Giuseppe Talia, Lettera aperta a Corrado Augias. Gentilissimo Corrado Augias, Le scrivo riguardo alla trasmissione di Quante Storie su Rai3, andata in onda giorno 11 maggio 2018, dal titolo “Servono ancora i poeti?”.

 

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https://www.raiplay.it/…/Quante-storie-62e55f25-48a4-4105-bdf6-dc…

Come giustamente Lei ha sottolineato in apertura, parlare oggi di poesia, in televisione è un fatto assai raro, come è assai raro sentirne parlare a scuola, se non in particolari e sporadici casi di insegnanti sensibili, nei social media in generale, al bar mentre si fa colazione o si prende un aperitivo. La poesia oggi è relegata in una piccola nicchia di addetti ai lavori. Per contro, sono aumentanti in modo esponenziale, in questi ultimi tre decenni, gli scrittori di poesia. Si scrive poesia così tanto facilmente quanto si cucina. Ovunque è un pullulare di piatti, di scodelle, di condimenti, di ricette, e non solo i TV, quanto di libri di poesia pubblicati annualmente, per la gioia di tante piccole e medie case editrici e dei premiuccoli che registrano un fatturato di tutto rispetto. È cosa nota, Lei, sicuramente, ne è informato.

Nella puntata di Quante Storie dell’11 di maggio, ha ospitato due scrittori di poesia tra quelli più noti. Dico scrittori di poesia e non poeti, anzi Poeti, perché personalmente credo che in realtà Lei abbia accolto in studio un professore che scrive poesie (Valerio Magrelli) e un giornalista che scrive poesie (Franco Marcoaldi). I veri poeti, anzi “i pochi, troppo pochi poeti”, come notevolmente ha scritto la poeta Annamaria Ferramosca, oggi in Italia siano merce rarissima. Oggi, nelle fila della poesia italiana vi sono molti professori prestati alla poesia (Magrelli, Buffoni, De Angelis, Villalta), giornalisti, e studentelli senza né arte né parte che, per un qualche misterioso allineamento planetario, pubblicano i loro compitini con Mondadori (vedasi Pellegatta).

Faccio nomi e cognomi, senza remore, perché anni di studio e anni di critica personale mi hanno portato ad avere un mio pieno e indipendente giudizio della cosa chiamata poesia.
Tra i due scrittori di poesia ospiti della sua trasmissione, sicuramente Magrelli è quello che a mio giudizio possiede le più alte qualità di scrittura poetica, anche se, sempre a mio giudizio, la sua scrittura, dopo l’exploit di Ora serrata retinae (1980) e ancora di Nature e venature (1987), si sia assestata sui mottetti di spirito, sullo stile frastico e ritmico dell’epigonismo novecentesco, sul quotidiano insignificante, degno di quella rivoluzione perdente e catastrofica che Montale ha inaugurato con Satura nel 1971. Con Satura di Montale e con Trasumanar e organizzar di Pasolini, la poesia italiana ha smesso definitivamente di avere importanza nel mondo, inaugurando un declino sempre più profondo. Montale, però, ha ricevuto il Nobel nel 1975. Riguardo al nobil premio, c’è sicuramente da dire che i veri poeti, quei pochi poeti di cui dice la Ferramosca, solitamente non lo vincono.
Ad ogni modo, sono significative le risposte dei due scrittori di poesia ospiti in trasmissione alla Sua domanda: “Voi poeti a che servite?” Una domanda da far tremare i polsi, certo, e come hanno risposto il professore e il giornalista? Volare alto, dice Marcoaldi, avendo la patente cedutagli dal padre pilota (barone in questo caso?); per Magrelli, a modo di Zanzotto, la poesia corrisponde ai pixel della televisione, visione di accelerazione, come nel caso della fisica delle particelle, ma, da fine intellettuale qual è, subito dopo cita il formalista russo Šklovskij, il quale afferma che la poesia è una parola frenata. Non vi è alcun dubbio, entrambi gli scrittori di poesia non hanno una loro propria visione e/o definizione di poesia, ma citano, adottando di volta in volta quella più consona, presentandone al pubblico una tascabile, certificata.

“Cresce tutt’i dì più meravigliosa (Carducci).

Rimane il fatto che alla domanda che Lei ha posto, domanda assoluta, nessuno dei due scrittori di poesia abbia dato una convincente e personale risposta.

Significativo, inoltre, che Magrelli abbia confessato pubblicamente che la vera poesia appartenga a poeti quali Paul Celan, suicida, D’Annunzio che sperimentava le droghe, Trakl incestuoso, Sandro Penna o alla Rosselli, sempre suicida. E ci sarebbe a questo punto da chiedere a Magrelli: – perché Lei scrive ancora poesie? Perché scrive ancora poesie da professorino, tenendo a mente che lei non si suiciderà mai, che le uniche droghe, forse, che nella sua vita ha provato o proverà (interessante e inedito il contrario) sono e saranno l’acqua gassata, naturale o con additivi?
Per scrivere opere come Le ceneri di Gramsci o Poesia in forma di rosa di Pasolini, si dovrebbe passare per le sette porte dell’inferno. E mi si perdoni la battuta, i capelli e la pigmentazione della pelle di Magrelli lo collocano naturalmente in un potenziale inferno, ma non basta, non basta, no!
E la parte più interessante di tutta la trasmissione è stata quando i due scrittori di poesia hanno letto i loro testi. Ora, conoscendo e ammirando la Sua, caro Augias (caro come licenza), cultura, io credo che abbia smascherato i due scrittori quando ha suggerito a Marcoaldi di leggere la poesia di pagina 7 del libro Tutto Qui (tutto qui cosa?), Einaudi. Il Marcoaldi, ingenuo giornalista e scrittore di poesia, con la sua bella citazione del bosco e di dio, sempre secondo Spinoza, come Lei ha sottilmente esplicitato, oppure Freud con il test della foresta, aggiungiamo noi, oppure Magritte in pittura, o ancora e meglio la fiaba di Cappuccetto Rosso, fiaba di maturazione, il Marcoaldi con una punta di ingenuità ci è cascato. E di questo le siamo grati, caro Augias.

Molto meglio Magrelli che subodorato la trappola della lirica di maggio, da Lei incalzato a leggere, con la citazione esplicita di Stendhal e con Leopardi alle porte, da buon professore di poesia, ha sviato sul mese di luglio, poema della diversità pigmentosa sull’abbronzatura. E mi chiedo, anzi ci chiediamo, da lettori diciamo specialisti di poesia, perché mai dovremmo comprare il Sangue Amaro del Magrelli, per leggere della sua difficoltà con l’abbronzatura? A Magrelli consigliamo una protezione con filtro UVA 50 e oltre: il sole si sa non è più quello di una volta. Non è più il sole novecentesco, ma il sole del nuovo millennio.

http://www.repubblica.it/scuola/2018/05/29/news/_i_poeti_del_sud_ancora_esclusi_dai_programmi_dei_licei_-197634590/?ref=RHRS-BH-I0-C6-P6-S1.6-T1

Poesie di Franco Marcoaldi

franco marcoaldi_busto

Valerio Magrelli_3

Franco Marcoaldi citazione

Franco Marcoaldi citazione 1

Poesie di Valerio Magrelli da Sangue amaro

valerio magrelli 4

Valerio Magrelli

Valerio Magrelli Ora serrata retinaeValerio Magrelli citazione 1Valerio Magrelli citazione

 

Giuseppe Talia La Musa Last Minute Cover

Giuseppe Talia, Retro dal retro di copertina di La Musa Last Minute

Ha scritto Giuseppe Talia: «un pomeriggio del 1992 ho acceso una miccia ed ho fatto esplodere il Logos nelle Vocali Vissute»; e le vocali sono esplose in una congestione di significanti e di significati disconnessi. Le parole sconnesse sono andate alla ricerca di un nuovo luogo da abitare, di una nuova patria delle parole. Una «nuova poesia» richiede sempre una nuova metafisica, una nuova patria delle parole nella quale le parole possano albergare. E questo cos’è se non pensare nei termini di una nuova metafisica? Se non pensare nei termini di una «nuova ontologia estetica»?

Una volta preso atto di ciò, un poeta non può che dimorare presso la nuova «patria» delle sue parole. È quello che ha fatto Talia in quest’opera, ha disegnato la cornice della sua nuova patria linguistica, 55 ritratti linguistici per altrettanti poeti italiani di oggi.

Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta) nasce in Calabria, a Ferruzzano (RC), nel 1964. Vive a Firenze e lavora come Tutor supervisore di tirocinio all’Università di Firenze, Dipartimento di Scienze dell’Educazione Primaria. Pubblica le raccolte di poesie, Le Vocali Vissute, Ibiskos Editrice, Empoli, 1999; Thalìa, Lepisma, Roma, 2008; Salumida, Paideia, Firenze, 2010. Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano, I sentieri del Tempo Ostinato (Dieci poeti italiani in Polonia), Ed. Lepisma, Roma, 2011; Come è Finita la guerra di Troia non ricordo, Edizioni Progetto Cultura, 2016. È in corso di pubblicazione la silloge Thalìa per Xenos Books – Chelsea Editions Collaboration, California, U.S.A., traduzioni di Nehemiah H. Brown.

24 commenti

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24 risposte a “Giuseppe Talia, Lettera aperta a Corrado Augias. Gentilissimo Corrado Augias, Le scrivo riguardo alla trasmissione di Quante Storie su Rai3, andata in onda giorno 11 maggio 2018, dal titolo “Servono ancora i poeti?”.

  1. Non vorrei infierire più di tanto dopo la lettura di questi compitini in stile post-penniano, piccoli cammei di rime e contro rime, assonanze e anti assonanze, piccole ballatette con inserimento di battute di spirito; ecco, non vorrei sembrare crudele, tanto questi componimenti si narrano da soli, ma mi chiedo, chi oggi (tranne i poeti della nuova ontologia estetica) scrive con una densità semantica e sintattica come questa di Eugenio Montale?, cito da Le occasioni (1939), dalla poesia di apertura della raccolta, «Vecchi versi»:

    Era un insetto orribile dal becco
    aguzzo, gli occhi avvolti come d’una
    rossastra fotosfera, al dosso il teschio
    umano; e attorno dava se una mano
    tentava di ghermirlo un acre sibilo
    che agghiacciava.

    Da questi versi sopra riportati alle proposizioni spiritose degli autori citati ci passa un abisso, l’abisso della minorità della poesia italiana maggioritaria di oggidì.

  2. Video relativi a youtube corrado augias Valerio Magrelli franco marcoaldi▶ 30:12
    https://www.raiplay.it/…/Quante-storie-62e55f25-48a4-4105-bdf6-dc…

  3. Luciano Nanni

    So bene che si deve distinguere, ma chi ama la poesia non può non provare affetto anche per le cose meno riuscite.

  4. Anche perchè, gentile signor Nanni, “le cose meno riuscite”sono spesso le migliori.

  5. Bravo Giuseppe, mi sei proprio piaciuto! Aggiungo solo un’osservazione, già solo porre una domanda come questa: “Servono ancora i poeti?” ha in sé la risposta alla deriva italiana di un passato artistico morto e sepolto. Ma quando mai i poeti sono serviti? Servono??? Ma la sola idea che l’arte, ove non sia arte applicata, possa avere un fine pratico, rivela l’ignoranza funzionale di chi la pone o del paese in cui viene posta. Nei primi anni del ‘900, Alois Riegl, il grande, geniale storico dell’arte viennese, poneva le basi della moderna estetica e, irridendo alle teorie materialistiche dell’arte di Gottfried Semper, che definiva un’ “estetica da ciabattini”, specificava che esiste un principio artistico universale, che travalica luoghi e tempi, ma ne definisce la direzione, e che definì “Kunstwollen”, volontà d’arte, o volere dell’arte. Una direzione che muta e che è specifica di un periodo artistico, che informa opere, artisti, momenti storici. Ovviamente sto semplificando in modo eccessivo, varrebbe la pena di analizzare anche la poesia alla luce delle complessissime e geniali categorie riegeliane. Di fatto, anche forme minori e provinciali di poesia come quelle dei due poeti in studio o di moltissimi celebrati poeti italiani contemporanei hanno un profondo significato. Perché non esiste l’idea di “decadenza” nella storia dell’estetica, piuttosto l’interesse che ogni manifestazione artistica riveste nel delineare la storia di un’epoca. Una visione orizzontale dell’arte e non verticale.

  6. Sono artisti pop, blandamente poeti. Non vedo perché accanirsi contro; di fatto non rappresentano nulla, nemmeno la contemporaneità; a meno che non si pensi alla parola come fattore linguistico omeopatico, i cui effetti, già lievi di per sé in questi due autori, si stemperano o annacquano ulteriormente perché cosparsi di troppo manifesto compiacimento ( dice Magrelli nell’intervista “Ai poeti tocca solo di scrivere bene”). Insomma, è zucchero con effetto placebo. Ma questo accade anche nelle arti visive, basta andare in una qualunque art fair e si troverà sovrabbondanza di immagini chiassose, piene di luoghi-immagini comuni, cose che se pensi a Warhol ti metti a piangere. Ma questo si vende, perché è tempo di crisi; molti piccoli galleristi hanno paura, sanno di offrire niente, cose facili, che stanno bene (si fa per dire) sopra il divano moderno.

  7. Lasciamo per un momento la lettura di autori «normali» cioè che adottano il linguaggio «normalizzato» o storicizzato, stilisticamente ibernato che per noi non può essere di alcun ausilio, un linguaggio adottato senza alcuna previa riflessione sulle procedure e sulle proposizion

    Adotto, per questo compito, la parola «diafania» per indicare una procedura compositiva «nuova» propria di alcuni poeti della nuova ontologia estetica. La parola è composta dal prefisso «dia» che significava originariamente «fra», «attraverso», cioè l’azione che si stabilisce tra due attanti, tra due o più soggetti, che passa attraverso di loro, e Phanes o Fanes, (in greco antico Φανης Phanês, “luce”), chiamato anche Protogonos (“il primo nato”) e Erikepaios (“donatore di vita”), era una divinità primigenia della procreazione e dell’origine della vita nella cosmogonia orfica.

    Il termine «diafania» mi è venuto in mente leggendo le poesie di Mario Gabriele e di Donatella Costantina Giancaspero; ho ripescato questo termine dalla significazione teologica che ne ha dato Teilhard de Charden e l’ho riproposto in chiave secolarizzata attribuendogli una nuova significazione, nuova in quanto suggerita dalla lettura di alcune poesie dei poeti dianzi citati. E noi sappiamo che una nuova poesia deve essere letta e interpretata con l’ausilio di un nuovo apparato concettuale, in quanto le vecchie categorie euristiche non sono più adatte alla comprensione del «nuovo». Leggiamo questi versi di Mario Gabriele:

    Alle 18 torna Milena.
    Prepara la cena. Il tavolo ha quarant’anni.
    Sale il fumo fino alla lampada.
    Andrea rinnova aria fresca.

    Se leggiamo con attenzione i versi riportati, ci accorgiamo che, apparentemente, non c’è nulla di nuovo. I versi ci dicono, in rapida successione, che alle 18 torna Milena, la quale prepara la cena (tempo presente) ma che il «tavolo ha quarant’anni» (proposizione dichiarativa senza nesso logico con le precedenti proposizioni), e che del fumo sale fino alla lampada (altra proposizione dichiarativa) mentre che «Andrea rinnova aria fresca» (altra proposizione dichiarativa e tautologica perché l’azione di rinnovare l’aria fresca è una tautologia vuota di significato). Dunque, una serie di proposizioni dichiarative auto significanti producono l’effetto di un universo in miniatura auto significato, auto significato in quanto auto giustificato, cioè fatto di proposizioni protocollari date e ricevute alla e dalla comunità per inconcusse e apodittiche. Mario Gabriele impiega nelle sue composizioni questi frasari auto giustificati che lui assembla in modo tale da farne sortire fuori dei significati nascosti, inverosimili, ultronei. Questa è, per l’appunto, una «diafania», ovvero, il darsi di Phanes, in modo immediato «attraverso» «fra», altre proposizioni che si danno in modo auto affermativo e auto apodittico. La «diafania» è in questo tipo di composizione il modo di procedere e di costruire gli «eventi» linguistici i quali sono in sé auto prodotti, auto giustificati e auto significanti. La «diafania» in Mario Gabriele sta nella procedura adottata e dal nuovo sguardo che lui posa sulle «cose» linguistiche del mondo. La «diafania» è un guardare e un produrre le «cose» linguistiche in modo da mostrare l’interna contraddittorietà e falsificabilità della propria significazione; la «diafania» è il modo scelto da Gabriele per mostrare a tutti che il re è nudo.

    Se leggiamo un verso di Donatella Costantina Giancaspero, ci accorgiamo che qui siamo davanti ad una proposizione che indica una «cosa» non riconoscibile, anzi, irriconoscibile. Al contrario della procedura adottata da Mario Gabriele, nella procedura della poetessa romana abbiamo una modalità di costruzione molto differente. Leggiamo un emistichio:

    un nido di vespe nel lampadario.

    Il significato di questa proposizione può essere esaminato da vari punti di vista, anche dal punto di vista psicanalitico, ma, sicuramente il significato residuale ci indica una «cosa» del tutto inutilizzabile, ed anche una «cosa» di estremo pericolo, una «cosa che impende, che resta lì, sopra le nostre teste, e che ci condiziona, ci minaccia con la sua sola presenza anche in assenza di azioni o di eventi, anzi, l’evento principe è che qui non si dà alcun «evento», l’evento è nel Phanes, nel mostrarsi per quello che è quella «cosa», un qualcosa che noi non conosciamo ma che sta lì, all’erta, in attesa di qualcosa che noi non sappiamo, qualcosa che potrebbe scatenare una reazione, una risposta temeraria e bellicosa. Questo è un genere di «diafania» tipica della procedura compositiva della poetessa romana. È una procedura nuovissima, mai adottata dalla poesia italiana ma ben presente ad esempio in altre tradizioni letterarie, ad esempio nei poeti cechi Petr Kral e Michal Ajvaz. La «diafania» nella Giancaspero indica, in temini psicanalitici, la rimozione di una rimozione, con il che un qualcosa è pervenuto alla soglia della istanza linguistica che le ha confezionato un vestito linguistico, quel qualcosa che non può che essere una catacresi. Ecco, la poesia della Giancaspero ha questa caratteristica, che ha sempre a che fare con la catacresi, che è il modo di darsi di Phanes, il modo di venire alla luce della vestizione linguistica di un qualcosa, di un contenuto di verità che è stato travisato e composto (tradotto) in parole inesplicabili, in un Enigma.

    Mario M. Gabriele
    1 maggio 2018 alle 11:04

    Grazie Giorgio di questa tua ennesima fioritura critica. Vorrei entrare nel merito della diafania, presentando un testo che si energizza su questo tema, senza per questo creare amputazione con il linguaggio corrente. Trattasi di una ulteriore via di agglutinazione sferica delle idee e delle sovrapposizioni sensoriali, che alla fine si armonizzano nella struttura segmentata. E’ ovvio che questo testo ha un suo valore interpretativo solo se, come dici tu, lo si analizza “con l’ausilio di un nuovo apparato concettuale, in quanto le vecchie categorie euristiche non sono più adatte alla comprensione del nuovo”.
    I
    inedito da: Registro di bordo.

    Berenice non ha altro da fare
    che mettere blazer di vecchia data.
    La stagione resiste all’epitaffio.
    Ci vorranno mesi per sistemare la biblioteca,
    salvare papiri ed ebook.
    con 8 posti senza turnover.
    Perilli è tornato a chiedere il XVI volume
    della Letteratura Italiana .
    Scrivere è un viaggio come il pensiero di Heidegger.
    Al vicolo 7 di Piazza Bologna,
    nessuno ha una vita privata.
    Quando la poesia sfugge
    diventa grazia autonoma.
    In un inverno del 93 cademmo nel crinale.
    Vennero voci dal buio. Soccorsi stradali.
    Il fiume era rientrato nell’ alveo.
    Carlo già pensava alla brossure della Gita domenicale.
    Ada, la magnifica Ada
    dai sette lumini e corde di chitarra,
    si era concentrata sugli steli di gramigna.
    Una piccola colazione
    portò fantasmi e sentimenti abrasi.
    Tengono ancora i profumi di Calvin Klein.
    Lo stato delle cose è nel tempo.
    La Canducci ha azzerato il debito.
    Siamo in bilico.
    Ofelia si trastulla con l’oboe.
    La notte ha rubato la luna.
    Su altri versanti sostano i giorni a venire.
    Arrivo sul fronte delle dislocazioni verbali
    con Dibattito su amore e Il Dente di Wels.
    Brillano i fuochi d’artificio la notte di San Giuseppe.
    El Paradise, ci pensi, è tutto un tremore di sogni!
    Un paesino di sintassi crudele
    ha aperto check-in e ogni limite.
    -Oggi non è venuto nessuno;
    e oggi sono morto così poco questa sera!-

    ANNA VENTURA
    1 maggio 2018 alle 10:43

    Per Rossana Levati: Grazie, cara amica, per aver citato i versi del poeta iraniano,che mi rimandano a una considerazione di Flaiano,convinto che, di tutte le iatture , la peggiore sia la speranza.Condivido pienamente questo pensiero,che mi rimanda, anche, alla perfida allusione di un grande film di Sordi;”Finchè c’è guerra c’è speranza,”

    Alfonso Cataldi
    1 maggio 2018 alle 10:59

    L’astronauta occasionale rovista fra gli avanzi di colonne.
    Lo sorprende la spinta dei tronchi resistenti
    non di un’era

    – con quale gamba messa male
    che atterra
    dichiara la sua fine? –

    di mezzo metro quadro, per dire chiaramente:
    consolidarsi, senza preavviso
    nel monolite apparente del tempo che rimane.

    La signora Madeleine vende la sua ombra
    alla casa di riposo.
    Fugge tra le mura della terza elementare, a Étretat
    abbandonate per la guerra.

    Una giovane insegnante sbaglia il viale dietro il piccolo cancello.
    Spiega la teoria evolutiva dell’azzardo

    come dirimere la direzione delle venature.

    Donatella Costantina Giancaspero

    Leggiamo insieme questa poesia di Michal Ajvaz (nato a Praga il 30 ottobre 1949):

    Turisti

    Nell’ultimo appartamento dove ho abitato mi accadeva spesso
    che quando la mattina mi svegliavo
    c’era nella stanza un gruppo di turisti.
    Una giovane guida mostrava ai turisti gli oggetti sulle mensole:
    statuette cinesi, scatoline di tè e palle di vetro,
    presentava loro il contenuto dei miei cassetti,
    prendeva dalla mia libreria delle preziose edizioni e le passava tra il pubblico.
    Spiegava tutto con professionalità.
    I turisti fissavano a bocca aperta le mie stoviglie come se fossero strumenti medievali di tortura
    e fotografavano e toccavano tutto.
    I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
    “È possibile comprare delle cartoline qui?”
    “Devo fare pipì.”
    “Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
    Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
    soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
    sul bordo del letto dove giacevo
    e tirava un sospiro profondo.
    Queste cose mi succedevano continuamente.
    In un altro appartamento con me viveva un cinghiale
    e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.
    Presto ci feci l’abitudine ma ancora oggi ricordo
    il terrore della prima notte, quando fui svegliato
    da un baccano infernale e dal turbinio delle luci.
    Peggio era quando di notte mi trovavo in dolce compagnia.
    È vero però che alcune donne erano eccitate all’idea
    e volevano fare l’amore al fragore di quei terribili boati,
    tra gli sciami apocalittici delle scintille.
    Ora che vivo nei boschi e la città
    è per me soltanto una striscia tremolante di luci,
    interrotta da tronchi neri
    che guardo prima di addormentarmi
    su un mucchio di foglie bagnate, so già
    come sia necessario accettare e dare il benvenuto agli intrusi,
    imparare a voler bene agli sciacalli, che si aggirano per la stanza,
    agli animali di grossa taglia che vivono negli armadi, al loro malinconico canto notturno,
    alle sfingi assonnate delle ottomane pomeridiane.
    A chi non è mai successo di toccare con la palma della mano sul fondo dell’armadio
    dietro ai cappotti flosci la pelliccia umidiccia di un animale sconosciuto?
    Nessuno spazio è chiuso.
    Nessuno spazio è solo di nostra proprietà.
    Gli spazi appartengono a mostri e sfingi.
    La cosa migliore per noi è /cuius regio…/
    adattarsi alle loro abitudini, al loro antichissimo ordine
    e comportarci con modestia e in silenzio. Siamo ospiti.
    Comportarsi senza dare nell’occhio, venire a patti con la silenziosa terra.
    I tronchi tribali selvatici
    di quest’autunno passano per gli ingressi.

    (Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

  8. Stamane mi è arrivato per posta un libretto di Cesare Viviani, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… il melangolo, 2018, pp. 76 € 7 pp. 45 e segg.
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/05/30/giuseppe-talia-lettera-aperta-a-corrado-augias-gentilissimo-corrado-augias-le-scrivo-riguardo-alla-trasmissione-di-quante-storie-su-rai3-andata-in-onda-giorno-11-maggio-2018-dal-titolo-s/comment-page-1/#comment-35315

    Si è detto che la poesia è anche, immancabilmente, esperienza del limite, limite che è già inizio dell’estraneità, e quindi illeggibile, insuperabile, non c’è parola, intuizione, simbolo o immaginazione capaci di farlo nostro o di ridurlo. È l’equivalente del limite ultimo della vita: in questo senso la poesia è vita, e non limitazione di essa.

    Vorrei che fossero altro questi sedicenti poeti, giovanissimi e giovani, che in qualche occasione pubblica mi guardano storto, loro che non hanno letto niente dei libri che ho scritto, e mi salutano appena, forse per fare contento il loro tutore che non mi ama, o forse perché io non sono mai riuscito a elogiare i loro versi.

    La poesia è finita. Prima era essere che aveva le vertigini di fronte ai suoi limiti, era essere e non essere. Oggi è un intruglio bastardo di essere e superessere.

    Diranno in coro: sarà finita la tua poesia, ma la nostra no!
    Ma non è questione di mia o vostra. Insisto: forse non vi accorgete che la poesia non trova più ascolto. Non c’è più spazio per la poesia. Il troppo pieno, la parola piena, la comunicazione continua hanno sepolto i migliori poeti del secondo Novecento: non si leggono più, non hanno più la considerazione che prima, trenta anni fa, si dava loro. Tra vent’anni nessuno saprà più che erano Saba, erba, Giudici, Luzi, Zanzotto, Sereni, Raboni, Porta… Solo qualche solitario ricercatore universitario… ma saranno pochissimi studiosi. La poesia sarà irrilevante, sarà scomparsa.

    Si è detto: la quantità ha spento la qualità. La quantità di internet, della ipercomunicazione pubblicitaria, dei supermercati, dei centri commerciali e di ogni tipo di esposizione e di vendita. Uno dei tanti effetti di distruzione provocata dall’alluvione continua della quantità è la scomparsa (o quasi) di quella sensibilità che faceva distinguere la poesia dalle composizioni in versi (non poesia). Chiediamoci: come faceva Raboni (tanto per fare il migliore esempio) a scegliere i testi da pubblicare (nelle collane da lui curate) o far pubblicare? Si affidava a quella sensibilità ricca di grande talento, di esperienza finissima di lettore, e di una percezione che riassume in sé smisurata cultura e mirabile intelletto e fa riconoscere l’oro tra tanto similoro.

    La poesia non può essere affabile, accattivante, popolare, attraente l’immediata emotività: perché la scrittura che ha queste caratteristiche è cattivo giornalismo in versi.

    Questo libretto non sarà bene accolto dai poeti giovani e meno giovani. Guai a toccare il narcisismo dei poeti, e di coloro che li limitano scrivendo versi! […]
    Beati coloro che credono che la poesia oggi attraversi un periodo di rigoglio e di espansione, di vigore e di qualità, una rinascita. Beati i giornalisti che scrivono, non sapendo cosa scrivere, che la poesia va. beati i poeti che oggi sono i primi perché domani saranno gli ultimi.
    […]
    Il matrimonio dell’invadenza del linguaggio mediatico, superficiale e utilitaristico, con l’opportunismo delle relazioni personali (scambio di favori, protezione come segno di potere, bisogno di seguaci) annienta la poesia.

    Prima i poeti che mostravano notevoli qualità riconosciute erano cinque o sei per generazione. Adesso sono cinquanta, tutti meritevoli della stessa attenzione. Altro che livellamento, altro che appiattimento! Non si vuole più distinguere tra poesia e versificazione. È il sottobosco (così lo si chiamava) che si è costruito fusti e rami alti e spaziosi!

    Qualcuno ha creduto che l’abbraccio con la dimensione dello spettacolo o con il mondo della rete non fosse mortale per la poesia. Si è sbagliato. Il principio della selezione guida poesia e poeti, principio che è negato da internet e molto spesso anche dallo spettacolo.

    La parola di internet è parola abusata. Internet è il luogo dell’abuso della parola. Per essere ancora più chiari: parola violentata, stuprata.

    Ora si parla di «contaminazione» possibile tra poesia e canzoni di musica leggera. ma per carità! Come si fa a discutere di una sciocchezza simile? Le due realtà sono una l’opposto dell’altra. la poesia pone questioni grandi sull’esistenza, sul nostro essere al mondo, sui limiti del nostro percepire e sentire, e dunque si rivolge all’irrappresentabile e davanti a esso di ferma.
    Le canzoni sono splendidi conforti alle nostre emozioni tristi e nostalgiche e al tempo stesso sono una spinta alla socializzazione.

    Rimane a più osservatori oscuro e inspiegabile il risentimento con cui Berardinelli, a partire dal 1981, ha tante volte parlato della poesia italiana del secondo Novecento. Amarezza, asprezza, delusione? Chissà! Eppure anche lui, per un breve periodo, alla fine degli anni Settanta, ha provato a scrivere poesia.

    La poesia è come una tessitura finissima e traforata (penso a un merletto, a un pizzo, a una trina) nella quale non è il pieno (i fili) che sostiene i vuoti (i fiori), ma sono i vuoti che sostengono i fili.

    Con il proliferare di scriventi versi tutti bravi, può venire a un poeta la tentazione di guidarne un manipolo, di avere un seguito di ammiratori aspiranti a collocazioni pubbliche più alte, visto che quasi sempre non basta loro l’autodesignazione di poeta. Ma questa corrispondenza costerebbe cara al poeta: diventerebbe un principe, o un re, del sottobosco.

    Il critico della poesia deve ogni volta coniugare il proprio pensiero con il testo in questione, matrimonio di volta in volta difficile nelle sue particolarità non generalizzabili, e invece non deve ricorrere per tutti i testi alle stesse definizioni, alle stesse formule.

    Allora ricapitoliamo le condizioni sfavorevoli alla poesia di oggi: la prima è la pretesa di numwrosi giovani ( e di alcuni meno giovani) di diventare poeta per grazia sovrannaturale, per miracolo.

    Invece bisogna leggere tanta poesia, finché entri nel sangue. e si tratta di leggere le opere dei poeti.

    L’imitazione è assolutamente da evitare, quando è consapevole e furba. Quando è inconsapevole (e può succedere spesso ai giovani scrittori anche promettenti), c’è da augurarsi che ci se ne accorga presto.

    C’è poi un altro pericolo, l’invadenza e la suggestione dei linguaggi mediatici e pubblicitari. Al tempo stesso c’è l’ambizione di raggiungere i risultati senza abbandonare la pigrizia, col minimo sforzo, con l’autopromozione e l’autodefinizione di «poeta».

    Altra condizione sfavorevole per la poesia dei nostri giorni è la critica militante: sempre più occupata dai libri dei narratori seri o improvvisati, sempre meno interessata alla poesia. del resto la logica mercantile si impone su case editrici e giornali, per cui si privilegia ciò che offre più lettori e più vendite.
    Ma il problema della critica è l’incontro con la poesia: si dovrebbe illuminare la specificità di ogni testo poetico e invece, come si è detto, è sempre più frequente (salvo qualche bella eccezione) l’uso delle stesse definizioni e frasi, ormai formule di repertorio, per tutti i libri recensiti.

    Altra condizione sfavorevole alla poesia riguarda la pubblicazione (l’editoria è entrata in una strettoia). L’editore gradisce e valorizza il libro di narrativa o di poesia che venda molto (è raro che sia la poesia), che abbia un pubblico di acquirenti e lettori numeroso: in tal caso il libro diventa alimento economico per la casa editric, reddito. Il suo autore sarà trattato con particolare gentilezza e cura. inconsapevolmente anche le persone più limpide e acute, più colte e sensibili subiscono l’effetto di valore del libro che vende molto.
    […]
    Ai miei tempi le cose andavano diversamente: nel 1981 e nel 1990 i miei libri di poesia (Mondadori) vinsero due bei premi, e l’editore fece uscire una pubblicità di notevoli dimensioni su “la repubblica”, riproducendovi la copertina del libro (il secondo fu anche ristampato e fascettato col nome del premio), libri che certamente non vendettero più di 1500 o 2000 copie.

    Aspirare a un numero elevato di lettori di poesia è un errore…

    Esiste la «nuova» poesia, la poesia del Duemila? Non è mai esistita la «nuova» poesia: la poesia è sempre stata la stessa, se è sempre stato indefinibile il suo nucleo essenziale. È pur vero che ogni volta la poesia è nata dalla tradizione… per poi cercare un’originalità di forme e di espressioni. E questa poesia del Duemila, giovane o meno giovane, ha ignorato la tradizione, ha mancato la nascita, non è nata. Si è riempita di parole, frasi, idiomi, suggestioni circolante e corrive, pubblicitarie ed efficaci, mutuate da ogni emittente. Questa poesia non è poesia.

    Oggi, nello scrivere versi, si tenta un’operazione analoga a quella delle installazioni nell’arte: un linguaggio interessante, suggestivo, attraente, ben organizzato con belle apparenze, artefatto.

    Cari giovani poeti,
    vi mando un caro saluto e una raccomandazione: quella di non adirarvi e non angosciarvi se qualcuno critica le vostre poesie e le considera solo scritture in versi. Pur nella relatività di ogni lettura, le critiche possono essere necessarie e salutari proprio per passare dai versi alla poesia.
    E noi anziani dobbiamo scusarci con voi e riconoscere che siamo stati colpevoli di alcune bugie per cosiddetta bontà o viltà.

    Chi ama la poesia, prima di scriverla, ne leggerà tanta: prima di amare la propria, amerà quella scritta dai poeti che, nei secoli, hanno fatto conoscere la loro opera. Chi scrive versi senza aver prima smisuratamente amato la poesia è un povero naufrago nel mare del narcisismo.

    Il miglior consiglio che si può dare a chi si avvicina alla scrittura della poesia… è quello di evitare gli insegnamenti. e quindi: non frequentare scuole di scrittura o di poesia.

    Uno che sa tutto, saccente, non sarà un poeta. Uno che pensa di potere tutto, arrogante, e si compiace della propria abilità non sarà un poeta. La misura di sé non è un rispecchiamento compiaciuto («quanto sono bravo»). Misura di sé è qualcosa che non ha niente a che fare con le tentazioni dell’infinito: è cosa finita, è percezione netta, nuda e cruda, dei limiti (della misura), dei limiti superabili e poi, necessariamente, anche di quelli insuperabili.

    Se tutte le frasi pensate, se tutti i pensieri cominciano o contengono il pronome “io”, e se l’interesse personale occupa tutto lo spazio dell’immaginazione e dell’emozione, allora in questo caso siamo lontani dalla poesia… se l’io invade e domina anche lo spazio delle relazioni affettive e dei pensieri rivolti all’umanità e alla società… allora con questo io sovrano sarà impossibile arrivare a scrivere poesia.

    ( La vita presenta a volte strane concidenze. e sono davvero strane coincidenze – non c’è malizia. Per esempio, una che mi è capitata: finché si è pensato che potessi avere un qualche potere editoriale o recensorio, il telefono squillava ogni giorno con voci amiche e gentili. Quando si è capito che non ho nessun potere, nessuno più mi ha chiamato né è venuto a farmi visita. COsì come un’altra casualità: se ad un giornale collabora un recensore che ha un cattivo rapporto personale con un poeta, possono verificarsi casuali effetti di allineamento degli altri recensori, e va a finire che su quel foglio nessuno scriverà di quel poeta. Ma allora, tutto il mondo è paese?)

  9. Gino Rago

    La Poesia? Fra cenotafio, De Profundis, epicedio.

    Un pigiama disse:”Troppa neve ad Auschwitz,
    in troppi contro il filo spinato”.
    E cantava:
    “Die Natur stirbt in Rauch des Himmels”

    Dopo anni Paul ne afferrò il senso
    [le mani di ghiaccio nei gorghi di rami]:
    “La Natura muore nel fumo del cielo.”

    Judd ricordò il campo di cenere,
    le casacche a righe,
    l’ululato sotto le zampe dei cani:
    “La Poesia? Anche lei muore nel fumo del cielo”.

    L’orologio della mente battè l’ora delle piume
    sulla sua pelliccia di carne
    [la sua voce:’Perché continuare a scrivere versi?’]

    La sentinella cantava: ‘Die Natur stirbt im Rauch des Himmels’

    GR

    • Gino, ci leggo qualcosa di familiare……Grazie e complimenti a te! Cari saluti circolanti….

      • Gino Rago

        Francesca, tieni ragione.
        Ho fatto un ibrido e ho compiuto una forzatura per rispondere indirettamente alle questioni laceranti poste dalla lucida missiva di Pino Talia e dai commenti di Giorgio Linguaglossa: la conclusione?
        Ha senso ancora scrivere versi? Per chi scriverli? Qualcuno chiede qualcosa ai poeti e alla poesia? Dentro di me ho le risposte…

        • Caro Gino, credo sia una questione attinente al nostro tempo. Tutto deve servire a qualcosa in quanto produce e perchè vendibile sul mercato. Niente di più assurdo E’ una domanda imposta dal potere e per il potere . A che servono i poeti? Producono ? Inconcepibile. Anch’io ho le mie risposte .Per metà avvolte nel mistero.

          P.S.
          Tengu ragiune….. Si. Scherzavo.Avevo notato l’ibrido… e comunque ti ringrazio molto…..

  10. E’ vero, Giorgio:la quantità sopravanza la qualità.Il lavoro di selezione si fa più pesante;ma non possiamo arrenderci ,noi cercatori d’oro capaci di setacciare fiumi di acqua e fango per raccogliere solo qualche pepita.Noi cercatori di diamanti capaci di caricarci di pietre come Calandrino; noi servi della bellezza esposti a ogni attacco del concreto.Però la sera possiamo sedere a un piccolo desco, con una modesta merenda e un bicchiere di vino. Perchè abbiamo imparata la misura.

    • Anna soltanto questa riflessione ti rende a me cara.
      E grazie a tutti per quanto state scrivendo.
      Ho da pochissimo conosciuto Augias in Val d’Orcia a Bagno Vignoni dove presentava il suo libro “Questa nostra Italia” e quando gli ho formulato una domanda sul sul libro lui di rimando mi ha chiesto cosa facessi. Ho risposto col mio solito pudore in merito che sono una poetessa ma avrei voluto dire scrivo poesie come quasi sempre faccio secondo la lezione di Alfredo De Palchi, Ho però sperimentato che quando dico così vengo fraintesa.
      Ecco io aggiungerei questo alla tua riflessione.
      Noi cercatori senza scopi, cercatori che sperimentano “nell’acqua e nel fango” per sentire il profumo della bellezza che a volte traduciamo in versi.

  11. Giuseppe Talia

    Ha ragione Anna Ventura quando afferma: – “Perché abbiamo imparato la misura”.
    Un buon scrittore do poesia sa cosa significa “la misura”, quel fermarsi prima che l’eccesso dia alla testa. Mi ricordo di mio nonno, a tavola beveva sempre qualche bicchiere di vino, due di solito, e poi capovolgeva il bicchiere e diceva: – “Basta così, è sufficiente.” Mio nonno non si è mai ubriacato.

    La misura, gli scrittori di poesia di lungo corso, quelli che hanno in “amore” i versi, ma soprattutto quelli che hanno letto e leggono i Poeti, sanno cosa significa. E i due scrittori di poesia menzionati nella lettera aperta (spedita veramente ad Augias e ricevuto risposta), la misura la conoscono benissimo. Per loro la misura è tutto. Prendiamo ad esempio una poesia di Magrelli tra quelle postate nell’articolo:

    Sei venuto alla luce, ma la luce
    non è venuta a te,
    dunque sei nato
    da un appuntamento mancato:

    tu sei nel mondo,
    il mondo non è in te.
    Sii forte, allora
    – fatti mondo te

    Misura, da far invidia al metro e alla bilancia. Con allitterazioni e rime interne ed esterne perfettamente calibrate: venuto – venuta – nato appuntamento- mancato.
    te
    te
    te
    fort-te
    mondo- mondo.

    A chi è rivolta? Una poesia di speranza, che ci racconta di una nascita non tanto felice, senza “luce” e con un messaggio finale di speranza: fatti mondo te.
    Una poesia adatta per l’occasione. Una di quelle da usare facilmente come messaggino, su whatsapp, Facebook, instagram e, scandaloso, sulla bianca Einaudi. Una poesia confetto, una caramella, un bon-bon.

    Qualcuno potrebbe azzardare: – Sei invidioso! Sì, vorrei anche io la Bianca Einaudi.
    Altri potrebbero dire: – “anche tu sei un professore che scrive poesie”
    No, io sono un Maestro, nel vero senso della parola. Che poi abbia avuto la capacità e la fortuna di fare mille cose nella mia vita professionale è altra cosa. Ho lottato, e non poco.

    In definitiva, non ce l’ho con Magrelli. Io ho seguito Magrelli fino a Didascalie per un Giornale, mi divertiva, anche se avvertivo la deriva prossima della poesia italiana.

    Mi scusi, Luciano Nanni, ma io non posso accettare di provare affetto per le cose meno riuscite. Mi sento preso preso in giro.

    • Agosto Eclissato

      La tua bocca mi fa pensare ancora al trasloco assoluto
      alle tante volte che mia madre ha dovuto cambiare dimora

      La tua bocca mi fa pensare a tua madre che hai sradicato
      dalla sua città natìa
      per portarla nel tuo oblío

      devitalizzazioni convenienti
      per fare andare il figlio avanti

      Ora tu hai messo i denti
      ma la tua bocca continua a puzzare di casa disabitata
      di lotta tra amici e parenti

      Quella luna piena
      sganciata dal palato nero di dio
      La tua musa ero io
      ora lupa ora jena
      sul palato sbatte il nulla e tu là
      tra il muto e il parlato

  12. Gino Rago

    Un invito alla lettura:
    Sindbad il marinaio di B. Lesmian

    Lesmian sa filtrare la realtà attraverso il caleidoscopio della poesia, attraverso il prisma del sogno. Il poeta polacco sa trasformare la realtà del vivere in immagini, per dirla con Transtroemer, metaforiche non di rado grottesche, in uno stile ad alta elaborazione, senza rinunciare alla ricchezza metaforica né alla efficacia di neologismi. Lo zio Tarabuk e il Demone Marino sono indimenticabili…

  13. Confesso non ho letto molti poeti l’articolo di Talia tocca la giusta corda

  14. Guido Galdini

    Un epigramma:

    i finti poeti non sbagliano una parola,
    tutto quadra ma niente diventa tondo.

  15. letizia leone

    Complimenti a Giuseppe Talia per la lucidità e concretezza storica della sua invettiva. Il dibattito che ne è seguito è molto interessante e apre trasversalmente a molte importanti questioni estetiche, critiche, sociologiche e anche politiche se perseverare nel fare arte, cultura, poesia nell’attuale situazione di degrado e “ostracismo” non sia già implicitamente un grande “atto politico”. Purtroppo il caso Magrelli è forse la conseguenza della sparizione della critica letteraria e della logica del consumo che orienta ormai completamente la produzione delle case editrici. Eppure nel coro cerimoniale degli incensamenti d’occasione ho trovato un’altra voce critica (oltre a Linguaglossa) “molto critica” e ironica sull’ultimo libro di Magrelli , quella di Alfonso Berardinelli che posto qui di seguito:

    Alfonso Berardinelli, Il Foglio 22/03/2014, 22 marzo 2014
    TUTTI GLI SFORZI DI MAGRELLI PER CONVINCERSI DI ESSERE POETA

    Preferisco essere truffato da un bottegaio che da un finto poeta. Per questo ogni dieci, quindici anni, non molto spesso e senza accanimento, sento il bisogno di dire qualcosa sul poeta Valerio Magrelli, che ci aiuta a capire la situazione della poesia, nonché della critica italiana e a me fa subito venire in mente il solito, abusato Karl Kraus, secondo il quale gli scrittori si dividono in due categorie: quelli che lo sono e quelli che non lo sono. Per legge di natura, la seconda categoria è prevalente, cresce e prospera, mentre scovare qualche esemplare della prima, quella dei poeti che lo sono, è un’impresa ardua e poco remunerativa: se lo fai, rischi di condannare una maggioranza e fai la figura del “rosicone” e del “malmostoso”, aggettivi che piacciono molto ai lodatori del “così è, così è bello” e a tutti coloro che, per dubbie ragioni, si sentono invidiabili. Dopo un silenzio di otto anni (segnalato in copertina), silenzio che vorrebbe far pensare alla ventennale afasia poetica di Paul Valéry, esce ora di Magrelli una nuova e accuratamente confezionata raccolta di poesie intitolata amaramente “Il sangue amaro” (Einaudi). Magrelli non è uomo che ami attriti e conflitti, si tiene reticente e prudente ed evita finché può le fonti di amarezza e tutto ciò che lo può danneggiare. Dato che è (come è) il più abile e laborioso promotore di se stesso che si incontri oggi nella poesia italiana, mestiere nel quale si è lasciato indietro chiunque altro, perfino Maurizio Cucchi, ormai quasi dimenticato, Magrelli dovrebbe rivelarci in questo libro che cosa lo affligge e lo amareggia. No, la ragione, letto il libro, resta oscura. Al posto di ragione e senso, c’è in Magrelli un incolmabile vacuum. Ma se la causa appare oscura, chiari e visibili sono gli effetti. Si vede che Magrelli ha una gran paura di non esserci, di non consistere, e cerca di rimediare intensificando le dediche, le epigrafi, i riferimenti, le allusioni, gli appigli, gli agganci, i salvagente. In questo libro il salvagente più esibito sembrerebbe niente di meno che il Kierkegaard di “Timore e tremore” (debitamente segnalato in quarta di copertina). Già. Magrelli teme e trema e va in cura dal Socrate di Copenaghen. Avendo sempre avuto l’epigrafe facile e comoda (cita ma non sembra aver letto) Magrelli allunga le mani su tutti gli autori di prestigio, quelli che al momento fanno chic, creano consenso, circolano nell’ambiente. Vent’anni fa osò prendere epigrafi da Simone Weil e da Auden per mettere in salvo un paio di poesiole che un autore dotato di pudore avrebbe fatto sparire nel cestino. Per , diavolo!, su quei versicoli da niente c’erano i nomi di Simone Weil e di Auden e quindi (si era detto l’autore) sono al sicuro: chi mi legge penserà che sto pensando ai massimi livelli, penserà di aver letto qualcosa che in qualche modo avrà a che fare con due degli autori più intelligenti del Novecento. Magrelli gioca e punta infatti a fare il poeta intelligente, il poeta di pensiero. Sulle scatolette verbali che ci offre ci sono le etichette con tanto di nomi-garanzia. Per dentro il pensiero non c’è. Dunque, dov’è il Kierkegaard annunciato in copertina? Cerchiamo Kierkegaard… Le dediche e le evocazioni a vuoto arrivano subito. La prima poesia si mette sotto l’ombrello di Watteau. La seconda è dedicata a Pagliarani. La terza di dediche ne ha due, a Sanguineti e a Cortellessa. La quarta nomina ripetutamente, in anafora, Schwitters. La quinta fa il nome di Beuys. Seguono due dediche a Pino Varchetta e a Stefano (Giovanardi). E così si chiude la prima sessione. Con la seconda sezione, subito due epigrafi, una da Chateaubriand (che fu rilanciato da Garboli) e una da Montaigne (tutta la città ne parla). Si affaccia un Babbo Natale che qui è definito “gnostico”, come Ceronetti, Calasso e dintorni (farseli amici aiuta). Si notano alcune litanie in rima. Tornano anche, come di dovere, Gesù e Dio. Ne parlano tutti, la chiesa ha ipnotizzato i laici, Papa Bergoglio ha fatto sembrare l’ateo Scalfari un povero ingenuo pieno di pretese. Subito dopo si fa il nome di Gutenberg (il precursore di Steve Jobs!) con un’epigrafe assurda dall’assurdo Jarry. Le rime ora abbondano. Magrelli ha scoperto il verso regolare e la rima, e si mostra artifex. Una di queste rime sembra anzi un lapsus di quelli che pugnalano alle spalle e dicono tutto del nostro poeta: la parola “poesia” viene fatta rimare con la parola “burocrazia”. E dunque, almeno su se stesso, qui Magrelli dice la pura verità. Ma ecco la terza sezione. Il suo titolo suona impudicamente “Timore e tremore” come quello di Kierkegaard (più avanti si parlerà di “tremarella”). Dunque siamo arrivati al filosofo usato per tenere in piedi il libro come libro di pensiero. Ma Kierkegaard non basta ancora all’autore, che aggiunge due epigrafi sulla paura, una di Kafka e una di Hrabal. La paura, il timore, il tremore. Le muse di Magrelli? Ma paura di che? Paura di non esserci, sempre quella? Paura del (proprio) vuoto che si fa minaccioso come mai prima? Questo vuoto va riempito e tutto va bene. E’ citato l’immancabile “spread” ma poi arriva un’altra rivelazione: a Magrelli viene in mente di fare un po’ à la manière de Patrizia Cavalli e nomina una dea. Ma quale? La dea “dell’Assenza e del Vuoto”. Dov’è finito Kierkegaard? Magrelli lo ha citato e la cosa finisce lì. Quarta sezione, altre due epigrafi: Agostino (che io chiamo sant’Agostino) e naturalmente Zanzotto, che va sempre bene. Perché sprecarsi a citare, non so, Giudici o Sereni? Titolo della sezione: “La lettura è crudele”. Cioè? Io credo che qui Magrelli abbia nominato la cosa di cui ha più paura. Per un poeta che non c’è, la lettura di qualcuno è un rischio, una minaccia, una vera crudeltà. Se qualcuno davvero leggesse, capirebbe crudelmente con che cosa ha a che fare: con il nome di qualcosa in assenza della cosa. Vado avanti. Dopo qualche dubitosa moina, risulta che l’autore non sa perché scrive (come se qualche poeta l’avesse mai saputo). C’è una poesia dedicata a Henri Beyle, in arte Stendhal (stare in buona compagnia facendo nomi, costa poco). Un’altra poesia reca un’epigrafe da Wallace Stevens (Nadia Fusini lo stava traducendo per Adelphi, bel colpo). Un discreto sonetto è dedicato a John Donne, come dire: anche io, Magrelli, in fondo sono, come lui, un poeta metafisico che mette insieme le idee e la materia, come dimostra, ricordate?, quel mio titolo: “Nel condominio di carne” (un po’ ripugnante, no?). C’è una lunga poesia sul rumore che fa l’asciugacapelli. Un’altra parla di “milioni di sinapsi” che lo scrittore non sa con quali pensieri nutrire (è proprio così: con quali pensieri?). C’è una poesia dedicata a Roland Barthes in cui si dice che la musica è “il Sempre-uguale” mentre (come sappiamo tutti) è vero il contrario. Poi arriva Tot , poi i giovani senza lavoro, poi la Thyssen con epigrafe da Tucidide, poi arriva Platone, poi, poi… Non se ne può più. Come in altri più drammatici casi, il problema non è Magrelli ma chi ci crede. E’ chi lo studia ma non lo legge (si usa). Io non vedo un poeta, vedo gli sforzi di Magrelli per convincersi, per convincere di esserlo. Il risultato, benché minimale, è per lui fondamentale, è la scritta che compare accanto alle sue foto: Valerio Magrelli, poeta. Essere nominalmente poeta, questo vuole e questo gli basta. Per questo, ha la passione dei nomi, e basta.

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