Archivi tag: frammenti

Poesie kitchen di Alfonso Cataldi, Mario M. Gabriele, Il non-stile cosmopolitico dei giorni nostri annuncia e prefigura nella sua essenza fatta di tortile pieno la grande metastasi che è già avvenuta e sta avvenendo, La metafisica dello stile presuppone sempre una metafisica dei costumi, La disperazione e l’angoscia sono le ultime ideologie, utilissime ai fini dell’autoconservazione. Le cose si irrigidiscono in frammenti di ciò che è stato soggiogato, Aforismi di Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson, collage

 
Marie Laure Colasson Notturno 9 collage 30x25 cm 2007
Marie Laure Colasson, collage 30×30 cm, 2007
La speranza, l’ultima ideologia del mondo amministrato

 
.
Aforismi sull’arte
di Giorgio Linguaglossa
 
La vita che si mantiene in vita per la vita della produzione e il consumo si tramuta in contraffazione della vita quale essa veramente è; ma è vero anche il contrario: che chi cerca un senso da dare alla vita o un non-senso, si mantiene nell’orbita della speranza, ultima ideologia del mondo amministrato per chi non ha più speranza e si illude con lo specchietto retrovisore della speranza.
 
L’arte si mantiene in vita fin quando rilascia certificati di buona condotta e dichiara senza vergognarsi il principio dell’autoconservazione quale regolo base del consorzio civile.
 
Non c’è speranza di salvezza dall’autoconservazione se non nell’abbandono senza riserve di ciò che deve essere lasciato cadere.
 
Non c’è alcuna ragione di produrre un libro in più o in meno, soltanto un libro necessario ha diritto all’esistenza. Ma anche l’esistenza degli uomini non ha alcun diritto che la garantisca perché non c’è alcun libro che la dice.
 
Il concetto di intelligibile resta una aporia. Così il concetto di necessità. Non si dà alcuna ragione veramente necessaria. È necessario soltanto il vuoto. È per questo che noi realizziamo una poetica del vuoto.
 
Lo Jugendstil dei primi anni del novecento suppone e prefigura nella sua essenza fatta di tortile vuoto la grande strage che sta per avvenire.
 
Il senza-stile o stile cosmopolitico o stile globale dei giorni nostri, preannuncia e condensa in sé le leggi del mercato globale, del mercato unico. I tentativi di frapporre dazi e barriere allo svolgersi del mercato globale sono i colpi di coda del coccodrillo che mastica le sue prede con lacrime da coccodrillo.
 
Il non-stile cosmopolitico dei giorni nostri annuncia e prefigura nella sua essenza fatta di tortile pieno la grande metastasi che è già avvenuta e sta avvenendo.
 
La metafisica dello stile presuppone sempre una metafisica dei costumi.
 
La falsità dell’ontologia sta nella dimostrazione ontologica dell’esistenza o inesistenza di Dio. La vera questione risiede invece nella esistenza, o meglio, nella non esistenza degli uomini.
 
La bancarotta dell’ontologia sta in coloro che la ritengono un rapporto paritario tra il credito e il debito.
 
Una volta che sia stata fatta sloggiare dall’esistenza degli uomini la metafisica, si sta preparando per essi la bara dello spirito, subito seguita di frequente dalla bara degli uomini.
 
Gli uomini vivono sotto il totem di un sortilegio: che la vita abbia un senso o che non ne abbia alcuno. Il senso è un totem, e come tale esso viene venerato.
 
Pura immediatezza e feticismo sono ugualmente non veri.
 
Così anche la disperazione e l’angoscia sono le ultime ideologie, utilissime ai fini dell’autoconservazione.
Le cose si irrigidiscono in frammenti di ciò che è stato soggiogato.
 
La coscienza infelice è la costruzione di una coscienza falsa. Ma la coscienza falsa è sempre il prodotto di una coscienza infelice.
 
L’angoscia… perpetua il sortilegio come il freddo tra gli uomini. (Adorno)
Le epoche della felicità sono i suoi fogli vuoti. (Hegel)
Nessuno capace di amare e così ciascuno crede di essere amato troppo poco. (Adorno)
 
 

La perdita delle case intermedie
di Alfonso Cataldi

… dalla forma indefinita di titoli e cognomi.

La ragazza con la valigia porterà comunque il vestito di paillettes
lasciapassare non richiesto sul canotto alla deriva.

Nel dubbio, Maria pesca.
Equazioni tra le nuvole.

Una mattina si è svegliata e si è chiusa nell’armadio.
ha partorito l’incendio delle case intermedie.

**

Settecento grammi di neuroni impoveriti e la frittata è fatta
– quanto il nocciolo della bomba sganciata su Hiroshima –

“Come? Usavo il tegame o la padella?
Meglio il fuoco grande o quello medio?”

Con chi non sa o non ricorda, gli agenti della CIA non si perdono d’animo
ricorrono al waterboarding.

“Confesso, l’ho ucciso tirandogli dietro un ombrello
nel giorno in cui la pioggia ha cancellato le coordinate.

ma è una tortura perdere le terre rare dentro di noi
ancora prima che sotto di noi”.

**

Dove si confermano le vicissitudini del mondo?
Non lo so, ma lei è stata cancellata da tempo

da qualunque parte si guardi
Giacomo sei pronto per il primo giorno di scuola?

No, non ce la farò, risponderò cose a caso
tipo che dodici più dodici fa trenta.

Da grande vuole fare il tipografo
Dice che non combacia più nessun carattere

attorno al cadavere ritrovato
la parola è sempre più lontana dalle immagini evocate.

**

Tu non puoi capire il cappottino rosso

La natura morta dentro il quadro clinico
si ripara con l’educazione solitaria.

«Tu non puoi capire il cappottino rosso
ce ne fossero di Jane Fonda, ce ne fossero state»

Il carabiniere al centro della scena indica l’eterno apparire del destino

«qui una volta era tutta campagna
le prove sono andate a ruba»

Le donne di Shamsia Hassani hanno atteso le macerie. Mélange
il tempo schiaccia le richieste del bonus di emergenza.

In alto mare, su qualche scrivania
all’INPS festeggiano con fuochi d’artificio e champagne

l’idoneità dei corpi stesi bene ad asciugare.

**

La ricerca non può dirsi chiusa

L’eventualità del disvelamento occipitale strappa la giacca agli eruditi
Pascal perde le equazioni strada facendo

La ricerca non può dirsi chiusa
la comunità locale è in subbuglio

«Tu che sembri serio e col green pass
hai voglia di voltare pagina all’organista?»

Anche a spingere, il diario di una schiappa non ci sta in un cruciverba.

Bartezzaghi allarga l’uno orizzontale
Bastasse far saltare gli schemi per ribaltare il risultato!

Greg, non quello di Lillo e Greg, proprio Greg la schiappa

è sempre dentro la performance e rischia una paresi
già gli antichi Egizi avevano inventato le cerniere.

L’arte per la poetry kitchen è ciò che si offre gastronomicamente, ma con segno invertito, alla delibazione e alla degustazione dei palati; ciò che si offre come delibazione, medaglia male appiccata sul petto, ornamento mal messo, si è convertito nel suo contrario. La poiesis kitchen si dà piuttosto come ciò che «chiude» la possibilità dell’aprirsi di mondi storico-destinali. La poesia kitchen è «chiusura» di mondi storico-destinali, ciò che si sottrae alle sirene dell’avanguardia e ciò che si sottrae alle malie di una retroguardia. È il «I prefer not to» di Bartleby di Melville ripetuto e reiterato all’infinito come possibilità dell’impossibile. Estrema ratio. È la nuova utopia del rifiuto assoluto e drastico, ad oltranza dei significati stabili e stabiliti.

La nuova fenomenologia della poiesis che chiamiamo poetry kitchen rientra nel mondo epocale del Ge-Schick dell’essere di cui parla Heidegger: non più apertura di mondi storico-destinali, non più apertura di epoche, non più inaugurazione di epoche storiche nelle quali si dà l’essere, non più il susseguirsi (tras-missione, Ueber-lieferung) di aperture, di epoche, non più come ciò che viene in presenza, ma come ciò che

viene in «chiusura» di un mondo storico-destinale, come inaugurazione della «chiusura». «Chiusura» che però non si dà mai come fine ma come tentativo di oltrepassamento del fine, tentativo di oltrepassamento della soglia del fine, e impossibilità di quell’oltrepassamento come superamento della metafisica della presenza e della luce che consente ed assicura quella luce. Quindi la fine della metafisica. In questo tragitto dovremo procedere con drasticità verso l’interminabile dissoluzione della presenza, che è il modo con cui si dà la presenza nell’orizzonte della metafisica, al di là della concezione metafisica del segno come ciò che «sta per» il significato, che tende a derubricare il segno scritto come ciò che sta per qualcosa che a sua volta sta per altro; procedere verso la liberazione del significante da ogni dipendenza che caratterizza oggi, nelle società mediatiche, la subordinazione del significante ai significati stabiliti dalla comunità.
È ovvio che qui stiamo parlando della fine dell’arte come rappresentazione e della fine della metafisica della presenza. La «casa dell’essere» non è più il linguaggio, l’essere ha sfrattato il linguaggio dalla sua casa-custodia e adesso se ne va a ramengo per il mondo non più mondo. Il linguaggio poetico come cristallizzazione e sedimentazione di opere classiche e iscrizione monumentale è diventato una bara, la tradizione si è allontanata dalla tradizione, ha preso congedo da essa ed è rimasta orfana di senso.

1 Un recentissimo studio di una agenzia internazionale ha verificato che durante la pandemia i ricchi si sono arricchiti mentre i poveri si sono impoveriti. E che 40 famiglie italiane detengono una ricchezza pari a 160 miliardi di euro. (certo, una flat tax, ove fosse attuabile, aumenterebbe a dismisura la ricchezza dei ricchissimi e impoverirebbe a dismisura i già poveri).

(Giorgio Linguaglossa)

2 G. Vattimo, Introduzione a La scrittura e la differenza di J. Derrida, Einaudi, 1971 XXIII.

inedito
di Mario Gabriele tratto da Horcrux

Che ne dici, Lucy, se ci fermiamo a trovare
la Signora Doran nella RSA?

E’ rimasta sola
dopo la morte di Andrea.

Lucy riaprì un discorso
sulla sostenibilità del ricordo.

Cose d’altri tempi, riferì Tom,
come il volume Screwtape letters di C.S. Lewis.

Un messaggio arrivò in WhatsApp
decodificabile con il sistema d’accesso.

Era un’anteprima di modelli Live Style,
non profit per il Continente Nero
sostenuto da Goldman Sachs.

La storia su Romeo e Giulietta
era ancora nelle mani dell’MI5, dopo la Sars-CoV2.

Mi sembra che i libri abbiano storie diverse
rispetto ai social network.

-E’ una Lobby Time- disse Mike Jordan
che dal backstage aveva un occhio
per il Big Management.

Ma guarda come ti sei ridotta Lucy!
Ora chi vuol sentire Donna Joel?

Non basteranno le sutures cutanées
per essere la cover di Playlist
con gli scatti di Sebastião Salgado
su mondi estremi e biodiversi.

Ti ricordi di Overland?
Perché te lo chiedo?
Erano tutte donne che puntavano
alla bellezza in copertina
tranne Kathy Bates,
diabolica femmina in Misery.

La nostra storia ha capitoli finiti.
Il futuro è sempre possibile
imitando Gli ultimi fuochi di Elia Kazan.

Giorgio Linguaglossa says:
agosto 26, 2021 at 5:42 pm

In the room the women come and go
Talking of Michelangelo.

.

Il significato letterale di questi versi di Eliot sembra chiaro benché al livello più profondo sembra sollevare altre questioni.
In “The Love Song of J. Alfred Prufrock, ” il verso “I have measured out my life with coffee spoons”, allude al personaggio Prufrock che ha dissipato il suo tempo e il suo talento in festicciole e nella abulia della everyday life.
Dissimilmente, le frasi di questa composizione di Mario Gabriele possono essere lette ad un livello di superficie e ad un livello più profondo… ma è come se ci fosse qualcosa che impedisse di raggiungere una qualche profondità di lettura, qualcosa che resiste e che non ci consente di adire ad un livello più profondo… quel qualcosa di insondabile che si nasconde nel nostro odierno modo di vita, quel nucleo fatto di cinismo e di misericordia posticcia, quel divagare a buon mercato, quello scetticismo miserabile e quella miserabile impenetrabilità della superficie che è la vera essenza della vittoria della falsa coscienza.
(Giorgio Linguaglossa)

Continua a leggere

28 commenti

Archiviato in poetry-kitchen, Senza categoria

Edith Dzieduszycka, Squarci, Racconti poetici, Progetto Cultura, 2018 pp. 180 € 12 – Loro, con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa e il Video del poemetto Traversata, voce recitante Pino Censi

 

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa del libro Squarci di Edith Dzieduszycka, Progetto Cultura, 2018 pp. 180 € 12

Questi tredici racconti poetici di Squarci sono fondati sulla catena metonimica, viaggiano sullo «spostamento» più che sulla «condensazione», vogliono andare al fondo della materia infiammabile che costituisce l’inconscio. Il linguaggio dell’inconscio è metonimico per eccellenza, ha una sua strategia per aggirare ed espungere le difese dell’io. Ma l’io reagisce, passa al contrattacco, inventa «una storia», «delle vite», afferra «frammenti»:

Inventare una storia
una vita
delle vite.
Afferrare frammenti
strappati rubati sfilati ad altri
altri inconsapevoli indifesi spogliati
privati della propria pelle
dal guscio protettivo
aperti sventrati esposti agli elementi.
Tutte emanazioni macerazioni carcasse
sbranate dal becco degli avvoltoi
dal dente delle iene
dalla bocca degli sparlatori
dall’indifferenza dei saggi
dal giudizio degli stolti.

L’io vuole raggiungere la domanda ultima, quella definitiva, ma si trova in scacco, non sa chi ha scritto quella «domanda», ed è costretto a capitolare. Con un tonfo:

Ecco.
Ci siamo.
Doveva finire così.
Era scritto che finisse così.
Scritto da chi?
Bella domanda…

Il primo racconto accenna a dei misteriosi «personaggi» che «si negavano con ostinazione», che «si mantenevano allo stato larvale… nascosti nella culla del possibile»; si dice chiaramente che sono dei «fantasmi», «ectoplasmi» che stanno «immobili fermi zitti/ invisibili senza voce/ senza forma né consistenza», che sperano «di passare inosservati», di sfuggire alla «trappola».

Nel secondo racconto c’è un personaggio femminile che «non riconosceva più sua madre […] Con quella voce di metallo arrugginito/ che le sgorgava dalle budella»; «sua madre voleva intaccare il magma… inventare storie sempre più terribili», «quello che cercava ed inseguiva/ le sfuggiva si ritraeva si allontanava/ risucchiato dalla nebbia».
Il personaggio di questi racconti è l’io colto nelle vicissitudini che comporta la stabilizzazione di una identità «la paura di non essere pronta / di mancare all’appuntamento/ arrivare presto arrivare tardi/ trovare strade sbarrate…». L’io si rivela essere un isolotto circondato dal magma pulsionale di un mare inospitale che vuole espungerlo, infirmarlo, dimidiarlo. La crisi dell’io è la crisi del Logos, crisi del linguaggio, inadeguatezza del linguaggio a identificare le «cose», inadeguatezza dell’io ad identificare i suoi nemici, interni ed esterni, reali e fantasmati. Di qui la labirintite dell’io e il suo cedimento strutturale.

Nel terzo racconto la vecchia automobile Opel viene mandata dallo «sfasciacarrozze», da quel momento l’oggetto automobile viene internalizzato e prende la forma di un fantasma che ossessiona nel ricordo la mente della protagonista che passa da divagazione a divagazione, la catena metonimica che conduce l’io sull’orlo della follia… e compaiono «alcuni personaggi [che] attirano la mia attenzione», finché lungo il percorso da pendolare che il personaggio fa ogni giorno, incontra «un essere luminoso» con «lunghi capelli biondi fino alle spalle», non viene specificato il sesso di questo misterioso personaggio ma forse è un transgender in quanto per l’inconscio dell’ossessivo l’Altro non ha una identità sessuale ma soltanto una nominale, figurale. Ecco che l’Altro si ripresenta di nuovo, sul treno dei pendolari con «una grossa borsa di tela nera/ un astuccio da violino/ che non avevo notato la prima volta». Il racconto rimane in sospeso, viene interrotto nel punto più interessante quando il lettore vorrebbe saperne di più. Ma qui fa capolino l’ignoto, il mistero, l’insondabile.

Nel quarto racconto il protagonista è una «pagina immacolata/ sulla quale tutto diventa possibile/ dove tutto può succedere». «Ci sono i viziosi che si fanno le seghe/ e si masturbano sui sedili da soli o in coppia». E poi c’è Marta, la moglie del tassista protagonista, l’alter ego dell’io narrante, insipida e bigotta donna che castra le fantasie narrative del marito narrante. Il racconto va avanti fino a quando…
Nel quinto racconto, «Traversata», c’è una «porta» che si socchiude, e gli «erranti» vanno «tutti verso quel sogno». «Ombre sulla soglia./ Quattro./ Una per ognuno dei punti cardinali./ Ombre grigie silenti in attesa».

Cercavano un’uscita
una porta
una porta qualunque
alla quale bussare
una porta
socchiusa nella memoria.
Dietro la quale
impazienti
voraci
li aspettavano
dall’alba dei tempi
quattro Ombre grigie.

Nel sesto racconto, «Loro», la narrazione raggiunge il climax. I «fantasmi», gli «ectoplasmi», «Loro./ Impalpabili./ Inafferrabili./ Tu ne eri cosciente./ Sentivi che anche Loro/ sapevano/ che tu li percepivi». Qui la belligeranza tra l’io e l’inconscio raggiunge la massima intensità, l’ostilità diventa violentissima, rischia di travolgere la fragile impalcatura auto organizzatoria dell’io. «Tanti contro uno./ Loro contro di me./ I Titani in azione». Ma l’io ha un’arma segreta, segreta in quanto costituita da soldati inconsapevoli: «le mie Amazzoni e i miei Gladiatori/ fedeli e devoti/ pronti a buttarsi nel fuoco per me. Non sanno niente di Loro/ né delle mie battaglie contro di Loro./ E se per caso sanno fanno finta di niente/ ma rinserrano i ranghi/ perché hanno sempre capito/ che la mia sconfitta sarebbe anche la loro».

Il settimo racconto, «Genesi», troviamo l’io ridotto alla sua nudità autoreferenziale:

Sono io.
Solo all’interno di me stesso.
Perché?
Perché io ?
Perché ora ?
Perché qui ?
Non lo so.
Mai lo saprò.
Una cosa soltanto so.
Sono vivo.
Vivo.

Non c’è scampo per l’io che è costretto a girare a vuoto come una duchampiana macchina celibe, l’io che vive «all’interno di me stesso… nell’inferno di me stesso», non ha altri argomenti che chiedersi: «Perché tutto questo?».

L’ottavo racconto, «Desprofondis», narra dell’inarrestabile processo di cadaverizzazione dell’io. Scompare il tempo, scompare lo spazio. Ecco il finale:

Si spalancò
di fronte a lei
una porta gelatinosa
dietro alla quale regnava un nulla nero
accogliente.
Non fece in tempo a chiedersi
se si trattasse dell’inizio
o della fine di quel viaggio.
Insieme alle entità sconosciute
che l’avevano trascinata
posseduta
assorbita
digerita
scivolò via
senza neanche accorgersene.

Il racconto successivo, «Prisma», è la narrazione di una «orrida vertigine/ d’un sogno senza senso/ d’un pozzo senza fondo». Tutti i segmenti del racconto sono il resoconto stenografico di una discesa agli inferi, in un luogo senza fondo «trappola più del pozzo». Sono scomparsi anche gli «ectoplasmi» che inseguivano l’io, ormai l’io è braccato, assediato, costretto in un «pozzo» dalle pareti verticali. Sono scomparsi spazio e tempo.
Nel racconto che segue, «Ritorno», l’io è diventato una «bambina» che non distingue più «tra mito e realtà/ sogno e desideri/ fantasmi e ricordi», il tutto è un «mosaico sconnesso/ così inestricabile/ da non poterne più delimitare/ i punti d’intersezione». L’io «dava la mano a suo padre/ questo sconosciuto./ Sprofondava con lui/ nel cuore d’una foresta»; «un merlo nero dal becco giallo/ si alzava in volo un momento/ poi si posava di continuo/ per aspettarli e mostrare loro la strada».

Tutto a un tratto guardò lo sconosciuto.
E lui la guardò
facendo un passo verso di lei.
La sua mano era diventata enorme e grigia.
Sembrava l’ala spiegata di un uccello rapace.
Lei stava sull’orlo del precipizio
il piede reggendosi appena sulla terra cedevole.
Chiuse gli occhi e aspettò.

Rimase così.
Preda. Sospesa.
Vuota sul vuoto.
Un secondo
un secolo
un’eternità.

Nell’undicesimo racconto, «Piccolo», «niente di niente/ la storia si è fermata,/ inceppato il meccanismo», l’io è diventato un nano. Nel dodicesimo, una donna parla della sua vita:

Un marito l’ho avuto.
Tempo fa.
Non ricordo nemmeno quando esattamente.
Un essere tecnologico.
Non un uomo di scienza.
No.
Non ha niente a che vedere.
Un robot sarebbe più giusto come definizione.
Un robot amante dei robot.
Avrebbe dovuto sposare una bambola gonfiabile.

Siamo giunti al tredicesimo racconto: ormai è inutile interrogarsi, le domande si sono inaridite, inabissate. «La vera prima era prima./ Ma non ero in grado/ né di capire/ né di ricordare». Adesso il nodo inestricabile s’è sciolto. La soluzione è arrivata. Come sarà nella prossima vita?

Sarà come ci hanno insegnato?
Sarà tutto diverso?
Non sarà?

Se me lo chiedete gentilmente
forse verrò a raccontarvelo
una sera d’inverno…

https://youtu.be/t4rIzauiCjE

Il retro di copertina recita:

Questi  tredici racconti poetici di Squarci sono fondati sulla catena metonimica, viaggiano sullo «spostamento» più che sulla «condensazione», vogliono andare al fondo della materia infiammabile che costituisce l’inconscio. Il linguaggio dell’inconscio è metonimico per eccellenza, ha una sua strategia per aggirare ed espungere le difese dell’io. Ma l’io reagisce, passa al contrattacco, inventa «una storia», «delle vite», afferra «frammenti». L’io vuole raggiungere la domanda ultima, quella definitiva, ma si trova in scacco, non sa chi ha scritto quella «domanda», ed è costretto a capitolare. Il primo racconto accenna a dei misteriosi «personaggi» che «si negavano con ostinazione», che «si mantenevano allo stato larvale… nascosti nella culla del possibile»; si dice chiaramente che sono dei «fantasmi», «ectoplasmi» che stanno «immobili fermi zitti/ invisibili senza voce/ senza forma né consistenza», che sperano «di passare inosservati», di sfuggire alla «trappola». In questi soliloqui illocutori  di Edith Dzieduszycka la catastrofe annunciata non avviene mai, viene sempre prorogata. Con il che il discorso illocutorio riprende sempre di nuovo come il ritorno di un fantasma dell’inconscio, giacché è chiaro che i personaggi che qui «parlano», sono Figure dell’inconscio, Ombre dell’Es. La scrittura dell’inconscio è onirica, si situa tra la veglia e il sonno, nella scissura tra «senso» e «significato», in quella zona d’ombra in cui si può sviluppare un discorso finalmente «libero» sia dal senso che dal significato, libero dal sistema articolatorio dell’io. Il motto di Lacan: «Penso dove non sono e sono dove non penso»,  indica la zona occupata dall’Es e dall’inconscio.
Una poesia come questa di Edith Dzieduszycka e della «nuova ontologia estetica» non si può comprendere appieno senza tenere nel debito conto il ruolo centrale svolto dall’inconscio e dall’Es nella strutturazione del discorso poetico, un grandissimo ruolo è giocato dall’Es, dalla sua istanza linguistica effrattiva.

LORO

È ovvio.
Le cose non possono più andare in questo modo.
Devo prendere dei provvedimenti.
Devo correre ai ripari.
Proteggermi dagli attacchi concentrici
sempre più ravvicinati
che Loro stanno piano piano organizzando
per accerchiarmi
rovinarmi
annientarmi. Continua a leggere

15 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Nicola Vitale, Poesie scelte da Chilometri da casa, Lo Specchio, Mondadori, 2017, con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – Il post-moderno – Dopo il Moderno – La derealizzazione – La Lingua di relazione si è de-psicologizzata – La lingua anestetizzata di Nicola Vitale. I fondamenti ontologico-esistenziali della coscienza

Milano Quartiere Quarto Oggiaro

Milano, Quartiere Quarto Oggiaro, periferia nord, un condominio

 Nicola Vitale, poeta e pittore, è nato a Milano, dove vive, nel 1956. I suoi dipinti sono stati esposti in mostre personali e collettive, in gallerie private e spazi pubblici, in Italia, Svizzera, Stati Uniti e Islanda. È stato invitato alla 54° edizione della Biennale di Venezia, Padiglione Italia. Dal 1991 è docente dei corsi di pittura organizzati da Unicredit Milano. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: La città interna (1991), Progresso nelle nostre voci (1998), Finalista premio Gozzano 1998, La forma innocente (2001), Condominio delle sorprese (2008). È incluso nell’antologia Poeti italiani del secondo Novecento, a cura di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi (2004).

Giorgio Linguaglossa

 Il post-moderno

 non è affatto la riduzione di esso alle mode culturali, suo tratto distintivo è la tensione «di sottrarsi alla logica del superamento, dello sviluppo e dell’innovazione. Da questo punto di vista, esso corrisponde allo sforzo heideggeriano di preparare un pensiero post-metafisico»,1 chiosa Gianni Vattimo. Ma se la tecnica è la realizzazione della fine della metafisica, un pensiero post-metafisico ci conduce da subito alla critica dell’ideologia del «Progresso», del «nuovo» e di quelle istituzioni culturali che nel Novecento hanno svolto il ruolo di supplenza e di sostegno a questa ideologia.

Nell’odierno orizzonte culturale non c’è più una «filosofia della storia», così come non c’è più una «filosofia dell’arte». Con il tramonto del marxismo sono venute meno quelle esigenze del pensiero che pensa qualcosa d’altro fuori di se stesso, tutto il pensabile si trova all’interno del linguaggio, è sufficiente perlustrare il linguaggio, la «fodera dell’essere», come lo chiama Merleau Ponty. Quello che resta della destituzione dell’ontologia heideggeriana è un discorso sulla dissoluzione dell’Origine, del Fondamento, sulla dissoluzione della Storia, ridotta a storialità, sulla dissoluzione della narrazione, ridotta a narratura, ergo dissoluzione della Ragione narrante, che non ha ormai ben nulla da narrare che non sia stato narrato in abbondanza dalle emittenti televisive e mediatiche. In queste condizioni avviene anche la dissoluzione della forma-poesia, perché non si dà più alcuna ragione del «poetico», non c’è più certezza del «poetico», nessuna «garanzia» del suo territorio. È perfino ovvio quindi che in questo quadro problematico anche il discorso poetico venga attinto dalla dissoluzione della propria legislazione interna.

Oggi, il concetto di «contemporaneità», il concetto di «nuovo» sono qualcosa che sfugge da tutte le parti, non riesci ad acciuffarli che già sono  nel passato, legati all’attimo, sono già sfumati non appena li nominiamo. Penso che da questa situazione della condizione post-post-moderna si dovrà pur uscire prima o poi, si dovrà pur ricominciare a pensare in termini di discorso poetico per porlo stabilmente entro le coordinate della sua collocazione nel Dopo il Moderno.

Per Vattimo «si può dire probabilmente che l’esperienza post-moderna (e cioè, heideggerianamente, post-metafisica) della verità è un’esperienza estetica e retorica (…) riconoscere nell’esperienza estetica il modello dell’esperienza della verità significa anche accettare che questa ha a che fare con qualcosa di più che il puro e semplice senso comune, con dei “grumi” di senso più intensi dai quali soltanto può partire un discorso che non si limiti a duplicare l’esistente ma ritenga anche di poterlo criticare». 2

milano il naviglio pavese in secca e palazzi residenziali del quartiere barona alla periferia sud

milano, il naviglio pavese in secca e palazzi residenziali del quartiere barona alla periferia sud — milan, dry naviglio pavese channel and residence buildings of barona district at south periphery

La collocazione estetica della «verità»

  Dopo il Moderno

Possiamo affermare che la collocazione estetica della «verità» («la messa in opera della verità» di Heidegger) è l’unica ubicazione possibile, il solo luogo abitabile entro il raggio dell’odierno orizzonte di eventi. Se intendiamo in senso post-metafisico, la definizione heideggeriana del nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», possiamo comprendere appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte considerevole della cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo delle merci del primo Lukacs alla odierna de-realizzazione delle merci che scorrono, come in una fantasmagoria, dentro un gigantesco emporium virtuale, non c’è che un passo: Siamo entrati per la porta d’ingresso dentro il «valore di scambio» come luogo della piena realizzazione dell’essere sociale. Da questo momento, il sentiero della «via inautentica» che dà accesso al discorso poetico sarà una strada obbligata, lastricata dal corso della Storia. Dalla «totalità infranta» del primo Lukacs siamo arrivati ai frantumi, agli stracci di quello che un tempo lontanissimo era la «totalità». Il discorso poetico al tempo del minimalismo sarà questo suo porsi in maniera irresponsabile e inoppugnabile.

Forse il significato più profondo della «nuova ontologia estetica» sta nella spinta ad uscire fuori dal novecento e da quella ontologia estetica. Forse è qui il distinguo, la petizione fondamentale attorno a cui ruota l’impegno della «nuova poesia». Ma questo è un altro discorso che dico qui per inciso.

La «derealizzazione»

 che ha colpito gran parte della poesia e del romanzo contemporanei fa sì che i contenuti di verità tra i vari tipi di poesia e di romanzo siano tra di loro indistinguibili in quanto contigui alle esperienze deculturalizzate che si possono fare in tutto il mondo occidentale, con una prosa aprospettica, lineare e progressiva, in una parola: giornalistica e comunicazionale.

È invalsa la moda secondo cui si crede possibile dire in «poesia» tutto quello che si dice nel «romanzo» e negli articoli della carta stampata, per non parlare di internet; si ha l’illusione che tutto sia dicibile ed esprimibile in «poesia», come se il discorso poetico fosse un contenitore che va «riempito» di materiali linguistici del tutto esonerati dall’«esperienza» individuale dell’autore e dal filtro di una tradizione letteraria.

Ad esempio, la poesia di un autore umanistico come quella di Pier Luigi Bacchini pensa ancora in termini post-moderni. Stabilita la «tematica» della «natura», Bacchini procede per «variazioni». È questa la tavola di lavoro del poeta di Parma. Fatto sta che la sua scrittura, da Distanze e fioriture (1981), Visi e foglie (1993), Scritture vegetali (1999), Cerchi d’acqua (2003), fino a Contemplazioni meccaniche e pneumatiche (2005) e Canti territoriali (2009), altro non è che lo sfruttamento intensivo di un demanio linguistico e iconico; ma così facendo la poesia di Bacchini non accenna al minimo mutamento interno, non ha sviluppo, risulta priva di prospettive stilistiche interne; è scrittura «vegetale», di «cerchi d’acqua», «territoriale», e quindi sempre eguale a se medesima, può continuare all’infinito ripetendo la medesima falsariga della propria petizione di poetica «vegetale», naturista con stile naturalistico. Si tratta, appunto, di «contemplazioni» di una tematica «naturista», di considerazioni contemplative della natura martoriata.

Milano 2

Milano Periferia, scorcio

Quando affermo che la poesia di Andrea Zanzotto e di Bacchini è «irresponsabile»

intendo dire che la poesia degli ultimi due autori eredi dell’umanismo novecentesco,  Andrea Zanzotto (1921–2011) e Pier Luigi Bacchini (1927–2014),  è priva di risvolto «pubblicistico». La «natura» di cui parlano Bacchini e Zanzotto semplicemente ha cessato di esistere in Italia dal saccheggio edificazionista e speculativo del territorio messo in atto da tutti i governi del dopoguerra, non esiste più da tempo immemorabile, è il prodotto di un esercizio di stile, stilematica, una proiezione dell’io umanistico. Nelle loro poesie il lettore è avvertito come «esterno», «estraneo», un «intruso» al quale è sbarrato l’ingresso all’interno di quell’hortus conclusus. Il luogo del poetico è il frutto di una «contemplazione» privata (ma non è dell’esperienza estetica ciò di cui trattiamo?), prodotto di contemplazione di «piccoli erbari», di «quadretti» separati dal mondo «di fuori». La poesia di Andrea Zanzotto e di Bacchini è «irresponsabile» nella misura in cui non deve nulla al lettore, non è pubblicistica, non riconosce il ruolo del lettore perché gode del privilegio di essere incentrata su un io contemplativo, sulla assolutezza di un io privato. Mi chiedo quanti poeti del tardo novecento hanno avuto una qualche consapevolezza critico-culturale della mutata funzione del discorso poetico nel Dopo il Moderno. Ho il sospetto che in molte scritture poetiche che si situano a ridosso del tardo novecento si verifichi una nuova modalità di petrarchismo e di evasione dalle responsabilità della scrittura letteraria, innocua contemplazione del mostro del Moderno. Mi chiedo, e lo chiedo ai lettori, se c’è spazio, oggidì, per una poesia adamitica della natura o per una poesia della souplesse ironico-istrionica. Ho il sospetto che tutta questa «poesia» condivida una motivazione pleonastica che lascia intatti i rapporti di produzione delle istituzioni letterarie e la logica dell’accumulo del capitale letterario immunizzato ed eternizzato nell’istituzione «poesia». Per esempio, non capisco che cosa significa la locuzione «contemplazione pneumatica e meccanica» della «natura». E mi chiedo se abbia ancora un senso critico-stilistico esperire una poesia che si trova a vivere a ridosso della segnaletica simbolico-iconica del novecento tardo. Bacchini e Zanzotto sono poeti che gridano e gesticolano per la natura incorrotta e avverso lo sviluppo tecnologico. Si tratta, credo, del prodotto di una funzione letteraria.

Montale nel 1971 pubblica Satura, opera di svolta della sua poesia e della poesia italiana, mette in archivio il linguaggio simbolistico e adotta un linguaggio giornalistico; scende dal podio simbolistico e si ritira nel suo olimpico scetticismo domenicale. Questo è il quadro macro storico. Nel piccolo microcosmo della forma-poesia avviene una mutazione genetica che va di pari passo con la «mutazione antropologica» del proletariato in piccola borghesia di cui parlava in quegli anni Pasolini, la poesia si avvia verso una progressiva democratizzazione e si appresta a diventare una pratica di massa. Oggi, in epoca di stagnazione, si assiste al fenomeno tra i generi artistici e, all’interno del genere, tra i singoli sotto-generi, devitalizzati a «genere indifferenziato». Avviene così che l’anello più debole, la forma-poesia, tenda a perdere i connotati di differenza e di riconoscibilità che un tempo lontano la identificava, per trasformarsi in un «contenitore», in «palinsesto», che si tende ad un «genere indifferenziato», ad un non-stile indifferenziato, cosmopolitico, transpolitico: chatpoetry, infantilismo da lettino psicanalitico: Vivian Lamarque; pettegolezzo da intrattenimento ludico-ironico: Franco Marcoaldi, flusso di coscienza positivizzato espresso con un linguaggio giornalistico; utopia agrituristica nel migliore dei suoi rappresentanti: Umberto Piersanti; monologo da basso continuo, soliloquio allo specchio con qualche complicazione intellettuale, tanto per apparire à la page e intellettuali: Valerio Magrelli.

La Lingua di relazione si è de-psicologizzata

 Ho scritto di recente che «la Lingua di relazione si è de-psicologizzata». E che di conseguenza si è verificato un «raffreddamento» delle parole, un «raffreddamento» stilistico e un banalismo della poesia italiana di questi ultimi decenni; chi non se ne è accorto continua a redigere frasi protocollari che recano il calco dell’antico endecasillabo, dell’antico novenario, mentre invece nella realtà della lingua parlata e tele trasmessa non è rimasto nulla di tutto questo armamentario un tempo nobile. Il poeta di oggi ha a che fare con una «cosa» nuova: la parola «raffreddata» e con un nuovo processo in atto: il raffreddamento delle parole. Le parole non hanno più la risonanza di un tempo: voglio dire che le parole del linguaggio poetico della tradizione, diciamo, dagli anni sessanta del novecento, hanno perso risonanza. E allora al poeta dei nostri giorni non resta altro da fare che costruire dei manufatti a partire dai luoghi, dai toponimi, dai nomi; è ridicolo, ma si riparte dall’io; la poesia diventa nominalistica nomina la lingua telemediatica, giornalistica, interviene una sciatteria giornalistica e, a volte, nei casi più acuti una sciatteria ergonomica.

Nella poesia che invece ha acuta consapevolezza di questi processi, nella poesia della «nuova ontologia estetica» entra l’aforismario, entra l’assemblaggio di icone, la raccolta di stracci delle parole dismesse, entrano i rottami rottamati nelle discariche della lingua quali sono internet, il linguaggio televisivo, il linguaggio di facebook, instagram, twitter, sms, il linguaggio della incomunicazione interpersonale… Non resta al poeta di oggidì che fare copia e incolla di tanti frammenti. È triste dirlo ma bisogna ammetterlo, essere sinceri. Molto opportunamente, uno scrittore come Salman Rushdie ha affermato che i frammenti sono già in sé dei simboli, ovviamente de-simbolizzati. Così, senza che ce ne siamo accorti, la fragmentation è diventata il modo normale di costruzione delle opere letterarie più nitide, siano esse romanzi, racconti o poesie; ovunque ci volgiamo, vediamo frammenti, incontriamo frammenti. Noi stessi siamo frammenti, e non ce ne siamo accorti, al pari delle particelle subatomiche che sono frammenti infinitesimali di altri frammenti di nuclei andati in frantumi in quel grande circuito che è il CERN di Ginevra che identifica un giorno sì e un altro pure, nuove particelle che non conoscevamo, là dove si fanno collidere i fotoni tra di loro in attesa di studiare i residui, i frammenti di quelle collisioni. Tutto il mondo è diventato una miriade di frammenti, e chi non se ne è accorto, resta ancorato all’utopia del bel tempo che fu quando c’erano gli aedi che cantavano e scrivevano in quartine di endecasillabi e via cantando sulla natura bella e incorrotta.

La poesia italiana si è prosaicizzata e prosasticizzata. Si è elasticizzata. Si tratta di un fenomeno storico, epocale di cui non resta che prenderne atto.

Milano Periferia_PortaVigentinaMilano 1952 Mario De Biasi

Milano Periferia_PortaVigentinaMilano 1952, foto Mario De Biasi

La lingua anestetizzata di Nicola Vitale. I fondamenti ontologico-esistenziali della coscienza

Giunti a questo punto, si comprende come la poesia di Nicola Vitale si è trovata di fronte il linguaggio anestetizzato della lingua di relazione e non ha potuto far altro che ripartire da essa, da «una cosa qualunque che rimane», sgomitolare dal livello prosastico tutti i fili che si erano ingarbugliati. La sua ricerca del senso parte dalla riflessione su Leopardi e Edward Hopper. Dalla nitida asciuttezza del loro dettato linguistico ed iconico in un mondo nel quale sembra essersi «esaurita la spinta verso il nuovo», come ricorda il risvolto di copertina del libro. Quello che un poeta può fare è riflettere sulla «banalità dei suoi meccanismi sociali, di affermazione e di potere» (sempre citando il risvolto di copertina). Il poeta milanese si regola di conseguenza, adotta un discorso poetico prosastico e prosaicizzato che abolisce una volta per tutte la linea dicotomica che storicamente separava la poesia dalla prosa, confeziona un percorso poetico in veste prosastica, rinunciando  alla dizione poetica con i suoi annessi retorici.

Nicola Vitale sceglie spesso dizioni filosofiche, dizioni quasi casuali, dice della nostra «irrimediabile coscienza dell’impermanente», che «occorre ricominciare, perché «tutto è pronto/ per la partenza/ di un nuovo cuore»; dice di «un errore, due errori, tre errori»; dice «il giorno più bello, ferragosto a Milano», dice «non importa la camicia stirata», di questa condizione esistenziale, «morire a rate» seguendo i «teleromanzi a puntate»; dice che «essere o non essere / questo è il falso problema».

56 anni, non li ricordo tutti
trascorsi senza permesso
qualcuno perduto in bancarotta
già stornato.
Non mi sembra vero questo tempo che pesa
sulle irreali mattine dell’estate
che cominciano a raffreddarsi
mutando di colore le foglie.
Sarà tempo perso quello
delle stagioni che cambiano?
Silenzi che tergiversano
senza reale comprensione delle cose,
sospettandone l’immenso brulicare.

*

Dal Supermarket anche oggi
Margheritine Bianco Forno
Dio vi benedica sostanze candide
non se ne può fare a meno
per ringiovanire la giornata.
Kilocalorie appropriate, zuccheri addomesticati
per un sangue in fuga
da una nottata da dimenticare.
Oggi è un altro giorno,
via col vento sui pensieri di festa
assaporiamo queste gradite proposte
senza lamentarci degli andamenti del mercato
delle insufficienze dei figli
e dei padri,
delle ferite alla coscienza
che ancora dorme sul crinale dell’alba. Continua a leggere

8 commenti

Archiviato in Crisi della poesia, critica dell'estetica, critica della poesia, discorso poetico, Senza categoria

Gino Rago  Lettera dalla sopravvissuta di Theresienstadt, ricordando il 16 ottobre 1943 al Ghetto di Roma, con una Riflessione di Rossana Levati

(Lasciano alla ruggine dei fili spinati con la corrente brandelli di carne – Numeri tatuati. Bandoni corrosi. Sabbie quarzifere. Carta pesta.)

Gino Rago è nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989),Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Sue poesie sono presenti nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Poeti del Sud (EdiLazio, 2015) Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016). È membro della redazione dell’Ombra delle Parole.   Email:  ragogino@libero.it

(ricordando il 16 ottobre 1943 al Ghetto di Roma)

16 ottobre 1943. Al Ghetto si scatena la caccia agli Ebrei.
1024 anime nella catastrofe. Senza strepiti. Senza perché.
In tanti non trovano il tempo neanche di cominciare a vivere.
Tornano in sedici dall’inferno dei forni.
15 uomini e una donna soltanto. E non parlano.
Tacciono per anni. Preferiscono guardare il Tevere.
Non odono da tempo voci umane.
Risentono cani che abbaiano. Soltanto cani. Nelle divise.
Dentro le svastiche. Negli stivali sempre luccicanti.
Non dimenticano i fili di fumo che tagliano il cielo.
(…)
I migliori colori (Lefranc. Oxford. Taalens. Schminke).
I ritratti. I paesaggi. Le nature morte.
Le tele di lino del Belgio alle pareti sono ricordi sbiaditi.
Un mondo muore quel giorno con loro.
Lasciano in eredità non oggetti senza vita ma cose.
Le cose dell’io frantumato. La coscienza calpestata.
La memoria umiliata. L’identità derisa.
La spoliazione. La musica forzata sulla fossa.
Lo strazio delle separazioni. La babele di lingue.
(…)
Lasciano alla ruggine dei fili spinati con la corrente brandelli di carne.
Numeri tatuati. Bandoni corrosi. Sabbie quarzifere. Carta pesta.
Segatura impastata con colla di pesce. Stoppa. Smalti. Vernici.
Lenzuoli sovrapposti. Federe incollate.
Stoffe di tappeti. Sacchi. Cortecce. Reti di metallo.
I cenci cuciti alle intelaiature della Storia.
(…)
I materiali poveri della disperazione. Il disastro di un popolo
disastrosamente ingenuo di fronte ai fatti grandi.
Riparte da qui la Poesia. Da nuove parole di resti di stoffa.
Questi versi di scampoli e stracci sono i grumi di quel sangue.
Su queste parole-cenci già piovono i fiori dai ciliegi.

(Questi versi di scampoli e stracci sono i grumi di quel sangue)

Rossana Levati

I cenci cuciti alle intelaiature della Storia

Caro Gino, 
come potrebbe non piacermi la tua poesia? Ti ringrazio ancora tanto di avermela mandata e di esserti fidato del mio giudizio.
La tua poesia  ha la “densità” e lo “spessore” che hanno solo le grandi, le vere poesie, quelle che trasmettono subito al lettore un messaggio al tempo stesso etico ed estetico.

Ti allego il mio giudizio, ben poca cosa rispetto alla densità dei tuoi versi. Sono certa che chiunque la legga, come accade ai grandi testi, potrà trovarvi nuovi livelli di interpretazione e cogliere significati ed espressioni che a me magari sono sfuggiti: Continua a leggere

54 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

POESIE di Ewa Lipska, Dunya Mikhail, Annalisa Comes, Maria Rosaria Madonna, Laura Canciani – Commenti di Donatella Costantina Giancaspero e Giorgio Linguaglossa- Il problema della nuova ontologia estetica

 

foto arredamento pop

divano bianco con frammenti colorati

Strilli Talia2postati da giorgio linguaglossa
9 settembre 2017

Ewa Lipska (da Cara signora Schubert, 2012 trad it L’occhio incrinato del tempo, di Marina Ciccarini, Armando, 2013)

Il testamento

Cara signora Schubert, le scrivo da Amsterdam,
dove sono in borsa di studio per scrivere
il mio testamento. Il nostro amore l’ho lasciato al Passato
che, come sempre, rimettiamo al Futuro.
L’ho sottratto al sonno. Sono spuntate le rondini.
Il cielo era superfluo.

(trad di Marina Ciccarini, da Ewa Lipska, L’occhio incrinato del tempo, Armando, 2013)
Postilla.
Ecco, questa poesia potrebbe essere annoverata alla nuova ontologia estetica per il suo modo di essere scritta.

Ewa Lipska (da Cara signora Schubert, 2012)

Tra

Cara signora Schubert, mi chiedo dove andremo ad abitare Dopo. Dopo, cioè là dove prima c’era la fabbrica che produceva la vita d’oltretomba. Sarà tra ciò che non abbiamo fatto e ciò che non faremo più.

(trad di Marina Ciccarini, da Ewa Lipska, L’occhio incrinato del tempo, Armando, 2013)
Postilla.

Ecco, questa poesia potrebbe essere annoverata alla nuova ontologia estetica per il suo modo di essere scritta.

Ewa Lipska (da Cara signora Schubert, 2012)

Il nostro mondo

Cara signora Schubert, il nostro mondo è come una lettera scritta di proprio pugno dagli Dei, ma lo stile non vale niente…

(trad di Marina Ciccarini, da Ewa Lipska, L’occhio incrinato del tempo, Armando, 2013)
Postilla.

Ecco, questa poesia potrebbe essere annoverata alla nuova ontologia estetica per il suo modo di essere scritta.
Strilli Talia1

Strilli Rago

*

Dunya Mikhail

La tazza

La donna capovolge la tazza tra le lettere
spegne le luci a parte una candela
poggia il dito sulla tazza
ripete parole come formula magica
Spirito… se ci sei rispondi sì
La tazza si sposta verso destra per dire – sì –
– sei veramente lo spirito di mio marito che è stato ucciso?
la tazza si sposta verso destra per dire – sì –
– perché mi hai lasciato così presto?
la tazza indica le lettere: n o n d i p e n d e d a m e
– perché non sei scappato?
la tazza indica le lettere: s o n o s c a p p a t o
– e come ti hanno ucciso allora?
la tazza indica le lettere: a l l e s p a l l e
– che faccio di tutta la mia solitudine?
la tazza non si muove
– mi manchi
la tazza non si muove
– mi ami?
la tazza si sposta verso destra per dire – sì –
– posso farti restare qui?
la tazza si sposta verso sinistra per dire – no –
– vengo con te?
la tazza si sposta verso sinistra
– ci saranno cambiamenti nella nostra vita?
la tazza si sposta verso destra
– quando?
la tazza indica 1996
– stai bene?
la tazza – dopo un attimo di esitazione – si sposta verso destra
– che mi consigli di fare?
s c a p p a
– per andare dove?
la tazza non si muove
– ci sarà un’altra disgrazia?
la tazza non si muove
– che raccomandazione mi lasci?
la tazza indica una successione di lettere senza senso
– ti sei stancato di rispondere?
la tazza si sposta verso sinistra
– posso farti ancora domande?
la tazza non si muove
dopo un attimo di silenzio – la donna balbetta:
Spirito… vai in pace
poi chiama il figlio che è in giardino
a catturare insetti con un elmetto forato.

[ Traduzione di Elena Chiti, tichene@gmail.com  da La Guerra lavora duro, San Marco dei Giustiniani, 2011 ]
Continua a leggere

10 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, discorso poetico, nuova ontologia estetica, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Due poeti a confronto: La poesia-poema di Claudio Borghi e la poesia-frammento di Lucio Mayoor Tosi – Lettura di Mariella Colonna

Gif Shady Obese Albino-smallStrilli RagoMariella Colonna

La liturgia della parola di Claudio Borghi

 Claudio Borghi è un fenomeno singolare e isolato nel contesto culturale dei nostri tempi. E’ un fisico, e i suoi studi nelle discipline scientifiche sono la base culturale su cui costruisce un’opera poetica in cui il rigore del pensiero si fonde con l’adesione appassionata alla natura e al mondo in cui vive. Potrebbe sembrare un paradosso, in realtà è proprio da questo potenziale dissidio tra la prospettiva rigorosa delle scienze e l’amore per la poesia e la vita che nasce la suggestione e la singolarità delle sue opere. Segno espressivo emblematico di questo particolare sentire è il poemetto Rondini, tratto dalla prima sezione di Dentro la sfera (Effigie, 2014), il suo primo libro, di cui leggiamo le strofe iniziali:

Rondini cristalline in uno stupore di spazio
spargono linee in un’atmosfera senza vento,
lucide armonie, folate di idee, immagini increate.
Chiusa in un castello di musica la città di vetro,
la luce bagnata da un disegno di rami in fuga,
sempreverdi, di foglie fiorite
come giovani volti illuminati.

Di Borghi, in una lettera citata nella sezione finale di Dentro la sfera, Giorgio Barberi Squarotti ha scritto:

“Il suo discorso poetico è al tempo stesso concettuale e visionario, e il ritmo è un poco solenne e rigoroso, come compete al sacro a cui tende fortemente”.

Pur non avendo letto questo commento di Barberi Squarotti, percorrendo la difficile e coinvolgente strada della lettura di L’anima sinfonica, Dentro la sfera e, in parte, La trama vivente, ho colto immediatamente il carattere liturgico della parola poetica che si distende in lunghi percorsi, scorrendo e restando ferma ad un tempo come un silenzioso corso d’acqua dalle sorgenti dell’io all’oceano sconfinato dell’Uno. Come l’acqua che scorre, fluido titolo di un libro e racconto molto intensi della Yourcenar, le parole di Borghi si sciolgono l’una nell’altra facendo emergere dal profondo immagini della quotidianità che, nella vibrazione solenne dei versi, acquistano il senso di un religioso (dal latino re-ligare, nel senso di collegare stringendo rapporti) e continuo passaggio dalla realtà conosciuta a quella misteriosa in cui mondo e umanità sono immersi, e che il poeta cerca di esprimere con analogie, metafore e semplici evocazioni del proprio vissuto.

Giorgio Linguaglossa, commentando La vera luce (da La trama vivente, Effigie, 2016), vede nei versi di Borghi “movimenti o sequenze musicali”:

“Molte composizioni sono strutturate come movimenti o sequenze musicali: iniziano con un Cerimoniale lento e rigido che scollina in un Allegro moderato, per poi, subito dopo, alleggerire il tono mediante l’inserimento di un Lamentoso cantabile, molto legato; quindi, di nuovo, ecco un Allegro capriccioso che sfocia in un Vivace energico che si alterna con un Adagio mesto e un Allegro maestoso, fino a giungere ad un Andante misurato e tranquillo. Un pensiero poetico incastonato in una partitura musicale, suddivisa in più movimenti melodici e ritmici”.

La vera luce

Nel viaggio millenario si rinnova
l’onda dell’essere che sviluppa
una storia senza scrittura:
semplice dettato di emozione
il creato si imprime
sulle pareti della percezione,
sullo schermo degli occhi
o sulla volta risonante degli orecchi,
rimandando ogni cosa alle altre
e tutte intonando la forma del principio,
necessaria, presente,
viva eppure gratuita, assente,
quasi morta mentre su di sé
si richiude e ripiomba.

(…)

Strilli LeoneStrilli GiancasperoNon posso essere che d’accordo con Linguaglossa: il rapporto tra poesia e musica è originario e strutturale, ma occorre analizzare la differenza tra i linguaggi delle due forme d’arte per cogliere nello specifico la poesia di Borghi. Linguaglossa sottolinea il “movimento lineare”, il cui andamento non prevede spezzature improvvise, discontinuità e circolarità del tempo, irregolarità sintattiche e così via, che invece connotano le opere dei poeti della NOE. Credo che la quasi sacralità dei versi di Borghi esiga un andamento lineare; occorre inoltre rilevare che in essi le varianti esistono, ma sono da ricondurre alle immagini e ai messaggi e significati che non sempre sono lineari, anzi, molto spesso sono cadenzati dal ritmo stesso del cuore: sistole e diastole, come nella poesia La vera luce. Accade che mente e cuore del poeta si sollevino nella contemplazione, poi un’inspiegabile melancholia lo afferra e il fiore, che era sbocciato in tutto il suo splendore, si richiude, appassisce. I versi scorrono con il ritmo lento inarrestabile della stessa vita in quello che ha di più sacro: la contemplazione della natura, il mistero dell’esistere e il cosmo come espressione di un ordine supremo. C’è, tuttavia, qualcosa che rende difficile una lettura senza interruzioni: mentre, come ho già accennato, l’attrito interno tra le prospettive della scienza e quelle della poesia che ne caratterizzano il pensiero non intacca, anzi esalta la capacità che il poeta ha di abbracciare un vasto campo di argomenti e di individuarne gli invisibili legami, l’andamento dei versi, il loro ritmo, si svolge in modo uniforme e, come dice Linguaglossa, con un movimento rettilineo. Da una parte questo ritmo, che tende a livellare le differenze nell’esprimere il sentimento dominante dell’Uno a cui tutto – e prima di tutto l’anima del poeta – si rivolge, è percepito come un procedere senza scosse e inevitabilmente senza sovvertimenti, sorprese o colpi di scena e quindi prevedibile; dall’altra è proprio questa consustanzialità solenne del linguaggio nelle poesie e nell’insieme del poema a creare quel senso del sacro individuato da Barberi Squarotti e che io ho chiamato liturgia della parola.

Abbiamo visto come Linguaglossa, nel presentare La trama vivente, sia riuscito a sentire la profonda analogia tra la poesia di Borghi e la musica fino a trovare, nei versi del poeta, scansioni ritmiche equivalenti all’ “Allegro moderato” fino ad un “Andante misurato e tranquillo” passando per un “Allegro capriccioso” un “Vivace energico” e così via. E’ evidente che ad ogni lettore o critico arrivi il messaggio da cui la sua sensibilità si sente più attratta e coinvolta, e credo sia un ascolto rivolto soprattutto ai suoni che genera la sensazione di uniformità e moto rettilineo. Con sorpresa, procedendo nella lettura, mi sono convinta che la musicalità, o addirittura la musica dei versi di Borghi non vada letta come quella che si rinviene in uno spartito musicale, ma come un’armonia da cercare in profondità tra sinergie, sinestesie, contenuti, immagini, situazioni, colori e la forma in cui vengono espressi. E’ una musica che deve arrivare non tanto alle orecchie, quanto al centro profondo dell’anima di chi si dispone ad ascoltarla: una musica non di suoni, ma nata dal silenzio contemplativo e destinata al silenzio e alla contemplazione. A ben vedere nella grande musica il suono non è un fine, piuttosto un mezzo per raggiungere l’anima e l’intelletto; ma nella poesia l’ascolto va spinto ancora più in profondità, in estensione anche temporale e nel silenzio, se teniamo conto che il suono distrae dalle recondite armonie che l’anima riesce a captare, grazie ad un insieme di facoltà in cui si impegnano le infinite possibili varianti del linguaggio come significato e come significante, cioè come forma. Nella musica, quando non si risolve in superficiali effetti sonori o astratte armonie ma coinvolge il flusso profondo, quindi il movimento unico dell’Essere, i significati volano liberi da qualunque tentativo di imprigionarli in uno schema mentale o linguistico. Credo che, per comprendere il senso ultimo dell’opera di Borghi, sia necessaria un’apertura ai contenuti e valori a cui l’autore fa riferimento: e ciò richiede che almeno in parte si condividano tali valori. Ma anche chi non li condivide può, con un volo mentale e un tocco di immaginazione, superare il senso di smarrimento che si prova navigando nell’oceano di quest’opera e cercare in quelle profondità la poesia, le immagini, i colori. 

Cito, da Dentro la sfera, alcune strofe di Nel tempo solo senza musica:

Nel tempo solo senza musica, solo e senza musica
e luminoso il sole si corica sul letto viola
del lago, dove la conoscenza è evidenza
e indistinta la potenza diventa particolare
immedesimandosi in un movimento puro senza esistenza

le onde tutte della luce fasciano il pianeta
i corpi degli uccelli volano nell’atmosfera
la terra umida della notte
distesa si copre della grandezza manifestata del giorno
e non so come chiedere alle parole di piegarsi
sulle cose, come pensarle, come venire al bocciolo
dell’apparenza presente che si mostra
e si offre, del volto più puro che si alza

fino all’azzurro incontaminato
(…)

 

Qui non è facile parlare sostituendosi alle parole, bisogna invece far parlare le parole, sprofondare nei significati della poesia perché le parole perdano la durezza di significanti e si associno liberamente grazie alle loro sinergie, ai loro contrasti, al loro legare e sciogliere i misteriosi legami che le avvicinano e le allontanano, ai colori dal cui contrasto nascono segrete, appena percepibili analogie.

Da Visioni da una camera quadrata, in L’anima sinfonica: 

Uno scoiattolo si impadronisce del vuoto. 

Il bianco è un’assenza di suoni.

Rimane una fuga di pensieri tra le erbe alte.

In questi versi, di solo apparente semplicità, vedo tre frammenti assai ben organizzati e un linguaggio molto attuale: lo scoiattolo che si impadronisce del vuoto è un’immagine surreale assai suggestiva, una metafora ardita; il bianco è un’assenza di suoni è un’associazione coraggiosa tra il colore bianco e il silenzio; il terzo verso è il più facile da comprendere: la metafora dei pensieri che fuggono tra le erbe alte si valorizza per il contrasto tra la velocità del pensiero e la statica presenza delle erbe che non possono né vogliono in alcun modo frenarlo. Ho commentato questi ultimi versi per far notare quanto siano fuori luogo e ingombranti le parole quando cercano di spiegare l’inspiegabile. La poesia è mistero e le parole possono tendere verso il mistero, alludere ad esso, ma non potranno mai raggiungerlo. Se accettiamo questo limite, forse le parole silenziose ci diranno molte più cose di quante ne abbiamo capite e scoperte noi usandone troppe con lo scopo di interrogare la realtà: la poesia vera parla all’anima, in perfetto silenzio.

Da La trama vivente:

Lascia il microscopio, lascia il telescopio, deponi gli strumenti che ti prolungano nello spazio. Guarda solo con gli occhi. Lascia l’immaginazione, smetti di dipingere, di matematizzare la varietà. Il quadro è dato, chiuso e concluso. Riluce l’illusione del cosmo, soffia il fiato divino che tempera le forme e le pervade di tremori impercettibili, quando nasce il sole e tutta si sfoglia, tenera, la mattina.

Nel vuoto si perde il profumo dei sensi e il chiarore raggiante della mente, la cui essenza è contemplativa: non le è concesso creare, solo plasmare idee e raccoglierle nella memoria, che dentro si compone finché una lama anonima la separa dal corpo della visione. Dal centro al non confine della sfera inconcepibile non c’è storia. Solo una quiete esplosa, che annienta ogni immaginazione o volontà infantile di possederla.

Monadi solitarie vagano come particelle in sospensione in un fluido, atomi zigzaganti tracciano traiettorie browniane, incerti labirinti da cui la matematica fa emergere la traccia statistica di una regolarità, il senso precario di una soluzione.

Nel vuoto, reso a tratti magnifico dal fiorire imprevisto di novità, la poesia cerca animandosi di trovare l’ebbrezza della sua sopravvivenza, nella dinamica fine a se stessa di un ritmo che senza soluzione di continuità si rinnova di parola in parola, di verso in verso, inanellandosi, inviluppandosi, naufragando nel cerchio immobile della presenza del tempo.

Niente so della vita nelle cose, ma della vita posso disegnare i corpi che fuggendo sulla tela corrono come spinti da una forza michelangiolesca, soffiati da un turbine perenne, i corpi inquieti che si cercano per fondersi, si toccano e si amano per sentirsi l’un l’altro vivi.

Mariella Colonna, 20/08/2017

Strilli Talia1Strilli GabrieleMariella Colonna

I cromatismi e la poesia per frammenti di Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi è il caso più singolare di cui io sia stata diretta testimone da quando frequento il gruppo di poeti della NOE e la Rivista Internazionale L’Ombra delle Parole. Lucio Mayoor è “nato” pittore astratto e ha fatto una lunga sperimentazione con i pigmenti come in una Bottega rinascimentale, partendo da una ricerca sull’origine e composizione della materia, che è alla base del suo particolare astrattismo, e approdando ad una straordinaria capacità di usare il colore in modo assolutamente “semplice” ma altrettanto significativo.

Egli crea frammenti di forma regolare quadrata o rettangolare, ma del tutto singolari nell’abbinamento dei colori che si associano liberamente anche a superfici corrugate, con tocchi, effervescenze, sfinimenti, aggressioni, defezioni, brevi accenni al mistero, che sono l’espressione, in arte, dei movimenti delle particelle nel vuoto a cui Mayoor ha dedicato da sempre la propria attenzione. C’è da sottolineare che egli non lo considera analogo al nulla, ma come un brodo primordiale dove individuare i percorsi iniziali dei fenomeni studiati dalla ricerca scientifica  fino a quelli in continuo rinnovamento della cultura e del linguaggio poetico più attuali. La ricerca del “nuovo” in Tosi non è mai fine a se stessa, ma orientata a compensare per opposizione “la perpendicolarità delle linee pavimenti – pareti – soffitto”, connotazioni che caratterizzano la tendenza italiana al “classico”. I frammenti Di Lucio Mayoor nascono, come egli stesso dichiara, dall’osservazione remota del microcosmo, ma del tutto casualmente . Ognuno di essi è indipendente dall’altro o da realtà artistiche a loro esterne. L’autore dice: “E’ stato l’apporto critico di Giorgio Linguaglossa a dare una scossa alla mia ricerca pittorica.” Il rapporto con Linguaglossa è forte e incisivo nella storia dell’artista: hanno anche provato ad associare i versi di due loro poesie e l’effetto era di un insieme  straordinariamente unitario.

Lucio Mayoor Tosi Sponde 1

Lucio Mayoor Tosi, Sponde, composizione

Lucio Mayoor sottolinea molto incisivamente l’interattività, una delle chiavi interpretative della creazione di un’opera mai abbastanza approfondite e comprese sia  dagli uomini di cultura che dai fruitori dell’arte: un’opera infatti continua a nascere e “crescere” grazie al momento della fruizione che la arricchisce di contenuti psico percettivi e di valori che nascono grazie allo “scambio” tra l’oggetto d’arte e chi lo osserva aprendosi al messaggio trasmesso dall’artista. I frammenti di Lucio Mayoor possono essere disposti in maniera sempre diverse dalla persona che li possiede: il fruitore dell’opera  può così partecipare al momento creativo scegliendo di associarli e di comporli di volta in volta in modo differente, lasciandosi ispirare dalle proprie intuizioni in materia di forma e di colore. E’nella dimensione dell’interattività che il frammento pittorico si incrocia in modo organico e sinergico al frammento poetico. Cerchiamo di individuare lo specifico che esplode per novità e originalità nel percorso di ricerca di Mayoor: l’immagine pittorica contiene in sé, potenzialmente, la parola e viceversa la parola contiene in sé l’immagine: ma sarebbe troppo facile e superficiale pensare questo rapporto in senso figurativo e descrittivo. Il “contenere in sé” di Lucio Mayoor supera l’aspetto descrittivo, è il nascere della parola insieme all’immagine: è un processo organico e non di complementarietà. Questa è la novità di Lucio Mayoor come interprete della NOE in chiave artistica e poetica: le sue opere di pittura tendono alla parola, sembra che la cerchino per trovare un completamento: e , viceversa, le sue poesie non solo contengono elementi di un cromatismo analogico e organico, ma tendono a configurarsi in colori e forme rigorosamente astratti. Tutto ciò avviene senza che l’autore si ripieghi mai su se stesso, o si compiaccia nel processo della creazione delle proprie opere.

Lucio Mayoor Tosi Interpretazioni coloristiche.png

Mayoor Lucio Tosi, Interpretazioni coloristiche

Lucio Mayoor è un raffinatissimo autore “di strada” nel senso migliore dell’espressione: cultura, letture appassionate, impegno nelle tecnologie sono come tra parentesi o meglio sottintese alle sue opere, mai esibite. La grafica della Rivista “L’Ombra delle parole” ha fatto un salto di qualità da quando l’ha vigorosamente presa in mano Lucio Mayoor. I pigmenti allo stato puro hanno reso l’idea del nuovo che nasce: oltretutto il nostro ha creato una ritrattistica cromatica di grande effetto, interpretando in modo personale Andy Warhol, direi un Andy Warhol mitteleuropeo, raffigurando e presentando i volti dei poeti con macchie di colore che sfumano verso altri colori per analogia o risaltano per contrasto, oppure danno rilievo in modo unitario ai tratti del personaggio con tinte forti.

Lucio Mayoor Tosi toys composizione di tre doppi frammenti

Lucio Mayoor Tosi, Toys, Tre doppi frammenti

Colpisce come   sia approdato alla poesia della NOE senza soluzioni di continuità, con grande naturalezza: Lucio è poeta non “letterario” ma alimentato da molta lettura ed esperienza di scrittura e con l’evidente consapevole conoscenza di tutte le regole: è poeta e basta, sia nel “dipingere”, sia nella scrittura: e sta elaborando, nella poetica della Nuova Poesia, soluzioni nuove ed originali: non disdegnando le immagini del passato, le rende “dinamiche “ accostandole a situazioni estreme da astronauta e addirittura lanciandole nel vuoto, senza alcun appiglio.

Crea “per frammenti come se respirasse”. Questa semplicità è spesso raffinata come, ad esempio, nella lirica Frammenti per Sally: i primi tre versi realizzano una dialettica tra colore e significato molto efficace, che si appoggia su una visione mentale più che reale del colore:

Frammenti per Sally

Oltre le finestre della casa non c’è nulla.
Solo bianco dipinto su se stesso.
Qualcuno lentamente scompare. Resto
in silenzio. Oltre il grigio vetro smeriglio
il lembo di una camicia a quadri. Molti
pensieri sparsi nell’aria come lucciole.
Cielo di tanti palazzi. Nello specchio
un uomo curvo con il cappello in testa.
Pare gobbo. Cammina a lunghi passi,
sempre guardando a terra. Il pollice
infilato nella cintura, con l’altra mano
tiene sottobraccio il bastone da passeggio.
Mi pervade una dolcezza senza fine.
Le stelle si stanno allineando, finché
musica le scompone. Una donna nuda
porta l’anfora piena di latte.*

*Sally è mia nipote. Oggi compie gli anni. Ho preso dei frammenti alla rinfusa, qualcosa di vecchio e qualcosa di nuovo, li ho confezionati ed ecco pronto un regalo per lei. Che senso ha? Dire che ne ha uno soltanto sarebbe sbagliato, dire che ne ha molti altrettanto. Qui il senso va da ogni parte perché non è svolgimento. Il puro frammento è come neve, polvere, atomi che interagiscono in una danza senza musica.

(Lucio Mayoor Tosi)

Questo “bianco dipinto su se stesso” è indescrivibile con altre parole, richiede le parole del prossimo verso: è e scompare “in uno”, cioè contemporaneamente…infatti “qualcuno lentamente scompare”: chi scompare? il colore, perché bianco su bianco scompare. Ma c’è anche l’ospite misterioso, il Signor Nemo…anche lui, abitante del “Nulla”, scompare insieme all’invisibile colore che lo ospita.

In Lucio Mayoor si sentono echi: assai poco della poesia del ‘900, Transtromer ma, soprattutto Giorgio Linguaglossa Gino Rago e Mario M.Gabriele, maestri della NOE, con i quali c’è piena sintonia e stima reciproca, in piena autonomia di scelte e prospettive culturali.

Altra espressione nuova e in cerca di completamento cromatico, nel verso 7: “Cielo di tanti palazzi”…qui il poeta associa l’idea del cielo a quella dei palazzi, contrariamente a quanto accade di solito: i palazzi, in città soprattutto, sembra che ci rubino la vista del cielo, invece lo sguardo di Lucio va oltre il limite imposto dai palazzi, che qui sostituiscono “la siepe” famosa che far scattare in Leopardi il pensiero dell’infinito, per sconfinare e perdersi nell’azzurro.

S’apre una porta

 Un notturno di seta deve essere passato
davanti alla casa in Illinois. La persona che stava piangendo
ora si vede al centro dell’umanità

dove tutti son voltati di spalle. E nudi.

 «Nessuno sa del silenzio che c’è qui».

«Giuro su niente che ti sarò fedele e darò la vita
per ognuno che passi, anche sbadatamente, nel mio
corridoio».

 « Nei libri di scuola si parla di rondini meccaniche
che
a primavera. E di scritture distratte. Pomeriggi assolati».

Le figure, insieme ai versi, si rintanano
nell’ombra.

 I primi tre versi: “il notturno di seta” è una metafora che evoca immagini d’ombra cangiante su questa casa magica nell’Illinois…Il seguito è invece drammatico e imprevedibile: La svolta improvvisa “al centro dell’umanità / dove tutti son voltati di spalle. E nudi.”: dal pianto la persona sofferente si trova all’improvviso nel cuore dell’umanità, in una posizione  importante, “centrale” e vede gli altri di spalle. “al centro dell’umanità / dove tutti son voltati di spalle. E nudi.”:  Sono tutti uguali, non c’è (più) differenza di persone e li vede nella loro nudità primordiale. C’è, nel cuore dell’essere, un silenzio che nessuno ascolta perché non ne ha consapevolezza. (Nuova Poesia Ontologica). Poi un altro salto di significati rafforzati dalla contraddizione: “Giuro su niente che ti sarò fedele…”. Non c’è commento che possa dire meglio con altre parole  ciò che è detto nei due versi che seguono: “Nei libri di scuola si parla di rondini meccaniche / a primavera. E di scritture distratte. Pomeriggi assolati”. Una primavera del futuro, cioè “utopica” perché la primavera, oggi, non esiste più, ma sui libri di scuola ai bambini la faranno immaginare annunciata da rondini meccaniche. Ci domandiamo: quale futuro?  Possiamo pensare a tutto quello che abbiamo appreso in materia…e i colori , chiari o tetri, passano veloci attraversando i nostri pensieri.

Lucio Mayoor Tosi Sponde

Lucio Mayoor Tosi, Composition per frammenti

La poetica di Lucio Mayoor Tosi è pittorica nel senso più completo e complesso della parola: egli fa poesia come dipinge, seguendo impulsi della mente e del cuore in contemporanea. La doppia componente artistica dà spessore alle immagini, come in

 Ballerine:

 Del pianista non si hanno notizie.
Vestiva sempre di nero, a volte una camicia bianca.
Aveva mani delicate.

 Qui il poeta fa un vero ritratto del pianista: lo vediamo, in bianco e nero come una rondine, le mani delicate sulla tastiera. Poi non lo vediamo più. Ma il pianista-rondine resta nella memoria e, pur non avendo lasciato notizie di sé, ci segue.

Presto il cielo azzurro farà da sfondo. Inizieranno
le parole il loro tour, di fianco a diapositive sorridenti.
Sul mare tranquillo vola bianca una breve storia.
Ora provo i cento modi per uscire di casa.
Senza le scarpe.

Nella poesia n. 3 di Ballerine gli ultimi cinque versi si impongono per l’originalità e freschezza delle immagini, per i ritmi espressivi che scivolano sulla riva del foglio e restano lì, intense di evocazione e di movimento appena accennato: il cielo e l’azzurro, il mare e l’azzurro percorso dal bianco…di quella breve storia che vola sulle onde: è un’idea nuova e di notevole fascino poetico parlare di una barca a vela come di una “breve storia” che scivola sul mare! Anche se l’estrema apertura poetica dell’immagine può far venire in mente altre interpretazioni. E poi l’apparente semplicità del finale che nasconde un modo di concepire la vita: si può uscire di casa in cento modi, ma Lucio sceglie di abbandonare la prigione delle scarpe. Sono questi tocchi di originalità assoluta che connotano la poesia di Lucio Mayoor, il suo affacciarsi all’universo delle parole con il desiderio di creare mondi alternativi e la gioia di esserci, di volta in volta, riuscito. La “poetica” su cui Lucio Mayoor fonda le sue opere è quella della NOE, ma l’artista ci aggiunge di suo questa immediatezza d’intuizione in cui si fondono e si esaltano a vicenda l’arte del colore-simbolo, sempre da intendere come qualcosa di diverso dal colore materiale e quella della parola.

Vorrei concludere con una poesia …d’amore. (già sento mormorii di disapprovazione: “in realtà è una poesia sul “nulla”…non tutto è come appare!” (…non è vero è d’amore!). Vediamo dunque la III poesia dell’insieme intitolato “Tre Chiese”:

Il bacio sa di te. L’ho imparato a memoria. Possiamo
guardarci i profili. Restare assorti, come fossimo in coda
davanti a due uffici diversi. Ma non c’è nessuno davanti,
nessuno oltre noi. Il palazzo celeste in fondo al viale
indica il sottosuolo, il pianeta che avvertiamo sotto le scarpe.
Hai belle gambe, rametto di salvia e capelli scuri.
Sssssh! Fai silenzio. Labbra sporte e borsetta sottobraccio.
Tra le nervature del marciapiede scorre acqua azzurrina.
Poi siamo soli. Volta pagina. La tua voce nei pensieri
canta.

 C’è il bacio, c’è il senso di solitudine incantata che due innamorati vivono anche in mezzo alla folla. C’è il mistero di quel celeste e azzurro che ogni tanto si affaccia: da “Il palazzo celeste…“indica il sottosuolo” a “tra le nervature del marciapiede scorre acqua azzurrina.”Qui il “colore” è nell’atmosfera surreale che avvolge la poesia e la salva dal sentimentalismo giustamente rifiutato e condannato dalla NOE: atmosfera surreale a cui, però, si affianca con grazia poetica qualche notazione realistica:

Lucio Mayoor Tosi Frammenti_1

Lucio Mayoor Tosi, Composition

Hai belle gambe, rametto di salvia e capelli scuri.”Labbra sporte e borsetta sottobraccio.” E, a conclusione, lo squillo della voce che canta nei pensieri del poeta.” L’idea è semplice e intensa e acquista rilievo dal “sistema solare” in cui sono inserite le parole, ognuna al suo posto e tutte insieme a creare suggestioni…a cui fa eco il mistero dei tocchi di azzurro.

Bravo Lucio, non è assolutamente facile scrivere poesie d’amore senza cadere in sentimentalismi retorici: e tu ci sei riuscito.

Lucio Mayoor Tosi ci ha dimostrato che, nei frammenti interpretati e rivissuti interiormente, in piena libertà espressiva è possibile sia tratteggiare un’immagine del futuro e parlare di astronavi e di costellazioni, sia evocare il passato con la tenerezza e il distacco della nostalgia, senza cadere in fratture o contraddizioni stilistiche: ormai superato il dramma della “cosa” irraggiungibile dalle parole, si guarda a quel centro misterioso intorno a cui le parole ruotano come altrettanti pianeti intorno al sole. Mi piace immaginare Lucio che le rincorre su una navicella spaziale…che, alla fine,

approda sulla luna per dedicarle un “romantico” frammento tra colore e scrittura.

Chi tra noi oserebbe sostenere che il “Romanticismo” di Leopardi e Foscolo è roba superata, e che Lucio Mayoor non deve, non può dedicare versi alla luna, pena la cancellazione dal gruppo della Nuova Ontologia Estetica?

E ora, in nome dell’interattività, vorrei che i lettori esprimessero il loro pensiero sul valore e significato del blu dell’azzurro del giallo e del rosso, o di altri colori dominanti nelle poesie di Lucio Mayoor Tosi. A voi la parola, dunque… invito i lettori a rivedere attentamente i frammenti pittorici e a rileggere quelli poetici del nostro autore. Egli sarà felice di scoprire quanto è arrivato a voi della sua arte e dei suoi messaggi.

Strilli Tranströmer1

Strilli Tranströmer2

Questa notte

È di notte che la metropoli
si addormenta e urla.
Quando i morti si spaventano
e vivono indisturbati animali
di carne notturna.
Migliaia di tramonti alle palpebre.
Quel dialogo incerto di noi due
all’angolo del soffitto.

E’ altro spazio,
giorno negativo e assordante.
Tra gli altissimi palazzi capovolti
si aggira il tempo nero
come un gendarme a controllare
le lenzuola delle larve.
Siamo nell’oscuro parallelo,
al cantico spettrale della Via lattea.
Nel tunnel.

Dentro i motori spenti della R.
nel “Vietato entrare”, all’ora più densa
quando la gravità dei passi
colpisce al suolo stormi di uccelli
caduti. E li addormenta.
Un colpo di tosse infrange le barriere.
Tutti i ritorni si spaventano.

Mi dicevi dell’appartamento,
che era luminoso
per via di quelle finestrelle al soffitto.
E colorato. Ma il resto della stanza,
nessuno lo ricorda.
Quando la sera è bella solitudine,
dicevi.

Mi baciavi come un uccellino.
Avevi le labbra piccole
per nulla seducenti.
E sempre ti aggiustavi le calze.

M.
Mayoor – set 2017

Onto Mario Gabriele_2

 

Lucio Mayoor Tosi
                  (a Giorgio Linguaglossa)

Si ritrovarono in piazza, non sotto i portici
ma nemmeno in strada. Dovunque andassero
erano sempre fuori posto, solo stando attenti
a che non si notasse. Poi erano trascorsi secoli.
Tante vite spezzettate. Senza memoria.
Due uomini e una donna.
Il primo mostrò quel che sapeva fare.
Sollevò la gamba destra e l’accavallò sull’altra.
Quindi restando in fragile equilibrio
sollevò la sinistra. Ohplà! eccolo sollevato
in aria nella posizione del loto.
– E tu che sai fare?
L’altro uomo lo guardò sorridendo
e senza muovere le labbra iniziò a parlargli
nella mente. I tre si misero a ridere.
Poi i due amici guardarono la donna.
Ma non la videro. Lei sapeva come fare
per non esser/ci.

Commento.

Sembra di stare davanti ad un quadro Zen. Ci sono dei personaggi tratteggiati con un tratto di penna, dietro di loro c’è il vuoto. La presenza del vuoto prende forma dai gesti dei personaggi, meccanici come l’atto di accavallare le gambe, o di ridere; si sta «non sotto i portici / ma nemmeno in strada», altro non è detto, non c’è bisogno di dire altro. Il tutto è appena accennato con pochi tratti essenziali e casuali. Sono «Due uomini e una donna», «senza memoria». Si sta in presenza. Ma noi sappiamo che la presenza è una figura dell’assenza, qualcosa è presente perché qualche altra cosa è assente, perché l’assenza è una figura della presenza, perché non potrebbe darsi una presenza sopra un’altra presenza, una sommatoria di presenze darebbe in ogni caso per risultato ancora una volta il nulla dell’assenza… Sotto e d’intorno c’è il vuoto. Ecco, in fin dei conti è questa la «nuova ontologia estetica», far aleggiare il «vuoto» e l’«assenza» intorno alle esistenze e alle presenze in modo del tutto normale…
(g.l.)

Lucio Mayoor Tosi
28 agosto 2017 alle 18:21

Grazie, ma l’ho postata poco sopra. Non so quanto sia riuscita ma era dovuta. Tra le tue domande filosofiche e l’ironico (si può dire così?) citazionismo di Gabriele, c’è molto spazio per sperimentare. Comunque era un vecchio sogno, che avevo conservato senza sapere per quale occasione; che è arrivata e ne sono contento

Translation
Lucio Mayoor Tosi

                              (for Giorgio Linguaglossa)

They met in the square, not under the porticos
but neither in the street. Where they went
they were always misplaced, only being aware
not to be noticed. Then centuries passed.
Many lives shattered. Without memory.
Two men and one woman.

The first showed what he could do.
He raised the right leg and crossed it on the other.
So staying in precarious equilibrium
he lifted the left. Ohplà! Here it’s lifted
in the air in the lotus position.
-And you what can you do?

The other man looked at him smiling
and without moving the lips started to speak
to his mind. The three started to laugh.
Then the two friends looked at the woman.
But didn’t see her. She knew what to do
not to be seen.

© 2017 American translation by Adeodato Piazza Nicolai of the poem by Lucio Mayoor Tosi All Rights Reserved for the orpginal poem and the translation.

 

Mariella Colonna.  Sperimentate le forme plastiche e del colore (pittura, creta, disegno), come scrittrice ha esordito con la raccolta  di poesie Un sasso nell’acqua. Nel 1989 ha vinto il “Premio Italia RAI” con la commedia radiofonica Un contrabbasso in cerca d’amore, musica di Franco Petracchi (con Lucia Poli e Gastone Moschin). Radiodrammi trasmessi da RAI 1: La farfalla azzurra, Quindici parole per un coltello e Il tempo di una stella. Per il IV centenario Fatebenefratelli sull’Isola Tiberina è stata coautrice del testo teatrale La follia di Giovanni (Premio Nazionale “Teatro Sacro a confronto” a Lucca), realizzato e trasmesso da RAI 3 nel 1986 come inchiesta televisiva (regia di Alfredo di Laura). Coautrice del testo e video Costellazioni, gioco dei racconti infiniti in parole e immagini (Ed.Armando/Ist.Luce) presentato, tra gli altri, da Mauro Laeng e Giampiero Gamaleri a Bologna nella Tavola Rotonda “Un nuova editoria per la civiltà del video” ha pubblicato, nella collana “Città immateriale ”Ed.Marcon, Fuga dal Paradiso. Immagine e comunicazione nella Città del futuro (corredato dalle sequenze dell’omonimo film di E.Pasculli), presentato nel 1991 a Bologna da Cesare Stevan e Sebastiano Maffettone nella tavola rotonda sul tema “Verso la città immateriale: nell’era telematica nuovi scenari per la comunicazione”. Nel 2008 ha pubblicato Guerrigliera del sole nella collana “I libri di Emil”, ediz. Odoya. Nell’ottobre 2010 ha pubblicato, con la casa editrice Albatros “Dove Dio ci nasconde”.  Nel febbraio 2011 ha pubblicato, presso la casa editrice. Guida di Napoli “Due cuori per una Regina” / una storia nella Storia, scritto insieme al marito Mario Colonna. Un suo racconto intitolato “Giallo colore dell’anima” è stato pubblicato di recente dall’editore  Giulio Perrone nell’Antologia “Ero una crepa nel muro”; nel 2013 ha pubblicato “L’innocenza del mare”, Europa edizioni; nel 2014 “Paradiso vuol dire giardino”, ed Simple; nel 2016 coautrice con il marito Mario di “Mary Mary, La vita in una favola.”

Mayoor  Lucio Tosi è nato a Gussago, vicino a Brescia, il 4 marzo dell’anno 1954. Dopo essersi diplomato all’Accademia di Brera è entrato in pubblicità. Ne è uscito nel 1990, quando è diventato sannyasin, discepolo di Osho (da qui il nome Mayoor: per esteso sw. Anand Mayoor = bliss peacock). Ha trascorso più di vent’anni facendo meditazione e sottoponendosi a ogni sorta di terapia psicanalitica: sulla nascita e l’infanzia, sul potere, sulle dipendenze affettive ecc. Di particolare importanza, per la realizzazione di Satori, sono stati alcuni ritiri Zen dove ha potuto lavorare sui Koan (quesiti irrisolvibili).
Vive a Candia Lomellina (PV), nel mezzo delle risaie, dove trascorre il tempo dipingendo e scrivendo poesie.
Sue poesie sono state pubblicate on line su Poliscritture, L’Ombre delle parole, e su alcune antologie. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Progetto Cultura, Roma, 2016).

Claudio Borghi è nato a Mantova nel 1960. Laureato in fisica all’Università di Bologna, insegna matematica e fisica in un liceo di Mantova. Ha pubblicato articoli di fisica teorica ed epistemologia su riviste specializzate nazionali e internazionali, in particolare sul concetto di tempo e la misura delle durate secondo la teoria della relatività di Einstein. Presso l’editore Effigie sono uscite due sue raccolte di versi e prose, Dentro la sfera (2014) e La trama vivente (2016).  Una selezione di testi da La trama vivente è stata pubblicata nella rivista Poesia (settembre 2015).

 

143 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, nuova ontologia estetica, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Francesca Dono, QUATTORDICI POESIE Inedite – La carta da parati – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: La poesia dopo la fine della modernità, «La nuova poesia ontologica»

Foto selfie Jack Nicholson

Francesca Dono nasce a Reggio Calabria. Si laurea in Scienze Sociali poi si trasferisce a Milano dove vive e lavora. Scrive già a sei anni la sua prima poesia. Comincia a dipingere e fotografare all’età di sedici anni. La sua pittura spazia dal tradizionale al digitale. Tante le opere poetiche selezionate e inserite in varie raccolte ed antologie del panorama piccolo-editoriale nazionale.

Pubblicazioni sulla rivista «Odissea» di Angelo Gaccione – «Bibbia d’Asfalto»  e «Word Social Forum». Molti componimenti si sono classificati ai primi posti in vari concorsi tra cui :premio  internazionale Otto Milioni di Bruno Mancini,  premio internazionale “Terra di Virgilio” con critica di Enrico Ratti, premio “La Stampa ”con critica di Maurizio Cucchi. Premio Speciale Presidenza  “Abbiate Coraggio di Essere Felici” di Antonella Ronzulli e Annamaria Vezio , premio “Internazionale Leopardi d’Oro” dell’Accademia Leopardiana di Reggio Calabria come  ambasciatrice  e procuratrice dell’Arte  e Letteratura Italiana nel mondo. Premio MilaninSight. Concorso Racconta la tua Milano.

Anche i dipinti sono stati inseriti in vari Cataloghi d’Arte tra cui il catalogo d’arte “ l’Elite”  anno 2013 e 2014, catalogo  d’Arte di Assisi e di Artelis di Reggio Calabria nel 2015. A Novembre edita la sua prima raccolta intitolata Tra l’Insionismo* l’Inversionismo e il dialogo di Irda Edizioni”, ormai fortunatamente introvabile.

*(neologismo)

gif-ragazze-con-palloncini

Fine della modernità

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Nel tragitto ortogonale e tangenziale verso una «Nuova poesia ontologica» credo si possa annoverare anche la poesia di Francesca Dono. Come ho detto in diverse occasioni, questa poesia non vuole essere né bella né brutta, né isoritmica (detto in altri termini: eufonica), né cacofonica, né dissonante né minimalistica, né sperimentale né antisperimentale, né novecentesca né anti novecentesca. In un certo senso, questa nuova procedura compositiva, per frammenti e per relitti, prende a prestito da tutte le acquisizioni stilistiche pregresse gli elementi di novità e li immette in una «forma» compositiva del tutto nuova. Siamo ormai lontani dall’epoca che ha sanzionato la decadenza di ogni narrazione, da quando, nel 1979, Lyotard dà alle stampe un libretto di circa cento pagine con il quale statuiva «la fine della modernità». La tesi di base è nota: Lyotard sancisce la fine della modernità, facendola coincidere con l’impossibilità di porre mano – per il filosofo come per lo storico della cultura e delle civilizzazioni – a una «grande narrazione», cioè a una storia che possa essere “macrostoria”, vale a dire una storia complessiva e comprensiva della civiltà. Ciò che restava erano i frammenti, i frantumi, i cocci dell’«Anfora» di Ubaldo de Robertis, i relitti, ed è con questi relitti che, volente o nolente, la poesia contemporanea dovrà fare i conti. Non c’è via di scampo. I ritorni al passato euofonico della poesia eufonica di Sandro Penna, sono impossibili, così come le derive narcisistiche verso le «narrature» (dizione di Roberto Bertoldo) post-modernistiche che fanno le fiche alla narrazione della narrativa.

Francesca Dono ha il dono, se così si può dire, di possedere il demone della poesia. Fa una poesia che nessuno si sognerebbe mai di fare, e lo fa con la naturalezza e l’ingegnosità di chi ha un talento maldestro e irriguardoso. Oserei dire che è un po’ il versante femminile di Antonio Sagredo. Fa poesia come fa fotografia, con lo smartphone, con l’ingegno della spontaneità, ha uno sguardo originale e non convenzionale sulle cose, come può averlo un primitivo nell’isola di Pasqua, leggi le sue associazioni e rabbrividisci, non ti ci raccapezzi. Inverte l’ordine degli addendi, e il risultato cambia, è questo il segreto del suo approccio. Incredibile, Francesca Dono possiede per via, per così dire, «naturale», il segreto dei «frammenti», li mette in un bussolotto, agita il tutto, e quello che ne viene fuori è un prodotto sempre diverso. Semplice, no? Fa del bricolage e del brigantaggio linguistico. Le sue composizioni hanno una leggerezza e una fragranza encomiabile; mi dicono che riesce claudicante, che qua e là inciampa sulla diversissima geografia delle immagini, ma, credo che sia il rischio del mestiere di poeta: («la carta da parati con una finestra / sul finire dell’inverno»; «Buona fortuna-  scrive Hoffman sotto stelle insultate»). Procede con una precisione fotografica, fotometrica, nel senso che il metro della immagine è il suo unico regolo («un pesce rosso dentro la boccia di vetro»; «Lacrimogeni gettati dentro autobus di linea»); si esprime mediante enunciati surrazionali  e insensati («Pindaro non smorzare il giglio con la cenere del vulcano»), adotta  notazioni quasi didascaliche, fa cartografie di fotografie e di immagini, poi cambia passo, allunga il passo, torna indietro, ci ripensa, va avanti, e poi a destra, e a sinistra, parla di cose scombiccherate, bizzarramente assemblate («Allungo il pennello guardando sacchi a pelo a ridosso / di ombre lunari»),  in un paesaggio de-paesagizzato e de-psicologizzato, lunarizzato, ridotto a palcoscenico di burattini in libera uscita; assembla immagini le più varie, desuete, contraddittorie, farsesche, sovra reali in modo da de-naturare i componimenti e de-automatizzarli. Le sue sembrano poesie scritte da manichini irriverenti e scontenti che litigano tra di loro. Fa una poesia della contaminazione lessicale, della disseminazione, della combinazione e dello spaesamento, direi della labirintite, malattia tipica del nostro tempo psicotico; fa una poesia molto simile a quella di certi schizofrenici che sono molto più sani dei poetini da Parnaso dipinto; fa una poesia che manca di equilibrio, sì, che inciampa spesso, cade a terra e si rialza… Ed è appunto questo il suo pregio: che lascia ben visibili le cicatrici linguistiche, i vulnus, le cuciture improvvisate, i salti, gli strappi…  Segue la funzione simbolica del linguaggio per contiguità metonimica, senza darlo a vedere, senza pensarci, e magari senza saperlo, si affida alla metonimia piuttosto che alla metafora,  alla funzione sinonimica, e se ne va a spasso per suo conto con una incredibile libertà fantastica. Fa una poesia che manderebbe in estasi i bambini, ma che certo, gli adulti ben pettinati si guarderebbero bene dal prendere sul serio e storcerebbero finanche il naso. In specie, i poeti laureati, quelli che parlano con scienza e coscienza delle cose di cui si può parlare con meticolosa seriosità con un linguaggio lindo e pinto.

(Francesca Dono)

Poesie di Francesca Dono

– la carta da parati –

la carta da parati con una finestra
sul finire dell’inverno.
Allungo il pennello guardando sacchi a pelo a ridosso
di ombre lunari.
Brulicano pietre.
Si traccia la mappa per allevare sonni tra le morgane.
Tre anni e ancora lui non m’appartiene.
E’ indelebile la malia del vecchio straniero. Torno indietro.
Nessuno sorride.

.
– Achille giunge nell’ora perduta –

spocchie e foglie vecchie di lacci militari.
Achille nell’ora perduta.
Dita disadorne giungono tra i sudici illibati.
È irritante quel
disordine nell’afa .
Lucy scompare alla dogana. L’acciottolio di piatti
nel buio di un sotterraneo.
__Alcune cameriere s’innamorano.
L’albergo ha un tetto nel diluvio.
________–
Girotondo dei cieli.
_____ Dorme la puritana di San Francisco. Stalattiti raccolgono
Saturno in mezzo alle caverne.
In corteo cappelli proletari –
Sconfinano necrologi sul Journal de Paris.
– Buona fortuna – scrive Hoffman sotto stelle insultate.
Si sospira.
Di bocca in bocca un cianotico pasto.
Fisso un garzone per la fuliggine.

– un pesce rosso –

un pesce rosso dentro la boccia di vetro.
Anni nella stessa direzione.
Mi chino. Lui si abbandona estraneo
al circolo dell’acqua sempre piatta.
Un pesce rosso. Nel caldo o nel freddo.
Niente si muove sul davanzale.

– dell’uomo solitario –

atroci piedi alle solide fondamenta. Dell’uomo solitario l’attrito
nel peso di un corpo sottile. Si oscilla nel sonnifero. Anche il sacrestano
non ha scalato i calandri di cera. Nella cella un’antica fiumana di peltri. Inodore
tu respiri. La roulette mi gira ai perni di Gomorra. Perché rifiutare la festa delle canne
slanciate? Un bovaro si avvia lontano. Dopo la colonia tristemente il nostro capo curvo.

– di rose i giardini –

di rose i giardini.
I lini delle case fino alle cose.
Quasi cangiante l’audacia dei volti indigeni.
Fisso i declivi frastagliati. Oso issarli all’insegna agostana.
La falsa abbronzatura fiancheggia l’alone del tuo iride. Sono tutti
laggiù i lapis per disegnare le galassie. Sulla scia pietre accalcate. Ipoteche
verso la corolla solare. Lacrimogeni gettati dentro autobus di linea.
Mi alzo. Mi siedo.

– centimetri di scure acquoline –

l’eclisse.
Centimetri di acquoline salutando la luna.
Un altro poeta è caduto dalla pietosa rupe.
Pindaro non smorzare il giglio con la cenere del vulcano.
L’alba si sbeffeggia.
Duri calchi nella villa di Pompei.
Ora tu cresci inglobando fiumi già logori.
Tetri commensali dentro la sala cobalto.
Asfittica la fetta di carne sui piatti decorati.
Omero ormai scrive insonne.
Vele di luci sotto l’Olimpo. Mi pettino tra miseri mendicanti.
Tacciono le colonne del tempio.

– e per mai osare la precisione degli uccelli –

contaminata
la pioggia vacilla.
Forse cava la nostra carne
dentro milioni di fosse oceaniche.
__________Un colpo si punta all’acciaio. Moloch sparge
l’ala dell’anatra verso le aquile.
Non un dubbio.
_________Sotto i radar il sole e gli angeli del viaggio.
Ti porto una cena carica di ruggine.
La porta d’ulivo ha rami lungo la notte.
|________
Tu succhi dal branco il feto triste. Il branco ci concede l’ennesimo bronzo nel volto scarnato.
———————-
Filo imbastito sulle schiene blindate.___ Marion s’incontra con le torri assoldando oscuri sicari.
_Orti ed erbari in mezzo alle stoviglie.
Il piatto è nudo.
Che faranno di me? Poison _ poison nella polvere frettolosa.
Sussurri lievemente. Cani-ragni sugli altari.
Chet Baker si tormenta con una tromba stonata.
La sala americana è tra pareti incartate.
_______Luce tra le macerie.

francesca-dono-con-tela

(Francesca Dono)

– il miglio mischiato –

un cucchiaio dentro la clessidra.
Questa svasatura è il miglio mischiato dentro gabbie di uccellini.
Zia Carmelina taglia le pigne a dadini.
Una ciotola più o meno.
Il santo mi ha sparso in milioni di fedeli.
Scende il crepuscolo.
L’oceano soggiorna a Cattolica.
Prende il volo un’anatra tra i rovi di un orto.
Papà andava per i campi.
Altri sei mesi raccogliendo tra i clivi.

–  i grandi canyon –

grandi canyon nella
caccia del vento. Sospesi i fiori rossi
qualche luna è scoppiata sconfinando.
Pareti ripide negli orizzonti caduti.
Ho visto erbe carnivore banchettare
con i tuoi vermi. Tre mesi di cielo terreo
non tornando alla bottega dell’oro.
Bolle bibliche nell’acqua: dietro le volute
Erode si sventra . Qui m’insabbio
nella congrega dei papi. Chiederti
della promessa per il sole. Gli oracoli
si susseguono in ogni grappolo d’uva. Molto tempo
la mia anima senza un calice maestro.
Nella contesa una quinta e l’ombra riflessa.
Ma già ti riconosco. Ho visto
quel corpo lacerato.

– poltroncine rosse –

la sala di un cinema.
File di poltroncine scolorando nel buio .
Ovunque poltroncine di stoffa tra fievoli
mormorii o segreti.
E’ quasi penombra il gioco della luce.
Ogni volta dalla tela un corpo dal fotogramma.
Con te il singulto di una strana immagine.
Guardo il respiro dell’aria viziata.
Distrattamente i nostri fianchi si sgretolano
al minimo colpo di sonno.
Cataste di poltroncine .
Poltroncine rosse legate in ogni fila.

– selve al banco dei merluzzi –

selve al banco dei merluzzi.
Si strofinano candele al santuario.
L’uomo ha ucciso.
Un monaco ha forzato il gelo nella neve.
In obbligo questa lucciola-pachiderma
a svelarsi di notte. Ti raggiungo nel campo del bambù
bramoso. Luoghi canonici con cecchini e
bombe che non smettono di cercare.
Eros sussurra all’orecchio.
Del sole un salto tra scansie spellate.
Povera Betta partoriva figli prima di prendere
la pila del vento.

*

Lieve. Fatto in un mulino di olmo
nel corpo asciutto di belle bambine.
Aspettando i circoli della volpe
Lara ebbe il segno per i polsi più chiari.
Ricordo le ombre di fiumare assediate.
Un tempio aveva i graffiti dove
Ippazia si compiva nel coltello di conchiglie.
E venne un tetto levitando
l’altezza attorno. Tu tra i
riflettori immortali di una città attonita.
Morgana era l’altra sorella
nell’acqua del mare.

– Sonagli a Bali –

L’aureola nacque. Era un pomeriggio
col tuo maglione rosso verso Madras.
Intanto la gasolina nella
frusta del vento. Tra i fumi un teschio vagante.

-Puoi essere uguale a questa boccuccia. – Diceva.

Era buio . Lo sbieco della coperta traboccava pallido.
Era buio.
Non per i pianeti ma nell’incrinatura di vuote fruttiere.

-La morte non va altrove-. Il tuo teschio ingiallito
simile a un furgone angusto.

-Mi annido. Potrei trascinarti – lui ripeteva.

(Alcune donne in sottoveste. Altre dentro grattacieli di creta).

Già arroccati i miei margini in quelle pietre dure.
Venivano persino tamburini dal Missouri.
Ancora altra neve nei grani del pulviscolo.

35 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, poesia italiana, poesia italiana contemporanea

Esercizio di Composizione e Scomposizione di una poesia inedita di Giorgio Linguaglossa ad opera di Ubaldo De Robertis “Anahit” (da “Il tedio di Dio. viaggio nel paese delle ombre”) con un Appunto descrittivo di Laura Canciani

Anahit foto di DON-RICCHILINO

Anahit foto di DON-RICCHILINO

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi tra cui Nelly Sachs e alcune poesie di Georg Trakl. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma con Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto.
Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato Mimesis, Milano Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000 – 2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e Three Stills in the Frame Selected poems (1986-2014) Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Ha fondato la Rivista Letteraria Internazionale lombradelleparole.wordpress.com  – Il suo sito personale è: http://www.giorgiolinguaglossa.com e-mail: glinguaglossa@gmail.com
.

Anahit marty-feldman

Anahit marty-feldman

Appunto descrittivo di Laura Canciani
.https://www.youtube.com/watch?v=gaPblR7SE_0
“Anahit” è una classica poesia di Giorgio Linguaglossa. Parla Mnemosyne per il tramite di un poeta che narra la storia di un altro poeta, che è il suo Doppio. Ecco la figura del Doppelganger che si manifesta in tutta l’opera linguaglossiana. Una poesia di frantumi di specchi deformati. Inizia con un «ricordo più antico»: un’ombra entra nella stanza n° 27 dell’Hotel Astoria dove un personaggio non precisato porge un «foglio» al narratore della poesia in cui c’è scritta una sola parola: «È irrevocabile». Questo è l’incipit. Tutta la poesia che segue è il tentativo del poeta che narra di scoprire che cosa volesse significare quella parola. Ma, per scoprire quel significato il protagonista ci impiega una vita. Una vita in cui appaiono vari personaggi: «un violinista» che, per paradosso non sa suonare; un «angelo gobbo» che impone al musicista di suonare il primo capriccio di Paganini; subito dopo compare il «padre» che «ha lottato con le ombre», che sta «dietro il muro», «che lotta con le belve»; un «nano gobbo» «che lo insulta», dei «gendarmi» «che aizzano dei dobermann contro di lui». Il poeta, il personaggio che racconta, è fuori quadro, ogni tanto, il poeta oggetto della poesia viene colto di sorpresa dal narratore a cercare la «foto di «Enceladon» [Chi è questa misteriosa Enceladon? Chi rappresenta?]  «nella tasca interna della giacca»; compare una «modella» del secolo XXI [Ancora un doppio. Ma di chi?], un «fotografo che scatta delle fotografie». E, infine, una misteriosa «dama veneziana» [Di nuovo un Doppio]. E poi di nuovo l’Hotel Astoria. «Quindici stanze». «Mio padre imbraccia il violino». «Quindici porte chiuse, ma io ho una sola chiave» [il Labirinto, metafora della memoria e della vita]. Il poeta dice di affacciarsi «ad una finestra» e vede «un centauro [che] galoppa» e che atterra su un prato verde di cartolina; poi c’è «un pittore» che «dipinge sulla tela un sole spento» [Perché «spento»?]. E, di nuovo, ricompare la «dama veneziana [che] passeggia sul Ponte di Rialto. È mia madre» [Di nuovo, ritorna Venezia, in filigrana, in trasparenza]. È straordinario come tutti questi eventi e personaggi si intreccino nella memoria del poeta, una memoria profonda, insondabile. Dunque, la risposta a quella «domanda» non può essere che una discesa agli inferi, la gerontocrazia del Male, all’interno della memoria. E allora? Allora, il poeta scopre che «Il libro della felicità lo sta scrivendo il pittore». Ma chi è il pittore? Si chiede il lettore. La risposta è semplice, siamo tu ed io, siamo tutti noi lettori abitanti del pianeta Terra. E che fa di così speciale il «pittore»? – Nulla, niente di speciale, ama «una prostituta di Trastevere… E scivola anche lui nel sonno».
Finita la poesia, il mistero si infittisce. Che cosa ha scoperto il poeta che non può dirci? Appunto questo, il poeta che narra ha scoperto qualcosa che non può comunicare al poeta che vive. Essi sono due entità distinte. Come il figlio è distinto dal padre chiuso in una delle «quindici stanze». Entrambi sono nel «sonno». L’ultima parola della poesia è, appunto, «sonno».
In fin dei conti, la poesia si presenta come un geroglifico. È questa la sua bellezza, che è costretta a dire qualcosa di indicibile, di inspiegabile [Dimenticavo di dire che il titolo della composizione prima di Anahit era: Il libro della felicità lo sta scrivendo il pittore, da cui si evince che tema della poesia è la Felicità]
 .

Anahit 2

Anahit

Poesia «originale» di Giorgio Linguaglossa

Anahit

[…]
Era forse il mese di aprile.
La casa dei nonni tra gli aranci in fiore.
– È il mio ricordo più antico –
Un’ombra entrò nella stanza n° 27 dell’Hotel Astoria.
Mi porse un foglio.
C’era scritto: «È irrevocabile».
«Cosa – chiesi – è irrevocabile?»,
ma l’ombra
così come era giunta, scomparve nell’oscurità.
[…]
Un interno al 77mo piano di un grattacielo di New York.
Il violinista apre esitante la custodia di mogano,
imbraccia il violino.
«Cosa devo suonare?», chiede all’angelo gobbo.
Un capriccio di Paganini, il primo, allegro con brio».
Di colpo, il violino sopprime la cornice dell’ombra
lo spartito del sonno scompare, il violinista vola nell’aria,
ritorna nella sua casa bianca che dorme nel bosco.
Frugo nella tasca interna della giacca.
Non ho più con me la foto di Enceladon…
[..]
Mio padre ha lottato con le ombre.
Dietro il muro bianco, c’è lui che lotta con le belve.
C’è un leopardo che gli ringhia contro.
Nascosto dietro la finestra, dietro la porta,
c’è un nano gobbo che lo insulta.
Dei gendarmi aizzano dobermann contro di lui.
Io gli grido di stare attento.
Grido da dietro la parete del muro bianco.
Ma lui non può udirmi.
Perché è dall’altra parte della parete.
[…]
«E adesso si può chiudere il sipario», mi dice
un’ombra di qua dall’oscurità.
[Ci sono delle ombre prigioniere nelle gabbie di ferro].
Ma io non ascolto, continuo a frugare
nelle tasche della giacca.
Faccio un passo oltre la soglia.
Siamo nel secolo XXI.
Uno studio fotografico. Una donna nuda
[In bianco e nero. Una modella di Vogue?]
cammina con i tacchi a spillo su un pavimento
di linoleum bianco su sfondo grigio chiaro. Un fotografo
scatta delle fotografie, in tutte le posizioni.
“Non ho mai visto una donna così bella”,
pensai “se non a Venezia nell’acqua alta:
Una dama in maschera solleva il vestito sopra il ginocchio…”,
ma dimenticai quel pensiero.
Poi qualcuno cambiò fotogramma
e pensai ad altro.
Prese un altro film dalla cineteca.
E riavvolse il nastro.
[…]
La dama veneziana si cambia d’abito.
Noi, al di qua dello spazio e al di là del tempo,
ammiriamo i suoi merletti di trine
i capelli color rame a torre sul suo volto in maschera.
Intanto, dietro il muro bianco c’è mio padre
che gioca con i serpenti.
 […]
Hotel Astoria.
Nel sogno ci sono quindici possibilità. Quindici stanze.
Mio padre imbraccia il violino.
Un corridoio. Ci sono quindici porte chiuse,
ma io ho una sola chiave.
[…]
Mi affaccio ad una finestra.
Un centauro galoppa su un prato verde di cartolina.
Un pittore dipinge sulla tela un sole spento.
Una dama veneziana passeggia sul Ponte di Rialto.
È mia madre.
Tocco nella tasca interna della giacca
la foto di Enceladon.
È sempre lì, dove l’avevo dimenticata.
[…]
Un altro passo all’indietro.
Il libro della felicità lo sta scrivendo il pittore.
Un cavalletto e una tela bianca.
Dalla parete di destra una debole luce filtra dalla finestra.
Il pittore dipinge il volto della sua amante.
Una prostituta di Trastevere. Le chiede di stare in posa.
E scivola anche lui nel sonno.
.

Anahit Charles Laughton - The Hunchback of Notre Dame (1939)

Anahit Charles Laughton  The Hunchback of Notre Dame (1939)

SCOMPOSIZIONE DELLA POESIA IN FRAMMENTI
ad opera di Ubaldo De Robertis
.
Anahit
.
[…]
Era forse il mese di aprile.
La casa dei nonni tra gli aranci in fiore.
– È il mio ricordo più antico –
Un’ombra entrò nella stanza n° 27 dell’Hotel Astoria.
Mi porse un foglio.
C’era scritto: «È irrevocabile».
«Cosa – chiesi – è irrevocabile?»,
ma l’ombra
così come era giunta, scomparve nell’oscurità.
[…]
Mio padre ha lottato con le ombre.
Dietro il muro bianco, c’è lui che lotta con le belve.
C’è un leopardo che gli ringhia contro.
Nascosto dietro la finestra, dietro la porta,
c’è un nano gobbo che lo insulta.
Dei gendarmi aizzano dobermann contro di lui.
Io gli grido di stare attento.
Grido da dietro la parete del muro bianco.
Ma lui non può udirmi.
Perché è dall’altra parte della parete.
[…]
Mi affaccio ad una finestra.
Un centauro galoppa su un prato verde di cartolina.
Un pittore dipinge sulla tela un sole spento.
Una dama veneziana passeggia sul Ponte di Rialto.
È mia madre.
Tocco nella tasca interna della giacca
la foto di Enceladon.
È sempre lì, dove l’avevo dimenticata.
[…]
«E adesso si può chiudere il sipario», mi dice
un’ombra di qua dall’oscurità.
[Ci sono delle ombre prigioniere nelle gabbie di ferro].
Ma io non ascolto, continuo a frugare
nelle tasche della giacca.
Faccio un passo oltre la soglia.
Siamo nel secolo XXI.
Uno studio fotografico. Una donna nuda
[In bianco e nero. Una modella di Vogue?]
cammina con i tacchi a spillo su un pavimento
di linoleum bianco su sfondo grigio chiaro. Un fotografo
scatta delle fotografie, in tutte le posizioni.
“Non ho mai visto una donna così bella”,
pensai “se non a Venezia nell’acqua alta:
Una dama in maschera solleva il vestito sopra il ginocchio…”,
ma dimenticai quel pensiero.
Poi qualcuno cambiò fotogramma
e pensai ad altro.
[…]
La dama veneziana si cambia d’abito.
Noi, al di qua dello spazio e al di là del tempo,
ammiriamo i suoi merletti di trine
i capelli color rame a torre sul suo volto in maschera.
Intanto, dietro il muro bianco c’è mio padre
che gioca con i serpenti.
[…]
Un altro passo all’indietro.
Il libro della felicità lo sta scrivendo il pittore.
Un cavalletto e una tela bianca.
Dalla parete di destra una debole luce filtra dalla finestra.
Il pittore dipinge il volto della sua amante.
Una prostituta di Trastevere. Le chiede di stare in posa.
E scivola anche lui nel sonno
[…]
Hotel Astoria.
Nel sogno ci sono quindici possibilità. Quindici stanze.
Mio padre imbraccia il violino.
Un corridoio. Ci sono quindici porte chiuse,
ma io ho una sola chiave..
[…]
Un interno al 77mo piano di un grattacielo di New York.
Il violinista apre esitante la custodia di mogano,
imbraccia il violino.
«Cosa devo suonare?», chiede all’angelo gobbo.
«Un capriccio di Paganini, il primo, allegro con brio».
Di colpo, il violino sopprime la cornice dell’ombra
lo spartito del sonno scompare, il violinista vola nell’aria,
ritorna nella sua casa bianca che dorme nel bosco.
Frugo nella tasca interna della giacca.
Non ho più con me la foto di Enceladon…
[..]
Qualcuno prese un altro film dalla cineteca.
E riavvolse il nastro.
[…]

.

Ubaldo de Robertis

Ubaldo de Robertis

Ubaldo De Robertis è nato nelle Marche nel 1942, risiede a Pisa. Ricercatore chimico nucleare, membro dell’Accademia Nazionale dell’Ussero di Arti, Lettere e Scienze. Premio “Marcello Seta” 2014 per la cultura scientifica e umanistica. Nel 2008 pubblica la sua prima raccolta poetica, Diomedee (Joker Editore), e nel 2009 la Silloge vincitrice del Premio Orfici, Sovra (il) senso del vuoto (Nuovastampa). Nel 2012 edita l’opera Se Luna fosse… un Aquilone, (Limina Mentis Editore); nel 2013 I quaderni dell’Ussero, (Puntoacapo Editore). Nel 2014 pubblica: Parte del discorso (poetico), del Bucchia Editore. Ha conseguito riconoscimenti e premi. Sue composizioni sono state pubblicate su: Soglie, Poiesis, La Bottega Letteraria, Libere Luci, Homo Eligens. Convivio in versi, mappatura democratica poesia marchigiana. È presente in diversi blogs di poesia e critica letteraria tra i quali: Imperfetta Ellisse, Alla volta di Leucade, L’Ombra delle parole, Il ramo di corallo, Poliscritture. Ha partecipato a varie edizioni della rassegna nazionale di poesia Altramarea. Di lui hanno scritto: S. Angelucci, Pasquale Balestriere, G. Linguaglossa, Michele Battaglino, F. Romboli, G.. Cerrai, N. Pardini, E. Sidoti, P.A. Pardi, M. dei Ferrari, V. Serofilli, F. Ceragioli, M.G. Missaggia, M. Fantacci, F. Donatini, E.P. Conte, M. Ferrari, L. Fusi, Ennio Abate. È autore di romanzi: Il tempo dorme con noi, Primo Premio Saggistica G. Gronchi, (Voltaire Edizioni), L’Epigono di Magellano,(Edizioni Akkuaria), Premio Narrativa Fucecchio, 2014, e di numerosi racconti inseriti in Antologie.

32 commenti

Archiviato in critica della poesia, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Scomposizione e Ricomposizione dei «frammenti» di due poesie di Steven Grieco Rathgeb e Mario M. Gabriele ad opera di Ubaldo de Robertis e Giorgio Linguaglossa con un Commento di quest’ultimo – Siamo davanti ad una mutazione genetica della poesia contemporanea, ad un mutamento ontologico della Forma poetica. La scrittura per «frammenti». Che cosa significa?

Bello Madonna_ft__Andy_Warhol_by_Coralulu

Madonna_ft__Andy_Warhol_by_Coralulu

Giorgio Linguaglossa

Vorrei scagliare una freccia in favore della scrittura per «frammenti». Che cosa significa? E perché?

 .

Innanzitutto, un presente assolutamente presente non esiste se non nella immaginazione dei filosofi assolutistici. Nel presente c’è sempre il non-presente. Ci sono dei varchi, dei vuoti, delle zone d’ombra che noi nella vita quotidiana non percepiamo, ma ci sono, sono identificabili. Così, una scrittura totalmente fonetica non esiste, poiché anche nella scrittura fonetica si danno elementi significanti non fonetizzabili: la punteggiatura, le spaziature, le virgolettature, i corsivi ecc.
La scrittura per «frammenti» implica l’impiego di una decostruzione riflessiva, la quale nella sua propria essenza, segue il tempo del «Presente» che sfugge di continuo, che si dis-loca. Il dislocante è dunque il «Presente» che si presenta sotto forma del «soggetto» significante (ricordiamoci che per Lacan il soggetto si instaura come rapporto con un significante e l’altro). Ma, appunto, proprio per l’essere una macchinazione significante, il «soggetto» non può mai raggiungere il pieno possesso del «significato».
In base a queste premesse, una scrittura logologica o logocentrica, non è niente altro che un miraggio, il miraggio dell’Oasi del Presente come cosa identificabile e circoscritta, con il versus che segue il precedente credendo ingenuamente che qui si instauri una «continuità» nel tempo. Questa è una nobile utopia che però non corrisponde al vero.
Io dico una cosa molto semplice: che l’utilizzazione intensiva ad esempio della punteggiatura e degli spazi tra le strofe produce l’effetto non secondario di interrompere il «flusso continuo» che dà l’illusione del Presente; produce lo spezzettamento del presente, la sua dis-locazione, la sua locomozione nel tempo. Introduce la differenza nel «presente».
Il non dicibile abita dunque la struttura del «presente», fa sì che vengano in piena visibilità le differenze di senso, gli scarti, le zone d’ombra di cui il «presente» è costituito.
Alla luce di quanto sopra, se seguiamo l’andatura strofica della poesia di Mario Gabriele, ci accorgeremo di quante interruzioni introdotte dalla punteggiatura ci siano, quante differenze introdotte dalla dis-locazione del discorso poetico, interpretato non più come flusso unitario ma come un immagazzinamento di differenze, di salti, di zone d’ombra, di varchi:

.

Nonna Eliodora da giugno era scomparsa.
Stranamente oggi non ho visto Randall.
Mia amata, qui scorrono i giorni
come fossero fiumi e la speranza è così lontana.
Dimmi solo se a Boston ci sarai,
se si accendono le luci a Newbury Street.
Era triste Bobby quando lesse il Day By Day.
Oh il tuo cadeau, Patsy, nel giorno di Natale!

.

bello diabolik-eva-kant-coppia

diabolik-eva-kant Roy Lichtenstein

Nella «Nuova poesia», non c’è un senso compiuto, totale e totalizzante e unidirezionale. Il senso si decostruisce nel mentre si costruisce. Non si dà il senso ma i sensi. Una molteplicità di sensi e di punti di vista. Come in un cristallo, si ha una molteplicità di superfici riflettenti. Non si dà nessuna gerarchia tra le superfici riflettenti e i punti di vista. Si ha disseminazione e moltiplicazione del senso. Scopo della lettura è quello di mettere in evidenza gli scarti, i vuoti, le fratture, le discontinuità, le aporie, le strutture ideologiche e attanziali piuttosto che l’unità posticciamente intenzionata da un concetto totalizzante dell’opera d’arte che ha in mente un concetto imperiale di identità. La nuova poesia e il nuovo romanzo sono alieni dal concetto di sistema che tutto unifica, che tutto «identifica» (e tutto nientifica) e riduce ad identità, che tutto inghiotte in un progetto di identità, che tutto plasma a propria immagine, in vista di una rivendicazione dell’Altro e della differenza come grande impensato della tradizione filosofica occidentale. In questa accezione, la decostruzione è una conseguenza della riflessione filosofica di Martin Heidegger. Infatti il disegno della seconda sezione di Sein und Zeit (1927) – rimasta alla fase di mera progettazione, per la caratteristica inadeguatezza del linguaggio della metafisica – risuonava come una “distruzione della storia dell’ontologia”, in nome di una ontologia fenomenologica capace di assumere di «lasciar/far vedere il fenomeno per come esso si mostra» (Derrida) – a far luogo da un linguaggio rinnovato alla radice (ripensato), filosoficamente (nell’accezione ordinaria del termine) scandaloso.
.
Un esperimento con la poesia
.
Mi sono permesso di fare un esperimento con la poesia di Mario Gabriele come ha fatto Ubaldo De Robertis con la poesia di Steven Grieco Rathgeb.
Ho diviso la poesia in 8 strofe o frammenti e poi ho ricomposto i frammenti (o strofe) con un’altra disposizione e conseguenzialità logico estetica, questo per dimostrare che la poesia dei nostri giorni è molto diversa da quella dell’Alcyone (1903) di D’Annunzio postata stamane, lì non è possibile alcuna divisione e ricomposizione dei versi per la semplice ragione che la poesia è un flusso continuo dove il precedente ha una sua ragion d’essere ontologica che non può essere sostituita da altro brano o strofe senza compromettere il tutto e rischiare di far crollare la costruzione estetica del poema.
.
Le due poesie di Mario Gabriele e di Steven Grieco Rathgeb, ricomposte da me e da Ubaldo De Robertis, possono vivere mediante varie ricomposizioni. Come nel giovo del puzzle, le singole tessere possono trovare diversi alloggiamenti tanti quanti sono i contesti diversi. La suddivisione in frammenti e la successiva ricomposizione dei medesimi costituisce la VERIFICAZIONE DELL’ESPERIMENTO. Esso dimostra che la poesia di oggi è ontologicamente mutata rispetto a quella di inizio secolo. La poesia moderna è già frammento al suo nascere.  Le composizioni possono essere smontate e rimontate secondo il gusto e le preferenze dei singoli lettori. È incredibile, il lettore può intervenire cambiando l’ordine polifrastico degli addendi.
.
Per chi non l’abbia ancora capito, qui siamo  dinanzi ad una vera e profonda novità della poesia contemporanea: essa è «frammento» e la sua procedura ontologica è la ricomposizione di «frammenti». Ciò non vuol dire che la poesia dei nostri giorni abbia perso qualcosa rispetto alla poesia della tradizione o che sia migliore o peggiore. Direi molto semplicemente che essa ha mutato il suo codice genetico, è diventata una cosa molto diversa, che offre delle possibilità espressive incredibilmente ampie e imprevedibili. Qui non siamo più nella forma aperta teorizzata da Umberto Eco nel 1962, abbiamo fatto un passo ulteriore, qui siamo nella forma composta di polinomi frastici che si dividono e si possono ricomporre seguendo diversi criteri compositivi.
Siamo davanti ad una mutazione genetica della poesia contemporanea.

.

bello Andy-Warhol-painting

Andy-Warhol-painting

Poesia originale di Mario M. Gabriele

Una fila di caravan al centro della piazza
con gente venuta da Trescore e da Milano
ad ascoltare Licinio:-Questa è Yasmina da Madhia
che nella vita ha tradito e amato,
per questo la lasceremo ai lupi e ai cani,
getteremo le ceneri nel Paranà
dove abbondano i piranha,
risaliremo la collina delle croci
a lenire i giorni penduli come melograni,
perché sia fatta la nostra volontà.-
Un gobbo si fermò davanti al centurione
dicendo:- Questo è l’uomo che ha macchiato
le tavole di Krsna, distrutto il carro di Rukmi,
non ha avuto pietà per Kamadeva,
rubato gioielli e incenso dagli altari di Nuova Delhi.-
-Allora lasciatelo alla frusta di Clara e di Francesca,
alla Miseria e alla Misericordia.
Domani le vigne saranno rosse
anche se non è ancora autunno
e spunta il ruscus in mezzo ai rovi-, così parlò Licinio.
Un profumo di rauwolfia veniva dal fondo dei sepolcri.
Carlino guardava le donne di Cracovia,
da dietro i vetri Palmira ci salutava
per chissà quale esilio o viaggio.
Nonna Eliodora da giugno era scomparsa.
Stranamente oggi non ho visto Randall.
Mia amata, qui scorrono i giorni
come fossero fiumi e la speranza è così lontana.
Dimmi solo se a Boston ci sarai,
se si accendono le luci a Newbury Street.
Era triste Bobby quando lesse il Day By Day.
Oh il tuo cadeau, Patsy, nel giorno di Natale!

.

bello

Ricomposizione in frammenti della stessa poesia ad opera di Giorgio Linguaglossa

.
1) Mia amata, qui scorrono i giorni
come fossero fiumi e la speranza è così lontana.

2) Dimmi solo se a Boston ci sarai,
se si accendono le luci a Newbury Street.
Era triste Bobby quando lesse il Day By Day.
Oh il tuo cadeau, Patsy, nel giorno di Natale!

3) Questa è Yasmina da Madhia
che nella vita ha tradito e amato,
per questo la lasceremo ai lupi e ai cani,
getteremo le ceneri nel Paranà
dove abbondano i piranha,
risaliremo la collina delle croci
a lenire i giorni penduli come melograni,
perché sia fatta la nostra volontà.

4) Nonna Eliodora da giugno era scomparsa.
Stranamente oggi non ho visto Randall.

5) Una fila di caravan al centro della piazza
con gente venuta da Trescore e da Milano
ad ascoltare Licinio:-

6) Un gobbo si fermò davanti al centurione
dicendo:- Questo è l’uomo che ha macchiato
le tavole di Krsna, distrutto il carro di Rukmi,
non ha avuto pietà per Kamadeva,
rubato gioielli e incenso dagli altari di Nuova Delhi.-

7) Un profumo di rauwolfia veniva dal fondo dei sepolcri.
Carlino guardava le donne di Cracovia,
da dietro i vetri Palmira ci salutava
per chissà quale esilio o viaggio.

8) -Allora lasciatelo alla frusta di Clara e di Francesca,
alla Miseria e alla Misericordia.
Domani le vigne saranno rosse
anche se non è ancora autunno
e spunta il ruscus in mezzo ai rovi-, così parlò Licinio.

.

Bello warhol_marilyn

warhol_marilyn

Ricomposizione di una poesia di Steven Grieco Rathgeb ad opera di Ubaldo de Robertis

.

A proposito della continuità nel tempo riferita allo scorrere dei versi, ho provato a leggere la straordinaria composizione di Steven Grieco Rathgeb rispettando in modo assoluto le spaziature poste dall’autore, ma nell’ordine indicato dai numeri che mi sono permesso di riportare nel testo.
Il mistero è dunque che la poesia: IL BUON AUGURIO, pur rovesciata come un calzino (l’ultimo verso coincide con il primo- diceva Borges), mantiene INTATTO tutto il suo fascino comunicativo, anzi, la lettura nei due sensi, in sequenza, accresce il suo valore e la “spiega” come un lenzuolo esposto al sole.
Aggiungo poi che Steven Grieco Rathgeb, poeta dai molti idiomi, sa collocare nei propri versi i termini, le parole più consone! Eh, sì, cara Stefanie Golisch, quelle che lei definisce “belle paroline” io le chiamerei: “qualcosa di più conforme” (Leopardi insegna) che al poeta vero viene naturale, lasciando da parte retorica e superlativi, assecondando lo spirito di finezza. Quello di geometria, quello sì, lo lasciamo ai letterati della domenica.

.

Steven Grieco Rathgeb
IL BUON AUGURIO (Poesia ricomposta ad opera di Ubaldo de Robertis)

.
13 -La vita era reale, splendida; e profondamente nascosti
in noi gli alberi, i primi iris mirabili nella luce nera.
Il paesaggio diurno senza sogni, senza nascondigli.

.
12-“FERMI!”
– esclamò d’un tratto il Regista –
“Avete studiato le vostre parti troppo a fondo!
Non siete più voi stessi! Tutto da rifare!”

.
11-Ci fermammo di colpo, profondamente scossi.

.
10 -Poiché nelle sue parole, in effetti, nulla si era fermato:
e più chiari che mai il palco su cui stavamo, le
scenografie spente, il cerone che ci imbrattava il viso.

.
9-Non c’era dubbio: era stato commesso un furto ignobile.
E noi, del tutto ignari.

.
8-Poi ancora un urlo dietro le quinte: “Il mondo non va più da sé!
Fate qualcosa!”
e tonfi sull’assito, e le grida di stupore
visibili nell’aria che veniva lacerandosi di traverso.

.
7-«Mmmm…» mormorò rapito il Regista, sprofondato
nella sua poltrona, gli occhi rivolti in su: quasi gioisse
di queste fronde d’albero che stormivano solo immaginandosi:
quasi prendesse il largo un re dalla mantella azzurra
in una barca sull’oceano.

.
6-Allora cercai il tuo viso nell’estrema durezza del riflesso:
ma da noi sorgevano mille profondità:
non semplice amalgama di ombre e sabbia,
luce respinta: una forma umana dal corridoio, giù in fondo,
superando seppur di sbieco uno dopo l’altro i rovelli,
non più derubata, fermo lo sguardo,
avanzava oltre i molti presenti in ogni dove,
la folla di nichilisti che spingeva,
tormentandosi nel buio.

.
5-Ancora guardai nello specchio. Era una finestra,
e il paesaggio là fuori, un inaspettato presagio:
i campi di grano, morbida onda prossima alla mietitura
mentre un fiume verde-bruno muoveva tra le sponde
rallegrandosi dei suoi riflessi azzurri;
e più avanti, dove i salici d’argento disperdono nivei fiori
solo per celare, come all’inizio di un verso,
l’usignolo di Chông.

.
4-Ancora gridò la voce assordante fuori campo:
“NON VEDETE come tutti ve la danno a bere?”

.
3- In effetti, il buio era più fitto che mai.
Ma proprio là dentro, nel cuore dello sguardo cieco
sorgeva questo tasso d’intensità sconosciuto,
come se noi irradiassimo una visione.

.
2-Come se non fossimo altro che noi stessi.

.
1- Aveva ragione da vendere, il Regista.
La partita l’avevamo stravinta.
.
bello 1.

Poesia originale di Steven Grieco Rathgeb
IL BUON AUGURIO

.
La vita era reale, splendida; e profondamente nascosti
in noi gli alberi, i primi iris mirabili nella luce nera.
Il paesaggio diurno senza sogni, senza nascondigli.

“FERMI!”
– esclamò d’un tratto il Regista –
“Avete studiato le vostre parti troppo a fondo!
Non siete più voi stessi! Tutto da rifare!”

Ci fermammo di colpo, profondamente scossi.

Poiché nelle sue parole, in effetti, nulla si era fermato:
e più chiari che mai il palco su cui stavamo, le
scenografie spente, il cerone che ci imbrattava il viso.

Non c’era dubbio: era stato commesso un furto ignobile.
E noi, del tutto ignari.

Poi ancora un urlo dietro le quinte: “Il mondo non va più da sé!
Fate qualcosa!”
e tonfi sull’assito, e le grida di stupore
visibili nell’aria che veniva lacerandosi di traverso.

«Mmmm…» mormorò rapito il Regista, sprofondato
nella sua poltrona, gli occhi rivolti in su: quasi gioisse
di queste fronde d’albero che stormivano solo immaginandosi:
quasi prendesse il largo un re dalla mantella azzurra
in una barca sull’oceano.

Allora cercai il tuo viso nell’estrema durezza del riflesso:
ma da noi sorgevano mille profondità:
non semplice amalgama di ombre e sabbia,
luce respinta: una forma umana dal corridoio, giù in fondo,
superando seppur di sbieco uno dopo l’altro i rovelli,
non più derubata, fermo lo sguardo,
avanzava oltre i molti presenti in ogni dove,
la folla di nichilisti che spingeva,
tormentandosi nel buio.
Ancora guardai nello specchio. Era una finestra,
e il paesaggio là fuori, un inaspettato presagio:
i campi di grano, morbida onda prossima alla mietitura
mentre un fiume verde-bruno muoveva tra le sponde
rallegrandosi dei suoi riflessi azzurri;
e più avanti, dove i salici d’argento disperdono nivei fiori
solo per celare, come all’inizio di un verso,
l’usignolo di Chông.

Ancora gridò la voce assordante fuori campo:
“NON VEDETE come tutti ve la danno a bere?”

In effetti, il buio era più fitto che mai.
Ma proprio là dentro, nel cuore dello sguardo cieco
sorgeva questo tasso d’intensità sconosciuto,
come se noi irradiassimo una visione.

Come se non fossimo altro che noi stessi.

Aveva ragione da vendere, il Regista.
La partita l’avevamo stravinta.

(1987-2012)

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.
è stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.
In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni.
protokavi@gmail.com

.

Mario Gabriele volto 1Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura” e pubblicato diversi volumi di poesia tra cui il recente Ritratto di Signora 2014. Ha curato monografie e saggi di poeti del Secondo Novecento. Ha ottenuto il Premio Chiaravalle 1982 con il volume Carte della città segreta, con prefazione di Domenico Rea. E’ presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poetidi Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzario, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Si sono interessati alla sua opera: G.B.Vicari, Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Luigi Fontanella, Giose Rimanelli, Francesco d’Episcopo, Giuliano Ladolfi,e Sebastiano Martelli. Altri Interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier. Cura il blog di poesia italiana e straniera L’isola dei poeti.

77 commenti

Archiviato in Crisi della poesia, critica dell'estetica, critica della poesia, poesia italiana contemporanea, Senza categoria