Alejandra Alfaro Alfieri è nata a Buenos Aires nel marzo del 1989. Cresciuta in Perù, si è poi trasferita in Spagna e in Italia, dove si è formata come operatrice sociale e dove studia Sociologia, presso l’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma. Ha pubblicato, oltre a vari testi in antologie italiane, il prosimetro De la mente al corazón (“Dalla mente al cuore”), la raccolta di poesie Profunda Eternidad (“Profonda Eternità”), il libro Creadora de un vínculo poético universal, scritto a quattro mani col poeta spagnolo Tomás Morilla Massieu. Ha diretto la “Revista cultural Puertos” di Lima, Perù. Attualmente sta lavorando al suo primo romanzo: El guardián de su verdad.
Alejandra Alfaro Alfieri
Quattro poesie da Poesie ultime
X.
Mi dovevo nascondere.
Chissà perché quel luogo era così vasto
ma il posto che io scelsi non lo era abbastanza
per poterlo fare.
Arrivavano feroci i criminali al passo,
sentivo le loro voci.
La suola calpestava ogni mio fiato disperato.
C’era tanta luce fuori, una volta anch’io la vidi
e così era ancora più difficile trovare un angolo dove
non potessi essere mai trovato.
Li sentivo correre, non so se da dietro, vicino o lontano
erano già intorno a me,
sotto un sole infiammante – perfino il colore dell’inferno
era più debole
Io mi sentivo di morire pian piano mentre percorrevo quel corridoio,
illuminato dal nero della lampada al neon
verso la porta di fuga.
Lontano da loro. Lontano da tutti quelli
che non hanno mai compreso
né sono riusciti mai ad interpretare nemmeno nei sogni
che cos’è il personaggio della morte.
La morte dell’amore
dove persino il pensiero è prigioniero di se stesso.
Neanche scomparire potrebbe alleviare questa festa,
interiore, alla rovescia.
Lasciatemi uscire [casomai entrare] non ho più un posto sicuro
per nascondere il dolore.
Avanti bestie, fatevi avanti, prendete il mio corpo
io sono morto.
Senza titolo (in distici)
Quella danza selvaggia entrò, passo dopo passo, un pugno in faccia.
Ho perso tempo – una, due e ancora un’altra volta – Cancellate quella versione,
vi prego.
C’è la luna nel salone – la vedi?
Una luce nel riflesso – osservo col binocolo la recitazione.
In fondo a sinistra, dietro l’angolo, prima dell’attaccapanni,
finalmente, lì seduto, lui appoggiò l’anima
sulla spalliera della sedia.
Lui, in piedi, Lei a parlare, l’uomo invece era pronto a sparare.
Chissà dove nascondeva tutte quelle armi
o perché le portò a casa mia, mi chiedo…
«Vado di fretta», disse…
– la sceneggiatura cinematografica –
Dove avete nascosto il cadavere?, urlava in testa la donna.
Ogni giorno una nuova follia sulla riga del copione,
la ragazza dalle bretelle pronta per combattere
Sta facendo gli esami, adesso torna indietro,
chiede di entrare nel racconto di Iosif
Il titolo è appeso sull’appendiabiti
accanto al cappotto grigio dai bottoni quadrati,
la sceneggiatura restò aperta
tra le mie braccia.
Le mie mani divelsero scure sopra il suo golf nero.
L’assassino degli occhiali restò lì fermo, impassibile,
davanti a me per ricordarci.
che gli sguardi non hanno parole per mentire.
Proprio dietro i suoi cristalli lui ci guardò.
Ritornerei a quella scena,
scommetto che l’ha dimenticata – Lo ammetta!
Se la ricorda?
I giorni come i sassi fanno finta di scontrarsi l’uno con l’altro davanti al mare,
vengono spinti in riva
nonostante da lontano si senta il rumore
di quella guerra
Il regista ha finito il suo lavoro.
C’è un giardino che cresce dentro questa stanza,
glielo dica a quel malvissuto: «Provi a trovarla,
se l’aspetta fuori, lei se ne andrà,
uscirà dalla scena».

Alejandra Alfaro Alfieri
Il paradigma dello specchio
III.
I passi, l’uno è sospinto dall’altro, vanno così
insieme, avanti.
Secondo il calzolaio ogni suola porta uno specchio.
Qui si riflette la propria vita.
Lungo la strada si affacciano da un lato diritto all’altro
Quello che rimane indietro fallisce.
Te lo ricorda il monologo che parla dietro la scarpa.
Non esiste un tempo che possa attendere
si va in scena senza paradiso.
«Ma se soltanto mi fermassi giusto per aggiustarmi?»
Guarderei da vicino per poter capirne di più.
Da lontano uno specchio mi fissa, e si frantuma.
l’agonia domina le lacrime di cristallo, cadono in giù.
È arrivato il colpevole! – «Si guardi
nello specchio rotto, la prego».
Fu il passo prematuro, ignoto e immaturo
– «Non sono stato io!»
Passo di fretta; è rimasta la ferita riflessa
sul petto dello specchio.
Davanti alla salita chiede di sfuggire a quel riflesso,
ma nessuno guida la sua barca,
accanto rimane stesa la stessa cornice di parole attaccata al piede
senza un tramonto.
L’incidente
Un minuto di pausa. Il tempo per contraddire la realtà.
Non si torna indietro, non si può.
Tante mani comparivano dal buio intorno
al soccorso, e io rinunciai.
Nessun pensiero era oramai per me.
Il volume delle voci nella mia coscienza – «ma quanti siete?».
È rimasta in ginocchio la signorina con la pelliccia nera.
«Non voglio alzarmi – cos’è successo?».
Chissà se ci sarebbe stato in carne e ossa
fuori dai miei sogni o avrebbe abbandonato un’altra volta
anche questa mia battaglia.
Lo sportello rosso si gira a sinistra.
Sì, ma io svolto a destra.
Ci penso e ripenso:
a quanto ci teneva la mia paura
bisognosa di incontrare lo specchio,
chissà, se per l’ultima volta, o chissà
mai più, un biglietto di sola andata.
Stavo riflettendo su questa cosa, che Alejandra riesce bene quando può, grazie alla sua trazione bilingue, lasciare da parte il «gramma», la «lettera» per acconsentire alla «voce», dare alla «voce» la primazia. In questo modo, che l’autrice fa come sotto ipnosi, riesce a dismettere le regole obbligatorie e costrittive della sintassi, le regole della logica e della significazione, per accreditare la «voce». La sua poesia più riuscita lo è perché si concede alla «voce» interna che si traduce in un parlato come in stato di veglia, tra l’ipnosi e il sonno che sta per finire.
(Giorgio Linguaglossa)
Mario M Gabriele
24 dicembre 2018 alle 16:46
Il secondo testo mi sembra senz’altro migliore. Prevalgono stesure cinematografiche, alla Beckett. E’ una nuova via poetica? o è l’oltre della NOE?
Giorgio Linguaglossa
25 dicembre 2018 alle 9:42
caro Mario,
condivido il tuo giudizio, la seconda poesia è una vetta assoluta; si tratta di una «danza selvaggia», come dichiara la stessa giovanissima autrice. C’è in queste due poesie una forza «selvaggia», dirompente che si abbatte sulla versificazione frantumandola, facendone schizzare i pezzi di risulta in tutte le direzioni; una forza piroplastica, vulcanica che si abbatte come uno tsunami su ciò che «resta» dell’esistenza. In ciò Alejandra Alfaro Alfieri è stata aiutata, paradossalmente, proprio dalla sua natura di poeta bilingue, (spagnolo e italiano) essendo la giovane Alejandra nativa argentina pur se di lontane ascendenze italiane.
Lei con l’italiano ci va a passeggio, lo fa camminare traballando come un orso delle nevi, lo fa irrompere nella versificazione italiana distruggendo tutto quello che si può distruggere, ma, Alejandra fa tutto questo con una genuinità e ingenuità assolute, addirittura con gentilezza, sfascia la struttura sintattica dell’italiano, passa da un fotogramma all’altro, dalla prima alla terza persona e dalla terza persona ad intermezzi anonimi, da inquadrature personali ad inquadrature collettive; la composizione è una vera e propria sequenza cinematografica con zoom e riprese panoramiche…
Altro che la poesia dell’io dei «poeti» che vanno di moda in Italia che celebrano le piccole cose dell’io! Qui c’è un vero tsunami che ha fatto definitivamente a pezzi ciò che restava della versificazione italiana: il verso è scomparso e sostituito da spezzoni, da prosa, da pseudo-versi, da para-prosa, il tutto in un conglomerato di, non so se più ingenuità o ingegnosità, ma, sta di fatto che il risultato complessivo è straordinariamente efficace.
Anche le disconnessioni sintattiche, anche le dismetrie frequentissime e gli evidenti errori sono dei lapsus alla maniera di quelli celebrati da Pasolini nelle poesie di Amelia Rosselli, ma qui c’è, oserei dire, meno preziosità letteraria, meno previsione dell’effetto e più genuinità dell’espressione scombiccherata, più dissimmetria degli isometrismi, più imprevedibilità, direi.
Mario M Gabriele
25 dicembre 2018 alle 10:08
Giorgio ci ha dato un motivo in più,per avvicinarci a questa poesia “Senza titolo” di Alejandra Alfieri, aprendo, selettivamente, un discorso linguistico pluricellulare e fotogrammatico, così ampio, che sta solo a noi decodificarne la spazialità. E’ ciò che mi aspetto dai lettori di questa Rivista anche se oggi è Natale. Grazie.
Giorgio Linguaglossa
25 dicembre 2018 alle 11:12
Lotman scrive:
«Una statua, buttata in mezzo all’erba, può creare un nuovo effetto artistico in forza dell’insorgere di un rapporto fra l’erba e il marmo. Una statua gettata nella spazzatura, non crea un tale effetto per lo spettatore contemporaneo: la sua coscienza non può elaborare una struttura che sia in grado di unificare queste due essenze in una unità…».
Ecco, quello che è riuscito ad Alejandra è proprio questo, che è riuscita a convertire il linguaggio naturale in «rumore» e a fare una poesia che è in realtà una «composizione di rumori», convertendo questi «rumori» in un nuovo linguaggio estetico. Ha gettato delle «statue nella spazzatura», creando un nuovo effetto estetico. E lo ha fatto con una semplicità e ingenuità quasi incredibili.
Sempre Lotman ci dice che
«dal punto di vista della teoria dell’informazione si chiama rumore l’inserirsi di un disordine, dell’entropia, della disorganizzazione, nella sfera della struttura e dell’informazione. Il rumore spegne l’informazione…
In base a una nota legge, ogni canale di collegamento (dal filo telefonico alla distanza di molti secoli che divide Shakespeare da noi) presenta del rumore che assorbe l’informazione. Se la grandezza del rumore è pari alla grandezza dell’informazione la comunicazione sarà nulla. La forza distruttrice dell’entropia è costantemente sentita dall’uomo. Una delle funzioni fondamentali della cultura è quella di contrapporsi al progresso dell’entropia. In questa azione all’arte è destinata una funzione particolare
[…]
Le braccia spezzate della Venere di Milo, come tutti i casi di annerimento dei quadri a causa del tempo, l’invecchiare dei monumenti storici, dal punto di vista dell’informazione artistica, sono casi triviali di rumore, di affermarsi dell’entropia nella struttura. Tuttavia nell’arte la cosa è più complessa, e una “restaurazione” non decisiva, condotta senza la necessaria cautela e tatto, è impotente a ristabilire quell’ignoto aspetto che il monumento mostrava agli occhi del suo creatore e dei contemporanei…».1]
Forse i poeti italiani di queste ultime decadi hanno letto poco e male Lotman, ma queste cose lui le ha scritte e pubblicate nel 1972, in Russia, beninteso, e il suo libro è stato pubblicato in Italia nel 1990. Il fatto è che oggi la poesia non ha a che fare con il «monumento» originale ma con un «monumento» già portatore di entropia, di «rumore», di trash, di stracci. Oggi chi voglia comporre un «monumento» rotondo e polito è un facitore inconsapevole di Kitsch, un falegname di pacchianerie e di passamanerie; chi pensa che fare poesia evoluta significhi fare dei commenti evoluti, cioè spiritosi e ludici e magari umoristici o intellettualistici, fa Kitsch al quadrato e al cubo. Oggi può fare poesia evoluta soltanto chi voglia consapevolmente comporre secondo le regole del Kitsch e del trash, ed esegua il «monumento» del Kitsch e del trash, cioè un «monumento» di «rumori» e di trash, consapevole di dover operare in ogni caso con i materiali del Kitsch per la semplice ragione che la ragione poetica si è indebolita e che non ha altri mattoni che quelli del Kitsch per la edificazione dei suoi polittici di «rumori» e di trash…
1] J. M. Lotman, La struttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1990 p. 96
Lucio Mayoor Tosi
25 dicembre 2018 alle 11:40
Le due poesie di Alejandra Alfaro Alfieri a me ricordano le atmosfere dense di nulla di Edith Dzieduszycka. La densità del nulla riguardale nostre capacità percettive, è l’emozione di ciò che sta bruciando… come la vita che è fuoco per i corpi. Ed è il riscontro fisico di una comprensione che potrebbe essere anche filosofica.
Il continuo movimento, il percepire senza sé può generare questo tipo di annullamento – conviene pensare alle poesie dei Sufi, a Rumi. Consiglio ad Alejandra di trovarsi un buon maestro zen o, perché di origini sub americane, una curandera.
È il versante mistico della Nuova Ontologia Estetica. L’empirico. L’approccio intellettualistico è comunque utile, altrimenti non capiremmo quello che ci sta accadendo.
Per il resto, la seconda poesia, a me sembra di comprenderla in quanto conosco la tensione del set cinematografico (quando facevo l’art director lavorai a Cinecittà e in alcuni studi a Parigi)… conosco la tensione, e lo svuotamento dei giorni successivi alle riprese.
Alcune sequenze si potrebbero interrompere maggiormente, può essere determinante una maturazione nello stile. Ma su questo fronte siamo tutti in agitazione… Mario Gabriele ha edificato una sponda… conviene tenerne conto.

redazione di Officina, Pasolini e Fortini, due scomodi compagni di strada
Giorgio Linguaglossa
Sulla differenza tra «oggetti» e «cose»
sulla differenza tra «oggetti» e «cose» ho già scritto un appunto poco tempo fa. Quando un «oggetto» cessa di essere mero oggetto e quanto esso oggetto diventa una «cosa»? – L’ermetismo italiano non ha mai avuto sentore di questa problematica, e neanche la poesia post-ermetica del dopo guerra, tanto meno la poesia dell’incipiente sperimentalismo ne ha avuto cognizione, come non ne ha mai avuto cognizione la poesia lombarda degli «oggetti». La questione è invece di capitale importanza, perché o si fa una poesia di oggetti (ricordate la formula di Anceschi per una «poesia degli oggetti»?), o si fa una poesia di «cose», la differenza è di capitale importanza ma bisogna ragionarci sopra, bisogna sapere di che cosa si parla. Per esempio, Saturno, che vediamo nel gif, è un «oggetto» o una «cosa»?
Ad esempio, la guerra di Troia (che entra prepotentemente nella poesia di Gino Rago) è un «oggetto» o una «cosa»? Quella «nomenclatura» che si rinviene nella poesia di Anna Ventura, quei «brillanti di bottiglia», dal titolo del libro di esordio della poetessa abruzzese del 1978, quelle povere cose che stanno come brillanti nella bottiglia, sono «oggetti» o sono «cose»? Ad esempio nella poesia di Adam Zagajevski ci sono «oggetti» o «cose»?
È inutile tentare di dribblare la questione, non se ne esce. Il problema in verità è antico, già all’inizio del Novecento era stato messo a fuoco da Osip Mandel’štam nel saggio Sulla natura della parola degli anni Dieci di cui cito un brano particolarmente significativo. Sostituite il riferimento al «simbolismo» con la nostrana «poesia degli oggetti» e troverete gli argomenti di Mandel’štam calzanti e acutissimi, in specie riguardo all’«ellenismo» del «vasellame» (leggi «cose» in linguaggio moderno) che usiamo tutti i giorni e alla polemica contro il «laboratorio di impagliatura» dei simbolisti:
Osip Mandel’štam
Sull’Ellenismo
«L’ellenismo è il circondarsi consapevole dell’uomo di vasellame al posto di oggetti indifferenti, la metamorfosi di questi oggetti in vasellame, la personificazione del mondo circostante, il riscaldamento del suo sottilissimo teologico calore. L’ellenismo è ogni stufa vicino alla quale l’uomo siede apprezzandone il calore, come consanguineo al suo calore interno. Infine, l’ellenismo è il monumento sepolcrale dei defunti egiziani nel quale si mette tutto il necessario per il proseguimento del pellegrinaggio terrestre dell’uomo fino alla brocca per i profumi, allo specchietto, al pettine. L’ellenismo è il sistema, nel senso bergsoniano del termine, che l’uomo dispiega intorno a sé, come un ventaglio di avvenimenti liberati dalla dipendenza temporale e subordinati ad un legame interno attraverso l’io umano. Nella concezione ellenistica il simbolo è vasellame e, perciò, ogni oggetto coinvolto nel sacro circolo dell’uomo può diventare vasellame e, di conseguenza, anche un simbolo. Ci si chiede: dunque, è forse necessario uno speciale e premeditato simbolismo nella poesia russa? Non appare esso come un peccato di fronte alla natura ellenistica della nostra lingua che crea forme come vasellame al servizio dell’uomo? In sostanza, non c’è alcuna differenza tra la parola e la forma. La parola è già forma chiusa; non si può toccare. Essa non serve per la vita quotidiana così come nessuno si metterà ad accendere una sigaretta da una lampada. Anche queste forme chiuse sono assai necessarie. L’uomo ama il divieto, e persino il selvaggio mette una interdizione magica, un «tabù» negli oggetti noti. Ma, d’altra parte, la forma chiusa, sottratta all’uso, è ostile all’uomo, è nel suo genere un animale impagliato, uno spaventapasseri.
Tutto il contingente è soltanto immagine. Prendiamo ad esempio la rosa ed il sole, la colomba e la fanciulla. Per il simbolista nessuna di queste forme è di per sé interessante ma la rosa è immagine del sole, il sole immagine della rosa, la colomba immagine della fanciulla, la fanciulla immagine della colomba. Forme sventrate come animali impagliati e riempite di contenuto estraneo. Al posto del bosco simbolista, un laboratorio di impagliatura.
Ecco dove porta il simbolismo professionale. La percezione demoralizzata. Nulla di autentico, originale. Una terribile controdanza di «corrispondenze» che si ammiccano l’un l’altra. Un eterno strizzarsi d’occhio. Nessuna parola chiara, soltanto allusioni, reticenze. La rosa ammicca alla fanciulla, la fanciulla alla rosa. Nessuno vuole essere se stesso».
Commento di Giorgio Linguaglossa
Un nuovo sguardo è già una nuova idea. Le idee le prendiamo dalle «cose». Le mutazioni del gusto già in sé sono nuove idee e le nuove idee sono le «nuove cose». Dal modo in cui usiamo gli oggetti nella nostra vita quotidiana, possiamo trarre un fascio di luce che illumina il nostro modo di utilizzare le parole, giacché le parole sono «cose» in senso fisico, spaziale. Gli oggetti, gli utensili, il vasellame si trovano nel mondo per servire l’uomo, possiamo vivere in un appartamento ammobiliato oppure in un appartamento ricco di suppellettili, di vasellame, di «cose» che abbiamo scelto e che ci accompagnano nella nostra vita quotidiana. La differenza è di vitale importanza. Quando una «cosa» ci parla o riprende a parlarci, ecco, il quel momento si ha una trasmutazione degli «oggetti» in «cose», e gli oggetti indifferenti diventano nostri consanguinei, i nostri compagni significativi. Le nuove «cose» innescano un nuovo sguardo, e noi vediamo il mondo come per la prima volta. Gli «oggetti» morti sono diventati all’improvviso vivi e significativi, sono diventati «cose».
L’«ellenismo – di cui parla Osip Mandel’štam nel saggio Sulla natura della parola – «è il circondarsi consapevole dell’uomo di vasellame al posto di oggetti indifferenti, la metamorfosi di questi oggetti in vasellame…».
Ingeborg Bachmann, Poesie da Non conosco mondo migliore, con una Nota del traduttore, Silvia Bortoli, con Appunti critici di Steven Grieco Rathgeb e Giorgio Linguaglossa
Ingeborg Bachmann e Paul Celan, anni sessanta
Nota del traduttore
I testi della Bachmann* raccolti in questo volume sono prevalentemente abbozzi e frammenti in origine non destinati alla pubblicazione e che non sono passati al vaglio di una cura critica. La loro natura di appunti sparsi, spesso vergati frettolosamente a mano, a volte oscuri, crea non poche difficoltà di lettura, ma ha il grande merito di mostrare la poesia nel suo farsi, nel suo andare a tentoni, trasportando un’immagine o una parola da un testo all’altro, alla ricerca di una destinazione che spesso sarà altrove, in un’altra opera più compiuta e significativa, ma che ha inizio qui, nell’abbozzo e nel tentativo: Questi testi, spesso interrotti, spesso raggrumati in parole dalle quali balugina un senso che resta nascosto e che traspare altrove in modo ancora incompiuto, sono tuttavia di grande interesse perché ci mostrano il laboratorio della poesia di una grande figura della nostra modernità.
Traducendoli ho scelto di seguire il testo senza chiuderne il senso lì dove un’interpretazione troppo esplicita lo avrebbe forzato in modo arbitrario, cercando di offrire una traduzione compiuta ovunque fosse compiuto o largamente plausibile, e accettandone invece la precarietà e la frammentarietà dov’era precario e frammentario, accompagnandolo nella sua incompiutezza anche quando poteva risultare stridente.
Non ho voluto caricare la traduzione di note che per essere esaustive avrebbero dovuto essere moltissime; chiunque conosca un poco la lingua tedesca potrà verificare sul testo originale difficoltà, incongruenze e il modo in cui ho cercato di risolverle.
Tradurre un testo la cui trascrizione è in molti punti ancora incerta e provvisoria non può che essere una proposta, un primo tentativo. In questo primo tentativo mi è stata di grandissimo aiuto Rita Svandrlik, che mi ha confortata nei miei infiniti dubbi con la sua profonda conoscenza della poesia della Bachmann: a lei va tutta la mia profonda gratitudine. Se nonostante il suo aiuto puntuale e generoso vi sono degli errori, la responsabilità è solo mia.
[ndr. Queste poesie sono state scritte a Zurigo, Berlino e Roma, le ultime tappe della vita della Bachmann, nel periodo tra il 1962 e il 1964, alcune anche più tardi]
(Silvia Bortoli)
da Ich Weiss keine bessere Welt, Non conosco mondo migliore, Guanda, 2004 trad. di Silvia Bortoli
Steven Grieco-Rathgeb
21 luglio 2016
“La realtà acquista un linguaggio nuovo solo tramite uno scatto morale… si ha linguaggio nuovo ogni qualvolta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tenta di rinnovare la lingua in sé, come se essa fosse in grado di far emergere conoscenze e annunciare esperienze che il soggetto non ha mai posseduto. Se ci si limita a manipolare la lingua per darle una patina di modernità, ben presto essa si vendica e mette a nudo le intenzioni dei suoi manipolatori.”
Forse noi non useremmo più la parola “morale” in questo contesto. Ma invece la parola è perfetta nel suo senso di “misura”. La parola subito successiva è “conoscitivo”. E qui sta tutto il senso di quello che la poetessa vuole significare: “immorale” giocare con la lingua, “morale” cercare nella lingua una via di uscita dall’atroce e irrisolvibile dilemma del crimine nazista (che in verità solo un lunghissimo tempo può sanare).
Ricordiamo che questa poetessa ha sofferto la storia e il Nazismo quasi quanto Celan.
E Anna Ventura ha un po’ ragione, la poesia di Bachmann è stranamente fredda, talvolta potente, altre volte quasi incapace di risuscitare dal distacco quasi ossessivo da se stessa, dal rifiuto di ogni scrittura che infine diventa scrittura.
E c’è anche in lei un forte rifiuto dell’immagine come evocazione, come spinta per raggiungere una sponda salvifica, un luogo che purifica l’animo. In questo lei appartiene alla schiera di poeti quali Rozewicz, per cui valeva il famoso dictum di Adorno sulla poesia dopo Auschwitz.
Rozewicz ce l’ha fatta, con il suo tenace istinto di sopravvivenza, a superare i terribili anni 1945-1980. La Bachmann no.
Sicuramente lei, austriaca e di lingua e cultura tedesca, ha pagato con la vita l’essere nata fra quel popolo.
Appunto critico di Giorgio Linguaglossa
Scrive la Bachmann:
«Ho smesso di scrivere poesie quando m’è venuto il sospetto di ‘esserne capace’ anche quando non c’era la necessità di scriverne. E non ci saranno più mie poesie, almeno fino a che non sarò convinta che debbano essercene di nuovo, e allora saranno solo poesie talmente nuove da corrispondere veramente a tutto quel che sarà stato esperito fino a quel punto.»[1]
Per la Bachmann la scrittura poetica si configura come esperienza esistenziale, ricerca di parole autentiche. La poesia è un modo di essere, un fare, una pratica, un aprire la soggettività alla irruzione di pulsioni, ritmi, parole che implicano e significano la distruzione del linguaggio poetico convenzionale e la creazione di una nuova soggettività in grado di aprirsi al nuovo linguaggio poetico.
La pratica della scrittura poetica è questa assillante fedeltà al farsi e disfarsi dei versi, lavoro minuzioso e diuturno alle correzioni, alle frasi tronche, lavoro sugli incipit che si ripetono e si riprendono lungo il farsi del linguaggio, è questo lo stadio aurorale del nuovo linguaggio, un linguaggio più aderente alle necessità espressive della ricerca esistenziale. «La loro natura di appunti sparsi […] ha il grande merito di mostrare la poesia nel suo farsi, nel suo andare a tentoni […]. Questi testi, spesso interrotti, a volte raggrumati in parole dalle quali balugina un senso che resta nascosto e che traspare altrove in modo ancora incompiuto, […] ci mostrano il laboratorio della poesia di una grande figura della nostra modernità.»[2]
Sono scomparse le mie poesie. / Le cerco in tutti gli angoli della stanza./ Per il dolore non so come si scriva / un dolore, non so in assoluto più nulla.// So che non si può cianciare così,/ dev’essere più piccante, una pepata metafora. / dovrebbe venire in mente. Ma con il coltello nella schiena […]// Adieu, belle parole, con le vostre promesse.
In questi versi della Bachmann si profila chiaramente la crisi del linguaggio poetico convenzionale. Cercare le parole senza prima aver aperto la soggettività ad una nuova dimensione spirituale ed esistenziale significa perdere contatto con il linguaggio. Per la Bachmann il linguaggio poetico o lo si ha o non lo si ha, lo si può acquisire soltanto tramite un lungo viaggio di ricerca esistenziale.
[1] Ingeborg Bachmann, In cerca di frasi vere, Colloqui e interviste a cura di Christine Koschel e Inge von Weidenbaum, tr. it. di Cinzia Romani, Laterza, Bari 1989, p. 57.
[2] V. Nota del traduttore in Ingeborg Bachmann, Non conosco mondo migliore, cit., p. 4 (corsivo mio).
Ingeborg Bachmann Hans Werner Henze 1952
Poesie di Ingeborg Bachmann da Non conosco mondo migliore (poesie scritte tra il 1964 e il 1967)
La tortura
Chi mangia col mio cucchiaio
chi dorme nel mio letto
chi spende il mio denaro
Ama, chi si gode
il mio sole? E dov’è questo sole?
È lontano.
Infatti io
sono dove
non posso essere.
Ah, lo permette chi
per un breve attimo di anni
non mi ha
amata, lo permette,
non vedete amici
non lo vedete
che dappertutto
incomincio a scavare la mia
mia tomba,
anche in questa carta in-
cido il mio nome e
penso che non vorrei riposare
ancora, che non risposerò
mai, che
persiste, questo ferro
nel corpo, questo pugno sul
cranio, questa frusta
sulla schiena, che fa
scoppiare il Kurfurstendamm
in una risata stridula,
da mille réclame
grida, che il caffè bollente
mi viene versato sulla
mano, che mi tolgono
la pelle, che mi
tagliano la carne,
mi spezzano le ossa,
e mi murano viva,
allora un piccolo squalo sega
allora salto in acqua,
mi divora, mi
divora uno squalo più grande
un pesce predatore che
si chiama dolore.
E io dondolo la testa
senza capirlo. Laggiù
una nave, passa,
la vedo, voi la vedete amici?
*
Ich trete aus mir
hervor, aus meinen Augen
Handen, Mund, ich
trete hervor aus
mir, Gute und Göttlichem
die diese Teufeleien
gut machen Muss,
die geschehen sind
*
Esco fuori da me,
dai miei occhi
mani, bocca,
esco fuori da
me, una schiera
di bontà e divino
che deve rimediare
alle malvagità
accadute
Gloriastrasse
Per sorella Ammeli
In un letto
in cui sono morti molti
senza odori, in camicia bianca
curati, come una
conversazione infinita,
in una casa in cui
si mangia puntualmente, in cui
la padrona di casa
si chiama morte e molti di più
soffrono ancora. E in molte migliaia
hanno versato il deposito
Nell’estasi della morfina
tra i dolori che
non richiedono nessuna ferita,
nessun inchino, nessun
autografo, nessuna umanità
nessun trionfo, un folle spettacolo che grida vendetta [ – – ]
Tra visite
visite, ma
visitatemi
voi che gridate vendetta
Nel vuoto, quando il
telefono non squilla mai, quando
la conversazione sterilizzata
somministra dosi, supposte, fasciature,
gocce, dosi, dolore che
però non ha dose,
Quando c’è un’unica parola
che a volte un poco
una fessura dell’inferno
ha aperto, sorella, e sorella,
E un viso
ha che ti da
da bere,
e tu ti chini
sulla sua
mano e non
osi dire
quale opera buona
tra le infime
è la più grande,
Gloriastrasse
La grazia morfina, ma non l’opera buona di una lettera.
Domande, massime a fin di bene di amici e sconosciuti.
Arrivano fiori via Fleurop. Un interminabile
telegramma richiede presenza, lontano, chissà perché
Visitatori siedono, condannati, sulla sedia dei visitatori, raccontano
guardando intensamente l’orologio davanti alla sputacchiera e alla vernice chiara,
sputano fuori la buona volontà e una vecchia battuta.
È uscito un nuovo studio sui cacciatori di teste.
Averlo sottomano e già le mani prudono.
La visita importante, introdotta dal camice bianco. dalla notte
è in piedi nella stanza, sola e solleva il bisturi, sempre la notte.
Nel tale e tale anno di questo letto ortopedico, nell’anno della fama
delle vie piramidali e delle eredità dei due sistemi nervosi.
del liquor uno e trino, con cui vengono nutrite le colombe dell’odio,
nel midollo, che resterà,
nel liquor uno e trino e nel midollo, che resterà,
e cosa fonderà la mia fama, e cosa la fama, cosa la fonderà,
qui dove mi alzo in piedi e dico alle mie province, mie
province, voi aspettate, e aspettate dove?
Nel midollo che mi resterà, nel tremore
di questa mano, io lo eseguo, io uccido, io
estraggo il mio cuore da me, lo spedisco
più lontano, è un muscolo selvaggio, dicono,
batte e sbatte le porte e
batte
dove non sono, mi trovano
nella pozzanghera in cui nuotano riso e sapienza.
e cercano un cuore, nelle piccole sfere,
nei tubi di vetro, in una melma di
sangue e una vomitata a fatica una
rigurgitata tra aghi e
bottiglie e bende,
cercano
cercano, il camice bianco cerca,
visita, e io gli regalo
vuoi? voglio
regalarti il tuo cuore.
Tessiner Greuel
Ich hatte da ein schönes Haus.
Dann wurde der Zugang gesperrt.
Die Kleider habe ich aus dem Staub
habe ich aufgehoben, einem armeren geschenkt,
die Bloss Kleider brauchen.
(Steht mir nicht, kein Zynismus.)
Enteignet, Zugug gesperrt.
Baustellen, keine Einfahrt.
Kleider nachgeworfen, ein
Teller dazu, danke gesagt,
obwohl wegen harter Erdberuhng
alles zerbrochen.
Bluhender Bezirk, auf
der Durchreise ein totes Kind,
rash beerdigt, wegen Sommergasten.
In den prachtigen Obstgarten
haben die Freunde sich rechtzeitig
zu Ruhe gesetz.
Orrore ticinese
Avevo una bella casa.
Poi è stato vietato l’accesso.
Dalla polvere ho raccolto i vestiti
raccolti, regalati a uno più povero,
di quelli che hanno bisogno solo di vestiti
(Non mi dona, niente cinismo.)
Espropriata, accesso bloccato.
Lavori in corso, vietato l’ingresso.
Lanciati dietro i vestiti, un
piatto in aggiunta, detto grazie,
benché per il duro impatto sia andato
tutto in frantumi.
Quartiere fiorito, durante il
passaggio un bambino morto,
sepolto in fretta, causa ospiti estivi.
Nei frutteti magnifici
gli amici sono andati in pensione
per tempo.
*
Ich bin ganz wild von
Tod, von dem Taft –
rauschen, von
den Wasserruschen,
ich trag ihn schon
angezogen, das kleine
Kraglein, damit das
Beil weiss, wo mein
Kopf vom Körper
zu trennen ist. Hab ich
das noch, Kopf und
Körper, oh nein,
so tausch ich del Tod,
ich habe meinen Kopf
verschenkt, hingegeben
an die Meute, aber
meinen Körper hat
niemand gehabt, der
wurde am Eingang zuruck-
gewiesen. Ein Herr sagte
mir, sagte nicht einmal, das
*
Vado davvero pazza per la
morte, il fruscio
del taffetà, le
ruches dell’acqua,
l’ho già indosso,
il piccolo colletto,
perché
la scure sappia
dove va staccata
la mia testa dal corpo. Li ho
ancora, testa e
corpo? oh no,
così inganno la morte,
ho regalato
la mia testa, l’ho gettata
al branco, ma il mio corpo
non l’ha avuto nessuno,
all’ingresso l’hanno
respinto. Un signore mi ha detto,
non ha detto neppure, questo
Veder nero
Arriva il giorno in cui si vede nero
si fa colazione coi morti
dalla finestra sale la nebbia
tu [ – – ] la chiave perduta
Giorno in cui si vede nero
la colazione con il lezzo scialbo favorisce pensieri di morte
dalla finestra sale la nebbia.
la mattina è spezzata da chiamate
intercontinentali e pensi tremando
al lavoro (Ma quale?)
Fai qualche commissione e corri a perdifiato
per la città. Mezzogiorno [ – – ] dolori
e stanchezza, pranzo per noia
e a minuti il sole. Vorresti
amare qualcuno ma nessuno di «loro»,
Anni di lutto
Gli anni non passano, c’è sale
nel caffè e sul pane imburrato,
dev’essere questa la ragione.
I miei vicini malati, neppure a loro
si può portare aiuto,
suonano, non posso aprire,
aspetto qualcun altro.
Addio
La carne, ben invecchiata con me,
la mano di pergamena che teneva fresca la mia
deve poggiare sulla coscia bianca,
la carne ringiovanire, a tratti,
perché più rapido si faccia qui il declino.
Sono arrivate in fretta le linee, un po’ infossate,
già tutte sulla muscolatura soda.
Non essere amati. Il dolore
potrebbe essere più grande, sta bene colui la cui porta si chiude.
Ma la carne, con la linea di sfondamento sul ginocchio,
le mani grinzose, tutto accaduto nella notte,
la scapola disfatta su cui non cresce un filo d’erba,
Una volta ha tenuto nascosto il viso.
Invecchiata di cent’anni in un giorno.
Sotto la scudisciata l’animale fidente
ha perduto
l’armonia prestabilita.
Memoriale
Gli oggetti
il cestino del pane
l’abbiccì del mattino
e le due tazze
conosci ancora l’abbiccì
del mattino
chi ti porge la mano
oltre il tavolo
dov’è tenuto in serbo?
Nelle mie notti insonni
disinfesto la casa
coi chierichetti
do sempre le mance
e tengo
lontane le tempeste
il temporale si scatena ancora
solo nei miei ricordi
arriva la nettezza urbana
e lava un vicolo
che porta in alto
ma le tue mani sul mio
collo e la terra dei fiori
sul mio viso,
qualcuno chiama la polizia
io invoco il cielo
perché si allentino le mani
che soffocano le mie grida
Cos’è successo al mio
giardino, chi ha
strappato i miei fiori,
quelli azzurri soprattutto, che
stavano per fiorire,
e forse i miei bambini
li avrebbero visti.
Ingeborg Bachmann
Ingeborg Bachmann (1926-1973) nasce in Carinzia, nel cui capoluogo, Klagenfurt, trascorre l’infanzia e l’adolescenza. Dopo i primi studi, negli anni del dopoguerra frequenta le università di Innsbruck, Graz e Vienna dedicandosi agli studi di giurisprudenza e successivamente in germanistica, che conclude discutendo una tesi su Martin Heidegger, dal titolo “La ricezione critica della filosofia esistenziale di Martin Heidegger”. Il suo maestro e’ il filosofo e teoretico della scienza Victor Kraft (1890-1975), ultimo superstite del Circolo di Vienna. Al tempo degli studi ha modo di intrattenere contatti diretti con Paul Celan, Ilse Aichinger e Klaus Demus. Diviene redattrice radiofonica presso l’emittente viennese “Rot-Weiss-Rot” (Rosso-Bianco-Rosso), per la quale compone la sua prima opera radiofonica, Un negozio di sogni (Ein Geschäft mit Träumen, 1952). È tuttavia in occasione di una lettura presso il Gruppo 47 che si ha il debutto letterario. Già nel 1953 riceve il premio letterario del Gruppo 47 per la raccolta di poesie Il tempo dilazionato (Die gestundete Zeit). In collaborazione con il compositore Hans Werner Henze produce il radiodramma Le cicale (Die Zikaden, 1955), il libretto per la pantomima danzata L’idiota (Der Idiot, 1955) e nel 1960 il libretto per l’opera Il Principe di Homburg (Der Prinz von Homburg). Nel 1956 vede la pubblicazione invece la raccolta di poesie Invocazione all’Orsa Maggiore (Anrufung des Großen Bären), conseguendo il Premio Letterario della Città di Brema (Bremer Literaturpreis) e iniziando un percorso di drammaturgia per la televisione bavarese. Dal 1958 al 1963 Ingeborg Bachmann intrattiene una relazione con lo scrittore Max Frisch. Nel 1958 appare Il Buon Dio di Manhattan (Der Gute Gott von Manhattan), insignito l’anno successivo del Premio Audio dei Ciechi di Guerra (Hörspielpreis der Kriegsblinden). Nel 1961 vede la luce la raccolta di racconti Il trentesimo anno (Das dreißigste Jahr), contenente numerosi elementi autobiografici e a sua volta insignito dal Premio per la Critica della Città di Berlino (Berliner Kritikerpreis). Nel 1964 le viene consegnato il premio Georg Büchner (Georg-Büchner-Preis), un anno prima della pubblicazione del saggio La città divisa (Die geteilte Stadt, 1964), ed e’ la stessa repubblica austriaca a onorarne il valore intellettuale e creativo conferendole nel 1968 il Premio nazionale austriaco per la Letteratura (Großer Österreichischer Staatspreis für Literatur). La produzione di Ingeborg Bachmann prosegue con la pubblicazione nel 1971 del romanzo Malina (Malina), prima parte di una trilogia concepita sotto il nome di “Cause di morte” (Todesarten) e trasposta nell’opera cinematografica di Werner Schroeter interpretata da Isabelle Huppert, Mathieu Carrière e Can Togay nel 1991. Solo in forma di frammenti rimangono tuttavia la seconda e la terza parte, Il caso Franza (Der Fall Franza) e Requiem per Fanny Goldmann (Requiem für Fanny Goldmann). Dopo che ancora nel 1972 viene data alle stampe la raccolta di racconti Simultan (Simultan), a cui viene attribuito il Premio Anton Wildgans (Anton-Wildgans-Preis), un incendio avvenuto durante il soggiorno nell’appartamento romano nella notte tra il 25 ed il 26 settembre 1973 la porta alla morte, che avviene il 17 ottobre. Ingeborg Bachmann e’ sepolta dal 25 ottobre 1973 nel cimitero di Klagenfurt-Annabichl. A lei è dedicato oggi il concorso letterario che annualmente si tiene nella città natale in coincidenza della ricorrenza della nascita.
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