grossa cicatrice dopo questo amore
resterà.
– Lo seppelliremo visto che è giunto
così insensato.
– Le sentinelle dei ricordi metteremo
presso la bara.
– Quanto si può tenere un cadavere
in casa?
– Quanto si può tenere un cadavere
nel cuore?
– Faremo brevi discorsi.
– Gli augureremo ogni bene.
– Affinché non ritorni.
– Forse ancora una volta…
– Non ci troverà in casa. Andiamo in tintoria.
– Troppo incauti siamo stati con noi stessi.
Prima dell’alluvione fuggivamo verso il fiume.
– Prima della siccità fuggivamo verso il sole.
Eternamente stanchi abusavamo della farmacia.
– Coprivamo le orecchie quando l’orologio ci minacciava
sonando l’allarme sonando l’allarme.
– Ci separavamo per ulteriori incontri
su una funivia. Fissando il baratro
sceglievamo l’amore che ci occorreva.
– Eravamo atterriti dalla profondità del destino.
– Soli come il deserto che non spera più nel cielo.
– E soltanto del nostro amore ancora
la camicetta di seta. Del nostro amore
il pettine.
– E le labbra
che impediscono l’accesso alla parola.
– La sera fa già fresco.
Prendiamo i cappotti dei bambini.
– E andiamogli incontro.
Il cinema è lontano.

Il giorno dei Vivi

Nel giorno dei Vivi
i morti giungono alle loro tombe
– accendono le luci al neon
e piantano i crisantemi delle antenne
sui tetti dei multipiani sepolcri
a riscaldamento centralizzato.
Poi
scendono con gli ascensori
verso il quotidiano lavoro:
la morte.

Ewa Lipska

Ewa Lipska

Mia sorella

Mia sorella ancora non sa
che il mondo è condannato all’atlante.
E l’atlante è un enorme piatto eternamente affamato.
E’ un giornale di paesi-modelli ritagliati. A volte fuori moda.
Che all’improvviso tutto è chiaro quando si esce dal cinema.
Che le idee aderiscono perfettamente ai manichini.
Che non c’è morte che serva di esempio.
Che la morte è soltanto di natura.
Che volendo guardare il cielo bisogna
portarlo prima alla censura.
Che il più alto sapere è nella biblioteca dello spazio.
Che l’amore è amore. E l’amore è un giardino.
Che in questo giardino bisogna sfuggire l’autunno.
Che in un giardino non si può sfuggire l’autunno.
Che nessuno impedirà più la divisione delle cellule.
Che la vita è finita quando comincia.
Che Isolda è vecchia. Soffre di reumatismi.
Che la storia è una grande pattumiera.
Serve a far sparire le date e a spaventare i bambini.
Che quando la notte per un attimo gli occhi ci adombra
si risvegliano in noi gli uccelli gridando: Terra! Terra!
E allora scopriamo un nuovo continente: l’Uomo
che sulle palpebre la calda mano ci posa…
Ma mia sorella sa già
Che A come Ada.

*

Non mi ha salvata l’alluvione
benché giacessi già sul fondo.
Non mi ha salvata l‘incendio
benché bruciassi per molti anni.
Non mi hanno salvata le disgrazie
benché mi investissero treni e automobili.
Non mi hanno salvata gli aerei
che sono esplosi con me nell’aria.
Si sono abbattute su di me
le mura di grandi città.
Non mi hanno salvata i funghi velenosi
né i precisi tiri dei plotoni d’esecuzione.
Non mi ha salvata la fine del mondo
perché non ne ha avuto il tempo.
Nulla mi ha salvata.
VIVO.

Certificato di garanzia

La nostra macchina da matrimonio
si è inceppata all’improvviso.
E benché continuiamo
a pelare i pomodori
a tagliare sottilmente l’aglio
a infarcire la serata
di parole sul sesso
e a mangiare ricordo
dopo ricordo
cerchiamo nervosamente
il certificato di garanzia
che mantiene la parola.

Ewa Lipska

Ewa Lipska

Nessuno

Sono d’accordo su questo paesaggio
che non esiste.
Mio padre regge nella mano il violino.
I bambini leccano il suono.
La corrente d’aria
investe i petali delle rose.
Poi la guerra. Ci perdiamo di vista.
A frasi intere si celano le parole.
La stanza vuota
parcheggiata nell’oscurità
dell’edificio.
Prego lasciare un biglietto
dice nessuno.

Natura morta

La natura morta comincia a guastarsi.
Arrugginiscono le viti dei giaggioli. Dalla frutta
di Chardin Courbet Cézanne
si leva un odore nauseante.
La tela perde la vista.
Nel bicchiere una pietra di vino.
Insopportabile il nero.
Profetiche visioni
dei dittatori della moda:
si approssima l’epoca dei lampi.
Piante terrestri anfibi e mammiferi
soffierà via il corno.
Il tempo accadrà sempre più raramente.
Sarà sempre più breve. Sempre di meno.
Dunque togli dalla borsetta il nostro amore.
E affrettati. Un brandello di oltremare
annuncia che faremo in tempo a ridere.

Amore

L’amore è un indovino.
Prevede se stesso te e me.
E’ del popolo eletto
e usa una lingua
ad alta tensione.
Nella Biblioteca Nazionale
macchia perfino
i libri poco letti.
In una valanga di cori
scopre un’eco
di euforia e di morte.
E quando ti raggiungerà
cerca di essere in casa.
O qualcosa del genere.
Pur di incontrarvi.

Sogno

Il sogno mi dava quindici possibilità.
Tre vie d’uscita da una situazione alquanto difficile.
In una di esse bisognava usare la chiave
che tenevo in mano.
Nel sogno proiettavano un film sulla fine del mondo.
Nessuno dei presenti in sala ha chiesto: e dopo?
Le poesie scritte nel sogno erano molto buone.
Quelle non scritte affatto – non erano peggiori.
Il tempo era come doveva essere.
Bisognava con tutto questo andare verso la veglia.
Mi ha sorpassata un gruppo di atleti
che correvano oltre il tempo.
Una vecchietta ha preso un sonnifero
ed è tornata indietro.
La veglia è sopraggiunta inattesa.
Le ho comunicato soltanto il dolore alla testa
posata male sul bianco cuscino.

Ewa Lipska

Ewa Lipska

Forse

Forse ancora mi resterà
sbiadita come inutile verso
una fotografia. L’ultima separazione
il cielo con la pioggia svolgerà su tamburi.
E il giorno verrà il giorno verrà il giorno verrà
nel tuo grigio stinto vestito
nella fotografia così piccola così concisa
che è possibile stringere in una mano.
E più non so più non so più non so
se tu eri o sei o sarai
forse guardi e di rimpianto è il grigiore
forse soltanto con noncuranza gioisci
forse pensi che la vecchiaia già vecchiaia
adesso da me con impeto si affretti.
Tu ti sei fermata e aspetti. Io sono in cammino.
Tu negli occhi aperti ti sei fermata.
Ed io guardare non posso non posso.
Perciò guardo mortalmente ostinata.


Vetri

Che pena guardare quei vetri oblunghi.
Donne assonnate si tolgono il trucco dal volto.
E accanto cupi passano i viaggiatori.
Dietro di loro c‘è il paesaggio. La truppa marcia.
Nel paesaggio ci sono i tavoli. Sui tavoli c’è il vino.
A un tavolo una ragazza. Nella ragazza c’è il sorriso.
E nel sorriso c’è la tristezza. E tutto è come al cinema
in quei vetri oblunghi. Nella ragazza c’è il sorriso.

Fa pena guardare. Donne assonnate.
Nelle donne c’è l’amore. Nell’amore c’è la fine.
E poi ci sono solo vetri oblunghi
e la tristezza. Viaggiatori. Nell’amore c’è la fine.

Nei viaggiatori c’è il treno. Battono in essi le ruote.
E nelle ruote c’è l’eternità. Nell’eternità c’è la paura.
E nella paura c’è il silenzio. E nel silenzio il più silenzioso.
Nei viaggiatori c’è il treno. E il continuo gioco delle ruote.

Che pena guardare. La truppa marcia.
Nel soldato c’è la pallottola. E nella pallottola c’è la morte.
E nella morte c’è tutto e nulla c’è nella morte.
E nel sorriso c’è la tristezza. Nell’amore c’è la fine.

A un tavolo una ragazza. Nella ragazza c’è il cuore.
E nel cuore c’è un soldato. Nel soldato c’è la pallottola.
E piange la ragazza. Passano i viaggiatori.
La fresca notte si specchia nei vetri oblunghi. Continua a leggere

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UNDICI POESIE di Luca Vaglio Milano dalle finestre dei bar (2013) con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Milano Periferia_PortaVigentinaMilano 1952 Mario De Biasi

Milano Periferia_PortaVigentinaMilano 1952 Mario De Biasi

 Luca Vaglio è nato a Dervio (Lecco) nel 1973 e vive a Milano, dove lavora come giornalista. Attualmente, collabora con la Repubblica. Milano dalle finestre dei bar è il suo secondo libro di poesie (Marco Saya Edizioni – 2013). Ha già pubblicato La memoria della felicità (Zona – 2008), Linfa elettrica (Gattili – 2012) e il racconto In riva al Lario (Lite Editions – 2013).

Commento di Giorgio Linguaglossa

 Il libro di Luca Vaglio trae vantaggio dagli esiti cruenti di quella crisi che ha visto il dissolversi della cultura dello sperimentalismo in una faglia gassosa di verbalismi e di significanti finalmente liberati dall’impostura di una cultura che li aveva utilizzati quali strumenti e grimaldelli per scassinare una serratura già aperta. Resta una zona geografica chiamata Milano, ma, appunto «vista dalle finestre dei bar» da una generazione espulsa dai circuiti produttivi, una generazione generata dalla crisi e che della crisi si ciba come di una cura omeopatica. La resistenza del «soggetto» è qui stata superata con una a volte brillante aderenza alla a-metricità della narratività diffusa. Di qui il rapporto paritario-ubiquitario tra il compito di razionalizzazione del «soggetto» e la tendenza fideiussoria propria di ogni fondamentalismo stilistico. Direi che la poesia di Vaglio si inscrive in quel concerto di opere poetiche che si occupano dei trucioli, delle faglie della modernità. Del resto, il carattere gnomico, l’eleganza, la clarté, la concisa forma snob della proposizione poetica non devono essere confusi ed equivocati come elementi negativi ma come momenti positivi di una sensibilità che si è gettata alle spalle una lunga e invadente tradizione non solo lombarda. Così, la post-poesia di Luca Vaglio non si inscrive ad alcun orizzonte riappropriativo, si limita a sopravvivere tra le micro narrazioni dell’io disperso in quella metropoli che si chiama Milano. In fin dei conti, se è vero quel che asseriva Heidegger, che il cuore del Moderno è che l’essenza della tecnica non è a sua volta qualcosa di tecnico, ciò si può parafrasare così: l’essenza della poesia non è a sua volta qualcosa di poetico… ma sta altrove… fuori della poesia…

 (da Luca Vaglio Milano dalle finestre dei bar 2013, Milano, Marco Saya Edizioni pp. 50 € 10)

Milano tram via Pascoli

Milano tram via Pascoli

Milano

Le luci della tua notte sono ghiaccio e pompelmo
aprono la via, la sosta volontaria
sui riflessi grigio-metallo del bancone
schiuma di birra sopra il linoleum e tre euro da non pagare
forse un regalo
un gioco o la memoria segreta del cuore
attorno ciao e niente e silenzio
e rumore di folla davanti all’autorimessa
mojito minerale, rhum freddo senza menta
razione nuova-liquida di ossigeno
a lavare l’aria, a correggere l’afa e l’estate
vicino alla strada oasi di tigli
terra secca che taglia l’asfalto
le lucciole del sudamerica milanese
e voci e baci e bicipiti, tacchi e cotone
festa gialla e cronica di luglio, movida-janga
al confine di Lambrate

Luca Vaglio Milano dalle finestre dei bar copertina

Amore tra baristi a Milano
domenica di sole velato l’otto agosto
nel pomeriggio che fa le veci del mattino
e segue lento una notte insonne di birra e mojito
il mago dei cocktail bacia la collega biondo platino
sul tavolino vicino alla porta dove tracce di vomito
sbiancano qua e là il tappeto nero davanti all’entrata
e non c’è quasi nessuno
ma si sentono passi arrivare
lei vede l’ombra di un profilo conosciuto
memoria di una vodka alla pesca di poche ore prima
e assoluta come le lingue e le braccia che si toccano
li prende una paura strana
un’idea assurda di vietato
un distacco improvviso che rompe l’abbraccio
che ammette solo un godere rubato e precario

*

Al cinema Mexico, in compagnia di me stesso

la protagonista del film è di fronte a un bivio:
tornare da un vecchio amore o rischiare il futuro

più tardi andrò in via Solari a prendere un gelato

la decisione lascia sotto traccia la paura
di non sapere quale sia il perimetro della mia vita
nessuno a segnare il confine, a dire chi sono

mi chiedo se questa assenza di condizioni
così estrema da apparire usurpata
non sia in anticipo sui tempi
se per vedere aldiqua e aldilà di me
non convenga scendere a patti con la pena degli altri

Milano Quartiere Quarto Oggiaro, periferia nord, un condominio

Milano Quartiere Quarto Oggiaro, periferia nord, un condominio

Birra di troppo liquida
il sonno, regala la veglia alcoolica
di un presente verticale
e dolore dentro gli occhi
nausea fredda per il corpo
e ancora necessità di non fare
di stare senza pensare
di guardare la vita da fuori
protetto da una smagliatura temporale
una dissolvenza sull’ora della morte

*

Capodanno
e tre giorni
in un bar di Milano
angolo via Solferino
birra belga
Kwak
rosso-ambrata
otto gradi e quattro
aerea e setosa
come lana buona
l’aperitivo che resta
polenta, rucola
trofie al pesto

aspetto l’ora del cinema
e non so bene se ordinare
un calice di Porto bianco

mi guardo attorno
non vedo più
un uomo, una donna
un gruppo di amici
tutti usciti
nella stanza
oltre a me
due bariste

luci basse
candele accese

basta così
a volte un segno
viene dalle cose

*

Domenica al Parco Lambro
libri e una bottiglia di Moretti
al baretto dove si sfidano a carte
e a scacchi all’ombra dei platani

Milano è così bella e ruvida qui
mi siedo a un tavolino
guardo le persone attorno
scherzano, giocano
prendono da mangiare

mi ascolto respirare
la condizione di essere solo
insieme a me stesso
diventa pensiero
mi fa stare bene

ma sono contento quando squilla il telefono

è un amico che avevo cercato ieri
parliamo di Juve, del calciomercato di giugno

torno a sbirciare la gente
raccolgo frammenti di frasi
leggo e bevo birra

sono quasi felice
ma non sono sicuro
se questa liberazione dagli altri
questa vita mercuriale
è tutto quello che devo fare

milano il naviglio pavese in secca e palazzi residenziali del quartiere barona alla periferia sud

milano il naviglio pavese in secca e palazzi residenziali del quartiere barona alla periferia sud

Abito una nicchia possibile
un angolo, un canto vuoto
a vita rallentata
che gli uomini vedono
e passano nel tempo libero
dove sonno e cibo
sono accidenti variabili
e le cose del mondo
mancano, galleggiando più in là
fuori dal raggio delle mie braccia

*

Seduto tra le voci e la musica
del birrificio di Lambrate osservo
che è poca la differenza tra il colore
rosso-bruno di una Porpora
e il marrone della torta al cioccolato
– anche il tavolo di legno sta lì,
a fare da contrappunto –
e mi sento quasi un evaso
da non so bene dove
forse dalla mia casa
lontana trecento metri
o da una chiusa del tempo.

Penso che fuori dai cassetti
ben ordinati della memoria
ci sia vicinanza tra le cose
che l’anima della distanza
sia un fatto di forma
che alla fine solo la paura
separi il passato dal futuro

*

Sera d’inverno all’Hemingway
– quattro guardano il Milan –
fuori dai vetri la neve
cade veloce e perfetta

cedo al bianco, lo spazio
buono per uscire da me
dove pulsa una memoria
larga e vera come un senso

*

Gocce secche di caffè
leggere come acquarelli
sul piattino bianco opaco

il tovagliolo di carta sottile
premuto sul fondo della tazza
si beve quel po’ di liquido che resta

pasta fredda sul bancone del bar
e tutta la libertà
alle otto di sera
in uno stato di veglia flebile
scampato a una notte insonne

la libertà di uscire
e di assolvere quello che è stato

Milano Periferia nord

Milano Periferia nord

Lampadine viola ai vetri del Caffè Luna
unica luce a far vedere le cose
insieme all’alba afosa di luglio

Linda – è il suo nome italiano,
la sua identità milanese –
mi porta un succo d’arancia
e si siede a un tavolino
non le serve stare al bancone
ci sono solo io
che leggo la Gazzetta dello Sport

si scatta delle foto con il suo iPhone bianco
tutte primissimi piani
forse poi le mette su Facebook
oppure lo fa per misurarsi il sorriso
la curva dell’incarnato avorio
lei ancora ventenne
arrivata bambina dalla Manciuria
per una parte da diva
qui, in un bar all’angolo tra Lambrate e Città Studi

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SETTE POESIE INEDITE di Anna Ventura “In fondo in fondo”, “Due fili d’erba”, “Guadalupe”, “La nebbia sale dalle strade”, “Baia”, “La neve di ovatta” con una nota critica di Gino Rago e un Commento di Giorgio Linguaglossa

Picasso Every act of creation is first an act of destruction I do not seek. I find

Picasso Every act of creation is first an act of destruction I do not seek. I find

 Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a  quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la  Tabula Fati di Chieti.

Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo. È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate  in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV.-Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin,traduzione di  Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 con EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (poesie 1978-2013). Dieci sue composizioni sono apparse nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016).

 https://www.youtube.com/watch?v=OAUtpza1N_4

piedi con corda

piedi con corda

Commento di Gino Rago

 Forse è difficile apprezzare appieno l’icasticità, la leggera ironia del dettato poetico della poesia di Anna Ventura, «la Szymborska italiana» come è stata felicemente definita nel blog “L’Ombra delle Parole” da Giuseppina Di Leo, sospeso tra attenzione e ritenzione, interrogazione e risoluzione. Nella poesia della Ventura assistiamo alla poesia delle «cose», dove sono le «cose» che ci parlano tramite la loro distanza; è all’allestimento della «distanza» che qui ha luogo, l’allestimento di un luogo dove sia possibile l’incontro tra la voce parlante e l’occhio di chi legge e ascolta. È una poesia che nasce da Atena che «conosce la superficialità degli dei», dalla Sibilla che non cerca la verità delle «cose» ma il loro «evento», da Antigone, che invece cerca la verità delle «cose» al di là e al di fuori dei discorsi discordi dell’agorà, lontana mille miglia dai reumatismi dell’intelligenza e dalle insolvenze dei discorsi suasori della politica e della poesia corrotta dalla retorica e dai sofismi dei sofisti. La loro parola è ora lieve ora tragica ora soffusa di melacholia. La Sibilla, anch’essa è leggera, scrive le proprie sentenze sulle foglie degli alberi, abita la superficie della materia, cambia umore, e così cambia anche i suoi responsi. La poesia della Ventura è poesia politica e ermeneutica perché nasce dalla meditazione sopra le «cose», siano esse “Gli sposi etruschi”, o “Le case” o le poesie dedicate alle “streghe”, siano “Due fili d’erba” o qualsiasi altro argomento come il poeta Nerone, preso ad emblema della follia poetica, o Giulio Cesare che celebra inconsapevole il suo trionfo che sarà la sua rovina, o “La guardiana delle oche”, così misteriosa e insondabilmente autentica. “La neve di ovatta” è un ricordo dell’infanzia, una stregoneria che rievoca il mondo in cui tutto era un mistero. L’ultima poesia dell’antologia (che qui viene riprodotta per prima) è il testamento spirituale di Anna Ventura: la parola che pronuncia «il dissenso».

piedi senza corda

piedi senza corda

Commento di Giorgio Linguaglossa

Per Anna Ventura la poesia è quella cosa che non è stata scritta con l’intenzione di arrivare a destinazione. Per la Ventura la poesia è un messaggio interrotto. La poesia che raggiunge la destinazione cessa di essere poesia. Per la Ventura l’ufficio della poesia resta il «dissenso» verso ogni ipotesi di poesia logocentrica, verso ogni logos fondante, centrale e originario. Non si dà nessuna origine, la poesia può solo attraversare la «distanza» tra le «cose».

Per Derrida, il «logocentrismo» è il desiderio stesso di un centro, di un fondamento, su cui si costruisce il “bisogno di verità” della metafìsica. La vicenda della scrittura ha messo in luce come questa posizione centrale sia occupata dalla coscienza, e cioè dalla voce (“phoné“). La voce infatti è la coscienza, poiché garantisce la completa trasparenza dell’elemento espressivo, il suo immediato svanire nell’immediatezza del voler-dire, evitando quel che Platone paventava nella scrittura (“figlio bastardo e parricida”), e cioè la perdita del senso e l’incapacità di “difendersi” o, peggio, la possibilità di rivoltarsi contro il “padre-logos” (“La farmacia di Platone“). Che la metafisica sia sorta entro un orizzonte culturale che si avvale di una scrittura fonetica è un dato storico non secondario, poiché solo una scrittura fonetica avrebbe potuto consentire il sorgere di una concettualità in cui opposizioni come senso/lettera, spirito/materia, intelligibile/sensibile, verità/errore fossero sovrapponibili con quella voce/scrittura. Ma tutti i tentativi di relegare la scrittura a una funzione secondaria, accessoria e subordinata non sarebbero altro che tentativi di difesa dalla sua potenziale carica sovversiva, eversiva; che insomma nella vicenda della scrittura operi una sorta di “rimozione” è provato secondo Derrida dal fatto che, in realtà, una scrittura totalmente fonetica non esiste, poiché anche nella scrittura fonetica si danno elementi significanti non fonetizzabili: la punteggiatura, le spaziature, le virgolettature, i corsivi ecc.

Husserl sostiene che il presente (l’adesso nella sua puntualità) si compone di un non-presente, ogni percezione di una non-percezione. E allora, se non è possibile che il presente si dia in una forma assoluta, viene minata anche la possibilità di una presenzialità a sé priva di rinvio, di indicatività (la vita solitaria dell’anima, il platonico “monologo dell’anima con se stessa”), e quindi la possibilità di una presenzialità epochizzabile.

Il pensiero poetante di Anna Ventura assume un punto di vista critico-scettico verso ogni posizione di poetica logocentrica, che cioè si adegua in modo irriflesso ad una metafisica della «presenza della cosa», ovvero, che adotta una procedura ironica. La Ventura sa per istinto e per pensiero che laddove c’è la «cosa» non è detto che esista una «parola» adeguata. Tutto il suo tentativo poetico si gioca su questo punto: l’avversione verso la poesia logocentrica e fonologica che crede di poter identificare la presenza della cosa con la cosa stessa e, quindi, con la sua referenzialità linguistica. Il suo sforzo è teso a non  identificare ingenuamente presenza della cosa e logos; il logos è sempre non originario, affetto da secondarietà.

Anna Ventura

Questi piccoli fogli bruceranno

Questi piccoli fogli bruceranno
con tutto il resto, se è già scritta
l’ora dello sterminio. Ma,
poiché ancora ci è data la parola,
pronunciamo il dissenso.

(da Antologia Tu Quoque Poesie 1978-2013) EdiLet, 2014

anna ventura

anna ventura

In fondo, in fondo

La Sibilla lasciò l’antro di accesso,
si inoltrò nel corridoio lungo.
In fondo, in fondo,
stava la sua tana. Lì
preparava le foglie
e le metteva nel cestino.
Quel giorno era infuriata con Apollo,
che se ne stava nel Tempio,
lì vicino,
dove era tutto uno splendore.
Che umidità, invece, nella sua tana buia,
assediata dall’erba e dai rovi.
Quel giorno, sulle foglie,
scrisse una cosa bruttissima : .
“Guardatevi dall’amore”.
Ma poi che Apollo,
per mezzo di un piccione,
le inviò in dono un fiore,
la Sibilla tornò di buon umore,
e sulle foglie scrisse:
“Non abbiate paura”.

.
Due fili d’erba

Il filo d’erba disse
all’altro filo d’erba:
“ Lo vedi? La terra
sta diventando asciutta;
se non piove,
appassiamo.”
“Non temere, – rispose l’altro –
io ti darò un po’ della mia acqua;
ho una goccia nascosta sotto le radici.”
Non era vero,
– e lo sapevano entrambi –
ma entrambi
si sentirono più verdi.

l'angelo senza parole

l’angelo senza parole

Guadalupe

Sei tu,
la mia preferita,
madonnina di Guadalupe,
nera e secca,
gli occhioni pieni di meraviglia.
Chi sa che cosa vedono:
il dolore delle mamme povere,
il tacito sgomento dei bambini,
il furore degli uomini che masticano coca
per reggere alla fatica.
O il silenzio dei campi quando
la quiete notturna
finalmente scende
sulle capanne,
sulla stanchezza bruta,
sull’ingiustizia accettata
perché non si sa come combatterla,
perché non si mette in discussione.
Perciò sarà a te,
madonnina di Guadalupe,
che porteremo la nostra preghiera.

La nebbia sale dalle strade

La nebbia sale dalle strade,
ora che è inverno,
e i negri si coprono la testa
col cappuccio della felpa,
camminano veloci
sui sandali infradito,
eredità dell’estate. Loro
non conoscono il rancore,
perché sono pieni
di fede, di speranza
e di carità, i doni
che abbiamo dimenticati,
stregati dalla cornucopia stracolma
che ci è stata offerta dalla sorte.
Ora che sembra in pericolo-la cornucopia-
finalmente ne avvertiamo il privilegio
e il danno, capaci di arrivare a credere
che potremmo perfino farne a meno.

Anna Ventura copertina tu quoque

Baia

Qui gli uomini
osarono sfidare gli dei,
gli dei risposero
innalzando una cortina di sangue.
Rimase lo splendore.

.
La neve di ovatta

Da bambina accendevo
le candeline vere
sull’alberello vero;
ci mettevo anche la neve di ovatta,
col rischio di bruciare la casa;
la stufa di terracotta emanava
un calore buono, mentre,
fuori,
l’aria tagliava come una lama.
Oltre i vetri incrostati di ghiaccio,
c’era il cielo, carico di stelle; qualcuna,
ogni tanto, si staccava,
precipitava verso la terra buia.
Aspettavo di crescere,
aspettavo di non essere più bambina
per uscire da quella prigione di ghiaccio.
Il viaggio è stato
più lungo del previsto.

(Inediti)

Gino Rago

Gino Rago

Gino Rago nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Dieci sue poesie sono apparse nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo, 2016, a cura di Giorgio Linguaglossa. Ai suoi libri poetici hanno dedicato saggi critici Sandro Gros-Pietro, Giorgio. Linguaglossa, Sandro. Montalto, Luigi Reina, Alfredo Rienzi e altri. Con componimenti lirici e recensioni ha collaborato e collabora con svariate riviste letterarie (Poiesis, Poesia, Polimnia, Vernice, Paideia, La Procellaria, La Clessidra, Hebenon), è redattore della Rivista letteraria internazionale L’Ombra delle Parole.

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STRONCATURA DI UNA POESIA di Dante Maffìa con un commento di Giorgio Linguaglossa preceduto da una riflessione di Annalisa Andreoni

Giorgio Linguaglossa in-campagna 2013

Giorgio Linguaglossa in-campagna 2013 nella villa di Salvatore Martino, fuori Roma, foto di Pepito

 Ha scritto di recente Annalisa Andreoni: «il compito di un buon giornalista, anche quando scrive di cultura, rimane prima di tutto quello di informare il lettore in maniera intelligente ed equilibrata, e non quello di validare la bontà di quello che viene proposto. E neanche voglio riferirmi agli interventi, sempre più frequenti, di scrittori che parlano di altri scrittori, i quali spesso scrivono di quanto sono bravi i colleghi per dovere di scuderia. Ma chi fa professione di critico letterario svolge, o dovrebbe invece svolgere, un mestiere diverso.

Guardando alla situazione generale, è un dato di fatto che negli ultimi anni si siano avvicinate pericolosamente la pratica della promozione e la pratica della critica. Il circo Barnum dei premi letterari ha contribuito, forse più di ogni altra cosa, a questa commistione, reclutando tra le file dei giurati molti critici, che finiscono, chissà come, per premiare le scelte più sponsorizzate dalle case editrici. Ma anche lo svilimento della pratica del consulente editoriale, un tempo gloriosa, e la proliferazione delle agenzie letterarie giocano un ruolo non irrilevante. Ora, la promozione è una cosa importante e legittima, perché un libro è prima di tutto un prodotto, al quale hanno lavorato molte persone, il futuro delle quali dipende dalla sua buona riuscita. Se io su un giornale leggo invece un critico, voglio che sia capace di discernere quanto in un romanzo c’è di volontaristico, mal riuscito e velleitario. Mi aspetto che sia in grado di analizzare lo stile e la lingua di un autore, di individuare se vi sia o meno uno scarto rispetto alla comunicazione verbale quotidiana e di distinguere il lavoro profondo che uno scrittore vero fa sulla lingua dalla retorica un tanto al chilo; di capire quanto, nell’autofiction oggi praticata, sia sbrodolamento diaristico, e quanto nella trama ci sia di trito e già visto persino nelle telenovelas; mi aspetto, infine, che si prenda la responsabilità di valutare esteticamente l’oggetto di cui mi parla in quanto opera letteraria e di dirmi se vale la pena che io, lettore affamato di buona letteratura, lo legga oppure no.

Onto Linguaglossa triste

Giorgio Linguaglossa, 2011

 

Il critico militante dovrebbe tenere bene distinta la propria funzione da quella del sociologo della letteratura, al quale tocca studiare e spiegare anche tutto ciò che va sotto il nome di paraletteratura, inclusi i romanzi che una volta si chiamavano d’appendice. E’ il sociologo della letteratura che deve studiare perché si vendano centinaia di migliaia di copie di questi testi e dirci in che cosa sono rappresentativi della nostra contemporaneità. Il critico letterario, invece, non dovrebbe prendere sul serio tutto ciò che viene pubblicato, sulla base dell’assunto che la realtà è questa e che il suo compito è quello di interpretarla.

Se non tocca ai critici militanti dire che un romanzo è mediocre e non merita affatto di essere letto e studiato come si fa con la buona letteratura, a chi tocca? E non mi riferisco tanto alla pratica della stroncatura, in cui i critici si cimentano talora sui giornali con gli autori che non sopportano, quanto all’usanza, molto meno praticata, di tener alta l’asticella qualitativa con gli scrittori ai quali guardano con benevolenza. E’ innegabile che la letteratura, oggi, salvo poche voci note, soffra della mancanza di un tale ruolo».

(Annalisa Andreoni)

dante maffia

dante maffia

Una poesia di Dante Maffìa (candidato al Nobel per la letteratura dal Consiglio comunale di Roseto Capo Spulico)

Apro una pagina a caso della Antologia di Dante Maffìa La casa dei falconi. Poesie 1974-2014 puntoacapo, 2014 a pagina 143, e leggo la seguente composizione:

Sul precipizio delle cose: lezione ultima

  Il desiderio si arrende soltanto alla forma e la forma amata non sapremo mai da che cosa è determinata, forse dalle abitudini del succhiotto, forse dal roteare degli occhi mentre la madre allatta. Nella tettarella si concentrano vocali e consonanti e poi si dispiegano in azioni e pensieri che fanno le sorti del mondo. Il corpo viene chiuso nell’involucro degli stimoli primordiali. E se indugi nei riverberi ti accorgi che da ogni lato sfugge la consonanza e l’accordo per farsi improbabile dissenso inchiodandoti a un dopo di cui non sarai parte.

giorgio linguaglossa sul mare Ionio 2013

giorgio linguaglossa sul mare Ionio 2013

Commento di Giorgio Linguaglossa

Mi chiedo: «E la poesia?, a che punto sta la critica militante della poesia?». E mi rispondo: «In nessun luogo, la critica è come l’utopia, abita il non luogo dell’Utopia».

Ma come si fa, dico io, a scrivere in un italiano così sciatto, approssimativo, incongruo, maldestro, improvvisato che viola sistematicamente l’ossatura della lingua italiana: la sua sintassi. Come si sa, la sintassi è l’ossatura di una lingua, la legislazione interna che regge la lingua, su di essa si possono plasmare i muscoli e il sistema nervoso centrale e periferico, senza di essa, o violandola, è come voler edificare un castello con la sabbia. Ebbene, mi chiedo, come si fa a scrivere il primo enunciato:

«Il desiderio si arrende soltanto alla forma»

Che cosa vuole significare (comunicare) l’autore con questa frase?, che il «desiderio» si arresta dinanzi alla «forma»? Che la «forma» sconfigge il «desiderio?». E mi chiedo: che cosa vuole significare (comunicare) l’autore con questo misterioso enunciato?, qual è il significato, diciamo, filosofico, di un tale enunciato sibillino?. Mistero della fede. Ma passiamo alla seconda frase:

«e la forma amata non sapremo mai da che cosa è determinata»

Ma, mio caro Maffìa, questa è una filosofia spicciola che lei ci sta dando, dopo duemilaequattrocento anni di studi filosofici sulla «forma» lei ci dice che «non sapremo mai da che cosa è determinata». A parte la superficialità di un tale frasario, mi colpisce l’assoluta misconoscenza dei problemi estetici che lei ha Maffìa, intendo problemi della «forma», l’arroganza con la quale erige la sua ignoranza dei problemi estetici ad assioma imperativo che vuole coinvolgere anche il lettore, tutti i lettori, ma mi stupisce anche il candore con il quale viene esternata questa filosofia spicciola come monumento di saggezza popolareggiante (o meglio, di arroganza di chi ignora le problematiche filosofiche). Ma è la precarietà intellettuale della fraseologia che segue che mi lascia veramente allibito e mi turba:

«forse dalle abitudini del succhiotto, / forse dal roteare degli occhi mentre la madre allatta»

Se ho capito bene, le questioni di «forma» «forse» dipendono «dalle abitudini del succhiotto». Beh, non nascondo il mio stupore dinanzi ad una simile lallazione di tale formidabile fraseologia. Indubbiamente, che la «forma» dipendesse dal «succhiotto» erogato in tenerissima età, a tale vertice di pensiero non c’era arrivato nessun filosofo. Resto basito. Ma, queste paralogie (o meglio, questo pressappochismo del pensiero), in confronto a ciò che segue sono nulla. Ecco il versicolo seguente:

«Nella tettarella si concentrano vocali e consonanti»

Resto ulteriormente basito. Sono sconvolto. Dunque, se ho capito bene, i problemi del linguaggio poetico («vocali e consonanti») dipendono dalla «tettarella». Lascio ai lettori ogni commento, non aggiungo altro. Ma quel che segue è ancora più sconvolgente:

«e poi si dispiegano in azioni e pensieri / che fanno le sorti del mondo».

Se abbiamo capito bene dalla «tettarella» si dispiegano azioni e pensieri che «fanno» «le sorti del mondo». A questo punto chiedo l’aiuto dei lettori perché non riesco ad afferrare come dalle «tettarelle» possano dispiegarsi «azioni e pensieri che fanno le sorti del mondo». Si tratta indubbiamente di un pensiero filosofico di straordinario pressappochismo e supponenza espresso con una sintassi claudicante e approssimativa: sarebbero le «azioni e i pensieri» «che fanno» «le sorti del mondo». Mi fermo un momento, ho bisogno di riprendere fiato, non riesco a capire come una persona di 68 anni che ha insegnato nelle scuole pubbliche possa pensare di esprimersi con questi frasari acconciati alla bell’e meglio. Ma non è finita, la frase seguente mi lascia ancora più sbigottito:

«Il corpo viene chiuso nell’involucro degli stimoli primordiali»

E qui perdo definitivamente il bandolo della matassa: adesso è subentrato «il corpo» che se ne sta «chiuso nell’involucro degli stimoli primordiali». A parte l’efferatezza dell’idioletto con il quale l’autore si esprime, di una bruttezza strabiliante, non riesco neanche a comprendere che cosa voglia dire l’autore o a che cosa alluda. Questi frasari trasudano letture frettolose e superficiali, questo linguaggio è la spia di una irredimibile subalternità culturale dell’autore calabrese. Il linguaggio poetico è uno strumento sensibilissimo frutto di secolari stratificazioni che necessariamente rifugge dalle semplificazioni e dai barbarismi di chi è culturalmente un provinciale subalterno: il linguaggio ti scopre e ti rivela sempre per quello che scrivi, non c’è possibilità di sfuggire alla legislazione della Lingua, alla sua sorveglianza. Finché è in vigore, la Lingua esercita sempre la sua jurisdictio sui suoi sudditi.

La frase seguente è:

«E se indugi nei riverberi»

E che cosa significa?, annoto che è impossibile nella lingua italiana che un soggetto indugi nei «riverberi» (e poi, riverberi di che cosa?), vocabolo certamente errato e incongruo che la fretta e la superficialità dell’autore ha ficcato dentro la composizione per darle forse, a suo avviso, lustro o profondità, e che invece rivela il pressappochismo dei suoi strumenti linguistici.

La fraseologia che segue rischia il diapason del  drammatico:

«ti accorgi che da ogni lato sfugge la consonanza o l’accordo»

Veramente un monumento di non senso o di un pensiero inespresso e inesprimibile che non entra nelle scarse attitudini linguistiche dell’autore, prodotto di una violazione sistematica delle regole sintattiche e semantiche oltre che della logica. Chiedo aiuto ai lettori: che cosa vuole dire questa fraseologia malconcia?

Il finale però è un vero monumento al pressappochismo e alla faciloneria di chi proviene da una cultura subalterna:

 «per farsi improbabile dissenso / inchiodandoti a un dopo di cui non sarai parte».

 Così finisce questa drammatica composizione di fraseologie spurie e a-significanti. Non riesco a capire (sintatticamente) a chi si riferisca il lemma «dissenso» messo in relazione con quell’«inchiodandoti a un dopo», mi sfuggono sia il soggetto che l’oggetto di questa composizione, mi sfugge l’argomento che ha in mente l’autore, mi sfugge anche con chi e per che cosa l’estensore di queste fraseologie sta polemizzando. Quello che resta al lettore è un senso di disagio nei confronti dell’estensore di questa malconcia composizione, nei confronti della sua lingua pressappochista e improvvisata, avverto sulla pelle un senso di contaminazione per la bruttura, non tanto e non solo delle singole fraseologie, quanto dell’insieme, del tutto sgradevole, pasticciato, supponente e maldestro. Un vero circo Barnum di fraseologie mal messe in lingua italiana.

 Rammento che dopo aver dato alle stampe il suo penultimo libro di “poesia” di 700 pagine, il Maffìa mi diceva vantandosene che la sua “poesia” era come un battaglione di carri armati che avrebbe asfaltato la poesia italiana del Novecento. Io, che avevo letto in anteprima alcune sue “poesie”, gli dissi incautamente che forse «era necessario intervenire con le forbici e lasciare il materiale a dormire per un po’». Il Maffìa mi guardò dall’alto del suo soggolo poietico con manifesta commiserazione. Cinque mesi più tardi uscì un altro volume di poesie di 550 pagine. “Un altro battaglione di carri armati”, pensai. Nel frattempo adottai la decisione di interrompere qualsiasi rapporto con questa persona.

 (Giorgio Linguaglossa)

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POESIE SCELTE di Valerio Magrelli da “Il sangue amaro” (Einaudi, 2014) con un Commento di Giorgio Linguaglossa

La grande bellezza di Paolo Sorrentino Tony Servillo in una scena

La grande bellezza di Paolo Sorrentino Tony Servillo in una scena

Commento di Giorgio Linguaglossa

La didascalia dell’editore recita: «A otto anni dall’uscita di Disturbi del sistema binario, la nuova raccolta di Valerio Magrelli si presenta estremamente articolata rispetto alla precedente. Diviso in dodici sezioni e in due metà di 55 poesie ciascuna, Il sangue amaro affronta un ampio ventaglio di argomenti. Si va da poesie su artisti, poeti o amici, a una sorta di iper-testo sul tema della lettura, dalla ripresa dell’antico genere dei calendari, al poemetto «etologico» La lezione del fiume. A ciò si aggiungono versi civili (Cave! e Il Policida), che si alternano ora a parti piú lievi (Piccole donne e Paesaggi laziali) ora a un’approfondita riflessione intorno al rumore, alla musica, all’acustica (Otobiografia). Un caso a sé è costituito dalla forte presenza religiosa che si ritrova, sia pure in una prospettiva critica, nelle composizioni dedicate all’immagine del Natale o al dibattito sull’eutanasia. Il cuore del libro, però, va individuato nel capitolo ispirato al motto paolino, e poi kierkegaardiano, di «Timore e tremore». È questa infatti l’impronta di una scrittura segnata da quella «età dell’ansia» che, sebbene covi ormai da lungo tempo, non è evidentemente ancora giunta alla sua piena maturazione».

valerio magrelli con la libreria della sua abitazione a Roma

valerio magrelli con la libreria della sua abitazione a Roma

 Dopo la lettura di questa precisa e sapiente notazione critica dell’ufficio stampa di Einaudi, non c’è dubbio che Valerio Magrelli è colui che meglio di tutti ha saputo intercettare, dal primo libro Ora serrata retinae del 1980, quella inquietudine mediatico-mediale che ci ha accompagnato dall’età craxiana alla fine della seconda repubblica ad oggi dove non sappiamo più dove siamo, in particolare in questi ultimi vent’anni di stagnazione e di recessione economica. Forse nessun punto di vista era così privilegiato quanto Roma, la capitale, cinica e sorniona, di uno stato in dissolvimento lento ma progressivo. L’«età dell’ansia» di Magrelli è l’ansia privata, anzi privatissima del cittadino medio che si preoccupa degli affari propri: le bollette dell’ICI, dell’aliquota dell’IRPEF, del canone TV, delle multe, de «l’anagrafe telematica» e di tutti gli altri rompicapo del nostro essere cittadini italiani (s’intende, problemi propri a tutti noi). In questo senso ritengo Magrelli il poeta che meglio degli altri ha saputo intercettare le paure, le idiosincrasie e le ansie della nostra storia recente, il poeta più esportabile e più impermeabile, il poeta spugna che assorbe i virus che alitano nell’atmosfera e li converte in «poesia» con un linguaggio intellettualizzato al punto giusto di cottura per piacere alla generalità del ceto medio. E se la longevità ha un qualche significato, allora bisogna ammettere che Magrelli è il poeta più longevo e rappresentativo, nel bene e nel male (più nel male che nel bene), del nostro tempo, scrive le poesie che Jep Gambardella de “La grande bellezza” scriverebbe se non avesse rinunciato a scrivere. Un esempio?, ecco una poesia sulla paura che qualcuno possa portargli via la «casa»:

«Non siamo a casa neanche a casa nostra, / anche la nostra casa è casa d’altri, / la casa di qualcuno arrivato da prima / che adesso ci caccia. / Vengono a sciami / si riprendono casa, / la loro casa, /da cui ci scuotono via, / punendoci per la nostra presunzione: /essere stati tanto fiduciosi /da credere che il mondo si potesse abitare».

(Giorgio Linguaglossa)

valerio magrelli Il sangue amaro

Natale, credo, scada il bollino blu
del motorino, il canone URAR TV,
poi l’ICI e in piú il secondo
acconto IRPEF – o era INRI?
La password, il codice utente, PIN e PUK
sono le nostre dolcissime metastasi.
Ciò è bene, perché io amo i contributi,
l’anestesia, l’anagrafe telematica,
ma sento che qualcosa è andato perso
e insieme che il dolore mi è rimasto
mentre mi prende acuta nostalgia
per una forma di vita estinta: la mia

*

C’è chi fa il pane.
Io faccio Sangue Amaro.
C’è chi fa profilati d’alluminio.
Io faccio Sangue Amaro.
C’è chi fa progetti per lo sviluppo aziendale.
Io faccio Sangue Amaro.
Io mi faccio il Sangue Amaro.
È una specialità della casa, sin dal lontano 1957.

*

Mi lavo i denti in bagno.
Ho un bagno.
Ho i denti.
Ho una figlia che canta
di là dalla parete.
Ho una figlia che ha voglia di cantare
e canta.
Può bastare.

*

Ingegnoso, mio figlio si chiude nella doccia
incolla un foglio al vetro, dall’esterno,
e per un’ora, immerso nel vapore,
impara a memoria Ugolino.

Scendono l’acqua e i versi, lui sussurra,
mi costa una fortuna, ma alla fine
esce lavato, profumato, pieno
zeppo di endecasillabi.

*

Se tutto dovesse andar bene,
ma veramente bene, senza incidenti o crolli,
infine arriverà la tremarella.
Vedo amici più anziani che vibrano,
il mento scosso, le mani inarrestabili.
Parliamo allora di questo movimento,
un vento che soffia da dentro
per scuotere le foglie delle dita
e non si ferma più.

*

È questo stormire neurologico
di fronde che dunque mi attende
se tutto, proprio tutto, dovesse andar bene.
E mi tramuterò in una betulla
o in un cipresso sul bordo del fiume,
con quel tremolare di luci
alzate dalla brezza.
Mi farò soffio, mi farò soffiare,
panno lasciato al sole ad asciugare.

valerio magrelli 4

 

 

 

 

 

 

 

 

Pagliarani sul Niagara

Parlavi dei bambini,
dicevi della loro furia molecolare,
davanti alla cascata,
anzi, dietro il suo velo,
dentro un cunicolo scavato nella roccia
per sbucare sul retro delle acque.
Al buio, fra la guazza,
con quel film bianco che scorreva in fondo
velando il mondo,
come ficcati dentro un ombelico,
parlavi della nascita,
descrivevi la nascita,
affidavi alla nascita
la parola segreta di ogni storia:
CONTINUA.

 

Giugno (1957-2007)

I Am A Strange Loop.
Douglas Hofstadter

Cinquanta volte giugno,
e sarei io, l’anello?
L’anello è lui, questo tempo elicoidale
che torna su se stesso
sempre uguale e uguale mai,
mio giugno, anello solstiziale
di sangue, di nozze, di addio,
eterna vigilia di quella vacanza
che infine giungerà pura
nudissima luce definitiva,
mio sabato dell’anno, rompendo
finalmente l’anello sisifale.

 

Dicembre
Minimo omaggio a John Donne

Dicembre, il lavandino si è svuotato:
tutta la luce se ne è andata via,
finché il mese sfinito, prosciugato,
giunge al cospetto di Santa Lucia.
Nel tenebrore della siccità
le mattinate sgocciolano notte,
e col solstizio dell’oscurità
l’intero anno si contrae per otte-
nere che lentamente, esile, torni
il moribondo flusso di corrente
ed un nuovo splendore inondi i giorni.
Solo cosí rinasce quel potente
getto di sole che rimette in moto
ruota, ciclo, marea, nascita, photos.

valerio magrelli

valerio magrelli

 

 

 

 

 

 

 

L’età della tagliola
Su una fotografia di Milena Barberis

Per prima cosa ho visto tre ragazze,
dopo ho intuito che era una soltanto
moltiplicata.
Finché ho capito che ogni ragazza
ne contiene altre due,
fiore con tre corolle, equazione a tre incognite.
Avere quell’età, significa sostare innanzi a un bivio:
da un lato sta il passato appena prossimo,
dall’altro un futuro duale – scelta,
biforcazione, sesso, forbice.
Chi cresce, chi adolesce, si divide
e per andare avanti deve amputarsi
come fa la volpe, che stacca la sua zampa
presa nella tagliola.

Suites inglesi

A Roland Barthes, maestro di solfeggio
Ero andato a incontrarlo da studente
per una tesi, e invece chiacchierammo
solo degli spartiti che portavo con me.
Suonava al piano Bach e la corrente
di quel «ruscello» lo sospinse via
fra mulinelli e anse.
A che serve suonare?
Un’obbedienza cieca,
un’arte marziale: l’ascesi,
e in fondo il suono che si leva uguale,
il Sempre-uguale,
nell’ostinata speranza,
se non di un lenimento,
di un mite risarcimento musicale.

valerio magrelli

valerio magrelli

 

 

 

 

 

 

Tombeau de Totò

Totò diventa cieco, da vecchio.
Tutto quell’agitarsi disossato
per finire nel buio.
Un muoversi a tentoni,
un zigzag nelle tenebre.
Ma è vero anche il contrario:
Totò diventa vecchio, da cieco.
Me lo ricordo ancora, sotto casa,
che traversa la strada a un funerale,
tra due ali di folla impazzita.
E lui stava al gioco, sconnesso, veniva avanti a scatti,
senza vedere nulla – solo ora capisco!
Cieco, vecchio e meccanico,
ma come caricato dalla molla d’acciaio del dialetto.
Finché, perso lo sguardo, non perde anche la lingua.
Nei suoi ultimi film, non potendo seguire le battute,
viene doppiato. Questa la leggenda:
da cieco che era, adesso è diventato muto
nella pellicola, mentre un’altra voce
sostituisce la sua.
Totofonia blasfema, alle soglie dell’ombra.
Deposta la visione, deposta la parola,
il corpo pinzillacchero discende nella Tomba.

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La ragazza Carla di Elio Pagliarani (1927-2012) Il racconto in versi del Moderno – con un commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

elio pagliarani la segretaria

La ragazza Carla è un poemetto scritto da Elio Pagliarani (Viserba, 25 maggio 1927–Roma, 8 marzo 2012) che secondo una vulgata critica ormai acquisita segna il passaggio dal neorealismo alla neoavanguardia.

Il poemetto viene scritto tra il settembre 1954 e l’agosto 1957. Nel 1959 appaiono alcuni frammenti sul n. 14 di “Nuova Corrente”, con il titolo Progetti per la Ragazza Carla. Sempre nel 1959, con il titolo Fondamento del diritto delle genti, compaiono sul n. 1 del “Verri” i versi416-457. La differenza fra questa edizione e quella definitiva, che uscirà nel 1960 integralmente sul n. 2 del “Menabò“, consiste solamente nel carattere grafico dei versi che cambieranno da tondi in corsivo o viceversa.

Nel 1961 il poemetto viene pubblicato nell’antologia “I Novissimi” curata da Alfredo Giuliani e nel 1962 esce per le edizioni Mondadori con l’unica variante di un verso. Il poemetto o “racconto in versi” è il risultato di una lunga sperimentazione intorno ad una poesia narrativa.

La ragazza Carla appartiene all’ultima sezione di La ragazza Carla e altre poesie pubblicato da Mondadori nel 1962 ed è un poemetto polimetro di tre capitoli. La protagonista del racconto è la diciassettenne Carla Dondi che vive in una modesta casa della periferia di Milano con la madre vedova che fa la pantofolaia, la sorella Nerina e il cognato Angelo. Carla, frequenta le scuole serali per diventare segretaria e presto trova un impiego presso una grossa ditta commerciale che traffica su ampio mercato internazionale.

«Carla Dondi fu Ambrogio di anni/ diciassette primo impiego stenodatilo/ all’ombra del Duomo.»

Così si presenta Carla in stile stenografico. Il suo nome è diventato, con il lavoro, un codice; quando è sera, la giovane, colta da alienazione, cerca con le mani il suo viso per rassicurarsi della propria identità. Il suo quotidiano viene scandito attraverso i luoghi, le ore, i nomi.

«cento targhe d’ottone come quella/ TRANSOCEAN LIMITED IMPORT EXPORT COMPANY/ Le nove di mattina al 3 febbraio.»

La seconda parte del poemetto scorre tra i ritmi del lavoro, il corteggiamento di un collega, i viaggi sul filobus. La storia di Carla si conclude nella terza e ultima parte quando, per non perdere il posto di lavoro, la protagonista deve umiliarsi e chiedere scusa al padrone per aver rifiutato le sue avances. Carla è ormai una giovane donna smaliziata, impara a mettersi le calze nere e il rossetto per tornare al lavoro.

«Questo lunedì comincia che si sveglia/ presto, che indugia svagata nella piazza/ prima di entrare in ufficio, che saluta/ a testa alta “Buongiorno” con l’aggiunta/ “a tutti”, che sorride cercando Aldo con gli occhi/ che gli dice “Bella la ragazza e come/ attenta ai suoi discorsi”, che incomincia – forse – il lavoro/ fresca. »

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Scrive Alessandro Fugnoli su “Il rosso e il nero”: «Ai tempi dell’apartheid la polizia del Sud Africa, un paese ricco di etnie spesso mescolate tra loro, aveva a disposizione una serie di test per stabilire la razza di una persona dalla carnagione chiara ma non sufficientemente pallida. Uno di questi consisteva nell’infilare un pettine tra i capelli. Se il pettine cadeva si era proclamati bianchi, se invece restava incastrato si veniva retrocessi tra i cittadini di seconda categoria.

Dopo Martin Luther King e Malcom X l’America si è proclamata totalmente color-blind, ma la discriminazione positiva e il sistema delle quote costringono comunque a classificare le persone. La differenza rispetto al Sud Africa è che la collocazione etnica è lasciata alla libertà del soggetto. È il soggetto, ad esempio, a indicare nel modulo del censimento o quando fa domanda d’iscrizione all’università se è bianco, nero o qualsiasi altra cosa voglia essere».

Il Moderno teorizza l’autodeterminazione dei popoli con il trattato di Versailles del 1919, principio su cui si incardina il nuovo diritto delle genti. La Storia, sostituto della Natura, legittima il diritto delle genti a riconoscersi in uno Stato e nel nuovo stato di diritto. Il Post-moderno segna la caduta di quel principio e la sua sostituzione con il diritto di auto determinazione degli individui.

Elio Pagliarani

Elio Pagliarani

“La ragazza Carla” è un’opera che viene pensata all’interno dell’ideologia del Moderno: è la storia dell’emancipazione femminile e della sua alienazione, del trapasso da una società agricola a una industriale, dentro una visione del mondo di una società divisa in classi e degli sforzi della piccola borghesia ad aderire a parametri valoriali “superiori”.

La differenza tra Moderno e Post-moderno è tutta qui: Il moderno di matrice illuminista si batte per l’emancipazione della donna, la lotta alla alienazione, la conquista di un lavoro in fabbrica, in ufficio, all’interno di luoghi deputati e riconosciuti; il postmoderno cancella la distinzione di genere e lascia al soggetto la facoltà di definirselo e cambiarselo come e quando vuole. Oggi è l’individuo che decide della propria appartenenza a una classe a un sesso e a una razza; l’individuo si sente svincolato da tutti i legami (sociali, personali, storici) per potersi creare la sua nuova realtà. Oggi sono gli individui che decidono se la Scozia sarà uno stato a parte o continuerà a far parte dell’Inghilterra. Oggi la Scozia, domani i Catalani, dopodomani i nostri simpatici Padani. Sono gli individui atomizzati che si creano la propria identità.

Nel poemetto di Pagliarani, gli elementi stilistici neorealistici risultano soverchianti, la fraseologia è stenografica, il post-ermetismo viene liquidato una volta per sempre. In primo piano c’è il “romanzo in versi”, il “racconto” delle vicende lavorative ed esistenziali dell’impiegata Carla assumono un significato diagnostico sulla emancipazione della società nel suo complesso. Mi sembra che tutti gli elementi quadrino all’interno di una ideologia del Moderno. In tal senso, l’opera può essere considerata conclusa entro le coordinate culturali del proprio tempo. L’adesione alla neoavanguardia da parte di Pagliarani appare oggi come un’operazione tattica e strategica ma soprattutto necessitata dalla adesione a quell’ideologia. In un certo senso, il capolavoro del neorealismo segna anche, a sua insaputa, la conclusione del Moderno e l’avvento di una nuova dimensione epocale.

(Giorgio Linguaglossa)

Elio Pagliarani 7

Milano Periferia_PortaVigentinaMilano 1952 Mario De Biasi

La ragazza Carla

Di là dal ponte della ferrovia
una trasversa di viale Ripamonti
c’è la casa di Carla, di sua madre, e di Angelo e Nerina.
Il ponte sta lì buono e sotto passano
treni carri vagoni frenatori e mandrie dei macelli
e sopra passa il tram, la filovia di fianco, la gente che cammina
i camion della frutta di Romagna.
Chi c’è nato vicino a questi posti
non gli passa neppure per la mente
come è utile averci un’abitudine
Le abitudini si fanno con la pelle
così tutti ce l’hanno se hanno pelle
Ma c’è il momento che l’abito non tiene
chissà che cosa insiste nel circuito
o fa contatto
o prende la tangente
allora la burrasca
periferica, di terra,
il ponte se lo copre e spazza e qualcheduno
può cascar sotto
e i film che Carla non li può soffrire
un film di Jean Gabin può dire il vero
è forse il fischio e nebbia o il disperato
stridere di ferrame o il tuo cuore sorpreso, spaventato
il cuore impreparato, per esempio, a due mani
che piombano sul petto
Solo pudore non è che la fa andare
fuggitiva nei boschi di cemento
o il contagio spinoso della mano.

2
Il satiro dei boschi di cemento

rincasa disgustato
è questo dunque
che ci abbiamo nel sangue?
O saranno gli occhiali? Intanto è ora
che si faccia cambiar la montatura.

Elio Pagliarani copertina

 

 

 

 

 

 

 

 

3
Se si diventa grandi quando s’allungano
le notti, e brevi i giorni
ecco ci sono dentro
sembra a Carla di credere, e sta attenta a non muoversi
ché il sonno di sua madre è così lieve nel divano accanto
– ma dormirà davvero, con Angelo e Nerina
che fanno cigolare il vecchio letto
della mamma!
e Carla ne commisura il ritmo al polso, intanto che sudore
e pelle d’oca e brividi di freddo e vampe di calore
spremono tutti gli umori del suo corpo. E quelle
grida brevi, quei respiri che sanno d’animale o riso nella
[strozza
ci vogliono
all’amore?
E Piero sul ponte, e la gente –
tutta così?
S’addormenta che corre in una notte
che non promette alba
sul ponte che sta fermo e lì rimane
e Carla anche.

Elio-Pagliarani 7

E. Pagliarani

.

4
La madre fa pantofole, e adesso che Nerina ha suo marito
c’è Carla che l’aiuta: infila l’ago, taglia le pezze
fa disegni buffi, un fiocco rosso
in cima, un nastrino di seta
che non vanno
chi compera pantofole dalle Dondi
non ha civetterie: le vecchie vogliono le prove,
e pantofole calde, pagamento più tardi che si può
due anni che una signora Ernani ha da pagare
le sue trecento lire, e puzza di liquori
le giovani sposate sono sceme, alle cose gentili non ci vogliono
nemmeno un po’ di bene, anzi le guardano con rabbia
man mano che col tempo si dimenticano
d’esser state ragazze da marito
Qui non si nega che si possa
morire un giorno con un fiocco al collo
uno scialle di seta vivacissimo,
ma è proprio questo: che se torna il nastro
è segno che la donna ecco è già stanca
spremuta tutta, fatta parassita
estranea ai fornelli straniera alla vita
ai calzoni, che pendono in giro frusti
in attesa del ferro da stiro. Continua a leggere

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POESIE SCELTE di Andrea Zanzotto (1922 – 2011) da “Meteo” (1996) con un Commento di Giorgio Linguaglossa del 1996

Andrea-Zanzotto di Andre-Aciman-il-paesaggio-come-stato-d-animo

Andrea-Zanzotto di Andre-Aciman il paesaggio come stato d’animo

Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo, 10 ottobre 1921  Conegliano, 18 ottobre, 2011), nasce da Giovanni, pittore e professore di disegno inviso al fascismo, e da Carmela Bernardi, consegue il diploma magistrale nel ’37. Ottenuta anche la maturità classica (’38), si iscrive a Lettere a Padova: tra i suoi maestri ci sono Diego Valeri e Concetto Marchesi. Sono anni densi di novità per l’autore che, oltre a coltivare la scrittura poetica – alcuni testi composti in questo periodo sono inclusi nella plaquette A che valse? (versi 1938-1942), edita nel ’70 – approfondisce la lettura di Baudelaire, conosce l’opera di Rimbaud e Hölderlin, studia la lingua tedesca. Laureatosi con una tesi sull’opera di Grazia Deledda nel ‘42, l’anno successivo è richiamato alle armi: inviato ad Ascoli Piceno per il corso allievi ufficiali, è sospeso dall’addestramento a causa di una grave allergia e destinato ai servizi non armati. Dopo l’8 settembre trova riparo nei luoghi d’origine e, nelle file di Giustizia e Libertà, collabora con la stampa della Resistenza.

andrea zanzotto

andrea zanzotto

Tornato all’insegnamento con la fine del conflitto, per qualche tempo è in Svizzera; dal ’46 prosegue la sua attività in varie scuole del Veneto. Nel ’51 esce la raccolta Dietro il paesaggio, in cui confluiscono gli inediti insigniti in precedenza (’50) del Premio San Babila. Nel ’54, superato il concorso a cattedre, Zanzotto prende servizio in una scuola media di Conegliano; pubblica nello stesso anno Elegia e altri versi, con prefazione di Giuliano Gramigna. Lavora intanto alle liriche poi raccolte in Vocativo, edito nel ’57. Sposatosi nel ’59 con Marisa Michieli, da cui avrà i figli Giovanni e Fabio, nel ’61 accetta di organizzare la scuola media inferiore di Col San Martino, dove svolge per due anni la funzione di preside. Pubblica, nel ’62, le IX Ecloghe; nello stesso anno, sulle pagine di «Comunità», firma un intervento in cui prende le distanze dalle motivazioni che hanno ispirato la raccolta antologica I Novissimi, uscita nel ’61 per le cure di Alfredo Giuliani. Dopo la raccolta di prose creative Sull’altipiano (’64), dà alle stampe La beltà (’68) e il poemetto Gli sguardi i fatti e senhal (’69). Abbandonato l’insegnamento nel ’70 (ma fino al ’75 continuerà a occuparsi di formazione degli insegnanti), Zanzotto licenzia Pasque (’73) e la raccolta Filò (’76) per il film Casanova di Fellini. Attende inoltre alla trilogia comprendente Il Galateo in Bosco (’78), Fosfeni (’83) e Idioma (’86). Insignito di diversi riconoscimenti – come il Premio Viareggio nel ’78, il Librex- Montale nell’83, il Premio Feltrinelli dell’Accademia nazionale dei Lincei nell’87 –, raccoglie parte della sua produzione critica e saggistica nei volumi Fantasie di avvicinamento (’91) e Aure e disincanti (’94). Negli ultimi anni, ha pubblicato le raccolte Meteo (’96) e Sovrimpressioni (2001). La sua produzione poetica, con una scelta delle prose, è stata riunita e ordinata nel «Meridiano» edito nel 2000.

andrea zanzotto 6

Andrea Zanzotto (1921 – 2012) da “Meteo” Donzelli 1996 pp. 82 £ 16.000
da “Poiesis” n. 10 maggio-agosto 1996

Sangue e pus, e dovunque le superflue
superfluenti vitalbe che parassitano gli occhi,
un teleschermo, fuori tempo massimo.
Dirette erutta e Balocchi

Tu sai che

La città dei papaveri
così concorde e gloriosa
così di pudori generosa
così limpidamente inimmaginabile
nel suo crescere,
così furtiva fino a ieri e così,
oggi, follemente invasiva…

Voi cresciuti in monte su un monticello
di terra malamente smossa
ma ora pronta alla vostra voglia rossa
di farvi in grande-insieme vedere
insieme notare in pura
partecipazione e
naturalmente, naturalmente adorare

Che ridere che gentilezze che squisitezze
di squilli e vanti per la sorpresa infusa
a chi nella note ottusa
non potè vedervi aggredire-blandire
il monticello che fu le vostre mire!

E sembra che là installati
solo ardiate di sfidare a sangue
per nanosecondo il niente, ma
deridendoci, noi e voi stessi.
nella nostra corsiva corriva instabilità e
meschina nanosecondità –
sì quel vostro millantarvi
e immillarvi in persiflages
butta tutto ciò che è innominabile
fuori dal colore
del vostro monticello seduttore…

Un saluto ora non bizzoso, tutto per voi-noi,
sternuto

*

Topinambùr* tuffi del giallo
atti festivi improvvisi del giallo
gialli brividi baci
bacilli-baci

*

Topinambùr
to to torotorotix
augellini lilix
lontani insettini di
vespificato giallo
Ur-giallo lilix

*Pianta erbacea dai fiori gialli accesi che crescono spontanei lungo i fiumi, diffusissima nell’Italia settentrionale

Andrea Zanzotto 5

Commento

Dopo dieci anni di silenzio Andrea Zanzotto stampa questo libro di versi Meteo (1996), «Incerti frammenti» li chiama l’autore; alcune poesie sono di discreta lunghezza, altre sono brevi frammenti. «Più che in passato – scrive l’autore – l’idea che per la poesia non esiste un punto terminale, quello che una volta si diceva “ne varietur”, si è fatta più labile. Molto spesso affido questi frammenti alla carta, come mi vengono, e li ammucchio in un cassetto, anche disordinatamente. La poesia non si scrive su carta speciale. Viene a colpi e a lampi». Zanzotto in una recentissima intervista ha ripetuto che «forse prediligo il frammento, che è anche una composizione un po’ lunga e scherzosa, ma di umorismo nero se si guarda bene (ad es. in quello) intitolato “Tempeste e nequizie equinoziali” dove parlo di una specie di distruzione del cielo operata da una serie di fenomeni che non ci danno più l’idea di un cielo meteorologico, come ad esempio il buco nell’ozono che recita: “Mille teatrini in batuffoli, frammenti / nell’insieme dispettosissimi / ora è quanto è rimasto / di un sospetto di cielo…”, con il finale: “Non ottenesti tu forse la massima pratica orgastica / a testa infilata entro un sacchetto di plastica?”. Continua a leggere

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CINQUE POESIE E CINQUE POETI SUL TEMA DELLA MORTE – GLI ARRABBIATI Valerio Gaio Pedini, Matteo De Bonis, BSA, Ambra Simeone, Mariano Menna a cura di Ambra Simeone e Commento di Giorgio Linguaglossa

Escher Maurits Cornelis Drago

Escher Maurits Cornelis Drago

 Il tema della morte è un classico della riflessione poetica e filosofica. Ne Il mito di Sisifo Camus dice che una filosofia che non sa liberarci dalla paura della morte è una filosofia inutile. Heidegger ontologizza la morte e ne fa una destinazione dell’esserci, la sua forma costitutiva. Adorno, Ortega y Gasset e molti altri filosofi hanno violentemente protestato contro questa invasione dell’ontologia ed hanno parlato dell’essere per la vita quale forma costitutiva dell’ente umano, quell’ente che progetta, getta i ponti dei propri progetti sopra l’abisso della morte e là costruisce la città della vita.

Che il gruppo dei giovani Arrabbiati scriva poesie sul tema della morte era quasi inevitabile, da sempre i giovani hanno un rapporto privilegiato con la morte, la considerano con condiscendenza, anche con sarcasmo, con ironia, spazzano il campo dall’analogia morte-immortalità, dichiarano la loro aperta diffidenza verso ogni teoria che addomestichi la morte in ideologia per essere utilizzata contro i vivi e la vita.

(Giorgio Linguaglossa)

 

valerio gaio pedini

valerio gaio pedini

Valerio Gaio Pedini

Gloria teo morte: monologo mortuario

 Asfissia: una parola complessa, penso: ché poi mica tanto complessa è
La NATURA del mio precipizio UMANO:
ora, non è per fare il filosofo: la filosofia è un’accozzaglia di ipocriti: di uomini soli:
di uomini e basta: LA CRITICA DELLA RAGION PURA: ma quale RAGION PURA.
“Gloria Teo Morte!”
Riecheggia nell’Alba, che è solo un Tramonto, nel tramonto, che è solo un’alba!
Sfiorire è nascere, nascere è sfiorire:
perire lentamente.
No, no, no, no, no, no, no, no, no, no, merda, merda, merda, merda, merda
Non credete alla sanità delle parole! Alla ragione!
La terra è rimpianto, pianto isterico: nostalgia: i fiori appassiscono nascituri
Com’io mi sgretolo nella mia tirannia psicologica:
fatto, disfatto
Mai cercai Morte
Gloria Teo Morte
È la morte che vive dentro di me, di noi, di tutto: là dove c’è vita c’è morte: è solo il principio di un equilibrio cosmico:
“Non incontrerai mai la morte” profetizza Epicuro, filosofo del giardinaggio.
Nooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo! La morte vi è poiché esisto, poiché nacqui, poiché fui generato: senza la vita, non vi è morte, senza la morte non vi è vita
È tutto uno sfiorire lento
Calpestato dai nostri piedi:
l’uomo? È un suicidio: un suicidio permanente che deve essere terminato, perché io sono uomo che supera l’uomo e che non vuole esserlo
come nessuno mai, consapevole delle proprie debolezze, del proprio dolore, della propria disarmonia!
Assuefatti a scomparire siamo cadaveri mangiati dai vermi, ma almeno nutriamo i vermi:
dalla cenere può nascere ancora qualcosa, oh uomo:
ascolta Eraclito, era più profeta di Cristo: Tutto Scorre, Tutto Muta: un sasso sarà pur un’altra vita, perché darà vigore alla Terra: finalmente.
Dove sarà quell’unico corpo di VITA, lì troverò SPERANZA nella FINE DEL TEMPO: la fine del VACUO.

 

matteo de bonis

matteo de bonis

Matteo De Bonis

Morte di un lirico ideale
a Salvatore Toma

Attraverso
le diroccate rovine di un
ponte carnale a voi
fluiscono ora,
purché siano rigonfie,
coorti di rose immaginose che
auliscono.

Mentre
la penna danzante avanza
su fogli puntellati col sangue,
piombavano
e vincevano nerborute
fisicità.
Un lirico ideale è stramazzato in terra,
colpito da ventitre coltellate. Ahimè!
Attraverso le voci singolarmente
affettate per voi
s’impennano ora, che sommuovano
almeno,
coorti di rose immaginose che
occhieggiano.

 

Bsa

Bsa

BSA
Morte

Insopportabile sarà
la Vita per colui che
la Morte non ha accolto nel suo cuore.
Nascere, morire, nascere,
morire, nascere. Questa la Natura
dei Vivi. Nascer non puoi senza
Morte, Vita mai sarai così bella
togliendo la precarietà. Zeus stesso
questa c’invidiava.

io io io io io io io io io io
sono Immortale finché non penso.
Ma gl’Immortali sono i soli già morti.
Rinunci a pensare alla Morte,
Rinunci a migliorare ed accettare ciò
che non ti piace. Morto in vita per
la Morte evitare. Ipertrofico l’IO
rende stupido, impreparato e banale.

Finalmente morrò, il mio zainetto
di carne lasciato a biodegradare, finalmente
dopo tanti pasti uno abbondante
lascerò al microscopico
mondo batterico, sempre attivo, sempre cangiante.

Dei rimanenti 21 grammi non so, non m’interessa.
Troppo difficile cercare una risposta, che
se esiste mi sarà data al giusto momento.
Ripeto senza sosta:

Morte ti amo, perché parimenti
amo la Vita.

 

Ambra Simeone

Ambra Simeone

Ambra Simeone
alcune indicazioni utili da ricordare in caso di morte

in caso di morte violenta per guerre o genocidi sulla striscia di Gaza
ricordarsi di postare su facebook tutte le foto più orribili, così che qualcuno le veda
e rimanga sconvolto un minuto e poi scriva sì mi piace oppure lasci un commento,
in caso di funerale di parente, di amico o conoscente che dir si voglia,
ricordarsi di applaudire e di mettere sulla bara la bandiera della squadra del cuore,
che poi si potrebbero portare anche una o due trombe da stadio, che fanno colore,
in caso di suicidio di poeta sconosciuto ricordarsi di scrivere più articoli sui blog
che parlino di lui, del suo sfortunato destino e di come non se lo cagava nessuno,
perché adesso, adesso ci sta davvero a cuore e quel che scriveva ora ci piace,
in caso di morte dell’autore più noto, ricordarsi quanto meno di ristampare
tutto ciò che lo riguarda, biografie, prime uscite, vecchie lettere e cartoline
poi ricordare a tutti che è stato importante e vendere tutto quel che è possibile,
in caso di morte di muratore o minatore, dirlo in tv una volta sola e poi basta
in caso di morte di dittatore o d’imprenditore ricordarsi di dirlo più volte,
scrivere libri sulla loro vita e ingaggiare opinionisti che ce ne parlino tanto,
in caso di morte di bimbo, investito da ubriaco, ricordarsi di avviare il processo
in caso di morte accidentale di un cane sotto l’auto di uno che non lo aveva visto,
non dimenticare di chiamare un po’ di gente, che ci aiutino a farlo un poco a pezzi,
in caso di morte per droga di un cantante o di un attore, non vogliamo mica non
glorificarlo, si ci facciano su un paio di film, una serie di quadri e tre reportage,
insomma casomai vi doveste scordare, alcune indicazioni utili in caso di morte.

 

Mariano Menna

Mariano Menna

Mariano Menna

La ballata del suicida

Troppe, lunghe ore, io passo ad aspettare
la fine di una vita che non ha più altre trame.
Chiuso nel mio buio, nella mia paura,
appeso ad una corda rendo a Dio la sua fattura.

Questo suo regalo che voi chiamate vita,
non è che una bestemmia ormai finita.
Penso ai miei tre figli che sto per lasciare,
perché nel mio corpo l’aria no, non ci può stare!

Diventerò un suicida quando il gallo canterà,
non ho saputo reggere allo stress della città
in cui venuto al mondo, già stanco per natura,
mi sono condannato a tanti debiti d’usura.

Tanti i fallimenti che ho dovuto sopportare,
troppe le ferite che ho tentato di guarire,
ora lascio il mondo e voi lasciatemi morire,
solo, in questa stanza, l’esistenza terminare.

Rido mentre piango, è scoccata la mia ora,
un ultimo consiglio lascio udir dalla mia gola:
“Non ripudiate il mondo perché, pur pentito, adesso
capisco questo errore, ma dovrò morire lo stesso…” Continua a leggere

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SEI POESIE INEDITE SU TEMI CLASSICI di Anna Ventura – Perché la bellezza è irrimediabile – Commento di Giorgio Linguaglossa

 

Pasiphae Dedalo e Icaro decorazione parietale a mosaico Zeugma Seleucia II secolo Turchia

Pasiphae Dedalo e Icaro decorazione parietale a mosaico Zeugma Seleucia II secolo Turchia

“Perché la bellezza è irrimediabile”

Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi,libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a  quotidiani, a pubblicazioni on line.

Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la  Tabula Fati di Chieti. Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo. È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate  in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV.-Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin,traduzione di  Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016)

Tra i critici che si sono occupati di lei in saggi monografici: Francesco Di Gregorio, in Letture novecentesche (Roma, ED. dell’Urbe, 1983; Alfredo Fiorani in La tela di Penelope (Chieti, Noubs, 1997); Liliana Porro Andriuoli in Certa et arcana, la poesia di Anna Ventura tra certezza e senso del mistero (Chieti, Tabula Fati, 2001); Vittoriano Esposito, in Itinerario letterario di Anna Ventura, Avezzano (Centro Studi Marsicani,  2005).

e-mail: annaventura36@hotmail.com – Sito web : Xoomer.alice.it/annaventura – www.eldigoras.com

“L’esordio di Anna Ventura è datato 1978, con la raccolta dal titolo inequivoco Brillanti di bottiglia. Un percorso politicamente non ben educato: è il modus della Ventura di fare anticamera. È come se la brillantina Linetti dell’intelligenza fosse stata profusa sui capelli spettinati della poesia di quegli anni, così vulnerata e incidentata dai singulti del post-sperimentalismo e dai singhiozzi della nascente «parola innamorata» la cui omonima Antologia cade proprio in quell’anno. La poesia di Anna Ventura si muove senz’altro in contro tendenza: ma una massa enorme, la marea della poesia alla moda la sospinge alla deriva. È la risacca del mare magnum. È il destino che arride spesso alla poesia olistica ed elegante che non concede sconti alla demagogia. Quella cartesiana intelligenza di spaccare il capello in quattro, quella consapevolezza nella certezza del dubbio secondo cui «la pagliuzza nel tuo occhio è la migliore lente di ingrandimento»* spingerà sempre più la minuscola imbarcazione della poesia di Anna Ventura verso il mare alto di un isolamento diurno, con tanto di interdizione dai pubblici uffici ad maiora. Siamo all’interno di quella problematica che il post-sperimentalismo lascia alla poesia italiana di fine Novecento: la crescente separazione e distanza che divide la «parola» dalle «cose». Una poesia della Ventura intitolata «La parola alle cose» contenuta nella raccolta Le case di terra (1990), è emblematica della consapevolezza dell’autrice di imboccare la via che conduca al riavvicinamento della «parola alle cose»”.

(Giorgio Linguaglossa dalla prefazione a “Tu quoque” Poesie 1978-2013, EdiLet, Roma, 2014 pp. 220 € 16)

roma pasifae

 

 

 

 

 

Pasifae

Quando Pasifae
partorì il Minotauro,
lo strinse a sé e lo trovò bellissimo:
era una madre,
e nessun canone estetico
poteva esserle imposto,
nessuna morale
poteva giudicarla.

Arbiter

L’Arbiter sapeva
di essere in pericolo,
e non se ne curava; sapeva
che, comunque, la morte arriva,
né temeva un’anticipazione;
ma lo disgustava l’idea
di una violenza brutale,
di una mano sporca
che lo avrebbe trafitto
con un pugnale
forse già insanguinato. Perciò,
meglio morire per propria scelta,
a banchetto, tra parole leggere.
Forse aveva ragione Trimalcione,
che nel suo epitaffio,
dove si definisce
“pio, forte e fedele”, avverte:
“Non ascoltò mai un filosofo”
L’Arbiter amava quella creatura
nata dalla sua fantasia inquieta:
così lontana da lui,
così vicina alla terra.

 

Mario

Mario era più ambizioso di Silla,
ma non si poteva dire.
Come tutti i miti della Storia,
solo col tempo avrebbe mostrato il fianco.

satiro con efebo copia romana di originale greco

satiro con efebo copia romana di originale greco

 

Alcibiade

Alcibiade era troppo bello
per non combinare guai. Socrate
lo sapeva, e gli lasciò mano libera.
Perché la bellezza è irrimediabile.

anna ventura

anna ventura

 Forse mi hanno parlato

È di pietra,
questa civiltà isolana
vissuta per millenni nel silenzio
e nella lontananza,
nella totale assenza del superfluo,
nella inconsapevolezza del superfluo.
Poi dal mare sono venuti i conquistatori,
con barche bianche e vestiti succinti,
hanno usato mezzi potenti
per diventare padroni.
Prima hanno ignorato la cultura antica
che avevano incontrata;
oggi che ne sono consapevoli
tentano un approccio più sottile:
il fascino di questa civiltà,
un’attrattiva certa
per ospiti paganti.
Ho cercato di diventare sorda
alle informazioni, cieca
alle cose esibite,
muta per non apparire indiscreta.
Il vento, i sassi e l’erba
forse mi hanno parlato;
ma solo col tempo
riuscirò a decifrarli.

anna ventura

anna ventura

Tu ne quaesieris

Il Poeta sedeva ancora a tavola,
all’aperto,
dopo la sobria cena;
un coniglio uscì dalla cucina,
corse verso la campagna. Un bambino
piccolissimo lo seguì,
nell’illusione di raggiungerlo. Poi,
sempre dalla cucina,
uscì la madre del bambino,
corse tanto da riacciuffare entrambi. Ora
tornava indietro, il terzetto; la madre
salutò il padrone, con un piccolo inchino
grazioso, forse un invito.
Come era facile, l’amore,
fuori dagli intrighi di Roma!
Troppo facile; Orazio
avrebbe voluto ben altro. Il Soratte
dormiva il suo sonno millenario,
il sonno degli avi,
che si aggiravano quieti
intorno a lui, l’erede
che li avrebbe resi illustri.
E poi c’era l’ombra di Mecenate,mentre
la punta di un coltello girava
nel cuore del poeta, inutile scrivere
sulla tavoletta di non voler sapere,
perché è male sapere. Il cuore
sa sempre tutto,inutile
tentare di ingannarlo.

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MARGHERITA GUIDACCI (1921-1992) POESIE SCELTE  «Il tempo dell’anima è l’eternità» con COMMENTO CRITICO di Giorgio Linguaglossa

 

Firenze-SestoFiorentino cartolina d'epoca ristampata nel dopo guerra

Firenze-SestoFiorentino cartolina d’epoca ristampata nel dopo guerra

 Margherita Guidacci (Firenze, 25 aprile 1921 –Roma, 19 giugno 1992). Figlia unica, rimane orfana in tenera età. Cresce in campagna, in compagnia del poeta Nicola Lisi, suo cugino. Si laurea in letteratura italiana all’Università di Firenze, con una tesi su Giuseppe Ungaretti, specializzandosi poi in letteratura inglese ed americana, ha tradotto le opere di John Donne e le poesie di Emily Dickinson. Nel 1945 diventa insegnante, prima liceale e successivamente docente universitaria.
Pubblicazioni in poesia:

La sabbia e l’angelo, Firenze, Vallecchi, 1946
Morte del ricco: un oratorio, Firenze, Vallecchi, 1954
Giorno dei santi, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1957
Paglia e polvere, Padova, Rebellato, 1961
Le poesie, Milano: Rizzoli, 1965
Neurosuite, Vicenza, Neri Pozza, 1970
Il vuoto e le forme, Quarto d’Altimo, Rebellato, 1977
L’altare di Isenheim, Milano, Rusconi, 1980
Brevi e lunghe, Città del Vaticano: Libreria editrice vaticana, 1980,
L’orologio di Bologna, Firenze, Città di Vita, 1981
Una breve misura, Chieti, Vecchio faggio, 1988
Il buio e lo splendore, Milano, Garzanti, 1989
Anelli del tempo Firenze, Città di Vita, 1992

L’ultima silloge, Anelli del tempo, consegnata nelle mani dell’amico fraterno padre Massimiliano Rosito qualche mese prima della morte, apparve nei tipi di «Città di Vita» nel primo anniversario della morte. Appartenente alla raccolta postuma, “All’ipotetico lettore” rappresenta per molti aspetti il testamento spirituale di Margherita Guidacci.

La poesia è il diario di un’anima, documento di un percorso spirituale. Mario Luzi, rievocando il momento del primo incontro, associava la sua figura a «un’impressione di luce festosa, una letizia mentale, accompagnata però da un senso luttuoso. Qualcosa che non potrei definire altrimenti che con questa parola la quale sembra molto grave, insomma la segnava. Segnava delle ombre in lei e segnava nel profondo chi ascoltava».
«Avevo conosciuto prima lo sfiorire che il fiorire – scrive di sé Margherita Guidacci -, avevo veduto prima come si muore che come si vive, e nella vita ero entrata, per così dire, a ritroso, senza poter staccare lo sguardo dal termine che ci attende sulla terra, il disfacimento della carne». Con queste parole  la scrittrice trentasettenne introduce, in un articolo per il quotidiano «Il popolo», l’incontro con Clemente Rebora, intitolato, del resto, «La morte come vita».

Firenze, alluvione

Firenze, alluvione

Sia da parte materna che paterna la famiglia era originaria di Scarperia, dove possedeva un’antica casa d’epoca medicea. Il padre, Antonio Leone Guidacci, noto avvocato nel foro fiorentino, si ammalò di cancro e scomparve prematuramente nel 1931. Figlia unica, Margherita crebbe con la madre Leonella Cartacci e la nonna materna Maria Savi. Timida e introversa, a disagio al confronto con i bambini della sua età, furono i libri la più assidua compagnia dell’infanzia. E a conferma che la poesia è visita e dono, già dai primi anni affiorano i segni di una chiamata, in obbedienza al destino: «La mia tematica è probabilmente legata ad uno dei primi ricordi della mia vita. Avevo quattro anni e mezzo: (…) alla fine del 1925, dopo Natale ed ancora nell’atmosfera di Natale. Mia nonna era seduta in una grande poltrona vicina al caminetto; ed io sedevo ai suoi piedi, su un panchettino imbottito, appoggiando la schiena contro le sue gonne. A un tratto, non so come né perché, parve che le frontiere del mio mondo infantile – fino allora eterno, incomunicabile ed immutabile, di fronte al mondo anch’esso eterno, incomunicabile ed immutabile degli adulti – cadessero polverizzate. Sentii allora, con una violenza che mi fece paura, la continuità fra mia nonna e me, l’unicità della corrente – sangue e tempo – che ci attraversava. Lei era stata come me ed io sarei stata un giorno come lei. I nostri mondi non erano divisi….».

Margherita Guidacci Francesca-Duranti-Colombo Premio Basilicata 1988

Margherita Guidacci Francesca-Duranti-Colombo Premio Basilicata 1988

Commento di Giorgio Linguaglossa

A proposito della poesia di Margherita Guidacci ho scritto:

«Il discorso lirico di Margherita Guidacci non sposta il versante del «canonico» della poesia del primo Novecento; con la sua cifra  monologante incentrata sull’io poetico introduce il piano narrativo e il verso lungo. La poesia di La sabbia e l’angelo (scritto nel 1935 e pubblicato soltanto nel 1946), è il primo tentativo di una poesia da camera, un discorso interiore con una intelaiatura sostanzialmente pre-sperimentale (una sorta di territorio stilistico di nessuno appartenente alla stagione manifatturiera del «moderno»), identificabile, in un arco temporale che si snoda da la Bufera (1956) di Montale, fino a opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni.

Margherita Guidacci 8Un discorso poetico che proviene da lontano, dalla via laterale e periferica della prosa, imbocca una strada tutta in salita: il discorso lirico con uno stile prosastico. La Guidacci si sottopone fin dai primi anni dell’adolescenza ad un tirocinio ascetico, disbosca il suo linguaggio poetico di ogni residuo ermetico ed opera un consolidamento stilistico di stampo narrativo pre-sperimentale. Quello che rimarrà da fare sarà il tragitto più lungo: appunto, uscire dal primo Novecento, costruire una koiné linguistica che consenta di avviare la poesia italiana sul binario di una moderna poesia europea attrezzata prosasticamente. La Guidacci, dopo lo splendido inizio della prima opera, non saprà dare continuità ai suoi esiti estetici, non saprà consolidare quelle posizioni stilistiche con una ricerca rigorosa e con la necessaria tenacia. Le opere successive: Morte del ricco (1955), Neurosuite (1970), Taccuino Slavo  (1976), L’altare di Isenheim (1980), Anelli nel tempo (1993), segneranno un progressivo cedimento ad una medierà stilistica in linea con operazioni analoghe.

La poesia di La sabbia e l’angelo sta di fronte al suo «oggetto» in relazione di «desiderio» e di «contemplazione», è un sapere dominato dalla nostalgia e dalla illusione per il mondo un tempo posseduto e riconosciuto. Fatto sta che soltanto il riconoscibile entra in questa poesia con il suo statuto e il suo vestito linguistico mentre l’irriconoscibile è ancora di là da venire, resta irriconosciuto, irrisolto e quindi non pronunziato linguisticamente. La formalizzazione linguistica di questo complesso procedere rivela l’aspetto stilistico di una poesia attestata tra il desiderio e la contemplazione, tra la vocazione e la illusione, tra il lato riflessivo e il lato desiderante dell’intenzione poetica. Poesia che si apre un varco dentro l’ossatura linguistica dello pre-sperimentalismo senza riuscire a perforarne il tegumento stilistico. Tutta inscritta tra la contemplazione e la facoltà desiderante, l’operazione della Guidacci resterà impigliata dentro l’ossatura del paradigma «narrativo», ancora implicito e implicato nelle contraddizioni di quel paradigma».*

*Giorgio Linguaglossa Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010) EdiLet, Roma, 2011 pp. 400 € 16

 

Margherita Guidacci

Margherita Guidacci foto Dino Ignani

 

All’ipotetico lettore

Ho messo la mia anima fra le tue mani.
Curvale a nido. Essa non vuole altro
che riposare in te.
Ma schiudile se un giorno
la sentirai fuggire. Fa’ che siano
allora come foglie e come vento
assecondando il suo volo.
E sappi che l’affetto nell’addio
non è inferiore che nell’incontro. Rimane
uguale e sarà eterno. Ma diverse
sono talvolta le vie da percorrere
in obbedienza al destino.

(1992)

 

Da La sabbia e l’angelo (1946)

XVI

Se tu mai sentissi la notte nei tuoi polsi tremare,
E trafiggerti con gli aghi del sangue,
E i minuti del cuore sconvolgerti in improvvise frane,
Allora nemmeno comprenderai
che sia , di terra farsi poi nardo e neve,
Ed entrare in un tempo incorruttibile.

XXVII

Ama l’albero in sé raccolto, ama la chiusa fatica
Del frutto che il tempo nutre e che nel tempo ricade.
Ma più ama l’albero nel vento, quando assomiglia alla fiamma futura.

 Margherita Guidacci

Margherita Guidacci

Da Una breve misura (1988)

Anche sul fango Lieto risveglio
il sole resta sole d’ali e canti: ogni uccello
e non s’infanga conosce la sua alba
Quando è accaduto il peggio
Quando è accaduto il peggio
si forma un grande silenzio
come un lago immobile
su una città sommersa.
Son più reali le nuvole
delle case che prima abitavamo.
Ci affacciamo curiosi
e indifferenti come posteri.
sulla rovina che più non è tale
per noi, se soverchiandosi ha travolto
la nostra conoscenza,
Che sollievo sentire
che nulla ormai ci riguarda!

Margherita Guidacci

Margherita Guidacci

 

Da Nerosuite (1970)

Clinica neurologica
Qui giunto molte cose o pellegrino
puoi domandarti ma una sola importa:
E’ l’ultima casa dei vivi
o la prima dei morti?

 

Stella cadente (1992)

Alcuni desideri si adempiranno
altri saranno respinti. Ma io
sarò passata splendendo
per un attimo. Anche se nessuno
mi avesse guardata
risulterebbe ugualmente giustificato –
per quel lucente attimo – il mio esistere.

*

Tutti i vostri strumenti hanno nomi bizzarri
e difficili, ma io vedo chiaro
e so che in fondo sono solamente
metri e gessetti con cui misurate
e segnate – segnate e misurate
senza stancarvi.
Sfilate spilli di tra le labbra, come un sarto:
me li appuntate sull’anima
e dite: “Qui faremo un bell’orlo.
Dopo starai tanto meglio.”
Io non voglio che mi tagliate un pezzo d’anima !
Se ne ho troppa per entrare nel vostro mondo,
ebbene, non voglio entrarci.
Sono una poetessa:
una farfalla, un essere
delicato, con le ali.
Se le strappate, mi torcerò sulla terra,
ma non per questo potrò diventare
una lieta e disciplinata formica”

Poiché non mi veniva nessuna parola
(la parola era “addio”, ma non riuscivo a dirla)
ti ho dato il mio silenzio
ed ho ascoltato il tuo,
e non è stato un vuoto, ma condivisa pienezza
e ancora gioia, mentre accettavamo,
come la terra, un nostro tempo di neve,
bianco grembo d’attesa delle future estati.

Margherita Guidacci Ipotetico-home1

Margherita Guidacci

Margherita Guidacci

È come una mancanza
di respiro ed un senso di morire,
quando mi stringe improvviso
il desiderio di te tanto lontano
e nulla può calmarlo, altro pensiero
non può occuparmi, tranne il Paradiso
che sarebbe per me lo starti accanto.
Ma poiché ciò m’è negato, più cara,
molto più cara d’una fredda pace
mi è la stretta indicibile
quasi marchio di fuoco che proclami
ancora e sempre quanto sono tua.
A nessun costo vorrei separarmi da questo mio dolore.

*

Scrivo parole ogni giorno.
Non so dove arriverò,
scrivendo.
So che potrei tacere.
Colui che sa, non parla.
Muto nel ventre del tempo
dove uomini gridano, anche.
Lo sguardo
basterà per comprendere e dire
quanto la voce non dice.
Sfioro ogni istante, ogni giorno
l’urlo e il tuono. Vivo intorno.
Potrei fermarmi e attendere.
In silenzio.

Margherita Guidacci

Lascia sia il vento a completar le parole
che la tua voce non sa articolare.
Non ci occorrono più le parole.
Siamo entrambi il medesimo silenzio.
Come due specchi, svuotati d’ ogni immagine,
che l’uno all’altro rendono
un semplice raggio. E ci basta.

*

Ho messo la mia anima fra le tue mani.
Curvale a nido. Essa non vuole altro
che riposare in te.
Ma schiudile se un giorno
la sentirai fuggire. Fa’ che siano
allora come foglie e come vento,
assecondando il suo volo.
E sappi che l’affetto nell’addio
non è minore che nell’incontro. Rimane
uguale e sarà eterno. Ma diverse
sono talvolta le vie da percorrere
in obbedienza al destino.

Margherita Guidacci

Margherita Guidacci

se il muro fosse di pietra e non d’aria,
se attraverso il muro non si toccassero gli alberi,
se le alte sbarre d’ombra che ti rigano l’anima
fossero l’ombra di vere sbarre a cui potersi aggrappare,
se ricordassi lo scatto d’una porta che si chiude
alle tue spalle e il tintinnìo delle chiavi
alla cintura del carceriere che si allontana:
quale sollievo ne avresti nell’orrore!

perché ciò che si chiude può tornare ad aprirsi,
la rocca più imponente può essere distrutta.
ma dove sei non è porta, e nessuna porta s’aprirà.
e non è muro: nessun muro sarà abbattuto.
le sbarre d’ombra sono le vere sbarre,
non saranno divelte. tu confini con l’aria,
tocchi gli alberi, cogli i fiori, sei libera,
e sei tu stessa la tua prigione che cammina.

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DIECI POESIE INEDITE di Pietro Civitareale “Ma già scendono le ombre” Commento di Giorgio Linguaglossa

Basilica di Santa Maria di Collemaggio

Basilica di Santa Maria di Collemaggio

 Pietro Civitareale è nato a Vittorito (AQ) nel 1934, ma dal 1960 risiede a Firenze. Poeta in lingua e in dialetto, ha pubblicato una quindicina di volumi di versi, tra cui ricordiamo almeno:Un modo di essere (1983), Solitudine delle parole (1995), Le miele de ju mmierne (1998), Ombre disegnate (2001), Mitografie e altro (2008), Cartografie di un visionario (2014). Come critico letterario, si è occupato dell’opera di Betocchi, Fortini, Clemente, Montale, Luzi, Pessoa, Lorca. Come narratore ha pubblicato alcuni volumi di racconti e due romanzi. Come traduttore, ha curato, tra l’altro, un’antologia delle poesie di Ferdinando Pessoa, L’enigma e le maschere (1993 e 1996). Studioso della poesia in dialetto, ha pubblicato la raccolta di scritti critici Poeti in romagnolo del secondo Novecento (2005), La dialettalità negata (2009), l’antologia Poeti in romagnolo del Novecento (2006), nonchè il volume critico-antologico Poeti delle altre lingue (2011). Ha curato inoltre l’antologia di poeti italiani contemporanei La narración del desengaño (Zaragoza – Madrid, 1984).

«Dizione dichiarativa, reminiscenza dell’anima come nella poesia di un poeta amato da Civitareale, Carlo Betocchi, con quelle aure ed ariette rimate ormai non più possibili; l’antica decalcomania del paesello ideale Tegoleto non è più recuperabile. In Pietro Civitareale è piovuta la narratività tardo novecentesca, impianto ottico e sguardo acustico; ma è rimasta la gentilezza dello sguardo che conduce lo spettatore al lettore, il monologo al colloquio. Poesia che aspira alla forma monologica per suo intimo, innato magnetismo quale logos dell’anamnesi, segnale rimosso di una civiltà tramontata. La quiete della reminiscenza fornisce la ragione fondante della poesia di Civitareale con la consapevolezza che nel Dopo il Moderno, un qualcosa di inenarrabile è avvenuto che non è più recuperabile: la Tradizione, se non con un triplo salto mortale. La poesia di Civitareale è un cammeo sigillato nel suo bronzeo cofanetto a triplice serratura, dentro il sarcofago che la cultura del Novecento ha predisposto per la poesia ad un tempo dichiarativa e dell’anamnesi.

Si comprende allora come la lirica di Civitareale abbia consumato ogni connotazione di «poetico» così come lo abbiamo frequentato nel Novecento: ci sono i poeti amati e studiati: Sinisgalli, Luzi, Fortini il primo Montale, Pessoa ma digeriti e assimilati in una personale campitura metrica, nel verso «stretto» con il suo moto ondivago e ritornante, nella rima assente e in tutti quegli strumenti della retorica che sono stati lasciati cadere nel pozzo senza fondo di una tradizione naufragata… quello che rimane è il massimo che un poeta lirico può ancora ottenere: un andamento frastico musicale e rammemorativo».

(Giorgio Linguaglossa)

 

Aquila

Aquila

Ma già scendono le ombre

La rissa dei gabbiani
sui moli, il reticolo di luce
nell’acqua, il ragazzo
che si staglia contro il sole
bruciando come una torcia.

Per me la dolcezza
di quest’ora è il segno
d’una felicità sempre attesa
e mai posseduta, l’evidenza
d’una verità cercata
nelle segrete dell’anima.

Ma già scendono le ombre,
si fa deserto il mondo,
e presto torneremo ad essere
fantasmi nel cuore della notte.

Altri approdi

Il giorno sta già serrando
le ciglia sopra un mare
che è un immenso tappeto di luci,
su una macchia d’ombrelloni
colorati che chiude la vita
in un indistinto brusio di suoni
nel va e vieni della risacca.

Al largo un battello invita,
in una sequela di lingue,
ad imbarcarsi per chissà quali
approdi, come se tra il qui
e l’altrove, l’oggi e il domani,
non esistesse differenza alcuna,
e non offrissero lo stesso
indecifrabile miscuglio di gioie
e dolori, speranze e delusioni.

Immobile sulla riva
(invidiabile inconsapevolezza
dell’adolescenza), una ragazza
ascolta; e il suo corpo,
alto e snello come un cipresso,
è una torcia in fiamme
contro il sole al tramonto.

Pietro Civitareale

Pietro Civitareale

  michael schlegel schauinsland

L’incertezza

Amarti è come camminare
dove l’acqua lambisce la riva,
tra l’asciutto e il bagnato,
lungo una strada indefinita.

Un giorno mi dici sì,
un altro no; e non so
un altro ancora.

Deciditi una buona volta:
se fare di me un uomo
soddisfatto o deluso.
L’incertezza duole più del rifiuto.

L’ultimo incontro

“È il nostro ultimo incontro”
mi dici offrendo il tuo corpo
nudo alla mia carezza.

Forse è per questo
che sembri posseduta
dall’impeto dell’onda
che s’infrange contro
lo scoglio e, come l’onda,
ti ritrai inesausta per tornare
di nuovo all’assalto.

Non so da dove ti viene
questa forsennata voglia
d’annullarti in un’ebbrezza
che monta con un senso
inesorabile di morte.

So solo che il paradiso
e l’inferno hanno lo stesso
volto quando alfine
ti abbandoni su di me sfinita.

Pietro Civitareale 8

 Pietro Civitareale 7

Nonostante gli anni

Sotto un cielo coperto
da sfilacci di nuvole,
ti lasci portare dal vento
come un aquilone.

Nonostante gli anni,
sei sempre una bambina,
cui piace mutare
l’ovvio in avventura,
la regola in eccezione,
la necessità in miracolo.

Mi chiedi d’assecondarti
in questo tuo fantasioso gioco,
ma l’isola felice dove
hai fissato il tuo approdo,
l’ho doppiata da tempo.

Non è rinuncia la mia,
né rassegnazione.
E’ incapacità di vivere,
ignorando cosa sia la vita.

È l’ora in cui

Là dove muore il giorno
s’annidano ombre
che una scialba luna
stana e sparpaglia
sulla coltre del mare.

È l’ora in cui le cose
ammutoliscono
e l’anima si esilia
in un suo estatico mondo.

E non vale desiderare,
chiedere, cercare risposte.
Ogni attimo che passa
porta il segno dell’eterno.

Pietro Civitareale

Pietro Civitareale

 Pietro Civitareale 5

 

.

 

Ripensaci, uomo

Dov’erano alberi e prati
ora trovi asfalto e cemento.
Il pesce boccheggia sulla riva
seminata di liquami e di macerie,
l’uomo trascina la propria vita
tra cattedrali di vetro e metallo,
respirando veleno e polvere.

Per ingordigia stiamo
uccidendo ciò che ci dà la vita.
E, come Adamo peccò contro
Dio, così i suoi figli stanno
peccando contro la Madre Terra,
peccato che non ha
remissione senza pentimento.

Ripensaci, uomo, rispetta
la casa che ti ospita.
La tua vita è un battito di ciglia.
Solo quando sentirai
il bisogno di chiedere perdono
per le tue colpe, potrai sperare
che i tuoi peccati ti siano rimessi. Continua a leggere

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POESIE SULLA MORTE di Salvatore Toma (1951-1987) da “Canzoniere della morte” (1999) Commento di Giorgio Linguaglossa

salvatore toma lecce culla-del-barocco

salvatore toma lecce culla-del-barocco

 Salvatore Toma nasce a Maglie nel Salento nel 1951, da una famiglia di fiorai, e insieme a Antonio Verri e Claudia Ruggeri fa parte dei cosiddetti “poeti maledetti salentini”. Frequenta il liceo classico, ma non prosegue gli studi, anche se coltiva da autodidatta le materie che più gli interessano: letteratura e ovviamente poesia. Vive nella tenuta dei genitori occupandosi della campagna e trascorrendo ore in un bosco di querce, “le Ciàncole”, appostato comodamente sui rami di un grande albero. Pubblica (dal 1979 al 1983) sei raccolte di poesie, rispettivamente: Poesie, Ad esempio una vacanza, Poesie scelte, Un anno in sospeso, Ancora un anno e Forse ci siamo.

salvatore toma paesaggio salento

paesaggio salento

La sua morte prematura, avvenuta quando aveva appena trentacinque anni viene, da alcuni, attribuita al suicidio, in realtà sembra sia sopraggiunta per un uso eccessivo di alcolici, per cirrosi epatica. La sua notorietà deriva dalla pubblicazione della raccolta di poesie Canzoniere della Morte (Einaudi 1999), a cura della filologa Maria Corti.

Dopo la scomparsa della Corti, avvenuta nel 2002, la poesia di Toma rischiava di essere definitivamente dimenticata. Un folto gruppo di intellettuali meridionali promosse una raccolta di firme per chiedere la ristampa del volume al tempo esaurito, tentando anche di rilevare i diritti di autore per pubblicare il libro altrove. L’iniziativa provoca una vasta eco in tutta Italia e la casa editrice decide, di ristampare il Canzoniere.

Giorgio Linguaglossa 5 ottobre 2017

Giorgio Linguaglossa

Commento di Giorgio Linguaglossa

“Un poeta sconosciuto e disconosciuto come Salvatore Toma (1951-1987), che vive nella lontana provincia salentina, scrive invece i versi più acuti e dolorosi del decennio a cavallo tra gli anni Settanta-Ottanta. Dinanzi alla sua disperata autenticità, scoloriscono e impallidiscono le scritture poetiche più scaltrite ma anche più professionali degli esistenzialisti milanesi e dei minimalisti romani. Recluso nell’isolamento della provincia, Toma scrive una poesia lontana anni luce dalla ideologizzazione neosperimentale e dalle poetiche che si andavano elaborando a Roma e a Milano; la poesia di Toma è quella di un ruminatore-visionario che accentra il discorso lirico, una sorta di primitivismo linguistico, intorno al problema della propria morte, con una versificazione basata sul verso libero, sulla percussione ritmica e su una imagery limitata e circoscritta a poche figurazioni di base dalle quali si diramano le variazioni ossessive della sua ruminazione interiore. Il discorso lirico diventa così la proiezione all’esterno delle sue ruminazioni interiori.

Salvatore Toma giovane studente universitario

Salvatore Toma giovane studente universitario

 Tra interno ed esterno non c’è distanza: l’interno diventa immediatamente esterno, pagina scritta; l’«io» è sottoposto alla percussione di un fascio di elettroni e di fotoni che ne illuminano l’ultimo bagliore. Fra le sue raccolte, prima della pubblicazione di una antologia da Einaudi nel 1999 con il titolo Canzoniere della morte, si ricordano Poesie (Prime rondini) (1970), Ad esempio una vacanza (1972), Un anno in sospeso (1979). Un percorso diverso ma parallelo è quello di un giovane pittore lucano, Giuseppe Pedota che scrive con un lirismo naif che sembra un meteorite caduto dalla luna, il contraltare del maledettismo di Salvatore Toma. Colpisce la serena estraneità di queste opere  al clima culturale degli anni Settanta. I quanti del suicidio (1976) di Helle Busacca sembrano versi scritti da un reietto che cammina sulla terra dopo un terremoto, sono poesie di un sopravvissuto da un bombardamento.

salvatore toma pagina 1Nelle poesie che il poeta lucano Giuseppe Pedota scrive in questi anni e che pubblicherà soltanto venticinque anni dopo, nel 1996, Equazione dell’infinito (1996) e Dialogo con Einstein (1999), sembra di trovarci dinanzi ad un marziano che sia sbarcato sulla terra con la sua astronave. Pedota scrive come parla, parla con i terrestri in una lingua «privata», nella lingua dei marziani. Nel 2005 pubblicherà Acronico, che contiene anche le due precedenti raccolte. Pedota scrive ad una altissima concentrazione lirica, dove è la tensione tra un verso e l’altro che sostiene tutta l’impalcatura del discorso poetico in un susseguirsi di ponti tensioattivi che reggono l’infrastruttura dei versi che si snodano da una metafora all’altra, da una iperbole all’altra, in un continuum immaginifico di rara felicità espressiva. In queste opere non c’è nulla che le ricolleghi alla comune ascendenza del «duopolio»: lo sperimentalismo e la ex linea lombarda. Pedota scrive in una lingua che abita una terra di nessuno, una specie di extralingua. È questo il segreto della sua forza. La ristrutturazione del linguaggio lirico operata da Pedota avviene mediante il riposizionamento del piano lirico sul «parlato» privato. Tutte le opere di questi autori sono opere «cieche», sono monadi condannate a restare «monadi», sono vasi incomunicanti. Ciascuno segue un proprio progetto di riconfigurazione del discorso lirico.

salvatore toma copertinaÈ comunque la rivincita della provincia che produce i risultati più alti della poesia di questi anni. Tra queste opere si stabilisce la incomunicabilità di prodotti tra di loro incomunicanti: le opere di poesia non parlano, non colloquiano tra di loro, tantomeno gli autori ma c’è qualcosa che accomuna i versi disperati e rarefatti di Toma all’idioma lirico-irrealistico di Pedota: l’ossessione della propria irriducibile singolarità. Giuseppe Pedota nel 1993 entrerà a far parte della redazione del quadrimestrale«Poiesis» diretto da chi scrive, negli anni seguenti pubblicherà due opere «visionarie». Nella poesia di un Toma o di un Pedota non si verifica alcuna investigazione dell’«io» o del «mondo», a rigore non c’è più alcun «mondo»: non c’è più un messaggio che un io ipotetico invia in codice ad un destinatario posto oltreoceano o oltremanica, non c’è più una fenomenologia dell’«io» intesa come dispiegamento prospettico e temporale del passaggio di un «evento destinale». Forse siamo davvero davanti all’ultima esternazione dell’«io» lirico nell’epoca della problematica esistenza del discorso lirico”.

[da Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010) EdiLet, Roma, pp. 390 € 16]

(poesie tratte da Canzoniere della morte Einaudi, 1999 a cura di Maria Corti)

 

salvatore_toma 1

salvatore toma

Ultima lettera di un suicida modello

Ultima lettera di un suicida modello
A questo punto
cercate di non rompermi i coglioni
anche da morto.
È un innato modo di fare
questo mio non accettare
di esistere.
Non state a riesumarmi dunque
con la forza delle vostre certezze
o piuttosto a giustificarvi
che chi s’ammazza è un vigliacco:
a creare progettare ed approvare
la propria morte ci vuole coraggio!
Ci vuole il tempo
che a voi fa paura.
Farsi fuori è un modo di vivere
finalmente a modo proprio
a modo vero.
Perciò non state ad inventarvi
fandonie psicologiche
sul mio conto o crisi esistenziali
da manie di persecuzione
per motivi di comodo
e di non colpevolezza.
Ci rivedremo
ci rivedremo senz’altro
e ne riparleremo…
Addio bastardi maledetti
vermi immondi
addio noiosi assassini.

.

salvatore toma pagina

Salvatore Toma in una foto

Salvatore Toma

Spremiti Toma
spremiti come
un limone
o spezzati come
si spezza un ramo
d’alloro per
respirare dal vivo, dal profondo.
Questo ordinarsi
di vivere non
ti fa bene non
ti rappresenta più.
Arditi Toma
datti fuoco acqua terra
datti luce
batti palpita schiuditi
battiti.

*

Presso mezzogiorno
mi sono scavata la fossa
nel mio bosco di querce,
ci ho messo una croce
e ci ho scritto sopra
oltre al mio nome
una buone dose di vita vissuta.
Poi sono uscito per strada
a guardare la gente
con occhi diversi.

*

Il suicidio è in noi
fa parte della nostra pelle
in essa vibra respira si esalta
appartiene alla nostra vita
plana sui nostri pensieri
spesso senza motivo:
a volte l’idea sola
ci conforta ci basta
l’effetto al momento è identico
ci pare di rinascere
una nuova forza stordente
per un poco ci possiede
ci fa sentire immortali.
Perciò io ho rispetto
di chi muore così
di chi così si lascia andare
perché solo chi si nega la vita
sa cosa significa vivere.
L’assuefazione il contagio
il tirare avanti
la sopravvivenza son solo cose
per chi ha paura di frugare
e di guardarsi dentro.
Il falco lanario

Come un aereo solare
senza rumore
se non fra le ali
il canto di un vento luminoso
circondava il lanario
il vecchio casolare
desolato in collina
tra le spine e i papaveri.
Assorto
stavo lì a guardarlo
roteare a spirale
lento come sospeso
a caccia del rondone.
Si spostava
ogni tanto
anche più di là
fra gli ulivi e il raro verde.
Un silenzio di fiaba
avvolgeva la collina.

.

Fiera 8 dic 2017 3 nero e bianco

a sx Letizia Leone, dietro, Antonio Sagredo e Giuseppe Talia

Quando sarò morto
e dopo un mese appena
come denso muco
color calce e cemento
mi colerà il cervello dagli occhi
se mi si prende per la testa
(l’ho visto fare a un mio cane
disseppellito per amore
o per strapparlo ai vermi)
per favore non dite niente
ma che solo si immagini
la mia vita
come io l’ho goduta
in compagnia dell’odio e del vino.
Per un verme una lumaca
avrei dato la vita:
tante ne ho salvate
quando ero presente
sciorinando senza vergogna
l’etichetta della pazzia
con l’ansia favolosa di donare.
Per favore non dite niente.

*

Io spero che un giorno
tu faccia la fine dei falchi,
belli alteri dominanti
l’azzurrità più vasta,
ma soli come mendicanti.

*

Il poeta esce col sole e con la pioggia
come il lombrico d’inverno
e la cicala d’estate
canta e il suo lavoro
che non è poco è tutto qui.
D’inverno come il lombrico
sbuca nudo dalla terra
si torce al riflesso di un miraggio
insegna la favola più antica.

.

salvatore toma

 

Chi muore
lentamente in fondo al lago
fra l’azzurro e i canneti
non muore soffocato
ma lievita piano in profondità.
Avrà sul capo una foglia
e su di essa un ranocchio
a conferma dell’eternità.

 

 

*

Io ho l’incubo
della mia vita
fatta di grandi
sconcertanti conoscenze
e di sogni paurosi.
Per questo credo
di vivere ancora per poco
e non rischiare
di sfiorare l’eternità.
Se passa una nube
fra incerte piogge
quella è nube
in cerca di serenità.

*

Se si potesse imbottigliare
l’odore dei nidi,
se si potesse imbottigliare
l’aria tenue e rapida
di primavera
se si potesse imbottigliare
l’odore selvaggio delle piume
di una cincia catturata
e la sua contentezza,
una volta liberata.

.

Salvatore Toma

Salvatore Toma

Quando sarò morto
che non vi venga in mente
di mettere manifesti:
è morto serenamente
o dopo lunga sofferenza
o peggio ancora in grazia di dio.
Io sono morto
per la vostra presenza.
Un giorno di questi
farò di tutto,
tutto farò filare liscio,
i pensieri e gli occhi
anche le nuvole raddrizzerò.
La mia ascia
sarà inesorabile.

Un giorno di questi
comanderò,
come un Dio
tutto vorrò
a me comparato.
Capre galline
voleranno sulle teste
umane come rettili nei fiumi
e fra le aride rocce
un giorno di questi comincerò. Continua a leggere

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“Il Disperso” (1976) di MAURIZIO CUCCHI – LA POESIA D’ESORDIO – Il processo di de-fondamentalizzazione del discorso poetico di Cucchi fino a “Vite pulviscolari” (2009) – Commento di Giorgio Linguaglossa

Milano Periferia nord

Milano Periferia nord

Da Giorgio Linguaglossa Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010) EdiLet, Roma, pp. 390 € 16

Con Il disperso (1976) di Maurizio Cucchi abbiamo il primo e più tipico esempio di de-fondamentalizzazione del «soggetto» nella poesia italiana del Novecento. È l’assunzione nel discorso poetico della nozione di «frattura» del procedimento armonico; «frattura» e «dif/ferenza» del piano proposizionalistico. C’è, nel sostrato strutturale de Il disperso, più Beckett che Eliot e Pound; c’è la frattura formale che si consuma nella poesia italiana del tardo Novecento attraverso il decentramento del piano narrativo, che resta senza inizio né fine, senza plot, senza soggetto che totalizzi, senza tematica che stabilizzi, senza cornice spazio-temporale che indirizzi cronotopicamente gli eventi. È quanto era stato acquisito dal Nouveau Roman, dal pastiche sanguinetiano (che però presuppone ancora un soggetto esterno che, come nell’informale, proietta fuori di sé il disordine), dal Calvino della trilogia: la assunzione, in poesia, della procedura enigmatica di derivazione kafkiana: c’è tutto un concorso di procedure compositive che nell’opera di Cucchi vengono a sedimentazione e a convergenza.

milano il naviglio pavese in secca e palazzi residenziali del quartiere barona alla periferia sud

milano il naviglio pavese in secca e palazzi residenziali del quartiere barona alla periferia sud

Il discorso poematico de Il disperso non abita più il luogo dell’asseribilità generalizzata fondata sulla proiezione del soggetto cartesiano sul fondale bianco della linguisticità ma è diventato problematico in sé; è la linguisticità a non essere più linguisticamente possibile. È il discorso proposizionale della poesia italiana del Novecento che qui entra in fibrillazione, in crisi irreversibile. È la ragione narrante della poesia italiana degli anni Settanta, con tutto il suo carico di problematicità, che entra in crisi irreversibile: sia il canone sperimentale che il canone, per così dire, anti-sperimentale entrano in una crisi di linguisticità e di rappresentatività. Entra in crisi il tradizionale modello proposizionalistico di rappresentazione fondato sulla ipotassi.

Milano Mario Sironi paesagio urbano

Milano Mario Sironi paesagio urbano

Se il neodescrittivismo della poesia sperimentale degli anni Settanta è un discorso poetico senza oggetto, o, nel migliore dei casi, con un oggetto prestabilito, la poesia post-moderna di Cucchi invece tenta l’immersione nel linguistico rinserrando il «soggetto» in un sistema di differenze, di rapporti di significanti e di significati dis-locati. La «mitologia» viene sostituita dalla «topologia», il discorso sui luoghi sostituirà il discorso sui miti. Non c’è più il «paesaggio rurale» come nella poesia di Zanzotto o di Bertolucci ma il paesaggio urbano, dove la vicissitudine dei luoghi è già vicissitudine esistenziale. Non c’è più un autore-soggetto già stabilito la cui individuazione assicurerebbe la significazione. Se nel simbolismo il «soggetto» è all’origine della significazione, nel post-simbolismo, dove tutto nella struttura rimanda al tutto per accumuli, per sottrazioni, per transizioni, per differenze, per scarti, il «soggetto» si costituisce nell’ambito di un sistema che lo definisce per la parola-segno. Preso in sé il «soggetto» non significa. Il «soggetto», nella sua non-identità , diventa una differenza fra altre nel sistema generale delle differenze possibili e plausibili.

mario sironi paesaggio urbano 1921

mario sironi paesaggio urbano 1921

Ne Il disperso c’è un delitto. Ma è veramente un delitto? C’è un soggetto inquisitorio, un poliziotto che tenta di ricostruire gli eventi a partire dalle «tracce», dai «segni» presenti nella scena primaria. C’è un cadavere ma nessuno sa chi sia e perché sia proprio lì e non altrove («È morto per un infarto (o per un incidente stradale, per un malore per via di un sasso): sì va bene, ma ci sarà / pure un colpevole, un responsabile / diretto, qualcuno che l’ha fatto fuori»); e perché proprio quel morto e non altri morti-significanti. Ci sono dei segni-significanti che potrebbero condurre il soggetto inquisitorio a ricomporre la scena primaria del delitto ma ci sono anche dei segni-significanti che potrebbero sviare l’indagine di ricostruzione dell’evento delittuoso. A volte, compare un inciso del soggetto narrante («Non ci voleva quel bicchiere rotto. / Poco meno di un simbolo»); subito dopo c’è l’ammissione della possibile causa della morte («E poi / la ferita, lo zampillo, l’incerottamento. Mi spiace confessarlo, / ma per fortuna che non c’ero»). L’occhio inquisitorio del poliziotto tenta la ricostruzione degli eventi secondo un ordine razionale-logico. Tutta la vicenda delittuosa viene passata al setaccio dell’occhio logico-proposizionale: il titolo dell’incipit è significativo di questa procedura e suona: «La casa, gli estranei, i parenti prossimi». Ed ecco l’apertura dove ci sono, in estrema sintesi, tutti i dettagli della scena primaria accaduta: la Lambretta a pezzi, la data, un giovedì, le ipotesi sulla causa del decesso: un infarto? O un incidente?

Nei pressi di… trovata la Lambretta. Impolverata,
a pezzi. Nessuno di noi ha mai pensato
seriamente a ritirarla. Forse la paura. Rovistando
nel cassetto, al solito, il furbo di cui al seguito
ha ripescato una fascia elastica, una foto o due,
un dente di latte e un ricciolo rimasti nel portafogli,
dieci lire (che non c’entravano per niente…)

Maurizio Cucchi foto Dino Ignani

Maurizio Cucchi foto Dino Ignani

La domanda sulla questione dell’evento delittuoso pone all’ordine del giorno lo sguardo indagatorio che opera la rilettura del reale. La poesia de Il disperso pone la domanda in termini problematologici. Siamo di fronte ad una vera e propria scacchiera di interrogazioni. Alla molteplicità delle domande possibili corrisponde una soltanto delle risposte. La poesia de Il disperso è tutta intessuta di sintagmi «tracce» e di sintagmi «differenze» (la dis-locazione dell’«io»), di enunciati. La «differenza» è questo scarto, questo recupero impossibile del soggetto incessantemente differito nel processo interruptus del discorso. La scena primaria del delitto (presunto) funge da archi-traccia che assume il valore di archia trascendentale. Derridianamente la traccia non ha soltanto valore di sparizione dell’origine, qui essa vuol dire che l’origine non è affatto scomparsa, ma d’altronde se tutto è traccia ciò significa che è scomparsa l’origine: non c’è la traccia originaria. Il disperso è un’«opera aperta» nel senso appunto che non c’è né ci potrà mai essere una definizione ultima dell’evento primario della scena del delitto (presunto). Non si sa nemmeno se ci sia un morto («Che i morti siano due? Ma quello giusto?»), quale sia la causa del decesso, non si sa se («C’entra qualcosa il vicino / del piano di sotto, che esce sempre dopo le undici di sera / con una faccia da vampiro?»), oppure se c’entri in qualche modo il personaggio dell’io narrante («E io / rosso di colpa, mezzo scemo, coi capelli / già quasi tagliati a zero / a giustificarmi come segue: “Ma io non c’entro,/ io non ho fatto niente… l’infarto… lo sa bene…” / E mi toccavo i bottoni della giacca.»).

È il primo caso di applicazione, nella tradizione italiana, della tecnica del giallo alla poesia moderna. In primo luogo la «topografia della casa», un indice nomenclatorio di significati (o di significanti?) delle «cose» che si traduce in toponomastica, e quindi in topologia:

Diamo un’occhiata alla TOPOGRAFIA DELLA CASA:

– Tutte le cose, a loro modo,
erano in ordine, al posto giusto. Un senso,
capisci, non mancava. Ma quel tale
entrato poco dopo (forse, mi hai detto
dietro la tenda, uno della polizia) cos’ha capito?
Intendo del pestacarne abbandonato
sopra il frigorifero, o della mela
mezza sbucciata, tagliata, diventata nera; della bottiglia
del vermut rimasta senza tappo, in un angolo del tavolo,
col bicchiere lì…

Gif maniglia

Il discorso poetico de Il disperso esperisce una interna inadeguazione del proprio statuto proposizionalistico: Il «confessato» diventa «incoffessabile», il «giustificato» diventa l’«ingiustificabile». Il motore assertorio si inceppa e si guasta: il discorso procede per arresti e strappi, per ritorni improvvisi e flashback, proiezioni in avanti e ritorni indietro, in incisi ipotetici e lacerti interrogativi; ciò che si traduce sul piano stilistico in una abbondante messe di fraseologie plebee e piccolo-borghesi che si giustappongono e si intrecciano. Affabulazioni impersonali e personalissime confessioni vengono giustapposte e sovrapposte con l’effetto finale, come incidentale, di una fibrillazione del linguaggio poetico:

e poi / non capisco la ragione di questo grattarsi insistente sul di dietro. / Avrà a che fare (visto l’arrossamento, / i foruncoletti…) / con altri sintomi del genere (viscerali, / di solito, infiammazioni)? Prendo la pomata. / E intanto chi mi vede fa il di più. Che mi scoccia, con l’umido / e tutti i fatti miei e le telefonate alla cabina, / è il riscaldamento che non va: ho i piedi sporchi, / luridi. Giù in basso / stanno manovrando in quattro / con la caldaia a pezzi. Figurati se ho voglia / di scoprirmi…

Il detective è una figura-proiezione spostata dell’io: né Ingravallo né Sherlock Holmes (che prefigurano un ordinamento stabile e leggibile del mondo e quindi degli eventi), ma qualcosa e qualcuno più simile a un meta-reale che si articola tra presunzioni di vittime e colpevoli non per restaurare l’ordine razionale del reale ma per tentare un itinerario inquisitorio.

Milano Periferia, scorcio

Milano Periferia, scorcio

Duchamp nel 1927 a proposito della Porte, 11, rue Larrey scriveva: «Non c’è soluzione perché non c’è problema». Ed è appunto questo il problema che il figlio-detective si trova ad affrontare nella ricerca della scena primaria: il decesso del padre.
Giovanni Giudici ha scritto, con indubbio acume, che Il disperso è costruito come un «documento d’istruttoria». Verissimo, solo che il soggetto-detective (entità fizionale) avanza mascherato e a tentoni dentro una serie di «sovrapposizioni», di «scomposizioni», di «tracce» che rendono indistinguibile la scena primaria del crimine (vero o presunto). È un documento d’istruttoria davvero scombiccherato e dissestato dalla dispersione e frammentazione dei segni significanti e dall’occultamento dei segni significato. Intermezzi di dialoghi anonimi o «soverchiamente» carichi di affettività coniugale, fraseologie straniate frammiste a considerazioni pedestri e ad accumuli di «cose», un’ansia nomenclatoria di «cose». Incisi, intermezzi parenetici, parentetici, asserzioni apofantiche, proposizioni cartolari del «parlato». Un linguaggio frammentato e bombardato. È l’oralità che si riversa in poesia precipitando dentro un imbuto semantico: « Tutto è cominciato pochi giorni fa./ Mi ha proprio riferito la portiera di averlo visto uscire / quieto nel primo pomeriggio. (La giacca dall’attaccapanni, «torno tra poco». Sparisce.) E dico io».

Quello che la poesia de Il disperso aggiunge alla attitudine tutta lombarda di fare poesia con i nomi propri di cose, di persone e di luoghi è quella particolare aura di estraniazione che promana dall’opera. Rispetto ad altre opere milanesi uscite negli anni Sessanta: Gli strumenti umani di Sereni, La vita in versi di Giudici, Le case della Vetra di Raboni, La tartaruga di Jastov di Cesarano, Lotte secondarie di Majorino e La talpa imperfetta di Tiziano Rossi, tutti pubblicati tra il 1965 e il ’68, ne Il disperso l’estraneazione e l’atmosfera allucinata risultano assolutamente preponderanti. La ricerca de Il disperso oscilla tra doublure e feedback, tra l’inafferrabile e l’imponderabile. È l’autonomia del simbolico che traccia la mappa del trans-soggettivo.

Milano tram

Milano tram

A distanza di più di trent’anni dall’esordio de Il disperso, oggi appare inequivocabile che l’opera si pone a latere dello sperimentalismo inglobandone le residue potenzialità espressive; inaugura un modo stilistico introducendo degli slittamenti tra piani linguistici differenti. Un po’ come Somiglianze di Milo De Angelis apparso nello stesso anno di pubblicazione de Il disperso: il 1976. Entrambi i libri aprono e chiudono una stagione poetica tipicamente lombarda. Entrambi i libri presentano delle analogie stilistiche davvero sorprendenti: accelerazioni e corto circuiti di fraseologie e piani linguistici, il paesaggio urbano delle periferie milanesi, l’accumulo di oggetti, l’inquadramento cinematografico di «interni», l’impianto tipicamente narrativo.

Le opere che seguiranno: Le meraviglie dell’acqua (1980), Donna del gioco (1987), L’ultimo viaggio di Glenn (1999), segneranno una lunga marcia di allontanamento, anche stilistico, da Il disperso. O di avvicinamento a qualcosa che, anche stilisticamente, deve ancora avvenire, come nella successiva raccolta Vite pulviscolari (2009), la poesia di Cucchi proseguirà in direzione di una ricomposizione della folgorante de-fondamentalizzazione dell’esordio.

Milano Periferia_PortaVigentinaMilano 1952 Mario De Biasi

Milano Periferia_PortaVigentinaMilano 1952 Mario De Biasi

da Il disperso (1976)

La casa, gli estranei, i parenti prossimi

1
Nei pressi di.. trovata la Lambretta. Impolverata,
a pezzi. Nessuno di noi ha mai pensato
seriamente a ritirarla. Forse la paura. Rovistando
nel cassetto, al solito, il furbo di cui al seguito
ha ripescato una fascia elastica, una foto o due,
un dente di latte e un ricciolo rimasti nel portafogli,
dieci lire (che non c’entravano per niente..)

In aggiunta a tutto ricordo che quando venivo su dalle scale io
era di giovedì, finita la scuola, verso mezzogiorno; ma era
anche un ritorno diverso dal solito… Ci sarà
un aggancio.

Adesso comunque, eccomi e:
– Credimi, fai caso
a quel tale andare tirandosi dietro le gambe e tutto, con gli occhietti
ancora appiccicati, nel pigiama, goffo da cane,
rigido inamidato. Ma il bello è
che me ne accorgo. E allora con che faccia
fingere un’altra volta il tono giusto, le parole,
cioè un po’ stiracchiate; il vestire in qualche modo?

(Che i morti siano due? Ma quello giusto?
Indifferente? E il primo,
come una specie di confidenza notturna, non è un parente stretto?
Strettissimo?)

(Dimmi tu se è possibile. Pochi giorni fa
era lì che faceva i suoi lavori. Pareva pacifico.)

È morto per un infarto (o per un incidente stradale, per un malore, per via di un sasso): sì, va bene, ma ci sarà
pure un colpevole, un responsabile
diretto, qualcuno che l’ha fatto fuori.

2
Non ci voleva quel bicchiere rotto.
Poco meno di un simbolo. Poco più
di una fissazione. O viceversa. E poi
la ferita, lo zampillo, l’incerottamento. Mi spiace confessarlo,
ma per fortuna che non c’ero.

Diamo un’occhiata alla TOPOGRAFIA DELLA CASA:
– Tutte le cose, a loro modo,
erano in ordine, al posto giusto. Un senso,
capisci, non mancava. Ma quel tale
entrato poco dopo (forse, mi hai detto
dietro la tenda, uno della polizia) cos’ha capito?
Intendo del pestacarne abbandonato
sopra il frigorifero, o della mela
mezza sbucciata, tagliata, diventata nera; della bottiglia
del vermuth rimasta senza tappo, in un angolo sul tavolo,
col bicchiere lì…

Di fuori c’erano i fiaschi, le bottiglie vuote. Tutti gli ombrelli
appesi alla sbarra di ferro della porta interna.

(C’entra qualcosa il vicino
del piano di sotto, che esce sempre dopo le undici di sera
con la faccia da vampiro?)

(Non avevo mai nascosto certe mie debolezze
– Dal dentista
andarci all’ora del tramonto può essere invitante.
E in più, dopo, uscire, fare il giro della casa,
tenerti la bocca, dire al primo che incontri e ti saluta: “Sai
devi scusarmi se parlo male, o mostro un riso macabro. Ma vedi,
mi mancano i denti, proprio qui davanti…”

Così, dopo l’accaduto, la vicina del dentista: “Se la gente caro lei
ci pensasse un po’ più spesso
ci sarebbe meno cattiveria”. E io
rosso di colpa, mezzo scemo, coi capelli
già quasi tagliati a zero
a giustificarmi come segue: “Ma io non c’entro,
io non ho fatto niente… l’infarto… lo sa bene..”
E mi toccavo i bottoni della giacca.)

maurizio cucchi

maurizio cucchi

 

 

 

 

 

 

 

3
I primi segni a ben vedere
non erano mancati. È la ricomparsa
che nessuno si poteva attendere. Dato che poi,
sulla poltrona, magari in lacrime, se ne era parlato
della sparizione. Ma in concreto, quanto ne sapevamo?
Ricordati, però, senza cercare colpe, dell’acqua
entrata di notte sotto i vetri in nostra assenza, della crepa
che taglia tutto il soffitto, addirittura del solaio,
sopra la stanza in fondo e che neppure ci siamo curati di visitare,
del lampadario che dondola, degli infissi mezzi marci.

Oggi, poi, come non bastasse, guarda qui! Avvicinati,
guarda un po’ qui, ti dico, qui sotto. Mi cresce la muffa,
la muffa sulla suola!

È che mio padre sì
sapeva di lettere, cultura: London
Steinbeck, Coppi e Bartali, Oscar
Carboni e la Gazzetta
dello Sport. L’officina. E quelle camicie d’allora,
larghe, i pantaloni alti in vita, paletò palandrane..

Mi sono domandato il perché
di questo continuo andarsene
di inquilini, qui dell’interno. E di operai
che vanno e vengono e sporcano le scale. (Chissà adesso
come sarebbe tutta consumata la targhetta della porta.)

4
Avevo cercato di chiedere spiegazioni
a chi poteva saperne di più. E le domande,
come al solito, si facevano insistenti. Poi ho visto
un certo imbarazzo, un certo disagio. “Se non ti va”
ho detto “scusami,
non se ne parli più.” “Ma non è per questo”
mi ha fatto lei. “È che così, a bruciapelo…
Preparami, voglio dire,
lasciami tempo di abituarmi.”

– Ma non ci sarà, lo sai bene,
conclusione migliore alla vicenda,
soluzione diversa dal previsto. Solo tutt’al più
prima o poi un tizio che verrà, uno dei soliti,
a portare certi suoi risultati di qualcosa: per esempio pezzi di carte,
foto, testimonianze…

maurizio cucchi

maurizio cucchi

5
IL CORPO (il primo, s’intende).
……………………….

Ma poi era venuto su dalle scale
nel buio.
Avrà fatto di certo i cinque piani a piedi.

…………………………

Nascosto nel portaombrelli. Identificato.
Finalmente. Recuperato nel sonno. Continua a leggere

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