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Anna Ventura, da 21 poesie inedite, con una  Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

 

foto il vuoto della folla

è un Um-Weg, una via indiretta, contorta, ricca di andirivieni, di anfratti, di buche, un cunicolo sotterraneo che non si vede ma che c’è, nascosto dal folto della vegetazione delle merci linguistiche

Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi nel 1936. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate, a  quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la  Tabula Fati di Chieti. Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo.

È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate  in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV. Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin, traduzione di  Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 per EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013). Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Roma, Progetto Cultura, 2016)

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

 Il «passaggio», per Heidegger, è un Um-Weg, una via indiretta, contorta, ricca di andirivieni, di anfratti, di buche, un cunicolo sotterraneo che non si vede ma che c’è, nascosto dal folto della vegetazione delle merci linguistiche. Nella situazione storica  della poesia italiana dagli anni settanta ad oggi è avvenuto questo: che un poeta della generazione venuta dopo quella di Pasolini (nato nel 1922) come Anna Ventura (nata nel 1936), nel breve arco di anni che separa la morte di Pasolini nel 1975 dall’esordio poetico della Ventura nel 1978, si è compiuto in Italia un vero e proprio genocidio della poesia, ma non perché i poeti siano morti ammazzati quanto perché i poeti sono stati costretti a sopravvivere in una sorta di stato sonnambolico o catatonico di morte apparente e di vita apparente.  Nella situazione degli anni settanta-ottanta ad un poeta che vivesse in periferia e che non fosse allineato con gli slogan delle parole d’ordine di allora di Roma e di Milano non era concesso udienza o attenzione. Questo va detto per spiegare il fatto di come la poesia della Ventura non  sia stata recepita e, tranne alcune eccezioni di riguardo, resterà inesplorata. Ecco la ragione che ha costretto la Ventura ad imboccare una via laterale, un Umweg, ed a percorrere un lungo tragitto esperienziale e stilistico per giungere fino a noi con il suo «nuovo» vestito degli ultimi due decenni.

Tuttavia, percorrere un Umweg per raggiungere un luogo non significa girarvi attorno invano, allungare il percorso – l’Umweg non è un Irrweg (falsa strada) e nemmeno un Holzweg (sentiero che si interrompe nel bosco), un sentiero interrotto – è una strada che comprende in sé una innumerevole quantità di altre strade diverse. È questo, penso, l’accezione che vorrei dare a queste poesie inedite di Anna Ventura. La poetessa abruzzese ha dovuto percorrere, fin da Brillanti di bottiglia, l’opera d’esordio del 1978, una gran quantità di strade comunali e di stradine laterali prima di immettersi nel grande alveo della poesia europea. Il lunghissimo tragitto non è accaduto per caso, è stato necessitato dalla oggettiva situazione di inflazione linguistica di poliscritture che si è verificata in Italia a partire dagli anni settanta fino ai giorni nostri ma non soltanto perché la «dritta via» era smarrita, oscura e impenetrabile, quanto perché nel mondo mediatico di oggi quella «via», come scriveva Wittgenstein, è una via «permanentemente chiusa». Non v’è alcuna strada, maestosa e tranquilla, come nell’epos omerico e ancora in Hölderlin e Leopardi, che sin da subito mostri la «casa», il luogo dal quale direttamente partire per ritrovare la patria da dove gli dèi sono fuggiti per sempre. Gli dèi sono stati dimenticati, e anche di «dio» se ne sono perse le tracce, non se ne sa più niente, ed oggi è una questione che interessa gli speleologi e gli archeologi. Oggi non c’è più una «siepe» che delimita lo sguardo, non c’è più qualcosa di solido che ostruisce l’ingresso e il viaggio, tutte le vie sono possibili e compossibili, statisticamente tutte le vie sono interscambiabili perché tutte condurranno, alla fine dei tempi, a Roma, alla mancanza di un fondamento stabile. C’è questa chiaroveggenza nella poesia di Anna Ventura che con il passare degli anni e dei decenni diventa sempre più consapevole. La tradizione nelle nuove condizioni della società mediatica, si allontana sempre più velocemente. Ed ecco che in queste poesie inedite che presentiamo, la poetessa può affermare con candore e semplicità «Siete qui, maestri/ Ascoltati ieri… Finalmente so… La barbarie che è fuori la porta/ Non mi fa più paura./ Attraverso un tempo lunghissimo,/ oltre lo spazio stretto del reale,/ oggi siete chiarissimi/ concreti».

 

Nel «nuovo» mondo di oggi «i maestri» sono scomparsi irrimediabilmente e la poesia è diventata una questione «privata», una questione privatistica da regolare con il codice civile e da perorare con un linguaggio polifrastico, un linguaggio «interno» che ammicca ad un «metalinguaggio» o «superlingua» qual è diventata la poesia che va di moda oggi. La questione «tradizione» oggi non fa più questione. I linguaggi poetici sono metalinguaggi  prodotto di proliferazione di altri linguaggi polifrastici. Oggi un critico di qualche serietà non avrebbe nulla da dire di questi linguaggi polifrastici o polinomici. Rispetto a tali linguaggi la poesia della Ventura spicca per la sua «nudità», è un linguaggio «nudo» in quanto indifeso, non è un metalinguaggio è un linguaggio.

In un suo saggio su Pasolini, la Ventura ricorda il parere di Moravia:

«Le idee di Pasolini sull’imborghesimento universale e sulla svolta antropologica del consumismo non derivavano da un’osservazione oggettiva della realtà sociale; ma erano l’espressione di un mito con il quale lui con gli anni aveva finito per identificarsi: il mito della età dell’oro della cultura contadina.

…Era inutile che io, per esempio, gli dicessi che i mali di Italia venivano non già dall’industrializzazione e dal consumismo… che, insomma, l’Italia lungi dall’essere distrutta dall’industria non era abbastanza industrializzata e lungi dall’essere troppo consumista, non consumava abbastanza; era inutile, cioè mettergli sotto gli occhi il Paese reale: lui vi sovrapponeva subito il suo mito e facilmente mi dimostrava che la mia diagnosi andava capovolta e che tutto il male dell’Italia veniva dal suo, ahimé, così effimero e ristretto benessere. Adesso mi si chiederà come mai questa razionalizzazione sia pure geniale di un mito letterario e poetico abbia incontrato tanto favore.

Penso che il successo della presa di posizione di Pasolini sia dovuto al momento storico in cui si è fatto avanti come polemista.

Egli ha interpretato la nostalgia di tanti italiani per una età dell’oro situata in un passato imprecisabile ma sicuramente agrario, nostalgia peraltro fatta soprattutto di sgomento di fronte al colossale fallimento storico di questo Paese come Paese moderno».1

È emblematica questa attenzione della Ventura per un poeta da lei tanto dissimile. Solo quattordici anni separano le date di nascita di Pasolini da quella della Ventura, ed è in questi anni che si consuma il divario tra la vecchia Italia contadina e la nuova che sta vivendo la sua industrializzazione a tappe forzate.

In un certo senso è qui il segreto della cifra stilistica della poesia venturiana: la poetessa abruzzese ha vissuto nella nuova Italia della industrializzazione compiuta e del post-sperimentalismo, nel momento in cui il post-moderno era già in via di esaurimento e stava venendo alla luce una società che voleva a tutti i costi chiudere la parentesi della modernizzazione accelerata. Il suo stile segna una sorta di ritorno alla semplicità del pensiero poetante dopo la ubriacatura del post-sperimentalismo e le vezzosità della poesia agrituristica e delle adiacenze dell’io che prenderà piede in Italia già durante gli anni ottanta e che continua fino ad oggi.

Redazione-Officina Pasolini e Franco Fortini, due scomodi compagni di strada

Redazione della rivista Officina, Pasolini e Fortini, due scomodi compagni di strada

La Ventura ritorna ad una poesia fatta di «cose», di «res».

Scrive Remo Bodei:

«Qualcosa… avviene nel nostro rapporto con le cose, specie nel campo dell’arte. Sul suo esempio, la filosofia è stata chiamata a comprendere la trasformazione degli oggetti in cose, a restituire loro l’eccedenza di senso sottratta dall’usura dell’abitudine e dallo sguardo oggettivante. Entrambe, arte e filosofia, combattono quindi la desemantizzazione cui il nostro mondo quotidiano, ridotto a “deserto del reale”, è stato sottoposto e invitano, nello stesso tempo, a rinvenire nelle cose quell’aura che ce le avvicina, pur mantenendone la distanza [cfr. Benjamin 1966, 23-24].
È ora possibile intendere il territorio della fantasia artistica come atopia, luogo inclassificabile, irriducibile allo spazio della res extensa, che non appartiene né al dominio della realtà assoluta, e a quello – che ne è l’opposto speculare – dell’utopia, del non-esistente per definizione. È una zona insituabile in cui il desiderio, cognitivo e affettivo insieme, trova il suo più intenso appagamento (almeno per quel tempo limitato della “domenica della vita” in cui Hegel aveva racchiuso la fruizione dell’arte, sottraendola ai giorni feriali del lavoro e delle preoccupazioni dell’esistenza). Si manifesta in essa la paradossale lontananza prossima rappresentata dalla “patria sconosciuta”, di cui parlano Plotino e Novalis, o quell’arrière-pays intravisto da Yves Bonnefoy, spazio simbolico in cui non siamo mai stati, ma che ci sembra di conoscere da sempre…»2]

È lecito affermare che la migliore poesia contemporanea si occupa di «cose» e non di «oggetti»? È lecito dire, più in particolare, che il luogo della poesia sia in quel limen che divide gli «oggetti» dalle «cose» e che ci racconta il misterioso tragitto che trasforma gli «oggetti» in «cose»?  Anna Ventura in una sua poesia scrive che dobbiamo mantenere «la distanza dalle cose», ed è vero, dobbiamo difenderci da un infoltimento di «cose» ma dobbiamo al contempo anche sollecitare in qualche modo questo «ritorno delle cose», perché soltanto esse ci possono parlare, anche se in una lingua che non comprendiamo; le «cose» possono dirci qualcosa di significativo che la merceologia dei discorsi comuni tende ad oscurare. In qualche modo, tutta la poesia della nuova ontologia estetica si trova lungo questa linea di consonanza con il linguaggio delle «cose». Le «cose» stanno lì a guardarci dal loro luogo atopico, ci parlano e ci parlano, ci fanno intravvedere una eccedenza di senso, ci familiarizzano con un ordine simbolico che conferisce significato alla nostra esistenza. In questa direzione, la lettura della poesia di Anna Ventura ci sorprende per l’acutezza con cui ha saputo indagare in tutta la sua opera il luogo delle «cose» e la loro lingua misteriosa.

1] A. Ventura La multiforme unità di Pasolini, Quaderni di Rivista Abbruzzese, 8, Lanciano, 1977, p. 15

2] Remo Bodei, La vita delle cose, Laterza, 2009, pp. 86-87

Foto Jason Langer, Mannequins, 1993

Finalmente so/ che cosa mi avete insegnato./ Siete nella tazza di caffè/ vuota sul tavolo,/ nelle carte sparse, nel cerchio/ di luce della lampada

Poesie inedite di Anna Ventura
I MAESTRI

Siete qui, maestri
Ascoltati ieri
col timore rapace
dell’ultimo dei discepoli.

Finalmente so
che cosa mi avete insegnato.
Siete nella tazza di caffè
vuota sul tavolo,
nelle carte sparse, nel cerchio
di luce della lampada.

La barbarie che è fuori la porta
Non mi fa più paura.
Attraverso un tempo lunghissimo,
oltre lo spazio stretto del reale,
oggi siete chiarissimi,
concreti. Continua a leggere

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PER IL COMPLEANNO DI ANNA VENTURA, UNA POESIA INEDITA A memoria di spiaggia, con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa a proposito della «chiacchiera» in T.S. Eliot

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 Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a  quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la  Tabula Fati di Chieti.

Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo. È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate  in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV.-Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin,traduzione di  Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 per EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013); nel 2016 dieci sue poesie sono comprese nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016).

Onto Ventura

ANNA VENTURA NELLA GRAFICA DI LUCIO MAYOOR TOSI

 giorgio linguaglossa

26 maggio 2015 alle 17:52

Cara Anna Ventura,

la tua poesia ci parla di pensieri che avvengono nella tua mente, di cose apparentemente insulse, come le piante trascurate sul terrazzo di casa; la tua poesia è ricca di chiacchiera, ma è una chiacchiera contestualizzata, direi teologica, che vede il divino nella «cose», che le oltrepassa da parte a parte. La tua non è la «chiacchiera indifferenziata» di cui tratta Heidegger. È l’esatto contrario. La «chiacchiera» in Heidegger designa il «si dice» indifferenziato della vita quotidiana, il «ci» dell’esserci che sta in un luogo qualunque, un luogo di passaggio (una sala d’aspetto, dal barbiere, in un salotto letterario, in un cinema, in una tavola con conoscenti, tra letterati etc.): la «chiacchiera» non ha in Heidegger alcuna accezione negativa ma è la costituzione normale dell’esserci; la chiacchiera ha la stessa costituzione categoriale della «falsa coscienza» del primo Lukacs, quando era ancora pre-marxista… così anche nella poesia dalla “Lettera di Lord Chandos” di Hofmannsthal (1902) e daThe Waste land (1922) in poi, la chiacchiera ha fatto letteralmente irruzione nella poesia, e direi che una delle poetessa che dopo Helle Busacca (1972) ha fatto larghissimo uso della chiacchiera in poesia sei proprio tu, cara Anna, e come non ricordare qui la chiacchiera di una poetessa, ingiustamente dimenticata, come Giorgia Stecher che scrive “Altre foto per album” (1996)? Anzi, dirò di più, la tua poesia è fondata proprio su questa categoria, mesce saggiamente paglia e grano, vetro (in grande quantità) e diamanti… è il lettore che deve imparare ad andare alla ricerca dei diamanti (!!!)
Non sono quindi un critico così ottuso! lungi da me l’idea che intenda demonizzare la «chiacchiera» in poesia! – però una poesia tutta di chiacchiera e di chiacchiere, questo no, per cortesia…
Nella poesia, mettiamo, di un Franco Buffoni invece io ci vedo la chiacchiera fasulla, il chiacchiericcio senza costrutto, senza teleologia e senza teologia, per dir così, un chiacchierare a vanvera, la chiacchiera pretesto, senza contesto, la chiacchiera contesto senza pretesto. Lì non c’è davvero niente da scoprire, non c’è nessun avvenimento o senso che non sia il banale commisto con altro banale. Non è neanche una poesia sul banale, che pure avrebbe un senso. Il suo ultimo libro Jucci (2015) è veramente un esempio di come la poesia italiana del maggiore editore italiano sia diventata una poesia istituzionale, cioè che istituzionalizza la «chiacchiera» priva di contesto a categoria estetica maggioritaria. In confronto la poesia di un Magrelli sembra quella di un genio…

Nel 1902, Hofmannsthal scrisse la celeberrima Lettera di Lord Chandos, testimonianza di una gravissima crisi, che lo aveva catapultato dalla parola compiuta alla parola impossibile, all’afasia. Non per questo Hofmannsthal cessò di scrivere, anzi si può dire quasi che da quella crisi nasca la sua grande prosa. Gli scritti posteriori celano in sé la traccia di quella lesione irreversibile. La Lettera di Lord Chandos è la testimonianza di una crisi profonda, in cui l’autore, nelle vesti di un immaginario lord inglese, confessa e analizza la propria incapacità di dominare il pensiero e il linguaggio, di arginare la frantumazione del soggetto quale principio ordinatore della realtà: problema irrisolto di tutta la letteratura del Novecento.
Acutissima è la percezione del «contorno divino» delle cose  in Hofmannsthal, dalla «pura magia» dell’inizio, un gesto: quello dell’inchinarsi dinanzi all’ignoto che appare, sferzato da quell’apparizione a «percorrere l’intero regno della metafora». Come Hofmannsthal scrisse nel Libro degli amici: «Nel presente si cela sempre quell’ignoto la cui apparizione potrebbe mutare tutto: questo è un pensiero che dà le vertigini, ma che consola».

Anche nella tua poesia, cara Anna, c’è l’acutissima percezione del «divino» che si cela tra le macerie del quotidiano, tra le macerie e i relitti del nostro modo di vita borghese, delle nostre abitudini; la tua poesia reca la traccia di quell’atto di annebbiamento delle parole il cui primo documento spirituale lo si rintraccia nella Lettera di Lord Chandos di Hofmannsthal. La tua poesia è una poesia del contorno delle cose, che costeggia il prosaico ordinario della vita quotidiana in attesa dell’ignoto, o della ripetizione del noto, quello che Heidegger, in un differente contesto, definì «chiacchiera». C’è una fenomenologia dell’attesa, quell’attesa che viene dopo la speranza, e che è intrisa di temporalità.

Dalla prefazione alla Antologia di Anna Ventura Tu Quoque (Poesie 1978-2013) EdiLet, 2014

In tempi di riduzionismo poetico [dalla fine degli anni Settanta ad oggi], la Ventura prende atto che l’unico «poetico» è il «reale», e che bisogna ritornare alla epifania «reale». In questo tragitto della poesia italiana è uno dei percorsi più originali e fermi nella assunzione delle responsabilità che attengono alla poesia, se consideriamo che l’esordio di Anna Ventura è datato 1978, con la raccolta dal titolo inequivoco Brillanti di bottiglia. Un percorso politicamente non ben educato: è il modus della Ventura di fare anticamera. È come se la brillantina Linetti dell’intelligenza fosse stata profusa sui capelli spettinati della poesia di quegli anni, così vulnerata e incidentata dai singulti del post-sperimentalismo e dai singhiozzi della nascente «parola innamorata» la cui omonima Antologia cade proprio in quell’anno. La poesia di Anna Ventura si muove senz’altro in contro tendenza: ma una massa enorme, la marea della poesia alla moda la sospinge alla deriva. È la risacca del mare magnum. È il destino che arride spesso alla poesia olistica ed elegante che non concede sconti alla demagogia. Quella cartesiana intelligenza di spaccare il capello in quattro, quella consapevolezza nella certezza del dubbio secondo cui «la pagliuzza nel tuo occhio è la migliore lente di ingrandimento»* spingerà sempre più la minuscola imbarcazione della poesia di Anna Ventura, come quella pur così diversa di Giorgia Stecher e di una Maria Rosaria Madonna, verso il mare alto di un isolamento diurno, con tanto di interdizione dai pubblici uffici ad maiora. Siamo all’interno di quella problematica che il post-sperimentalismo lascia alla poesia italiana di fine Novecento: la crescente separazione e distanza che divide la «parola» dalle «cose». Una poesia della Ventura intitolata «La parola alle cose» contenuta nella raccolta Le case di terra (1990), è emblematica della consapevolezza dell’autrice di imboccare la via che conduca al riavvicinamento della «parola alle cose»:

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A  memoria di spiaggia

Nei momenti peggiori,
mi affaccio sul terrazzo:
a destra, appena sotto, c’è il mare;
sul tavolo, unico arredo ,
si assiepano le primule,
le viole, i ciclamini: tutti i fiori
che la stagione prevede. Mi aspettano
perché vogliono bere, perché vogliono
che io li liberi dalle foglie secche,
insomma, che in qualche modo mi occupi di loro.
Mi chiedo quante mancanze di acqua,
quante incurie, quante disattenzioni io
abbia accumulate in tutta la mia vita;
molte, anche se ho creduto di essere attenta:
attenta all’astratto prima che al concreto,
alla parola prima che all’azione.
Aspetto che, da un momento all’altro,
la realtà arrivi dal mare alto:
barconi pieni di gente nera, con i denti bianchi.
Ma già il bagnino prepara la scatola di sabbia
in cui passeremo l’estate: lui sa il nome dei venti
e i segreti dei pesci, si copre sempre
con la stessa felpa, bianca, blu e nera,
a stelle e strisce, che si vende al mercato.
Nemmeno gli passa per la mente
che tutto potrebbe cambiare,
da un attimo all’altro.
Il telegiornale, nemmeno lo sente;
le previsioni del tempo se le fa da solo.
Ha una grande famiglia
in cui non si ribella nessuno;
io sono una buona cliente
perché da anni pago senza discutere,
perciò mi riserva sempre l’ombrellone peggiore.
Io non mi lagno mai:
nell’incertezza, tra Santa Rita o una scema, credo
che propendesse per la seconda ipotesi;
poi qualcuno lo ha informato
sulle mie qualità stregonesche
e l’intera famiglia ha preso a guardarmi
con l’occhio attento.
Mi hanno perfino offerto un caffè,
cosa mai accaduta a memoria di spiaggia.

Anna Ventura copertina tu quoque

Se leggiamo un brano famoso di una poesia di Eliot Una partita a scacchi (da The waste land), ci rendiamo conto di quanto la migliore poesia del Novecento e del Dopo il Novecento sia ancora debitrice della poesia di Eliot. Qui c’è un parlare a vanvera, un parlare apparente, un parlare a zig zag, un parlare pretesto, un mix impareggiabile di sciocchezze e di quisquilie:

[…]
“Ho i nervi a pezzi stasera. Sì, a pezzi. Resta con me.
Parlami. Perché non parli mai? Parla.
A che stai pensando? Pensando a cosa? A cosa?
Non lo so mai a cosa stai pensando. Pensa.”
Penso che siamo nel vicolo dei topi
Dove i morti hanno perso le ossa.
“Cos’è quel rumore?”
Il vento sotto la porta.
“E ora cos’è quel rumore? Che sta facendo il vento?”
Niente ancora niente.
E non sai
“Niente? Non vedi niente? Non ricordi
Niente?”
Ricordo Quelle sono le perle che furono i suoi occhi.
“Sei vivo, o no? Non hai niente nella testa?”
Ma
0 0 0 0 that Shakespeherian Rag…
Così elegante
Così intelligente
“Che farò ora? Che farò?”
“Uscirò fuori così come sono, camminerò per la strada
“Coi miei capelli sciolti, così. Cosa faremo domani?
“Cosa faremo mai?”
L’acqua calda alle dieci.
E se piove, un’automobile chiusa alle quattro.
E giocheremo una partita a scacchi,
Premendoci gli occhi senza palpebre, in attesa che bussino alla porta.
Quando il marito di Lil venne smobilitato, dissi –
Non avevo peli sulla lingua, glielo dissi io stessa,
SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE
Ora che Albert ritorna, rimettiti un po’ in ghingheri.
Vorrà sapere cosa ne hai fatto dei soldi che ti diede
Per farti rimettere i denti. Te li diede, ero presente.
Fatteli togliere tutti, Lil, e comprati una bella dentiera,
Lui disse, lo giuro, non ti posso vedere così.
E io nemmeno, dissi, e pensa a quel povero Albert,
E’ stato sotto le armi per quattro anni, si vorrà un po’ divertire,
Se non lo farai tu ce ne saranno altre, dissi.
Oh è così, disse lei. Qualcosa del genere, dissi.
Allora saprò chi ringraziare, disse, e mi guardò fissa negli occhi.
SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE
Se non ne sei convinta seguita pure, dissi.
Ce ne sono altre che sanno decidere e scegliere se non puoi farlo tu.
Ma se Albert si sgancia non potrai dire di non essere stata avvisata.
Ti dovresti vergognare, dissi, di sembrare una mummia.
(E ha solo trentun anni.)
Non ci posso far niente, disse lei, mettendo un muso lungo,
Son quelle pillole che ho preso per abortire, disse.
(Ne aveva avuti già cinque, ed era quasi morta per il piccolo George.)
Il farmacista disse che sarebbe andato tutto bene, ma non sono più stata la stessa.
Sei davvero una stupida, dissi.
Bene, se Albert non ti lascia in pace, ecco qui, dissi,
Cosa ti sei sposata a fare, se non vuoi bambini?
SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE
Bene, quella domenica che Albert tornò a casa, avevano uno zampone bollito,
E mi invitarono a cena, per farmelo mangiare bello caldo –
SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE
SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE
Buonanotte Bill. Buonanotte Lou. Buonanotte May, Buonanotte.
Ciao. ‘Notte. ‘Notte.
Buonanotte signore, buonanotte, dolci signore, buonanotte, buonanotte.

*

“My nerves are bad to-night. Yes, bad. Stay with me.
Speak to me. Why do you never speak? Speak.
What are you thinking of? What thinking? What?
I never know what you are thinking. Think.”

I think we are in rats’ alley 115
Where the dead men lost their bones.

“What is that noise?”
The wind under the door.
“What is that noise now? What is the wind doing?”
Nothing again nothing. 120
“Do
You know nothing? Do you see nothing? Do you remember
Nothing?”
I remember
Those are pearls that were his eyes. 125
“Are you alive, or not? Is there nothing in your head?”
But
O O O O that Shakespeherian Rag—
It’s so elegant
So intelligent 130

“What shall I do now? What shall I do?
I shall rush out as I am, and walk the street
With my hair down, so. What shall we do to-morrow?
What shall we ever do?”
The hot water at ten. 135
And if it rains, a closed car at four.
And we shall play a game of chess,
Pressing lidless eyes and waiting for a knock upon the door.

When Lil’s husband got demobbed, I said,
I didn’t mince my words, I said to her myself, 140
HURRY UP PLEASE ITS TIME
Now Albert’s coming back, make yourself a bit smart.
He’ll want to know what you done with that money he gave you
To get yourself some teeth. He did, I was there.
You have them all out, Lil, and get a nice set, 145
He said, I swear, I can’t bear to look at you.
And no more can’t I, I said, and think of poor Albert,
He’s been in the army four years, he wants a good time,
And if you don’t give it him, there’s others will, I said.
Oh is there, she said. Something o’ that, I said. 150
Then I’ll know who to thank, she said, and give me a straight look.
HURRY UP PLEASE ITS TIME
If you don’t like it you can get on with it, I said,
Others can pick and choose if you can’t.
But if Albert makes off, it won’t be for lack of telling. 155
You ought to be ashamed, I said, to look so antique.
(And her only thirty-one.)
I can’t help it, she said, pulling a long face,
It’s them pills I took, to bring it off, she said.
(She’s had five already, and nearly died of young George.) 160
The chemist said it would be alright, but I’ve never been the same.
You are a proper fool, I said.
Well, if Albert won’t leave you alone, there it is, I said,
What you get married for if you don’t want children?
HURRY UP PLEASE ITS TIME 165
Well, that Sunday Albert was home, they had a hot gammon,
And they asked me in to dinner, to get the beauty of it hot—
HURRY UP PLEASE ITS TIME
HURRY UP PLEASE ITS TIME
Goonight Bill. Goonight Lou. Goonight May. Goonight. 170
Ta ta. Goonight. Goonight.
Good night, ladies, good night, sweet ladies, good night, good night.

 

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SETTE POESIE INEDITE di Anna Ventura “In fondo in fondo”, “Due fili d’erba”, “Guadalupe”, “La nebbia sale dalle strade”, “Baia”, “La neve di ovatta” con una nota critica di Gino Rago e un Commento di Giorgio Linguaglossa

Picasso Every act of creation is first an act of destruction I do not seek. I find

Picasso Every act of creation is first an act of destruction I do not seek. I find

 Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a  quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la  Tabula Fati di Chieti.

Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo. È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate  in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV.-Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin,traduzione di  Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 con EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (poesie 1978-2013). Dieci sue composizioni sono apparse nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016).

 https://www.youtube.com/watch?v=OAUtpza1N_4

piedi con corda

piedi con corda

Commento di Gino Rago

 Forse è difficile apprezzare appieno l’icasticità, la leggera ironia del dettato poetico della poesia di Anna Ventura, «la Szymborska italiana» come è stata felicemente definita nel blog “L’Ombra delle Parole” da Giuseppina Di Leo, sospeso tra attenzione e ritenzione, interrogazione e risoluzione. Nella poesia della Ventura assistiamo alla poesia delle «cose», dove sono le «cose» che ci parlano tramite la loro distanza; è all’allestimento della «distanza» che qui ha luogo, l’allestimento di un luogo dove sia possibile l’incontro tra la voce parlante e l’occhio di chi legge e ascolta. È una poesia che nasce da Atena che «conosce la superficialità degli dei», dalla Sibilla che non cerca la verità delle «cose» ma il loro «evento», da Antigone, che invece cerca la verità delle «cose» al di là e al di fuori dei discorsi discordi dell’agorà, lontana mille miglia dai reumatismi dell’intelligenza e dalle insolvenze dei discorsi suasori della politica e della poesia corrotta dalla retorica e dai sofismi dei sofisti. La loro parola è ora lieve ora tragica ora soffusa di melacholia. La Sibilla, anch’essa è leggera, scrive le proprie sentenze sulle foglie degli alberi, abita la superficie della materia, cambia umore, e così cambia anche i suoi responsi. La poesia della Ventura è poesia politica e ermeneutica perché nasce dalla meditazione sopra le «cose», siano esse “Gli sposi etruschi”, o “Le case” o le poesie dedicate alle “streghe”, siano “Due fili d’erba” o qualsiasi altro argomento come il poeta Nerone, preso ad emblema della follia poetica, o Giulio Cesare che celebra inconsapevole il suo trionfo che sarà la sua rovina, o “La guardiana delle oche”, così misteriosa e insondabilmente autentica. “La neve di ovatta” è un ricordo dell’infanzia, una stregoneria che rievoca il mondo in cui tutto era un mistero. L’ultima poesia dell’antologia (che qui viene riprodotta per prima) è il testamento spirituale di Anna Ventura: la parola che pronuncia «il dissenso».

piedi senza corda

piedi senza corda

Commento di Giorgio Linguaglossa

Per Anna Ventura la poesia è quella cosa che non è stata scritta con l’intenzione di arrivare a destinazione. Per la Ventura la poesia è un messaggio interrotto. La poesia che raggiunge la destinazione cessa di essere poesia. Per la Ventura l’ufficio della poesia resta il «dissenso» verso ogni ipotesi di poesia logocentrica, verso ogni logos fondante, centrale e originario. Non si dà nessuna origine, la poesia può solo attraversare la «distanza» tra le «cose».

Per Derrida, il «logocentrismo» è il desiderio stesso di un centro, di un fondamento, su cui si costruisce il “bisogno di verità” della metafìsica. La vicenda della scrittura ha messo in luce come questa posizione centrale sia occupata dalla coscienza, e cioè dalla voce (“phoné“). La voce infatti è la coscienza, poiché garantisce la completa trasparenza dell’elemento espressivo, il suo immediato svanire nell’immediatezza del voler-dire, evitando quel che Platone paventava nella scrittura (“figlio bastardo e parricida”), e cioè la perdita del senso e l’incapacità di “difendersi” o, peggio, la possibilità di rivoltarsi contro il “padre-logos” (“La farmacia di Platone“). Che la metafisica sia sorta entro un orizzonte culturale che si avvale di una scrittura fonetica è un dato storico non secondario, poiché solo una scrittura fonetica avrebbe potuto consentire il sorgere di una concettualità in cui opposizioni come senso/lettera, spirito/materia, intelligibile/sensibile, verità/errore fossero sovrapponibili con quella voce/scrittura. Ma tutti i tentativi di relegare la scrittura a una funzione secondaria, accessoria e subordinata non sarebbero altro che tentativi di difesa dalla sua potenziale carica sovversiva, eversiva; che insomma nella vicenda della scrittura operi una sorta di “rimozione” è provato secondo Derrida dal fatto che, in realtà, una scrittura totalmente fonetica non esiste, poiché anche nella scrittura fonetica si danno elementi significanti non fonetizzabili: la punteggiatura, le spaziature, le virgolettature, i corsivi ecc.

Husserl sostiene che il presente (l’adesso nella sua puntualità) si compone di un non-presente, ogni percezione di una non-percezione. E allora, se non è possibile che il presente si dia in una forma assoluta, viene minata anche la possibilità di una presenzialità a sé priva di rinvio, di indicatività (la vita solitaria dell’anima, il platonico “monologo dell’anima con se stessa”), e quindi la possibilità di una presenzialità epochizzabile.

Il pensiero poetante di Anna Ventura assume un punto di vista critico-scettico verso ogni posizione di poetica logocentrica, che cioè si adegua in modo irriflesso ad una metafisica della «presenza della cosa», ovvero, che adotta una procedura ironica. La Ventura sa per istinto e per pensiero che laddove c’è la «cosa» non è detto che esista una «parola» adeguata. Tutto il suo tentativo poetico si gioca su questo punto: l’avversione verso la poesia logocentrica e fonologica che crede di poter identificare la presenza della cosa con la cosa stessa e, quindi, con la sua referenzialità linguistica. Il suo sforzo è teso a non  identificare ingenuamente presenza della cosa e logos; il logos è sempre non originario, affetto da secondarietà.

Anna Ventura

Questi piccoli fogli bruceranno

Questi piccoli fogli bruceranno
con tutto il resto, se è già scritta
l’ora dello sterminio. Ma,
poiché ancora ci è data la parola,
pronunciamo il dissenso.

(da Antologia Tu Quoque Poesie 1978-2013) EdiLet, 2014

anna ventura

anna ventura

In fondo, in fondo

La Sibilla lasciò l’antro di accesso,
si inoltrò nel corridoio lungo.
In fondo, in fondo,
stava la sua tana. Lì
preparava le foglie
e le metteva nel cestino.
Quel giorno era infuriata con Apollo,
che se ne stava nel Tempio,
lì vicino,
dove era tutto uno splendore.
Che umidità, invece, nella sua tana buia,
assediata dall’erba e dai rovi.
Quel giorno, sulle foglie,
scrisse una cosa bruttissima : .
“Guardatevi dall’amore”.
Ma poi che Apollo,
per mezzo di un piccione,
le inviò in dono un fiore,
la Sibilla tornò di buon umore,
e sulle foglie scrisse:
“Non abbiate paura”.

.
Due fili d’erba

Il filo d’erba disse
all’altro filo d’erba:
“ Lo vedi? La terra
sta diventando asciutta;
se non piove,
appassiamo.”
“Non temere, – rispose l’altro –
io ti darò un po’ della mia acqua;
ho una goccia nascosta sotto le radici.”
Non era vero,
– e lo sapevano entrambi –
ma entrambi
si sentirono più verdi.

l'angelo senza parole

l’angelo senza parole

Guadalupe

Sei tu,
la mia preferita,
madonnina di Guadalupe,
nera e secca,
gli occhioni pieni di meraviglia.
Chi sa che cosa vedono:
il dolore delle mamme povere,
il tacito sgomento dei bambini,
il furore degli uomini che masticano coca
per reggere alla fatica.
O il silenzio dei campi quando
la quiete notturna
finalmente scende
sulle capanne,
sulla stanchezza bruta,
sull’ingiustizia accettata
perché non si sa come combatterla,
perché non si mette in discussione.
Perciò sarà a te,
madonnina di Guadalupe,
che porteremo la nostra preghiera.

La nebbia sale dalle strade

La nebbia sale dalle strade,
ora che è inverno,
e i negri si coprono la testa
col cappuccio della felpa,
camminano veloci
sui sandali infradito,
eredità dell’estate. Loro
non conoscono il rancore,
perché sono pieni
di fede, di speranza
e di carità, i doni
che abbiamo dimenticati,
stregati dalla cornucopia stracolma
che ci è stata offerta dalla sorte.
Ora che sembra in pericolo-la cornucopia-
finalmente ne avvertiamo il privilegio
e il danno, capaci di arrivare a credere
che potremmo perfino farne a meno.

Anna Ventura copertina tu quoque

Baia

Qui gli uomini
osarono sfidare gli dei,
gli dei risposero
innalzando una cortina di sangue.
Rimase lo splendore.

.
La neve di ovatta

Da bambina accendevo
le candeline vere
sull’alberello vero;
ci mettevo anche la neve di ovatta,
col rischio di bruciare la casa;
la stufa di terracotta emanava
un calore buono, mentre,
fuori,
l’aria tagliava come una lama.
Oltre i vetri incrostati di ghiaccio,
c’era il cielo, carico di stelle; qualcuna,
ogni tanto, si staccava,
precipitava verso la terra buia.
Aspettavo di crescere,
aspettavo di non essere più bambina
per uscire da quella prigione di ghiaccio.
Il viaggio è stato
più lungo del previsto.

(Inediti)

Gino Rago

Gino Rago

Gino Rago nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Dieci sue poesie sono apparse nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo, 2016, a cura di Giorgio Linguaglossa. Ai suoi libri poetici hanno dedicato saggi critici Sandro Gros-Pietro, Giorgio. Linguaglossa, Sandro. Montalto, Luigi Reina, Alfredo Rienzi e altri. Con componimenti lirici e recensioni ha collaborato e collabora con svariate riviste letterarie (Poiesis, Poesia, Polimnia, Vernice, Paideia, La Procellaria, La Clessidra, Hebenon), è redattore della Rivista letteraria internazionale L’Ombra delle Parole.

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