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Franco Fortini (1917-1994) POESIE da L’ospite ingrato 1986 e una poesia da Composita solvantur (1994) – Dall’impegno alla fine della poesia impegnata: dagli anni Sessanta agli Ottanta – Commento di Giorgio Linguaglossa

FOTO POETI POLITTICO

 Franco Fortini pseudonimo dello scrittore Franco Lattes (Firenze1917 – Milano 1994); rifugiatosi durante la guerra, per ragioni razziali, in Svizzera, partecipò alla Resistenza in Val d’Ossola. La sua opera poetica, nata all’insegna dell’ermetismo, riuscì negli anni a conferire alla scontrosa severità di una ispirazione civile e politica una classica misura: Foglio di via e altri versi (1946); Una facile allegoria (1954); la raccolta complessiva Poesia ed errore, 1937-1957 (1959); Una volta per sempre (1963); Questo muro (1973); l’altra complessiva Una volta per sempre. Poesie 1938-1973 (1978); Paesaggio con serpente. Versi 1973-1983 (1984). Rare le sue prove narrative: Agonia di Natale (1948; col tit. Giovanni e le mani, 1972); Sere in Valdossola (1963); La cena delle ceneri (1988). Nel ruolo di coscienza inquieta degli intellettuali di sinistra, dai tempi del Politecnico di Vittorini, del quale fu redattore, fino ai Quaderni piacentini, F. costituì un sicuro punto di riferimento per le giovani generazioni, applicando l’intelligenza penetrante del saggista a temi non soltanto letterarî ma anche politici e culturali: Dieci inverni: 1947-1957 (1959); Verifica dei poteri (1965); I cani del Sinai (1967); Ventiquattro voci (1969); Saggi italiani (1974); Questioni di frontiera (1977); Insistenze (1985); Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine (1990). Tradusse Proust, Éluard, Brecht e Goethe; una sua raccolta di traduzioni apparve con il titolo Il ladro di ciliege e altre versioni di poesia (1982). Del 1990 è l’ampia silloge di Versi scelti: 1939-1989, in cui F. riunì il meglio della sua produzione poetica. Si devono inoltre ricordare la raccolta degli scritti in versi e in prosa di carattere epigrammatico e satirico (L’ospite ingrato: primo e secondo, 1985), il recupero di due racconti rimasti a lungo inediti (La cena delle ceneri & Racconto fiorentino, 1988) e alcune raccolte di saggi (Nuovi saggi italiani, 1987; Non solo oggi: cinquantanove voci, a cura di P. Jachia, 1991; Attraverso Pasolini, 1993). Nel 1994 apparve il suo ultimo libro di poesie, Composita solvantur. Numerose le pubblicazioni postume, a partire dal volumetto di Poesie inedite (1997, già apparso in edizione fuori commercio nel 1995), curato da P. V. Mengaldo. Sono seguiti: Breve secondo Novecento (1996; nuova ed. 1998); i due volumi di Disobbedienze (1º vol. Gli anni dei movimenti: scritti sul Manifesto, 1972-1985, 1997; 2º vol., Gli anni della sconfitta: scritti sul Manifesto, 1985-1994, 1998); i quattro studi raccolti in Dialoghi col Tasso (a cura di P. V. Mengaldo e D. Santarone, 1999); Il dolore della Verità: Maggiani incontra Fortini (a cura di E. Risso, 2000), un’intervista del 1983 allo scrittore M. Maggiani; le conversazioni radiofoniche del 1991 pubblicate col titolo Le rose dell’abisso: dialoghi sui classici italiani (a cura di D. Santarone, 2000).

Onto Fortini

Franco Fortini, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Una lettera di Montale a Franco Fortini del 1951

Nel 1985, in occasione del conferimento a Franco Fortini del premio Montale-Guggenheim,   il poeta narra questo aneddoto:

«Trentaquattro anni fa, il 6 ottobre 1951, Montale mi scriveva per darmi un giudizio assai severo e, a ben considerare, assai giusto ed equilibrato, di un fascicolo di una cinquantina di poesie manoscritte che gli avevo mandato. Avevo allora 34 anni, il mio primo libretto di versi era del 1946 e mi pareva lontanissimo; e andavo cercando confusamente e senza neanche sapere di cercare, dopo qualche plaquette, i versi per la mia seconda raccolta, che venne dodici anni dopo la prima. Montale, fra l’altro, mi scriveva:

«L’ispirazione che ti muove è una ispirazione religiosa, non però, beninteso, della religione che corre oggi nelle strade e nelle chiese. Dei due fili che vi si intrecciano (l’umiltà e l’orgoglio, la dedizione e la rivolta) molto più tuo mi sembra il primo… Ammetto, insomma, che la tua mira è alta e che una certa tua non-forma nasce dal miraggio di una forma più nuova, più impalpabile, più vera. In complesso, credo che la cosiddetta “arte” ti ripugni soprattutto per ragioni morali. Qui però entra in gioco anche l’orgoglio di cui t’ho parlato. Ti rassegneresti poi a dire (a sentirti dire): tu arrivi sin qui e basta? Ti adatteresti a sentirti stimar meno di quanto tu potenzialmente sei? Ti piacerebbe sentire che c’è in te una parte inutilizzata e forse inutilizzabile? E una parte che in un certo senso è la migliore di te? Tali sono i guai, le umiliazioni, le sofferenze che toccano agli artisti. Più volte ho avuto (non dico oggi, leggendo i tuoi versi) l’impressione che tu sottovaluti il travaglio degli uomini della tua generazione e di quella che t’ha preceduto, nel senso che molti problemi che ti preoccupano sono stati sentiti e parzialmente espressi anche da altri; da altri che apparentemente non pensano o pensano meno di te».

I miei ascoltatori non hanno bisogno di essere avvertiti: qui Montale parla anche – e quanto – di se stesso. E questo spieghi perché la lettera fu per me tanto sconvolgente quanto deprimente. I rilievi negativi erano inconfutabili, ma la via indicata m’era impercorribile proprio a causa di quel nesso di dedizione e di rivolta che Montale mi aveva diagnosticato. Quella lettera faceva mancare il respiro. Quando mi ripresi mi mossi, come un ragazzo protervo, in direzione opposta. Valgano gli eventi di quegli anni. Fu erranza, errore e, almeno in parte, poesia. Altri e quali anni ci sarebbero voluti perché acquisissi la certezza o la pretesa testamentaria di aver veduto e detto alcunché «una volta e per sempre».

Montale aggiungeva: «Qua e là troverai segnato a lapis qualche luogo che mi è particolarmente piaciuto». Scorsi il dattiloscritto. Un segno accompagnava una breve poesia intitolata Parabola. Vi paragonavo la mia sorte a quella del grappolo trovato immaturo e non colto (ero già sulle tracce di un mio Manzoni!) e, non giunto a dolcezza, l’inverno lo avrebbe macerato. Con una leggera scrittura a lapis, Montale aveva aggiunto: «Speriamo di no».

Ho sperato anch’io, ecco tutto.

Parabola

Se tu vorrai sapere
chi nei miei giorni sono stato, questo
di me ti potrò dire.
A una sorte mi posso assomigliar
che ho veduta nei campi:
l’uva che ai ricchi giorni di vendemmia
fu trovata immatura
ed i vendemmiatori non la colsero
e che poi nella vigna
smagrita dalle pene dell’inverno
non giunta alla dolcezza
non compiuta la macerano i venti.

Onto Pasolini

Franco Fortini. L’intellettuale isolato e il conflitto su tre fronti

Nell’ottobre 1958, per una relazione interna alla rivista «Officina», Franco Fortini scrive:

«Questo problema dell’eredità è di grandissimo momento perché molto probabilmente può condurci a riconoscere l’inesistenza di una eredità propriamente italiana, in seguito alle fratture storiche subite dal nostro paese; ovvero al riconoscimento di antenati quasi simbolici, appartenenti di fatto a tutte le eredità europee». «Nell’odierna situazione, credo che le postulazioni fondamentali di “Officina” – agire per un rinnovamento della poesia sulla base di un rinnovamento dei contenuti, il quale a sua volta non può essere se non un rinnovamento della cultura – con i suoi corollari di civile costume letterario, di polemica contro la purezza come contro l’engagement primario ecc. – siano insufficienti e persino auto consolatorie. Rappresentano il “minimo vitale”, cioè  un minimo di dignità mentale, di fronte alla vecchia letteratura evasivo-ermetizzante e alle nuove estreme-destre letterarie ma sono anche, di fatto, assolutamente prive di forza e di prospettiva di fronte alla letteratura e alla critica nuove.1 Continua a leggere

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Marco Onofrio: La “lingua di plastica della middle class alfabetizzata” che cancella il mondo. Riflessioni in margine ad alcuni libri sull’italiano di oggi (Giorgio Linguaglossa, Stefano Bartezzaghi, Gianrico Carofiglio, Filippo La Porta)

italia tripartita 

Le celebrazioni del 2011 per il 150esimo dell’unità d’Italia hanno dato ampio e giusto spazio al ruolo della lingua come cemento della nazione; ma hanno anche toccato il nervo scoperto rappresentato dalla progressiva e apparentemente inarrestabile “plastificazione” che affligge da tempo il nostro bellissimo idioma (tra i più studiati al mondo). Diversi scrittori hanno analizzato il fenomeno, che non riguarda solo l’Italia: anche in Francia parlano di “langue de bois” (lingua di legno) per indicare il logorio delle parole, soffocate dalla stereotipia dei luoghi comuni e plagiate nei meccanismi mass-mediatici di un bla bla ipnotico, privo di senso. Dunque, un fenomeno transnazionale: determinato probabilmente dalle condizioni di usura e obsolescenza cui è sottoposta la lingua nella società contemporanea, strutturata come un villaggio global-mediatico che in realtà è un emporio mondiale e aggregante di merci (parole comprese). La letteratura stessa è stata di conseguenza sottoposta – con la definitiva perdita di “aura” umanistica – a un processo di de-significazione, di neutralizzazione semantica del significante, corollario del generale indebolimento della segnicità delle parole, che ormai girano a vuoto, consunte, sbiadite, banalizzate.

giorgio linguaglossa dalla lirica al discorso poetico

Si chiede opportunamente Giorgio Linguaglossa (nel suo volume Dalla lirica al discorso poetico, 2010): «È ancora possibile in questo fiume dalla corrente incessante (che è dato dalla fluidificazione di tutte le forme e dalla fluidificazione dei vasi comunicanti, delle segnaletiche, del mondo dei segni propria dell’universo internettiano) stabilire con oggettività la comunicazione dalla in-tensione significante?». La peste che colpisce la lingua, peraltro, diventa terreno di coltura per la proliferazione di certe storture tipiche – nell’accentuazione di alcuni “difetti” connaturali – della “civiltà” letteraria contemporanea, incline a degenerare in un «micidiale guazzabuglio di servilismo mimetico e conformismo, che si propaga alla velocità della luce» (Linguaglossa). Già nel 1994 il “Manifesto della Nuova Poesia Metafisica”, pubblicato sulla rivista «Poiesis», poneva all’attenzione dei lettori tre domande urgenti e ineludibili: «è ancora possibile nominare il mondo? è ancora possibile rendere abitabile la lingua? è ancora possibile l’autenticità nella posizione estetica?»

filippo la portaIn ragione degli scenari aperti dall’analisi oggettiva di queste problematiche, sono recentemente usciti dei volumi sulle dinamiche in corso nell’uso della lingua italiana. Proprio nel 2011 il raffinato enigmista Stefano Bartezzaghi ha pubblicato per i tipi di Mondadori Non se ne può. Il libro dei tormentoni, dove si studia appunto il “tormentone”, questa particolare escrescenza del luogo comune attraverso la banalizzazione fraseologica del potere linguistico di nominare il mondo: un fenomeno non soltanto spontaneo, endogeno alla lingua, ma strumentalizzato, coniato a tavolino come utilmente strategico alla diffusione sociale di un dato consenso che si vuole imporre (si pensi agli slogan politici e pubblicitari). La maggior parte del flusso comunicativo viene infatti sottomesso a meccanismi subdoli, mistificatori: l’omologazione linguistica è in realtà funzionale alle logiche di potere, poiché tende a veicolare l’affermazione del “pensiero unico”, schiacciando le pulsioni divergenti – malgrado la sconfinata, simultanea molteplicità dei messaggi in gioco. Sempre del 2011 è La manomissione delle parole (Rizzoli) di Gianrico Carofiglio, dove l’analisi viene approfondita all’origine del fenomeno degenerativo: secondo Carofiglio «le nostre parole hanno perso significato perché le abbiamo consumate con usi impropri, eccessivi o anche solo inconsapevoli», per cui oggi si rende necessario «smontarle e controllare cosa non funziona, cosa si è rotto, cosa ha trasformato meccanismi delicati e vitali in materiali inerti». Dopodiché, verificato il danno, toccherà «montarle di nuovo, per ripensarle, finalmente libere dalle convenzioni verbali e dai non-significati». Le parole, così, verranno rianimate, restituite cioè alla dignità costitutiva del loro senso, solo se riusciremo a de-automatizzare l’accettazione acritica e la ripetizione ipnotica delle loro formule plastificate.

filippo la porta

filippo la porta

Ma già in precedenza, nel 2009, Filippo La Porta aveva intavolato la discussione, con il suo agile e divertente È un problema tuo (Gaffi editore). Su questo libro intendo soffermarmi in modo particolare. Si tratta di un excursus ironico attraverso i territori dell’omologazione linguistica, del conformismo che risuona, come un ronzio corale, all’interno delle fraseologie standardizzate nella koinè semplificante della middle class. Naturalmente La Porta tiene conto del cambio di registro che generalmente avviene nel passaggio dalla langue alla parole, cioè dalla convenzione linguistica istituzionale alla prassi comunicativa, legata quest’ultima al contesto, al luogo, al tempo, agli attori implicati, a ciò che di volta in volta si dice, performando certe parole, veicolandole a certi tratti paralinguistici, etc. La lingua quotidiana, così, è da sempre intessuta di stereotipi, intercalari, espressioni gergali, modi convenzionali, zeppe, imperfezioni, opacità. Però – e qui sta il punto: mai come oggi.

gianrico carofiglio

gianrico carofiglio

Affrancato dai ceppi dell’ideologia e dalle sue precettistiche, talora ancorate alla  retorica di un vero e proprio dogmatismo espressivo, pieno di slogan e frasi fatte, il gergo verboso o afasico del Sessantotto si è trasmutato nell’amalgama informe di una lingua media banalmente rimasticata, che dà voce alla middle class alfabetizzata a livello mondiale. Una lingua ancor più infarcita di tic, luoghi comuni, metafore stantie, repertori pronti all’uso e al consumo (dall’eponimo “è un problema tuo” a “non c’è problema”, dal famigerato “un attimino” a “in qualche modo”, da “esatto” a “tipo che…”, etc.). Si rileva dunque una corruzione ulteriore dell’efficacia delle parole, dovuta a tutto ciò che, nell’età contemporanea, esenta l’individuo dal dover pensare in prima persona, offrendogli la possibilità di simulare, riciclare, ripetere, usare formule vuote. Una “lingua di plastica” che corrompe il pensiero, con uso spesso improprio dei termini, cannibalismo delle parole e loro progressiva insignificanza, che rinvia alla progressiva insignificanza delle nostre vite, al senso di irrealtà che ci sta intorno. Si parla di “italiano neostandard, o “italiano dell’uso medio” (middle italian), che rispecchia e insieme concorre a plasmare la grande bolla del ceto medio, di stampo piccolo-borghese. Così, insomma, parla e scrive la “gente comune”. L’italiano neostandard tende ad accogliere elementi del parlato generalmente rifiutati dall’italiano standard, più normativo. Ad esempio “lui” “lei” “loro” usati come soggetti; “gli” generalizzato con valore di “le” e “loro”; “ci” attualizzante («che c’hai?»); anacoluti non percepiti come errore; imperfetto al posto del congiuntivo e del condizionale, etc.

Studiare la società serve a capire meglio le dinamiche della lingua; ma vale anche in senso reciproco. È secondo questa valenza bipolare che il libro si trasforma, nel suo “sottotesto”, virando oltre la dimensione da repertorio divertito e divertente di tic linguistici, o esercizio di “pedante vigilanza” sulle parole che usiamo, verso quella più complessa e ampia di un’analisi critica della società attuale. La Porta sviscera le caratteristiche peculiari della middle class in questione, enumerandole come:

italia che tace

1)  pigrizia e inerzia creativa. Voglia di non impegnarsi più di tanto, di avere tutto e subito, di improvvisarsi esperti. Ostilità per la cultura in quanto tradizione, sforzo, lenta assimilazione individuale;

2) snobismo di massa, desiderio di distinguersi in senso esclusivo. Ad esempio, quel tipico compiacimento nel simulare ed esibire un gusto linguistico nobile e selettivo, tra cui il vezzo di criticare i tic verbali, lamentandosi per la catastrofe linguistica in corso («dove finiremo di questo passo?» ‒ e si fa bella figura);

3) spettacolarizzazione di tutto, anche delle tragedie private e collettive;

4) trasgressione controllata e ribellione conformistica. Provare il brivido senza rinunciare alle sicurezze acquisite, alla mentalità assistita: posto fisso e famiglia;

5) omologazione (società piatta e immobile, livellata e soporifera: consunzione degli ideali) ma anche differenziazione: eclettismo, anzi camaleontismo (bancari-sassofonisti, postini che aprono creperie, commessi librai che diventano romanzieri, etc.) e quindi bovarismo diffuso (attitudine al travestimento, impulso di apparire diversi da se stessi, per fuggire da una vita che non ci piace);

6) narcisismo, che nasce dall’insicurezza, dal continuo bisogno di conferme;

7) fuga dall’esperienza reale delle cose: si preferisce la realtà mediata, illimitata, reversibile, manipolabile, telecomandabile, digitalizzabile;

8) fascinazione tecnologica, corsa all’up to date, al possesso dell’ultimo ritrovato;

9) dominio del chiacchiericcio pseudo culturale, del “si dice”, del commento parassitario, del “cazzeggio” lieve da bar sport;

10) culto della leggerezza e della superficie, frivolezza esibita. Velocità compulsiva, pillole di senso, tempi televisivi. Guai alla pesantezza di chi vuole approfondire: rischia di passare per noioso moralista;

11) minimalismo etico e affettivo. Avere dei valori-guida ma essere pronti a modificarli nel più breve tempo possibile.

Italia tricolore

È questo lo Zeitgeist postmoderno da cui esce la società attuale, da cui a sua volta esce (o, se si vuole, a cui è stata sdoganata) la variante neostandard dell’italiano, con i suoi molteplici addentellati televisivi e internettiani. Il problema linguistico – essendo la lingua non solo specchio ma organo del pensiero, modo di guardare alle cose: le parole, a ben vedere, rappresentano i “mattoncini” del mondo – implica anche quello fenomenologico: “cosa è realtà?” si chiede, in ultima analisi, La Porta. La risposta sfugge come non mai, poiché la realtà, oggi, è quanto di più complesso da definirsi. È sempre più difficile distinguere tra realtà e fantasia, io e non-io. Per sentire “reale” un evento dobbiamo addirittura vederlo o rivederlo in televisione. Per vivere una scena come se fosse vera, sembra che occorra immaginarla finta. Osserva La Porta: «Mi sembra che proprio la “realtà” (sempre scandalosa, terribile, misteriosa) è ciò che la classe media, almeno nel nostro Paese, non intende vedere: le sovrappone scenari suggestivi, la nasconde dietro veli scintillanti, la occulta con maschere seduttive, la esorcizza attraverso un’ironia spesso volgare e protettiva».

La “lingua di plastica”, così, fungerebbe da anestetico: velo ulteriore mediante cui nascondere la verità ed eludere un contatto diretto, troppo fastidioso, con le cose. Stratagemma di economia semantica, utile a meglio assecondare il crepuscolo dei grandi sistemi di pensiero, nonché  l’ottundimento generale e collettivo delle coscienze. A forza di alleggerire, di rendersi agili e volatili, si finisce per smarrire la capacità di fare esperienza autentica del mondo. La coscienza del “reale” nasce anzitutto dalla percezione dell’alterità, dal riconoscimento dell’altro, dal dialogo. Il dialogo, anzi, è insito nella struttura stessa del linguaggio: per questo il monologo solipsistico e narcisistico gli nuoce. Gli occhi dell’uomo contemporaneo sono rivolti all’interno; infatti il cono della realtà circostante tende ad assottigliarsi, a soffocare, ogni giorno di più. A tal proposito La Porta propone una nuova “ecologia della lingua” come antidoto alle sue perniciose degenerazioni. Linguaggio e pensiero, data la loro stretta interdipendenza, sono strutturati in modo tale da condizionarsi vicendevolmente. Bonificare la lingua sarà dunque il primo passaggio indispensabile a riaccendere la luce del pensiero. Continua a leggere

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La lampada perduta. PERCORSI DELLA POESIA ITALIANA DAL 1945 AD OGGI, di Marco Onofrio  – Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana, 1945-2010 di Giorgio Linguaglossa

Not Vital, 700 Snowballs

Not Vital, 700 Snowballs

 Scrive Corrado Alvaro, in un tratto del romanzo L’età breve (1946): «Il poeta non capisce quello che dice ma dice prima di capire, e quella è la verità». Appartiene in effetti alle profondità millenarie del canone occidentale il topos del poeta cieco e veggente, e il concetto di numinosità della parola (luminosa e illuminante, sia pure tenebrosa). La parola, quindi, come lampada, come fiaccola di costruzione e civiltà. C’è un presupposto di retroterra (filosofico e linguistico) che presiede allo sviluppo della poesia italiana del ‘900: la svalutazione e, poi, la perdita del registro profetico-sapienziale. Viene smarrito lo statuto “alto” di credibilità e sensibilità che la rappresentava su un piano di consistenza e riconoscibilità dei valori, dei contenuti, degli stili. C’era un terreno comune su cui confrontarsi, appunto un “canone”. Adorno nel 1966 dichiara addirittura il luogo a non procedere della poesia: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie». La poesia non è più possibile, se non – aggiunge Paul Celan – attraverso un “linguaggio spezzato” testimone della scissione metafisica prodotta dal male assoluto (gli eccidi del ‘900).

giorgio linguaglossa dalla lirica al discorso poeticoViene meno, insomma, il “sistema delle evidenze”: in futuro stenteranno a ricostruire la nostra epoca perché noi stessi non abbiamo più un “linguaggio comune”. Che cosa accade in poesia dopo il ’45? E, soprattutto: dopo gli anni ’60? Per orientarsi può essere utile il volume (Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana, 1945-2010, EdiLet, 2011, pp. 412, Euro 18) con cui Giorgio Linguaglossa affronta e tenta di arginare la complessità dei problemi sollevati dal tema in oggetto, inquadrandoli nell’ottica della storia civile, per cui l’analisi e la sintesi della società letteraria italiana vengono collocate entro uno scenario più vasto, mosso, arioso, e il saggio – nutritissimo, sfaccettato – di storia e critica letteraria si legge, al contempo, come un romanzo appassionante sul nostro Paese, dal secondo dopoguerra ai giorni nostri. C’è, ovviamente, la provvisorietà dei discorsi tipica del critico militante. Ed è un tentativo di ricostruzione tanto più difficile e delicato, dal momento che (insieme con il terreno comune di confronto) sembrano venuti meno i criteri di storicizzazione della letteratura. In base a quali criteri, appunto, storicizzare la contemporaneità? Qual è la “linea egemonica” del secondo ‘900?


giorgio linguaglossa_Dopo il NovecentoLinguaglossa sottolinea anzitutto che nulla è neutro: le scelte rivelano rapporti di potere
; ma soprattutto le esclusioni (anche eccellenti) degli isolati, dei periferici, dei non integrabili (ad es. Flaiano, Ripellino, Lorenzo Calogero):

«(…) le istituzioni stilistiche egemoni del Novecento appaiono nudamente quali sono: involucri ideologico-stilistici, tralicci ideocratici che proteggono, sotto il loro tegumento, visioni del mondo conservatrici          (…) come mai poeti di tutto rispetto come Lorenzo Calogero, Alfredo De Palchi, Helle Busacca, Bartolo Cattafi, Franco Fortini, Angelo Maria Ripellino sono entrati così presto nel dimenticatoio? Quali sono le ragioni politico-estetiche che determinano amnesie così macroscopiche?» (Linguaglossa, op. cit, p. 11)

Ci si scontra qui con i problemi stessi – a livello di metodologia – della storicizzazione tout court. In che conto si tiene, storicizzando la poesia italiana del secondo ‘900, la dialettica fra quadro e cornice? Il rapporto fra centro e periferia? La differenza tra monumento e documento?  Ai “cadaveri eccellenti” accidentalmente o volutamente esclusi corrispondono infatti, a mo’ di contraltari, i “monumenti intoccabili” della storia istituzionale. In gioco c’è da sempre, come sempre, la presupposizione del “nome” acquisito. Il pregiudizio positivo o negativo. Sarebbe curioso procedere ad un esperimento: a chi darebbe la palma del valore letterario un critico letterario “ufficiale” (cioè sensibile ai rapporti di potere) se gli facessimo leggere un presunto inedito mediocre di autore celebre, e un inedito eccellente di autore sconosciuto? Posto che non la conoscesse, che cosa direbbe – lo stesso critico – dopo aver letto, ad esempio, questa “poesia”? Continua a leggere

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LA CENSURA DI NATALE – TRASCRIZIONE DI UN RECENTE SCAMBIO DI COMMENTI TRA GIORGIO LINGUAGLOSSA E LA SIGNORA CLAUDIA CROCCO SUL SITO “LE PAROLE E LE COSE” CON CONSEGUENTE CENSURA DELLE IDEE RITENUTE NON “PERTINENTI” ALL’ARGOMENTO

 Si trascrive per i lettori del blog un recente scambio di commenti tra Giorgio Linguaglossa e la signora Claudia Crocco sul sito “le parole e le cose” a proposito di un articolo della Crocco sulla poesia contemporanea. Crediamo sia interessante il modo con il quale la Crocco e la redazione del sito si siano sottratti a rispondere alle obiezioni di fondo espresse da Linguaglossa operando una censura delle idee, indice, non solo di debolezza teorica, arroganza e  presunzione, ma anche di incapacità ad accettare il terreno di un approfondimento critico delle questioni di poetica poste.

LA CENSURA DI NATALE

Giorgio Linguaglossa al Mangiaparole, Roma 2013

Giorgio Linguaglossa al Mangiaparole, Roma 2013

 giorgio linguaglossa

  1. 20 dicembre 2014 a 14:01

Pur apprezzando lo sforzo dell’autrice dell’articolo, mi chiedo: come si fa a dedurre delle linee generali di sviluppo della poesia italiana contemporanea se si parte da due libri di ragazzi, lasciatemelo dire, molto modesti; davvero, lasciamo almeno maturare un po’ questi ragazzi e non affibbiamo loro delle responsabilità eccessive. I testi riportati sono più che eloquenti intorno al loro modesto bagaglio tecnico e maturità espressiva. Ci sono autori contemporanei di maggiore livello estetico da prendere in considerazione sui quali costruire un discorso critico, credo.

  1. Gabriele Fratini
    21 dicembre 2014 a 18:56

Se posso chiederti, Giorgio, quali sono? Tu da chi partiresti? Un saluto.

  1. giorgio linguaglossa
    21 dicembre 2014 a 21:02

Gentile Gabriele Fratini,

in generale sono restio a fare dei nomi di autori di poesia contemporanei, chi ha curiosità in tal senso può rovistare nel blog lombradelleparole.wordpress.com che faccio con altri autori, ma certo una cosa va detta: è da molti anni che non vedo in giro un autore giovane (diciamo 30 o 40 anni) che abbia maturato una propria maturità espressiva, tutti più o meno scrivono in un buon italiano medio, mediamente coltivato; io cercherei invece in autori più anziani i quali hanno avuto il tempo di metabolizzare il mondo molto complesso di oggi. Potrei fare due nomi di poetesse morte: Giorgia Stecher con Altre foto per album (1996) e morta nello stesso anno e Maria Rosaria Madonna autrice di un unico libro Stige (1992) e morta nel 2002. Tra i vivi io direi Anna Ventura, autrice che ha iniziato nel 1978 e che ha stampato quest’anno una Antologia Tu quoque (1978-2013) e, tra gli uomini, Roberto Bertoldo (che è anche filosofo) autore di alcuni pregevoli libri, Steven Grieco e Luigi Manzi. Ma, al di là dei nomi, mi sembra che la direzione di sviluppo della poesia italiana del tardo Novecento e di questi ultimi anni sia quella che io ho sintetizzato nella formula “Dalla lirica al discorso poetico” nel mio omonimo lavoro critico “Storia della poesia italiana (1945-2012) stampato con EdiLet di Roma . Il discorso critico sulla poesia italiana di questi ultimi decenni è ovviamente molto complesso e non può certo essere riassunto qui in poche righe, chi è interessato alla problematica della poesia contemporanea può consultare il blog sul quale scrivo.
Cordiali saluti

  1. Gabriele Fratini
    22 dicembre 2014 a 00:23

Grazie Giorgio Linguaglossa, leggerò ciò che trovo di questi autori, e il suo blog. Sono interessato ad approfondire. Tra lei e Claudia Crocco mi avete fornito molto materiale da leggere. Buone feste.

francesca diano

Francesca Diano

  1. giorgio linguaglossa
    22 dicembre 2014 a 09:58

Gentile Gabriele Fratini,

trascrivo un mio commento fatto sull’ombra delle parole del 25 maggio 2014 alle 16.11=

«Sono particolarmente contento della qualità delle poesie di questo post: Antonio Sagredo, Annamaria De Pietro, Francesca Diano e Donatella Costantina Giancaspero ci offrono un tipo di poesia che si allontana e di molto dalla poesia che oggi va di moda un po’ troppo facile e, diciamolo pure, abbastanza scontata che tratta il “quotidiano” e il “privato”. L’intento dell’Ombra delle Parole è appunto quello di mostrare che c’è un altro tipo di poesia, che tratta tematiche e non tematismi, che ri-adotta le tematiche eterne, ad esempio quelle del rapporto che lega l’uomo contemporaneo con il Potere, e quella che tenta di decifrare(e leggere) in modo nuovo il Mito (e non usarlo in modo parassitario per abbellire una composizione).
Sono convinto che la scelta di un “tema” diverso è già in sé un atto ESTETICO e POLITICO, di contro all’omologismo che invade le scritture poetiche parassitarie che non pensano neanche a mettere in discussione i propri assunti di partenza. Per fare una poesia diversa bisogna prima pensarla, averla pensata lungamente; è fin troppo facile fare poesia di seconda mano, diciamo assumere come dato di fatto la “secondarietà” come un assioma basandosi sull’assunto che tanto il Novecento ha già detto tutto e che non c’è niente di nuovo a dirsi e a farsi. E allora, occorre dirlo in modo netto..e chiaro: c’è oggi in Italia chi fa, con ottimi risultati una poesia che non assume la “secondarietà” come dogma inconfutabile. La “secondarietà” si confuta da sola: chi continua a scrivere in continuità con la linea discendente di una tradizione che non c’è più tradisce soltanto il buon senso oltre che la logica elementare del pensiero.
È oggi possibile scrivere una poesia che non ricalca parassitariamente le orme di quella passata».

  1. Gabriele Fratini
    22 dicembre 2014 a 13:34

Sì grazie Giorgio lo avevo letto e sono abbastanza d’accordo. Ho lasciato un commento. Sto visitando anche il suo sito

Czesław Miłosz

Czesław Miłosz

  1. giorgio linguaglossa
    22 dicembre 2014 a 14:59

Vorrei iniziare con un riferimento ad Adorno tratto da Dialettica negativa, e precisamente nel capitolo dove il filosofo tedesco dichiara che dopo Auschwitz un sentire si oppone a ciò che prima del genocidio si esprimeva tramite il senso. E aggiungeva che nessuna parola con tono pontificante, quand’anche parola teologica, ha legittimità dopo Auschwitz. Come sappiamo, il filosofo tedesco assegna al genocidio di massa un valore radicale, e lo cita come rovina del senso. Il senso della storia ci conduce a questo: nel riconoscere che non c’è alcun senso della storia, se diamo al termine il valore di razionalità nella accezione invalsa da Hegel in poi: che «il reale è razionale», che c’è una spiegazione per ogni aspetto del reale, anche per le cose apparentemente insignificanti, minime, che anch’esse rientrano nel disegno di organizzazione universale dello Spirito del mondo e nel disegno razionale. Per il pensiero liberale la Storia ha una sua direzione proiettata verso il futuro nella forma del progresso e della civilizzazione etc., la storia ha una sua direzionalità pregna di senso etc. Ma dopo due guerre mondiali e la guerra fredda non si può più formulare un pensiero come questo. Per Adorno dopo Auschwitz non si può più scrivere poesia. E invece i fatti hanno dimostrato non solo che dopo Auschwitz si può ancora scrivere poesia ma che anzi oggi assistiamo ad un vero e proprio diluvio di poesia di tutti i tipi, elegiaca, iconica, concettuale, sperimentale, del quotidiano, mitologica, giocosa etc.

Adam Zagajewski

Adam Zagajewski

La storia sembra andare verso l’implosione piuttosto che verso il suo ripiegamento, verso la demoltiplicazione piuttosto che verso il dimidiamento. Ma la Poesia ha coscienza di questa negatività?, la Poesia ha coscienza di questo de-moltiplicatore?. Ma è una negatività senza impiego, senza contraltare, una negatività che permette soltanto la finzione, l’allestimento di un palcoscenico vuoto. Al posto dell’impegno è subentrato il disimpegno, al posto del negativo è subentrato il post-negativo; le ipertrofie, le faglie, le erosioni, le citazioni, i rimandi, i percorsi sotterranei del senso diventano i veri protagonisti della poesia, diciamo, del post-negativo. La poesia ironica e scettico-urbana del post-negativo si muove in questa topografia assiale delle rovine (del linguaggio e del senso); si muove, con eleganza e ironia magari, in questa topografia delle rovine (con una tipografia delle rovina!); si trastulla sfoderando le risorse antiche del plurilinguaggio, esibendo l’abilità del rhetoricoeur, nell’improvvisare paronomasie, omofonie ed anafore, corto circuiti tra suono e senso, tra citazione e citazione; mima un senso plausibile ed effimero per poi subito dopo negarlo e de-negarlo ammiccando alla impossibilità per la poesia di prendere la parola, di parlare facendosi schermo dei famosi versi di Montale: «Solo questo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo ciò che non vogliamo».

  1. Claudia Crocco
    22 dicembre 2014 a 17:23

@Giorgio Linguaglossa
Non deduco linee generali a partire da due libri: mi pare che il mio discorso sia un po’ più ampio, e che vengano tirate in ballo altre opere. Inoltre, cosa le fa pensare che io non abbia costruito discorsi critici su autori (e periodi) diversi altrove?
Mi fa piacere che abbia avuto modo di esprimere la sua opinione e di segnalare il suo sito. Da ora in poi, però, verranno approvati soltanto commenti in cui si discute il post.

  1. giorgio linguaglossa
    22 dicembre 2014 a 17:42

gentile Claudia Crocco,

le faccio presente che mi sono limitato a rispondere alla domanda di Gabriele Fratini. Peraltro, la mia riflessione era intesa ad approfondire e ampliare il discorso da lei avviato. Ritengo che avviare un discorso critico parallelo a partire dal suo post sia utile e interessante per chi voglia capire di che cosa si sta parlando. Forse lei intende la riflessione come un semplice commento interpolazione al suo testo, io invece ho un’altra idea del dibattito critico che credo debba essere una agorà dove si confrontano le tesi e non un luogo dove si emettono dei silenziatori.

  1. Claudia Crocco
    22 dicembre 2014 a 17:49

Gentile Giorgio Linguaglossa,

se avessi voluto mettere dei silenziatori e non dare vita a un dibattito critico, non avrei approvato giudizi negativi sul mio saggio (un paio dei primi). E non avrei approvato cinque suoi commenti, nei quali il discorso critico si basa solo su citazioni da suoi testi (con l’eccezione di Adorno) e dal suo sito. Mi creda, non ho intenzioni censorie.
Mi pare che lei abbia anche risposto a Fratini e che nessuno lo abbia impedito.
Non vedo molta volontà di confronto, però, da parte sua.

Saluti,

C.

Peter Sloterdijk

Peter Sloterdijk

  1. giorgio linguaglossa
    22 dicembre 2014 a 19:27

gentile Claudia Crocco,

comprendo perfettamente che il suo angolo visuale parte dall’esame di due autori della generazione degli anni Ottanta (la sua medesima) per valorizzarne il lavoro, forse è giusto così, ognuno parte dalla cognizione dei propri interessi, il suo lavoro interpretativo è utile, ma necessariamente parziale, e, per rispetto del suo impegno, non sono entrato a contestare o dimidiare il suo articolo o parti del suo articolo, che va bene così, ha dato il suo contributo critico a una serie di problemi veramente vasti e complessi. Però, suvvia, sia concesso anche all’interlocutore di turno di ampliare l’orizzonte del discorso anche a chi utilizza altre categorie di pensiero critico, non si richiuda a riccio entro il proprio recinto, da parte mia non c’è alcuna intenzione paternalistica ma chiedo che da parte sua neanche ci sia una intenzione censoria.

  1. Claudia Crocco
    23 dicembre 2014 a 00:34

Gentile Giorgio Linguaglossa,

e invece si sbaglia. Parlo di due libri di miei coetanei, è vero, ma poi il discorso diventa più ampio, e altre opere vengono coinvolte. D’altronde, il Novecento è pieno di critici che compiono (senz’altro meglio di me, certo) la stessa operazione. Non penso affatto che parlare di opere della mia generazione sia limitante, né che conduca a usare categorie ristrette. Al contrario, mi sforzo di usare categorie che siano in continuità con la storiografia della poesia che ho studiato, e allo stesso tempo adeguate a ciò che si scrive oggi. Non so quanto mi riesca; però rifiuto del tutto il suo commento generico, superficiale, e paternalista. Ben venga qualsiasi commento puntuale, anche brusco, ma basta con questo tronfio tono condiscendente. Mi faccia pure le pulci, se vuole: you are welcome. Non approverò più commenti autoreferenziali in cui, per “ampliare gli orizzonti”, sponsorizza solo le sue opere e il suo sito.

Saluti,

C.

  1. giorgio linguaglossa
    23 dicembre 2014 a 10:15

gentile Claudia Crocco,

mi creda, lo ripeto, non sono entrato dentro la sua argomentazione critica non per snobismo o per (come lei mi accusa) paternalismo, ma perché i problemi sono veramente molto complessi i cui nodi si possono rintracciare (se li si vuole risolvere) ben prima della generazione degli anni Ottanta, e precisamente agli inizi degli anni Settanta. Prendiamo ad esempio l’opera del maggior poeta italiano del Novecento: Eugenio Montale. Partiamo da lì.

franco fortini

franco fortini

Dopo Composita solvantur (1995) di Franco Fortini, la poesia diventa sempre più piccolo borghese: si democraticizza, impiega una facile paratassi, la proposizione si disarticola e si polverizza, diventa semplice insieme di sintagmi molecolari; si risparmia, si economizza sui frustoli, sui ritagli, sui resti del senso (un senso implausibile ed effimero), si scommette sul vuoto (che si apre tra gli spezzoni, i frantumi di lessemi, di sillabe e di monemi). Subito si spalanca davanti al lettore il «vuoto», la cosa fatta di vuoto, l’«assenza» (non più inquietante ma anzi rassicurante!), la «traccia»; il poeta oscilla tra una lingua che ha dimenticato l’Origine e ha de-negato qualsiasi origine, tra la citazione culta e la de-negazione della citazione. Il poeta deve produrre «valore»? Se così stanno le cose la poesia si accostuma all’andazzo medio, fa finta di produrre «senso» e «valore», ma produce soltanto vuoto, flatulenza di frasari distassici, combusti allegramente, per ri-usarli nell’economia stilistica imposta dalla dismetria dell’epoca della stagnazione e della recessione. Si profila la Grande Crisi che ha prodotto gli ultimi tre decenni di «vuoto» della forma-poesia (altro concetto dimenticato)!. Che cosa si intende oggi per forma-poesia? Che cosa si intende per dismetria? Che cosa è rimasto dell’economia dello spreco e dello sperpero, delle neoavanguardie e delle post-avanguardie agghindate, traumatizzate e tranquillizzanti?.

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

La poesia non ritiene più indispensabile cercare di edificare su Fondamenta solide, equivoca, prende l’abbaglio di credere che si possa costruire su Fondamenta instabili o, addirittura, sulla mancanza di Fondamenta. La poesia italiana contemporanea sembra aver perso energie, non crede più possibile ricreare le coordinate e le condizioni culturali per una poesia che voglia comunicare con parole «nuove» al pubblico (e poi: quali parole?, quale vocabolario?). La poesia parla del non-senso?, del senso?, del vuoto tra le parole?, del vuoto dopo le parole?, del vuoto prima delle parole?. Si ha l’impressione di una gran confusione. Ma qui siamo ancora all’interno delle poetiche della protesta e del disincanto del tardo Novecento!. La poesia ironica?, la poesia giocosa?, il ritorno all’elegia?, la poesia come battuta di spirito?, la poesia degli oggetti?, la poesia del mito?; il campo appare disseminato di mine, è un campo minato di rovine del pensiero. È vero?, dobbiamo credere ai pessimi maestri che ci hanno detto queste cose?, che il mondo è incomprensibile e altre sciocchezze?, e che la poesia si deve adeguare all’indirizzo medio e ai gusti di un medio pubblico mediamente acculturato?. La poesia tenta allora di orientarsi tra gli smottamenti, le faglie, i deragliamenti del senso, le deviazioni accidentali, con la dismetria dell’ironia, affonda il periscopio nel terreno della materia combusta, dei materiali esausti, degli isotopi delle parole decadute, dei detriti per riutilizzarli in una composizione emulsionata e cementificata. È questo il suo limite e il suo destino. È questo il suo télos.

Mauro Bonaventura sphere_red_man_giant

Mauro Bonaventura sphere_red_man_giant

C’è una gran confusione, una «dissolvenza» di tutti i concetti «forti», «solidi». Qualcuno dice di preferire ciò che è «liquido», «leggero», che la «leggerezza» è una virtù; qualcun altro dice di adottare il «quotidiano», il «privato»; qualcun altro sostiene di voler adottare il linguaggio della comunicazione, e così via; ho il sospetto che si tratti di comodi alibi per non affrontare di petto quella cosa che abbiamo davanti: la Grande Crisi della poesia italiana. Si dice che non si dà più alcuna certezza, nessuno è così sciocco da investire né sulla «leggerezza», né sulla «pesantezza». E il poeta?. Qualcuno dice che il poeta non ha nessun salvagente cui aggrapparsi, nessuna ancora cui legarsi, nessun punto di vista da difendere, e che è costretto a fare poesia «turistica», da intrattenimento, poesia da bar; appunto, c’è chi difende il turismo intellettuale: la chatpoetry quale parente stretta della videochat; c’è chi prova a fare poesia con il linguaggio dei cellulari. Si va per iniezioni, tentativi inconsulti; e la poesia diventa molto simile ad una attività approssimativa che scimmiotta i linguaggi telemediatici.

eugenio montale e il picchio

eugenio montale e il picchio

Oggi va di moda

Oggi va di moda porre un referenzialismo che poggia sullo zoccolo duro del linguaggio quotidiano e/o scientifico, con in più l’idea che le frasi-proposizioni esistano isolatamente e siano intellegibili in sé sulla base di una interpretazione interna; dall’altro, un anti-referenzialismo che parte dal discorso, (anche da quello di finzione come il discorso poetico), dalla letteralizzazione delle proposizioni, si procede sulla strada della de-metaforizzazione. Così è nato il mito che il senso estetico dipendesse da un massimo di referenzialismo del quotidiano. Dopo “Satura” (1971), l’opposizione fra il letterale e quotidiano (Montale) e il figurato (Fortini) sarebbe stata una falsa opposizione, nel senso che tutta la poesia italiana si è avviata nel piano inclinato e nel collo di bottiglia di un quotidiano acritico e acrilico. Da ciò ne è risultato che dalla poesia italiana è stata espulsa la metaforizzazione di base, il metaforico e il simbolico con le funeste conseguenze che sappiamo. Così, oggi, un poeta di livello estetico superiore come Maria Rosaria Madonna che poggia la sua poesia su una potente metaforizzazione di base, risulta quasi incomprensibile (almeno a chi è abituato al modello segmentale del verso lineare). Certo, la poesia di Helle Busacca come quella di Madonna (parlo di due poetesse ormai defunte) è irriducibile a quel piano inclinato che avrebbe portato la poesia all’abbraccio con la piccola borghesia del Medio Ceto Mediatico.

calvino e pasolini

calvino e pasolini

Riguardo a Pier Vincenzo Mengaldo

Riguardo alla affermazione di Mengaldo secondo il quale Montale si avvicina «alla teologia esistenziale negativa, in particolare protestante» e che smarrimento e mancanza sarebbero una metafora di Dio, mi permetto di prendere le distanze. «Dio» non c’entra affatto con la poesia di Montale, per fortuna. Il problema è un altro, e precisamente, quello della Metafisica negativa. Il ripiegamento su di sé della metafisica (del primo Montale e della lettura della poesia che ne aveva dato Heidegger) è l’ammissione (indiretta) di uno scacco discorsivo che condurrà, alla lunga, alla rinuncia e allo scetticismo. Metafisica negativa, dunque nichilismo. Sarà questa appunto l’altra via assunta dalla riflessione filosofica e poetica del secondo Novecento che è confluita nel positivismo. Il positivismo sarà stato anche un pensiero della «crisi», crisi interna alla filosofia e crisi interna alla poesia. Di qui la positivizzazione del filosofico e del poetico. Di qui la difficoltà del filosofare e del fare «poesia». La poesia del secondo Montale si muoverà in questa orbita: sarà una modalizzazione del «vuoto» e della rinuncia a parlare, la «balbuzie» e il «mezzo parlare» saranno gli stilemi di base della poesia da «Satura» in poi. Montale prende atto della fine dei Fondamenti (in questo segna un vantaggio rispetto a Fortini il quale invece ai Fondamenti ci crede eccome!) e prosegue attraverso una poesia «debole», prosaica, diaristica, cronachistica, occasionale. Montale è anche lui corresponsabile della parabola discendente in chiave epigonica della poesia italiana del secondo Novecento, si ferma ad un agnosticismo-scetticismo mediante i quali vuole porsi al riparo dalle intemperie della Storia e dei suoi conflitti (anche stilistici), adotta una «positivizzazione stilistica» che lo porterà ad una poesia sempre più «debole» e scettica, a quel mezzo parlare dell’età tarda. Montale non apre, chiude. E chi non l’ha capito ha continuato a fare una poesia «debole», a, come dice Mengaldo, continuare a «de-metaforizzare» il proprio linguaggio poetico.

martin heidegger nel bosco ala fontana

martin heidegger nel bosco ala fontana

Quello che Mengaldo apprezza della poesia di Montale: «il processo di de-metaforizzazione, di razionalizzazione e scioglimento analitico della metafora», è proprio il motivo della mia presa di distanze da Montale. Montale, non diversamente dal Pasolini di Trasumanar e organizzar (1968), da Giovanni Giudici con La vita in versi e da Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965), era il più rappresentativo poeta dell’epoca ma non possedeva la caratura del teorico. Critico raffinatissimo, privo però di copertura filosofica, Montale aveva terrore della cultura di massa del Ceto Mediatico. Montale ha in orrore la massificazione della comunicazione. Vicino in ciò ad alcuni filosofi esistenzialisti o di estrazione esistenzialista (come Heidegger o Husserl) i quali sostenevano che l’uomo moderno vive nella ciarla, nel mondo del «si» ed quindi confinato nella inautenticità, sommerso dalla straordinaria quantità di messaggi che lo bersagliano, il poeta ligure vede in questa condizione il dissolvimento ultimo del linguaggio (e del linguaggio poetico) come strumento della comunicazione. L’idea è quella che ogni tipo di rapporto linguistico sia costretto a realizzarsi in presenza di un fortissimo rumore di fondo, che sovrasta la parola, la distorce e la rende infine un segno non più idoneo alla comunicazione. La poesia è un atto linguistico, storicamente determinato, nel senso che risente, come qualsiasi atto umano, delle condizioni di civiltà nelle quali si manifesta. Di qui il pericolo incombente che la perdita di senso afferisca anche al linguaggio della poesia.

edmund husserl

edmund husserl

Montale compie il gesto decisivo, pur con tutte le cautele del caso apre le porte della poesia italiana a quel processo che porterà alla de-fondamentalizzazione del discorso poetico. Con questo atto non solo compie una legittimazione indiretta e inconsapevole dei linguaggi dell’impero mediatico che erano alle porte, ma legittima una forma-poesia che inglobi la ciarla, la chiacchiera, il lapsus, la parola interrotta, la cultura dello scetticismo, la disillusione elevata a sistema, a ideologia. Autorizza il rompete le righe e il si salvi chi può. La forma-poesia andrà progressivamente a pezzi. E gli esiti ultimi di questo comportamento agnostico sono ormai sotto i nostri occhi.
Il problema principale che Montale si guardò bene dall’affrontare ma che anzi con la sua autorità approvò, era quello della positivizzazione del discorso poetico e della sua modellizzazione in chiave diaristica e occasionale. La poesia in forma di elettrodomestico, la poesia in sotto tono, quasi nascosta, in sordina. Qui sì che Montale ha fatto scuola!, ma la interminabile schiera di epigoni creata da quell’atto di lavarsi le mani era (ed è) un prodotto, in definitiva, di quella resa alla «rivoluzione» del Ceto Medio Mediatico come poi si è configurata in Italia.

25 dicembre ore 10,00

Claudia Crocco

@Giorgio Linguaglossa.

Intervengo un’ultima volta per dirle due cose:

1) il suo commento esprime molta presunzione. Questo sito dà spesso attenzione a poeti di valore, e di recente ha pubblicato svariate cose su Fortini. Non mi pare che lei sia l’unico a occuparsi in modo serio di poesia contemporanea, come sembra suggerire qui.

2) Non approverò più commenti di questo tipo.

Saluti,

C.

 

helmut newton nudo in un interno

helmut newton nudo in un interno

25 dicembre ore 10.30

 Giorgio Linguaglossa

 gentile Claudia Crocco,

 lei è arrivata al dunque: con tono intimidatorio dichiara che censurerà (“non approverò”) ogni altro mio intervento “di questo tipo”, sottraendosi così al dialogo e all’approfondimento delle questioni estetiche che avevo posto con il mio contributo. Le faccio presente che io non ho espresso pareri irriguardosi o, come lei scrive, “Presuntuosi” nei confronti del suo articolo, anzi, ho scritto che andava bene ma che occorreva ampliare la riflessione sulla crisi della poesia e retrodatarla agli inizi degli anni Settanta. A questa mia legittima obiezione lei non ha risposto. Le ricordo che è lei l’autrice dell’articolo e se un interlocutore le pone una questione (fondata o infondata) è lei che deve rispondere con un approfondimento o una precisazione. Il suo  diniego a fornire alcuna risposta è indice di un atteggiamento sprezzante e irriguardoso non soltanto nei miei confronti (che avevo posto la questione) ma nei confronti di tutti i lettori del blog.

Chiedo infine alla redazione del sito se è lei che può decidere di censurare una discussione o se, invece, questo compito spetti alla Direzione del sito.

E questa è una domanda che pongo alla Direzione del sito, che, spero, non vorrà sottrarsi alla mia legittima richiesta. Preciso, inoltre, che anch’io sono direttore di un blog e che non ho mai censurato nessuno tranne commenti che sfioravano il codice penale con frasari offensivi o diffamatori.

cordialità. Giorgio Linguaglossa

Risposta della redazione del sito.

@Linguaglossa

  1. a) Come sempre, la moderazione del post spetta a chi lo pubblica. In questo caso, a Claudia Crocco.
  2. b) L’autore del post non “deve” rispondere a un bel nulla. Se vuole risponde, altrimenti no. In generale, si ha voglia di rispondere a obiezioni intelligenti, pertinenti e formulate in modo sintetico e rispettoso. Si ha meno voglia di rispondere a obiezioni autoreferenziali, verbose e palesemente fuori tema. Quando poi le obiezioni paiono servire soltanto a spostare l’attenzione di tutti sull’ego di chi le formula, la voglia di rispondere – o anche solo di leggere – rischia di sparire del tutto. Ci pensi.

(gs)

100 commenti

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