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Salvatore Martino, Aforismi testamentari,  Nota di lettura di Giuseppe Talìa, la fedeltà ad un proprio statuto di poeta 

Foto Come arredare una parete bianca e noiosa

Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel 1940, nel cuore più segreto della Sicilia, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra (1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). Ha ottenuto i premi Ragusa, Pisa, Città di Arsita, Gaetano Salveti, Città di Adelfia, il premio della Giuria al Città di Penne e all’Alfonso Gatto, i premi Montale e Sikania per la poesia inedita. Nel 1980 gli è stato conferito il Davide di Michelangelo, nel 2000 il premio internazionale Ultimo Novecento- Pisa nel Mondo per la sezione Teatro e Poesia, nel 2005 il Premio della Presidenza del Consiglio. Nel 2014 esce con Progetto Cultura di Roma, in un unico libro, la sua produzione poetica, Cinquantanni di poesia. È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010  con la direzione di Sergio Campailla , insieme a Fabio Pierangeli ha tenuto un laboratorio di scrittura  creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008, un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.

Nota di lettura di Giuseppe Talia

Essere fedeli a se stessi. Cosa significa oggi la fedeltà ad un proprio statuto di poeta? È una domanda principe. È la domanda che si dovrebbero porre i nuovi o vecchi poeti generazionali, i quali, a dispetto della storia letteraria della seconda metà del ‘900, con lo spartiacque generato da Montale con Satura (1971) e Pasolini con Trasumanar e Organizzar (1971)  e l’avvento di Alfredo de Palchi con Sessioni con l’Analista (1967)  sulla scena poetica, non hanno avuto altri modelli che le così dette scuole minimali milanesi e romane di Milo de Angelis e di Valerio Magrelli.

Possiamo solo immaginare, e immaginiamo bene, le reazioni di Salvatore Martino agli ultimi due nomi di cui sopra. Martino, che per tutta la sua vita di attore/poeta ha sempre dedicato la sua ars poetica ad un ideale estetico rigoroso, basti pensare alle centoventidue sbarre dell’auto-consapevole prigione “azzurra” del sonetto in cui il poeta indaga, nella forma regolare di terzine e quartine, la Meditatio mortis della poesia di fine secolo. Chiude il cerchio del ‘900,  dopo aver cercato di ri-fondare Ninive con la maestranza e l’alto valore etico-estetico in un “atto fondativo”, il riconoscimento di elementi formali e materiali attraverso apposite norme giuridiche di poiesis.

Un tipico esempio di narrazione nevrotica La Fondazione di Ninive, di letteralizzazione della nevrosi, una variegata tassonomia di isterismi, di cortocircuiti del sistema nervoso in generale, in cui il tempo interno (E poi starsene a ragionare… Se sapessi quanto fu lungo…) e il tempo esterno (Quando/piove strade…) si accavallano, si avvicendano l’uno all’altro come il lampo e il tuono.

Scrive Donato di Stasi nella introduzione alla Fondazione di Ninive, “Ardente di classicità, Salvatore Martino continua a occuparsi del regno della crudeltà, indagando la fondazione della capitale assira, Ninive, giocando una straordinaria partita spazio – temporale sulle ceneri della Storia e della civiltà umanistica.

E quando un Poeta arriva, dopo un lungo percorso, a distillare dal magma di una vita dedicata alle Muse, poesie che concentrano tutta l’energia e tutti i raggi nella kora spettroscopica, allora il lettore consapevole non può esimersi dallo scandaglio che misuri non solo la profondità ma anche lo spessore degli strati,  dei sedimenti e  dei processi  che agiscono nella costruzione del sé poetico.

La massa ha finalmente rapito la poesia
e cosi ci hanno sconfessati.

 Questa silloge inedita di Martino è un lascito testamentario, un manoscritto ritrovato nella sabbia:

“Anche se l’errore è sempre dietro l’angolo, ignotum per ignotius, per insidiare una improbabile conoscenza di dare un nome all’amore, gettò le sue mani dentro il Nulla.”

Salvatore Martino in pensiero

Salvatore Martino

Giorgio Linguaglossa

2 febbraio 2018 alle 9.59

Non c’è dubbio che Salvatore Martino sia stato un poeta che non ha goduto della «visibilità» maggioritria, e pensare che si tratta di un autore di lunghissimo corso, il primo libro, Attraverso l’Assiria, risale al 1969, si tratta di cinquanta anni di poesia, ma è anche indubbio che anche poeti di alto livello come Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher nel secondo novecento hanno goduto di scarsissima considerazione. Il problema posto, quindi, può essere derubricato a non problema, poiché L’Ombra delle Parole non considera tra i suoi criteri di valutazione quello della «visibilità». Per noi tutti i poeti partono, alla staffetta, su un piano di parità ontologica. La differenza la fa la valutazione estetica, solo quella. Certo, è da dire che la poesia italiana dagli anni sessanta non ha aiutato Salvatore Martino nel suo tragitto verso la «poesia», anzi, gli ha frapposto ostacoli, stilistici, politici (di politica estetica), estetici… una lunga storia che il pezzo introduttivo di Mario Gabriele ha fotografato con precisione.

È senz’altro vero quello che scrive Mario Gabriele: «I poeti del Sud, in un certo senso, si sono autoemarginati con la loro poesia, minoritaria e monotematica, legandosi al paesaggio e agli affetti familiari, saturando l’ambiente, tra realtà e mito, all’interno della cosiddetta “civiltà contadina”», ma è senz’altro vero che la rivoluzione del ’68 in Italia ha visto la poesia italiana in una posizione di sfruttamento del demanio, i poeti si sono fatti una casa propria e si sono auto dichiarati poeti, l’antologia di Berardinelli e Cordelli Il pubblico della poesia (1975) fotografava con precisione questa nuova realtà dei «poeti massa» e dei «poeti di fede», che si auto nominavano «poeti» senza aggettivi… mi correggo: con una miriade di aggettivi qualificativi.

Ecco, siamo arrivati al punto dolente: L’impiego degli aggettivi e degli attanti concreti. Se chiedete ad un poeta italiano come si regola dinanzi a questa cosa qui al massimo ti guarda come un marziano.
Il fatto è che ben pochi poeti del secondo novecento si sono posti il problema della de-fondamentalizzazione della «forma-poesia» (intendo dire delle ripercussioni che tale fenomeno ha avuto all’interno della forma-poesia), fenomeno intervenuto in Europa (non so in America ma mi sembra che li le cose non siano state diverse). Ecco una serie di problemi: che cosa significa decostruzione in poesia? Che cosa significa la dis-locazione dell’io? Che cosa significa dis-locazione dell’oggetto? – Ecco, un poeta che non si pone questi problemi è un «poeta di fede», dobbiamo credergli sulla parola, dobbiamo credere che lui sia veramente un poeta anche se non capisce niente di che cosa significa la tridimensionalità in poesia e il quadri dimensionalismo in poesia. Come disse una volta Brodskij: «dal modo con cui metti un aggettivo capisco che tipo di poeta sei».

Non c’è dubbio che Martino metta gli aggettivi in un modo consequenziale e qualificativo, ovvero, unidirezionale come gran parte della poesia italiana del secondo novecento, ma io mi chiedo sempre più spesso se non ci sia un altro modo per infilare nel verso gli aggettivi e i sostantivi, se, insomma, non ci sia una diversa ontologia estetica delle parole, se insomma, i tempi non siano maturi oggi per un Cambiamento radicale del paradigma poetico nella poesia italiana.

Salvatore Martino, Inediti (2018-2019)

Mi chiedono talvolta
perché porto due cerchi d’oro
nella mano sinistra
la mia fedeltà al teatro
– gli rispondo –
la fedeltà alla poesia Continua a leggere

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Roberto Carifi, Poesie da Amorosa sempre Poesie (1980-2018), La Nave di Teseo, 2019 con Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

 

Foto Selfie uomo

Roberto Carifi è nato nel 1948 a Pistoia, dove risiede. Le sue raccolte di poesia: Infanzia (Società di Poesia, 1984), L’obbedienza (Crocetti, 1986), Occidente (Crocetti, 1990), Amore e destino (Crocetti, 1993), Poesie (I Quaderni del Battello Ebbro, 1993), Casa nell’ombra (Almanacco Mondadori, 1993), Il Figlio (Jaka Book, 1995), Amore d’autunno (Guanda, 1998), Europa (Jaka Book, 1999), La domanda di Masao (Jaca Book, 2003), Frammenti per una madre (Le Lettere, 2007), Nel ferro dei balocchi 1983-2000 (Crocetti, 2008), Madre (Le Lettere, 2014), Il Segreto (Le Lettere, 2015). Tra i saggi: Il gesto di Callicle (Società di Poesia, 1982), Il segreto e il dono (EGEA, 1994), Le parole del pensiero (Le Lettere, 1995), Il male e la luce (I Quaderni del Battello Ebbro, 1997), L’essere e l’abbandono (Il Ramo d’Oro, 1997), Nomi del Novecento (Le Lettere, 2000), Nome di donna (Raffaelli, 2010), Tibet (Le Lettere, 2011), Compassione (Le Lettere, 2012). È inoltre autore di racconti: Victor e la bestia (Via del Vento edizioni, 1996), Lettera sugli angeli e altri racconti (Via del Vento edizioni, 2001), Destini (Libreria dell’Orso, 2002); e traduttore, tra l’altro, di Rilke, Trakl, Hesse, Bataille, Flaubert, Racine, Simone Weil, Prévert, Rousseau, Bernardin de Saint-Pierre; Amorosa sempre. Poesie (1980-2018) (La nave di Teseo, 2018).

Il punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Adesso che abbiamo sotto gli occhi l’ampia antologia delle poesie di Roberto Carifi, possiamo tracciare la linea di sviluppo che ha percorso la sua poesia che compendierei così: dalla poesia neo-orfica degli inizi del 1980 alla compiuta narrativizzazione della forma-poesia delle ultime raccolte che si andrà accentuando a far luogo dagli anni novanta fino ai giorni nostri. Perché sia accaduto proprio questo, perché la parabola della poesia italiana dagli anni settanta ad oggi  sia defluita nell’ampio delta di una poesia narrativa o narrativizzante, resta a tutt’oggi un problema aperto, ed è il vero problema cui la poesia italiana più consapevole si trova di fronte. Il dato di fatto di questa parabola resta indubitabile ed ha le sue ragioni storiche e stilistiche che potremmo individuare in questi termini: nell’esaurimento delle poetiche propulsive che sono state messe in campo durante gli anni ottanta e novanta dalla compagine dei «nuovi» poeti: da Giuseppe Conte e Milo a De Angelis, che ha preso il nome esaustivo di «poesia neo-orfica» che ben tratteggia lo spettro (da destra a sinistra) della nuova poetica messa in campo. Le figure carifiane della madre, dell’angelo e dell’infanzia perduta («Caduta angeli d’infanzia» è il titolo di una sua raccolta), è la ternità da cui si dipana una poesia fortemente accentuata sul piano anti sperimentale con corto circuiti semantici, intensificazioni linguistiche e scorciatoie di una lessicalità che puntava alla nuda dizione memoriale («un luogo qualunque dell’infanzia»; «l’infanzia chiede di entrare nel fuoco degli anni») con slittamenti nell’elegia compositiva («i volti prosciugati dell’amore»; «ognuno ha una madre che trafigge»), con la percussiva presenza del tema dell’«esilio» e del «mistero» («Ciascuno ha un mistero, un ago/ che lo ricuce al nulla»); con il tema della maternità trattato mediante catacresi di tipo elegiaco («Madre scolpita nel dolore, forestiero al tuo ventre»). È un universo stilistico aurorale che si esprime mediante un linguaggio povero e umile.

Annota Andrea Temporelli:

«Le prime esperienze poetiche di Carifi, tuttavia, si muovono su un più duro terreno fonosimbolico: siamo del resto nella seconda metà degli anni Settanta e in zone dell’esperienza creativa in cui sperimentalismo e orfismo si intersecano (oggi, credo sia rimasta solo la rivista “Anterem” a portare avanti il discorso da questo limen). L’opacità della lingua che si muove pastosamente sulla pagina, creando ingorghi, scivolamenti, catturando insomma una tensione espressiva da liberare magari improvvisamente con tmesi e improvvisi enjambements, è evidente per esempio nella poesia che porta lo stesso titolo della raccolta d’esordio, Simulacri:

carnet d’incauti appuntamenti
la trova assente come
di lusso e miseria la vide figlio
eccitato e regredito la
consumò e rimase
quando di stucco l’altro (benché impossibile)
rispose (amico finché la membrana vischiosa)

tra angelo e bestia stanco dis
seminare mancanze crudele e bianco
di notti bianco biancore abiterò
mistico e poeta gridando
la la lalangue è questo
peregrinare angelico

amore di doppio corpo amore di
corpo di doppio al mercato
del bimbo stupendo amore di bête
amore di bêtise:
l’amore l’azzurro sacrale di Uno
l’icona di marmo
l’amour

Il procedere della scrittura con passo surrealista e tono incandescente già si avvale di un ricco patrimonio culturale (Rilke, Lacan) per proclamare la propria anfibia condizione di “mistico e poeta”, ben inserito in una cosmologia che lo vuole esiliato in un regno intermedio “tra angelo e bestia”, intento a ricostruire sulle rovine del linguaggio la lingua dell’in-fans, legata all’effigie materna e ancora partecipe della figura del doppio (l’angelo androgino) che precede il formarsi dell’ordine simbolico e desiderante del pensiero adulto.1]

Strilli Busacca è troppo tardi“L’angelismo è il mio télos”, dichiara il Carifi»; «la tecnica è violenza, ontologia senza segreto»,2] scrive Carifi che interpreta in modo personale un pensiero heideggeriano, un pensiero spinto alle  estreme conseguenze fino alla rinuncia alla «tecnica». E questa rinuncia indubbiamente segna lo stile del primo Carifi fino agli anni novanta quando interverrà una naiveté, l’abbandono del tono oracolare e incipitario della raccolta d’esordio e un comportamento prosastico che, sì, fungerà da correttivo dell’elegia e della impostazione neo-crepuscolare che stavano al fondo della poesia del suo periodo aurorale degli inizi, ma tenderà a determinare uno stile che espunge dal proprio demanio la radicalità della metafora, la dissonanza, qualsiasi cacofonia o distonia puntando invece sulla confluenza delle lessicalità e dei ritmi in un unico contesto compositivo.

«I topoi della poesia di Carifi sono allo stesso tempo metafore letterarie e filosofiche: esilio, erranza, evento, destino, caduta, vuoto, cenere, rovine, disastro, debolezza, tracce, simulacri, distanza, infanzia e luogo, angelo e dimora, viandante e straniero, viaticità ed abitare. Sono metafore che si radicano al colloquio tra parola filosofica e parola poetica, all’Heidegger che legge Hölderlin, Rilke, Trakl e George, al Celan della “via creaturale” e dell’evento, allo Jabès dell’interrogazione e del silenzio, al Nietzsche che inaugura il pensiero del “sospetto”. Richiamano l’angelo caduto, della custodia o maledetto, l’angelo di Baudelaire, di Hölderlin o di Artaud, la casa e l’infanzia: Hölderlin, Novalis e Trakl; l’Empedocle sempre di Hölderlin: il pensatore e il cantore, la vicinanza tra pensiero e poesia. Le metafore di Carifi nascono da questa vicinanza e da Rilke a George, i poeti prediletti sono pensatori che parlano poeticamente e da Nietzsche a Heidegger, i filosofi sono quelli che parlano attraverso le immagini dei poeti».3]

In Viaggi d’Empedocle, appare chiara la tendenza ad un disboscamento dei topoi retorici  con conseguente infoltimento dell’universo simbolico e una intensificazioni di «voci» esterne che pronunciano misteriose sentenze apodittiche; ritornano le tematiche dell’infanzia il tutto in un clima avvolgente di dramma imminente. Si avverte un infoltimento  di sintagmi oscuri, di colpe non espiate, oscure, la presenza del mondo dei morti, il senso di perdita, un universo monocromo, una suggestione per le tinte cruente, per le visioni minacciose.

Questa drammatizzazione scenografica, viene intensificata nel successivo libro, Infanzia (1984),  nel quale Carifi trova il suo linguaggio più delicato ed equilibrato. Non a caso il lessico e lo stile si riaggancia in qualche modo a quello di Luzi:

Il posto dei ciliegi, l’erba minuta
quando era in un luogo
qualunque dell’infanzia, solo
con le mille azioni
scaraventate nei cortili e tutti,
anche l’albero del noce,
danno un sentiero
che non risparmia nulla…
nessuno,
nessuno si salverà
nel giusto di questi anni
che strappano il viso
e basterà annientarsi, invecchiare
per essere in quel punto
terribile,
prima della tua nascita.

Strilli GabrieleStrilli Gabriele Da quando daddy è andato viaGiunto a metà degli anni novanta, balugina in Carifi la consapevolezza che la povertà del lessico non è più sufficiente, che uno spettro si aggira nella poesia italiana, che la poesia del Dopo il Moderno è un tipo di produzione che testimonia l’invecchiamento e la deperibilità come fattori positivi che consentono sempre nuove aperture di senso, che la poesia è una forma di produzione che si presenta in termini ostili alla organizzazione del consenso cui invece soggiacciono tutte le altre forme di produzione. Si tratta ancora di un pensiero che albeggia, non ancora percepito forse nella sua chiarezza e nella sua interezza («la carie che rode la parola/ è questo ronzio dietro le tende»), una intuizione che avrebbe potuto condurre ad uno sviluppo diverso e ulteriore la poesia carifiana («c’è un muto che prende la parola»), sviluppo che però si arresta sull’orlo dell’io, con conseguente ricaduta nel pendio elegiaco («sto con le cagne e i contagiati/ non so più nulla di chi amo»).4]

La riflessione di Heidegger (Sein und Zeit è del 1927) sorge in un’epoca, quella tra le due guerre mondiali, che ha vissuto una problematizzazione intensa intorno alla de-fondamentalizzazione del soggetto. Durante gli anni novanta, agli inizi di un periodo di crisi economica e stilistica, avviene in Italia una riflessione intorno alle successive tappe della de-fondamentalizzazione del soggetto e dell’oggetto. Si scopre che l’esserci del soggetto è il nullo fondamento di un nullificante. La poesia carifiana, come del resto tutta la poesia italiana di quegli anni non riesce a prendere piena consapevolezza delle conseguenze della de-fondamentalizzazione del soggetto e si limita a navigare intorno al soggetto con una poesia in via di indebolimento progressivo. La «nuova ontologia estetica» dei nostri anni  non potrà non prendere atto di questa problematica per trarne le debite conseguenze in sede stilistica.

Con gli anni novanta appare evidente che il mondo ha cessato di essere significativo, e forse al poeta non è concesso l’accesso alle esperienze significative, ed è emblematico che alla poesia di Carifi sia toccato in sorte dover stendere in versi l’epicedio esistenziale forse più disincantato della poesia di matrice tardo novecentesca della sua generazione. Oggi probabilmente, a distanza di più di due decenni, questa problematica appare in tutta evidenza, nei suoi limiti stilistici e nei suoi pregi; oggi noi  possiamo parlare dell’indebolimento della soggettività con la tranquilla consapevolezza che ciò che possono dare le parole poetiche forse non è granché ma è pur sempre qualcosa di importante. E infatti, La nuova ontologia estetica prende atto del fatto che non si può uscire dal sortilegio, o dall’immaginario direbbe Lacan, non possiamo sortire né entrare in un luogo sconosciuto se non mediante un trucco, un dispositivo, un cavallo di Troia, con annessa e connessa la rivalutazione della «tecnica» e del ruolo dell’inconscio, perché la città del senso la puoi prendere soltanto con un trucco, con un dispositivo estetico, con un sortilegio, un atto di raggiro, di illusione, perché il poeta è ragguagliabile ad un illusionista che illude con le parole ed elude con le parole. «Il fatto è che non si può davvero uscire dal trucco, o dall’immaginario, come direbbe nel suo linguaggio Lacan».5]

E forse in questo bivio soltanto, che non è soltanto un nodo stilistico ma anche esistenziale e quindi storico, può abitare il senso residuo dopo la combustione e il raffreddamento delle parole della nuova civiltà della comunicazione globale, se davvero v’è un senso nella parola poetica, costretta a sopravvivere in questo «indebolimento della soggettività»,6]  e in questa ibernazione dei linguaggi che dura ormai da tanto tempo che ne abbiamo perfino dimenticato la scaturigine.

Strilli Talia2Strilli Talia la somiglianza è un addioIl linguaggio paradossale per eccellenza è il linguaggio mitico e il linguaggio poetico che ne è l’erede. Nel mito le categorie del pensiero non-contraddittorio e del principio di non-contraddizione vengono meno, sono inutilizzabili. L’esperienza e l’esistenza sono per eccellenza il terreno della contraddittorietà. Anche la forma-poesia, dunque, deve farsi carico del contraddittorio e del paradosso quali proprietà di ciò che è e di ciò che non è. Di qui la necessità di costruirsi una procedura altamente conflittuale e contraddittoria che congiunga ciò che è contraddittorio come elemento ineliminabile della contraddittorietà incontraddittoria.

Così, scopriamo che la poesia oggi ha a che fare più con l’illusione e l’abbaglio, piuttosto che con la certezza e la verità, categorie che già filosofi come Platone ed Eraclito non potevano accettare, poiché avrebbero messo in dubbio ciò su cui si edifica il mondo dell’edificabile, il mondo del nomos e del logos, parole altisonanti ma false all’orecchio della Musa. L’illusione è lo specchio della verità: anzi, è la verità che si guarda allo specchio.

Il frammento, l’abbaglio, l’illusione, l’illusorietà delle illusioni, lo specchio, il riflesso dello specchio, il vuoto che si nasconde dentro lo specchio, il vuoto che sta fuori dello specchio, che è in noi e in tutte le cose, che è al di là delle cose, che è in se stesso e oltre se stesso, che dialoga con se stesso…
Di fronte a questa nuova situazione epocale dell’analitica dell’esserci, la petizione panlinguistica propria delle poetiche del tardo novecento scivola invariabilmente nell’ombelico autoreferenziale. Il linguaggio poetico è diventato un linguaggio che si ciba di linguaggio, una dimensione auto-fagocitatoria, metalinguaggio autoreferenziale. Che lo si voglia o no, la poesia del novecento e del Post-novecento è stata colpita a morte dal virus del panlogismo. Invece, c’è sempre qualcosa al di fuori del discorso poetico, qualcosa di irriducibile, che resiste alla irreggimentazione nel discorso poetico. Ecco, quello che resta fuori è l’essenziale: quel qualcosa, la «cosa», di cui nulla sappiamo se non che c’è, che esiste. E, con essa, esiste  il «vuoto», che incombe sulla «cosa», risucchiandola nel non essere dell’essere. Forse è proprio questa la ragione fondamentale che ci impedisce di poetare alla maniera del Passato e ci spinge verso una nuova ontologia estetica. Il «vuoto», che incombe sinistro su noi tutti e tutto divora.

Strilli GiancasperoL’oblio della memoria

Il recupero della memoria di cui la poesia di questi ultimi anni è protagonista e di cui in Carifi  c’è una forte traccia, ha radici senz’altro in una crisi di sistema della nostra recente storia poetica nazionale. Ho già avuto modo di parlare dell’oblio della memoria che data dal 1972, anno di pubblicazione della poesia Lettera a Telemaco di Iosif Brodskij; in particolare, la crisi del sistema Italia di cui assistiamo alla recita sul palco della politica in questi ultimi anni, una narrativa per certi aspetti comico-drammatica, tutto ciò, penso, ha avuto delle conseguenze e delle ripercussioni anche nel mondo della poesia. I recentissimi libri di Letizia Leone, Viola norimberga (2018), di Mario Gabriele, L’erba di Stonehenge (2016) e In viaggio con Godot (2017), Donatella Costantina Giancaspero, Ma da un presagio d’ali (2015), il mio Il tedio di Dio (2018), quello di Giuseppe Talia, La Musa Last Minute (2018) quello di Gino Rago, I platani sul Tevere diventano betulle (2019) sono alcuni tra i tanti esempi di un pensiero poetante che segna un ritorno alla ri-costruzione problematica della memoria, di una identità personale e collettiva. Questo è un compito che la poesia non può delegare ad altre forme d’arte e che deve far proprio.

«Ciò che rimane lo fondano i poeti»: ma non tanto in ciò che dura, ma anzitutto in quanto «ciò che resta» è significativo per l’arte: traccia, memoria, monumento scheggiato e corroso, frammento. Questa è l’unica verità a cui oggi possiamo accedere…

La poesia è il riconoscimento dello Zerbrechen (infrangersi) della parola, la sua terrestrità e mortalità…

1] https://www.andreatemporelli.com/2017/02/20/poeti-contemporanei-roberto-carifi/
2] Roberto Carifi, La carità del pensiero, Porretta Terme, I Quaderni del Battello Ebbro, 1990, p. 75
3] Isabella Vincentini, Topografia di una metafora, in «I Quaderni del Battello Ebbro», III, 5, 1990, pp. 36-7
4] Roberto Carifi, Il Figlio, 1995
5] citato in Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza, Raffaello Cortina Editore, 2007 p. 87
6 ]Ibidem

Roberto Carifi foto di G. Giovannetti

Roberto Carifi

Roberto Carifi
Poesie da Amorosa sempre Poesie (1980-2018), La nave di Teseo, 2019 pp. 357 € 18

Infanzia. Poesie (1980-1983)

Passi del fuoco

“Credevi nella riga perfetta”, i primi
giorni con la bambola azzurra la voce
imprestata
… quando mi chiamerai…
la parte nello specchio del giallo
allontana
le mani o metti le ali sul cuscino
… prendili ora… poi le distanze
infieriva la stagione dei crateri,
a pezzi tornammo dentro l’immagine.

.
Percorsi leggeri (I)

Affonda ora, te lo dico da una linea
di figurine increspate, nel guanto fiorito
d’animaletto stellare
“c’è un testimone, raccontano che avesse
un terzo, un’erba fina”
nella brocca minuscola… prendi… un cenno
lieve, uno scirocco (scivoleranno, vedi,
scivoleranno troppo)
da un delitto uguale, ripetuto, vieni
dipinta d’aria e di mughetto.

.
Nel giusto di questi anni

Il posto dei ciliegi, l’erba minuta
quando era in un luogo
qualunque dell’infanzia, solo
con le mille azioni
scaraventate nei cortili e tutti,
anche l’albero del noce,
danno un sentiero
che non risparmia nulla…
nessuno,
nessuno si salverà
nel giusto di questi anni
che strappano il viso
e basterà annientarsi, invecchiare
per essere in quel punto
terribile,
prima della tua nascita.

.
Ognuno ha una gloria

A volte l’azzurro è una piaga
che rompe il quadrato
dove il mondo riposa ed ognuno
ha una gloria da condurre
nel seno della terra, una ferocia
orfana che chiama amore
e stringe chi lo separa
dalle stagioni, il buio.

.
Finché una mano

Si amano anche così, alla fermata
cancellati da una pioggia
che è lì, da secoli, proprio in quel punto
che li inghiotte e loro
con una smorfia, si
separano dall’autunno
per vedere meglio chi li consuma
finché una mano, decrepita
disegna una stagione lenta
molto più lenta dell’istante
che afferra la loro attesa,
e spara.

.
Nell’angolo più segreto

C’è sempre un graffio, una linea
che rompe i patti e li separa
finché ognuno torna
nell’angolo più segreto, diventa
mistero e forza
fecondata dall’esilio:
allora scoprono che un volto
è ancora poco, troppo poco
per essere un miracolo
e si gettano nudi
in questa piazza
dove qualcuno li cancellerà.

Roberto Carifi Amorosa sempre

da Occidente (1990)

A occidente

A occidente affondano le navi. Quando?
E’ giusta la voce che racconta il nulla?
scintillano, a volte, ma non è sole
piuttosto un fuoco, un fuocherello acceso nella notte.
Accade a occidente, soltanto a occidente
se danno l’ordine le mani
e comanda il gesto spaventoso.
E’ ora di scendere, degradare laggiù,
verso le nebbie, arrancare se occorre
come morti che cercano l’uscita;
questi sono gli ordini, poi basta.
E’ neve la donna che saluta i marinai,
si scioglierà dietro l’angolo,
si annullerà in segreto,
quando si accende la brace dei ricordi
a occidente è perduto chi non salpa.
Sarà un anno, o due, che hanno portato la notizia.
Uno afferrò il tuo braccio, un altro la mia mano,
insieme afferrammo il legno della morte,
insieme facemmo un fuoco nel giardino
illuminammo tutto, tutto fino al buio.
Sarà un anno,o due, che una voce ci disse è stato,
che un’altra ci disse è primavera,
che una mano ci mostrò la sera
dove respirano le ombre.
Non so da quanto una lacrima entrò nelle parole
e imparammo a scrivere a singhiozzi.
Cenere e sangue. Due parole.
Una per dire la foglia secca, sbriciolata,
l’altra perché il tuo sangue scorra nelle mie vene,
sorella desolata.

.
Ontologie du secret

La morte è un disegno a Porte Dauphine
per questi nati tra bancarelle,
Boutang e il libro del segreto,
la gioia di scoprire il mercato degli uccelli
e la disperazione, a un tratto, nei vetri
dei grandi magazzini
fu vista a marzo
sul muro che divide due quartieri
“Paris esprit de mort”
con il ragazzo a cui gonfiava il collo
e il commesso che diceva:
“venne epurato, il mio maestro,
nessuno ne sa più niente”.
da Il figlio (1995)
Dopo cresciuti, Sonecka, con le bandiere e i corpi
sfiniti dalla corsa abbiamo pianto
dov’era buio e tremavano le stanze…
che ci minaccia, hai domandato,
perché quell’angelo si ammala tra le cose povere,
perché ne parli?
Siamo tornati, Sonecka, alla tua Russia devastata
con l’amore terrestre e una casa gelida
le bambole senti, ragionano nel cuore
questo cielo ci apparterrà per sempre,
magra nella mia paura
contieni un soffitto sgangherato,
figurine da un soldo,
la gioia più limpida e feroce.

*

Una lampada, tra noi, una lanterna fredda
febbraio oppure capodanno, tesse qualcosa la tua mano
o forse disfa, rovina qualcosa la tua mano
e tesse. Che filo, che filo di lana,
che pianto porta la tramontana.
Chi tesse, chi disfa con la sua mano,
qualcuno tiene la lampada,
il sangue dorato della lucerna,
qualcuno è andato e c’è chi torna
con un buio mortale sulla bocca.
Una lampada, tra noi, una lanterna fredda,
narra qualcosa la parola, qualcosa che consuma.
Chi porta questa parola consumata,
chi parla, chi parla in questa lingua arata.

*

È tanto che prego, impiccata a questa corda.
Mi chiamano Marina, come l’acqua!
C’è una brezza marmata nei miei occhi,
una condanna senza appello.
Dicono: verrà di notte, con un grido.
Quando, domando, quando sarà?
È molto, troppo che spenzolo
da questo lampadario. La luce è in fronte,
piantata a caso. La luce è qui,
nelle mie costole.
Se non fosse per gli stracci,
per i cadaveri appesi alle finestre
canterei la fioritura,
la più bella fioritura.
È già l’estate?
Così hanno detto, ma qui è mancato il pane,
anche l’ultima briciola
e nevica ancora sull’erba tenera,
sulla tomba di Sergej.

*

da Nel ferro dei balocchi Poesie (1983-2000)

.
“C’è una luce fortissima, un vento che piega le ginocchia”
“Dove?”
“Dove non puoi guardare”
“Dovrò uccidermi, lentamente, come una cosa abbandonata”
“Non ti capisco”
“Non parlo più la stessa lingua… non posso…”
“Deco andare”
“Perché?”
“Qualcuno dà degli ordini… degli ordini inflessibili”
“Ti aspetterò…”
“È inutile, hanno sospeso il tempo, c’è una neve che
fa tremare anche qui, in questo campo arato”.

.
Voci

I

“Doveva attraversare un paese, ogni sera, vicino a Danzica.
Portava delle lettere, dei sacchi di grano”
“Come si è salvato?”
“Aveva in sé la propria fine. Anche quando parlava, accanto alla lampada, si capiva che era condannato”
“Non è successo altro?”
“Il buio. A un tratto tutte le luci si sono spente, proprio tutte, perfino in periferia”
“Erano in molti?”
“Sì, erano morti… avevano fame, ma non hanno chiesto nulla”

*

(2014)

.
Parlavo in una lingua strana
accanto al tuo letto e tu ad un tratto, facesti il nome di tuo padre.
Quello fu il segno che eri già morta, ed io che piangevo
vidi un debole sorriso sulla tua bocca. O forse mi sembrò
che ti vedevo volare o benedire tutto il mondo mentre il tuo corpo
stava là, immobile, gli occhi incavati che non guardavano nulla,
ma io ti vedevo lasciare il tuo corpo e sorridevi.

*

Sto invecchiando a un passo dalla morte,
mentre tu te ne vai col tuo abito rosa, eterna,
passi le stagioni, i millenni, ogni tanto ti sento
volare sulle mie lenzuola come un angelo
o al mare negli ultimi tempi quando la malattia
era già vicina. Eppure porti ancora quel cappellino
rosso, nella mia vecchiaia me lo immagino così,
liberata dalla morte.
*

da Poesie inedite

Vai nel lastricato, a monte
o a valle, ma che sia una gola
attorcigliata, un imbuto a morte
per quelli come noi
deserto, deserto, deserto
che arde nella notte.

*

Tu che dreni il tuo respiro
a mezzanotte dove i pipistrelli
ti puniscono i capelli,
ci vuole un crepitio
a crepare,
un mormorio d’uccelli.

*

Nella profondità dell’anima
stanno degradati sinonimi
è racchiuso il gelo-buio,
pra si alzeranno i boccaporti
con le maree frastagliate
nel freddo d’ottobre.

.
*

La più logora delle parole
prendila per mano,
conducila alle labbra dei morti,
stella di terrea notte,
palpitano occhi,
scese per te il mio tramonto.

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Questionario a cura di Giancarlo Stoccoro Otto Domande da Poeti e prosatori alla corte dell’Es, AnimaMundi edizioni, 2017 pp. 320 € 18 – con una Risposta alle Domande di Giorgio Linguaglossa con Due poesie di Mario M. Gabriele da In viaggio con Godot (Roma, Progetto Cultura, 2017) – Una poesia di Lucio Mayoor Tosi e Steven Grieco Rathgeb

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Il linguaggio è l’archivio della storia, la tomba delle muse: «poesia fossile»

Giancarlo Stoccoro, nato a Milano nel 1963, è psichiatra e psicoterapeuta. Studioso di Georg Groddeck, ne ha curato e introdotto l’edizione italiana della biografia   Georg Groddeck Una vita, di W. Martynkewicz (IL Saggiatore, Milano, 2005). Da parecchi anni, oltre all’attività clinica,  si occupa di formazione e conduce incontri sulla relazione medico-paziente secondo la metodica dei Gruppi Balint e ha  pubblicato diversi lavori su riviste scientifiche. Ha frequentato intorno ai vent’anni il circolo letterario comasco Acarya e sue poesie sono presenti nell’antologia Voci e immagini poetiche 3. Per le edizioni Gattomerlino/Superstripes è uscita nel giugno 2014 la silloge di poesie Il negozio degli affetti e in ebook presso Morellini Note di sguardo. Nel 2015 esce Benché non si sappia entrambi che vivere. Nel 2015 il saggio I registi della mente (Falsopiano), curato da Ignazio Senatore, contenente il lavoro Ciak. Si sogna! L’esperienza di Kiev.

 

Gif scale e donna

Si riconosce anche Lei portavoce dell’Es, cioè di una forza misteriosa che ci trascende?

Otto Domande

1| Quest’anno (2016) ricorrono i 150 anni dalla nascita dell’ “analista selvaggio”, la cui celebre frase «non è vero che noi viviamo, in verità noi in gran parte veniamo vissuti» ha trovato eco nelle testimonianze di molti autori sulla nascita delle loro opere. Per citarne solo alcuni, Jean Cocteau affermava: «noi non scriviamo, siamo scritti»; Edoardo Sanguineti (che si riconosceva “groddeckiano selvaggio”): «si è scritti oltre che scrivere e più che scrivere»; Edmond Jabès, forse il più dissacrante di tutti: «ho scritto un solo libro ed era già scritto».

Si riconosce anche Lei portavoce dell’Es, cioè di una forza misteriosa che ci trascende?

2| Nel lasciarsi andare all’ascolto delle proprie intime profondità «si spalanca un abisso che può travolgere» (Andrea Zanzotto).

Poesia, questione d’abisso, come diceva Paul Celan? Se è vero che la poesia ha una base necessaria e autobiografica, legata forse a un trauma originario dell’infanzia (secondo Jean Paul Weber, ripreso da E. Sanguineti ne “Conversazioni sulla cultura del ventesimo secolo”) e sicuramente agli eventi significativi della nostra vita, ha per Lei anche una valenza salvifica?

3| «Nei sogni siamo veri poeti» (Ralph Waldo Emerson) ovvero «il poeta lavora» quando dorme (Saint-Pol-Roux). Per lo psichiatra esistenzialista e fenomenologo Ludwig Binswanger il sogno è una forma specifica di esperienza (Sogno ed esistenza), per il regista russo Andrej Tarkovskij la poesia è «una sensazione del Mondo, un tipo speciale di rapporto con la realtà». Quale relazione c’è per Lei tra sogno e poesia?

4| Con Freud i sogni sono diventati la via regia dell’inconscio e vanno contestualizzati attraverso l’interpretazione, per non restare lettere mai aperte come già si leggeva nel Talmud. Recentemente alcuni psicoanalisti ritengono più raccomandabile non solo e non tanto interpretare, cioè rendere conscio ciò che è inconscio, quanto giocare col sogno, sognare sul sogno e col sogno, rispettare l’illusione o per ampi tratti favorirla. Riguardo la poesia Elias Canetti, in Un regno di matite, ha scritto: «Giochiamo con i pensieri, per evitare che diventino una catena» e ha ammonito: «Triste interpretazione! Morte delle poesie, che si spengono per astenia quando vien loro tolto tutto quel che non contengono».

Lei è d’accordo o ritiene che l’Es venuto alla luce nella poesia necessiti ancora di essere decifrato? È fedele all’Es che erompe nella scrittura o lo tradisce traducendolo? O forse è applicabile alla Sua scrittura la parola tedesca “Umdichtung” (che significa una poesia elaborata a partire da un’altra)?

5| Il linguaggio è l’archivio della storia, la tomba delle muse: «poesia fossile». «Un tempo ogni parola era una poesia», «un simbolo felice» (Emerson). «Gli dei concedono la grazia di un verso, ma poi tocca a noi produrre il secondo» (Paul Valéry).

Oppure: «Se la poesia non viene naturalmente come le foglie vengono ad un albero, è meglio che non venga per niente» (John Keats).

Come nasce la sua poesia e come si sviluppa?

Quali condizioni la favoriscono?

6| «Ogni pensiero inizia con una poesia» dice Alain ed è noto che nella storia dell’umanità la poesia ha preceduto la prosa.

La poesia ricorda l’infanzia dell’uomo e i poeti sono dei grandi bambini, degli «eterni figli» (tema ripreso anche da Sanguineti). Per altri versi, la poesia afferirebbe al codice materno mentre la prosa a quello paterno: la prima, secondo lo psicoanalista Christopher Bollas (ne: La mente orientale) è più legata alla presenza di pensieri-madre, «strutture (che) mantengono il tipo di comunicazione che deriva dal modo di essere della madre col suo bambino» con forma sintattica più semplice e più vicina al linguaggio orientale, la seconda al linguaggio occidentale e paterno, basato su espressioni verbali più articolate e complesse che ci lasciano meno liberi, sacrificando l’invenzione a favore dell’argomentazione.

Due mondi alternativi, la prosa e la poesia, o due parti che possono entrare in rapporto e/o in successione? Qual è la Sua esperienza al riguardo?

7| Il momento della scrittura o “l’attimo della parola” accade, per Peter Handke, in presa diretta con l’esperienza; per dirla con Borges (in: L’invenzione della poesia), «la poesia è sempre in agguato dietro l’angolo». E per lei? Ha anche Lei un taccuino che l’accompagna in ogni luogo?

8| C’è un altro aspetto del rapporto tra scrittura e Es che vorrebbe affrontare?

Hanno risposto alle domande: Franco Loi, Milo De Angelis, Maria Grazia Calandrone, Donatella Bisutti, Franca Mancinelli, Fabio Pusterla, Franco Buffoni, Umberto Piersanti, Laura Liberale, Giovanna Rosadini, Francesca Serragnoli, Miro Silvera, Giovanni Tesio, Alessandro Defilippi.

Gif Moda

Resta però aperta la questione che se l’essere è impredicabile, il linguaggio si trova a colmare una distanza impossibile

Risposta a tutte le Domande di Giorgio Linguaglossa

La tradizione metafisica, ci dice Derrida, vede nell’essere un assoluto, una sostanza impredicabile perché presente in ogni predicazione.

Resta però aperta la questione che se l’essere è impredicabile, il linguaggio si trova a colmare una distanza impossibile. L’essere cioè diventa la condizione, il presupposto incluso tuttavia trascendens il linguaggio. Dire che il «linguaggio è dimora dell’essere» (Heidegger) se da un lato esclude la possibilità che l’essere possa essere detto dal linguaggio come una referenza diretta, dall’altra tende a porre l’essere stesso in una prospettiva sfuggevole e indeterminata – l’essere si rivela come qualcosa di «pienamente indeterminato» afferma Heidegger – e, allo stesso tempo, fondativa, proprio in quanto si tratta di una indeterminazione inclusa nel linguaggio stesso. Citando Lacan possiamo affermare che «l’inconscio è strutturato come un linguaggio». Appunto, si ricade sempre di nuovo nel problema del linguaggio. Ma, per rispondere alla domanda di Giancarlo Stoccoro, dirò che il rapporto che lega l’essere al linguaggio è il medesimo che collega l’inconscio (che comprende anche l’Es) al linguaggio.* L’inconscio è l’indeterminato, il «campo incontraddittorio» dove tutti i relitti e i residui dei linguaggi accumulati e sedimentati oscillano e vibrano in uno stato di permanente agitazione molecolare. Non ci può essere contraddizione in quel «campo incontraddittorio» se non come collisione di molecole, di atomi, di spezzoni, di frammenti, di rappresentazioni cieche. La «nuova ontologia estetica» attribuisce grandissima importanza a quel «campo incontraddittorio» che è l’inconscio (una sorta di campo gravitazionale biologico), perché lì si trovano, nel profondo, quelle cose che Tranströmer chiama, con una splendida metafora,  «le posate d’argento»:

le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.

(Tomas Tranströmer)

Ad esempio, nel libro di Mario Gabriele, In viaggio con Godot (Roma Progetto Cultura, 2017), è il linguaggio stesso ad essere in «viaggio» (non è più il «soggetto» che è in viaggio), in una traslocazione locomozione senza tregua… È il linguaggio che si sottrae a se stesso in una traslocazione continua… Il linguaggio cessa di essere fondazionale ma appare, si rivela, per il suo essere in costante e continuo rinvio… il linguaggio in quanto potenza del rinvio, meccanismo che crea e decrea il senso per via della stessa logica differenziale che vede nel meccanismo del rinvio la sua ragion d’essere, si serializza in una molteplicità di sintagmi, di frammenti, di reperti, di calchi, di fonemi… E il sogno che cos’è se non una fantasmagoria di sintagmi, di frammenti, di reperti, di calchi, di fonemi… Qui è il linguaggio dell’Es o dell’inconscio che parla.

[Ora i miei morti sono quelli che non ricordo (Mario Gabriele)]

giorgio linguaglossa

19 novembre 2017 alle 10:00

Lucio Mayoor Tosi mi chiama in causa, che devo dire? Dire della mia ammirazione e sorpresa per la poesia di Mario Gabriele? Lui ha fatto propria l’affermazione di Adorno secondo il quale «già l’arte è inutile per gli usi dell’autoconservazione». La poesia di Mario parte tutta da lì. E poi dalla constatazione che la poesia è altamente tossica e nociva. Direi che è il poeta italiano che sta tutto intero dalla parte della rappresentazione della «falsa coscienza» della società mediatica nella quale siamo immersi a bagnomaria ogni giorno. La sua è una poesia immersa totalmente nella «ontologia della falsa coscienza». Continua a leggere

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Navio Celese LETTERA APERTA SU MINIMALISMO E CONFLITTO DI INTERESSE – La stagnazione della poesia italiana di oggi. Spostiamo il baricentro della poesia italiana dal minimalismo romano milanese ad una poetica che abbia una caratura modernista

Foto Multiplex

Spostiamo il baricentro della poesia italiana

Sono passati più di quattro anni da quando un mio articolo su un libro di poesia di Milo De Angelis pubblicato su Poesia2.0 accese un furibondo scontro tra i «tifosi» della poesia di De Angelis e coloro che muovevano delle critiche. La querelle prendeva spunto da una mia affermazione: che i tempi erano maturi «per spostare il baricentro della poesia italiana, dalla egemonia del post-minimalismo di scuola milanese e del minimalismo romano» ad una poesia che riprendesse il filo del discorso del modernismo europeo per portare avanti un diverso e più ampio concetto di «poesia». La gazzarra a buon mercato scatenata dai tifosi di De Angelis mirava alla mia delegittimazione, svilendo il livello del dibattito a mera contrapposizione  tra presunti pro e presunti contro. Il problema da me sollevato non era il «valore» della poesia di De Angelis, da me riconosciuto, quanto «spostare il baricentro della poesia italiana», problematica caduta nel vuoto e che oggi la «nuova ontologia estetica» ripropone su un piano di proposizione di una poetica forte, filosoficamente attrezzata.

Pubblico qui, stemperate le idiosincrasie dei «tifosi», uno scritto di risposta di Navìo Celese a quel mio vecchio articolo.

(Giorgio Linguaglossa)

FOTO POETI POLITTICONavio Celese

LETTERA APERTA SU MINIMALISMO E CONFLITTO DI INTERESSE   

Caro Giorgio Linguaglossa,

sto seguendo su Poesia2.0 il dibattito che si è alimentato con il tuo intervento sulla poesia di Milo De Angelis. Non sono sorpreso della piega che va assumendo. E’ certo che uno dei punti controversi e impliciti alla discussione riguarda il costume letterario. Le posizioni nel blog si stanno appassionatamente orientando pro/contro Milo De Angelis. La sua poesia c’entra poco. La cosa è più evidente ora che vengono messi in campo nomi importanti della critica facendo ricorso a una sorta di contundente principium auctoritatis. Prassi che non è estranea ai vari aspetti della società contemporanea: da quello della politica e dello sport, a quello della stampa e della cultura in generale. Pubblicare oggi non ha connotati molto diversi dalla scalata al potere di qualsiasi tipo. Sullo sfondo lo scambio solidale all’interno l’establishment (per esempio, la circolarità delle recensioni e dei premi letterari che creano fidelizzazioni oltre che blasoni e credenziali. Perché il blog non s’incarica di indagarne numericamente i circuiti per poi pubblicarne i risultati? Tante recensioni io a te, tante a debito verso me; tanti premi a te e tanti a me; qui in giuria io e là tu. Avrebbero più efficacia di qualsiasi dibattito critico. Benché il costume sia oggetto proprio della sociologia e non della critica.

Dunque, tu vai conducendo un’azione, valida e coraggiosa, per tentare di mettere in  discussione le storture della società letteraria nostrana. La tua indignazione però si presta facilmente ad essere scambiata strumentalmente per insulto e offesa; e quella dei tuoi sostenitori per invidia professionale. I testi e gli autori che analizzi sono piuttosto i nuclei emergenti dello stato di degrado creativo della poesia che tu scambi per stagnazione. Lo fai mettendoti in discussione, e a rischio di recriminazioni nell’ambito letterario. La tua scelta scoperta, frontale e indipendente, non è oggi di poco conto. Sei sicuramente dalla parte maggioritaria, ma meno protetta. E perciò condannato a una fatica mitica.

Provo a raccontarti quello che mi veniva in mente a proposito del dibattito in corso sul sito Poesia2.0. Sono le riflessioni di qualche giorno fa, ma te le ripropongo. Non parlerò del caso specifico, perché sarebbe riduttivo e poco interessante se non fosse per la foga degli interventi.

Letizia Leone e Mario Gabriele, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Anzitutto, credo che non ci sia mai intima scissione fra l’atteggiamento dello scrittore di fronte alla pagina bianca, e la qualità della sua poesia. Chi, mentre scrive, ha per obiettivo l’editore, il successo, la carriera, le antologie, i repertori, i 740, ecc. ecc. e li assume di volta in volta a lettore ideale, mescola sottili veleni alla propria scrittura che prima o poi finiscono per intossicare il lettore; il quale in ogni caso se ne accorge a livello profondo; peggio se ne ha consapevolezza e finge (complicemente) di non badarci. Questa considerazione psicologica (o se vuoi moralistica), per quanto mi riguarda mi tiene alla larga da qualsiasi testo o un libro di poesia che seppure lontanamente mi faccia sospettare quell’atteggiamento che, come ben sai, non sfugge a chi si occupa di poesia. E’ una delle ragioni per le quali la mia diffidenza riguarda soprattutto le case editrici più smaliziate e sottoposte alle regole del mercato editoriale. Per inciso: il fervore polemico che attualmente sta investendo la SIAE e la sta rovistando, è un segnale di quanto contino gli interessi economici delle major. Se hai occasione, seguine gli avvenimenti, e vi troverai una chiave di lettura a molte delle questioni iperuraniche che andiamo dibattendo.

In effetti, la poesia italiana attuale è andata inevitabilmente ad assestarsi verso la stagnazione anche per ragioni che sono intrinseche al mercato e al suo sviluppo, senza dover fare riferimento alle grandi ideologie novecentesche che l’hanno contrastato (penso che in fondo pure Fortini ne sia stato complice debole o distratto. Forse si è rivelato più efficace l’assalto distruttivo di Sanguineti e della Neoavanguardia!). Sui ripiani delle librerie trovi tutto ciò che si può far circolare; che sia di cattiva o pessima qualità poco importa. Si fa ricorso a ogni genere di artificio, mantenendo sempre fisso nell’obiettivo l’acquirente (o il lettore) che viene braccato nelle zone profonde del suo narcisismo e vanità. Non sono neppure estranee le modalità dell’editing editoriale, ormai così diffuso, che sostituiscono l’autore con un feticcio diffratto e diffrangente che si riverbera surrettiziamente nel fruitore. Non a caso la poesia moderna ha un grande padre in Eliot, la cui poesia in origine è stata oggetto dell’etiting portentoso di Pound; o come lo vogliamo chiamare? Ce ne siamo dimenticati?

Lucio Mayoor Tosi e Steven Grieco Rathgeb

A ben vedere, una concausa genetica del minimalismo (estenuata estremità editoriale della Linea Lombarda) che tu combatti, risiede secondo me da esigenze di diffusione oltre i miseri confini  nazionali della poesia e della nostra letteratura in generale. Tradurre i grandi lirici è pressoché impossibile, ci arrangiamo; salvo coloro che scrivono di proposito in un esperanto letterario. La poesia minimalista si può tradurre in morse e in signuno, senza eccessiva dispersione di senso. Inoltre il minimalismo consente all’autore-poeta di “esercitarsi” in maniera canonica, evitando facilmente “errori” sia linguistici che stilistici; oppure di dovervi impegnare faticosamente il mestiere e il talento o assumersi l’obbligo di produrre alcunché di originale. E’ sufficiente disseminare di figure retoriche quel poco di pensieri grossolani, banali o astrusi per rendere la lettura criptica e suggestiva; il lettore è appagato (o stordito) dai cunicoli di non-senso che deve contribuire a colmare di significato, come in una tavola enigmistica; e è per di più lusingato dalla facilità di imitazione del modello o prototipo; si esalta, già pronto all’emulazione perché affascinato dalla possibilità di segmentare la scrittura in versi.

Diciamocelo pure, in fondo il minimalismo non è altro che la reiterazione memetica oltre che un metodo e una modalità di scrittura poetica! Ecco allora la pletora degli scrittori di poesia che ci assedia e soffoca. E che contribuisce a  mantenere in piedi alcune case editrici autoctone che non vanno per il sottile o le loro collane di poesia. Il minimalismo riveste uniformemente i poeti di tute mimetiche, indistinguibili nella notte della poesia. Il lettore può scegliere a caso e riconoscersi; il critico può dirne ciò che vuole e farsene egemone, occupando uno spazio non suo e ribaltando il ruolo poeta-critico in quello di critico-poeta con la prevalenza, infine, delle poetiche sulla poesia (altra innaturale e perniciosissima scissione/inversione); o sostituendo i manifesti-cordata alla genialità-libertà del singolo. Non è un caso che siano stati sempre i ragazzi e gli sventati a provocare le grandi svolte storiche in poesia e in letteratura.

Roberto Bertoldo, Giuseppe Talia

Il minimalismo offre per giunta molte opportunità lassiste di giudizi arbitrari nei premi letterari proprio per il livello di indistinzione qualitativa che propone. Potrà confermarlo senza paura di smentita chi ha fatto parte di giurie e spesso ha dovuto assistere a pratiche sconcertanti; le cui estremizzazioni scandalistiche vengono – estemporaneamente e sommariamente – alla luce sulla stampa. In questi casi, si tratta di estetica o di etica, in letteratura e in poesia? Di quanti premi letterari si è occupata la stampa negli ultimi tempi mettendo in luce la corruzione intellettuale che vi si era accampata? Tuttavia diamo per scontate e accettiamo supinamente molte di queste liturgie e coreografie. Larga parte della critica ne ha grandi colpe quando ha accettato di non essere indipendente; di assumersi un ruolo promozionale o di ufficio stampa; di aver privilegiato la poesia “senza qualità” per poterla poi egemonizzare e trasformare lo stile in style e il testo in capo griffato o in una suppellettile trendy.

Si ripropone così l’ovvia e reiterata domanda di come mai filtrano nelle case editrici di peso, poeti mediocri, supportati dai rating eccessivamente benevoli della critica “di caratura” ? La questione contiene poi almeno due altre dicotomie discriminatorie sintetizzate nelle contrapposte opzioni Nord/Sud, Città/Campagna, di cui Milano è sintesi e paradigma. E inoltre: può certa critica professionale scrivere obiettivamente – e stroncare quando è doveroso – un libro e un poeta nullo o inconsistente se è stato pubblicato da una casa editrice con la quale si hanno impegni collaterali o che si teme? Non c’è un obiettivo conflitto di interessi fra critico e autore/editore? Quello che più angoscia è il fatto che quasi tutti siamo coscienti dello stato di degrado della letteratura ma siamo altrettanto impotenti. Non è possibile mettere in campo delle proposte che non provochino reazioni e conflitti, piuttosto che soluzioni ragionate.

Dunque, caro Linguaglossa, a me sembra che in fondo tu non stia discettando della buona o cattiva poesia – se ha ancora un senso farlo – ma sostanzialmente del cinismo autofago della «società letteraria» che si sta consumando nella propria digestione acida. Lo fai però con gli strumenti eterogenei della critica filosofica e ideologica. E’ necessario a questo punto che tu ti convinca che si tratta di ben altro e lo espliciti, perché il dibattito si svolga sul piano di pertinenza; che mi sembra essere semmai quello del costume letterario di cui i testi sono solo i sintomi, e le recensioni i referti. Lasciamo stare quindi le proposte per il futuro e l’eternità; a quelle ci penserà il tempo implacabile che corroderà i cartigli o li dissolverà in polvere appena riesumati da qualsiasi teca in cui vengono mantenuti sterili. Fai invece bene ad avventurarti nella palude per dare coraggio ai dispersi e ai disorientati.

Ciao, Navio Celese

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GIUSEPPE TALĺA: LA MUSA LAST MINUTE. QUINDICI SESTINE TASCABILI E SATIRICHE. I MEDAGLIONI DEI POETI CONTEMPORANEI – Mario M. Gabriele, Patrizia Valduga, Patrizia Cavalli, Valerio Magrelli, Milo De Angelis, Luigi Manzi, Giorgio Stecher, Maurizio Cucchi, Steven Grieco Rathgeb, Gino Rago, Roberto Bertoldo, Franco Buffoni, Gëzim Hajdari, Gian Mario Villalta,, Lucio Mayooor Tosi

Testata politticoGiuseppe Talia 4 marzo 2017

Giuseppe Talia, Roma 4 marzo 2017

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Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta), nasce in Calabria, nel 1964, risiede a Firenze. Pubblica le raccolte di poesie: Le Vocali Vissute, Ibiskos Editrice, Empoli, 1999; Thalìa, Lepisma, Roma, 2008; Salumida, Paideia, Firenze, 2010. Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano: Florilegio, Lepisma, Roma 2008; L’Impoetico Mafioso, CFR Edizioni, Piateda 2011; I sentieri del Tempo Ostinato (Dieci poeti italiani in Polonia), Ed. Lepisma, Roma, 2011; L’Amore ai Tempi della Collera, Lietocolle 2014. Ha pubblicato i seguenti libri sulla formazione del personale scolastico:Integrazione e la Valorizzazione delle Differenze, M.I.U.R., marzo 2011;Progettazione di Unità di Competenza per il Curricolo Verticale: esperienze di autoformazione in rete, Edizioni La Medicea Firenze, 2013. È presente con dieci poesie nella Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2016.

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Laboratorio di poesia Roma, 30 marzo 2017 Libreria L’Altracittà

 

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Commento di Letizia Leone

Una sorta di performance controcorrente questa di Giuseppe Talìa che grazie alla strategia della sestina, forma breve di limitata trasmissione storica, fissa una galleria di ritratti satirico-giocosi della variegata società poetica contemporanea. Il giro rapido della strofa, affondo e compendio biografico-poetico giocato sul filo dell’ironia, della dissacrazione, dell’omaggio o della critica, è centrato su un quid impressionistico: trattasi di un verso, “l’impressione di un verso letto e che è rimasto nel substrato inconscio della comunità poetante di cui mi sento parte” ci dice il poeta, oppure di un dettaglio personale, letterario o di ilare psicologia e psicoanalisi.

In effetti la sestina, detta anche sesta rima per distinguerla dalla sestina lirica, alle sue origini viene attestata come metro del repertorio laudistico o metro prevalente della poesia scenica fino agli endecasillabi de “Gli animali parlanti”, poema favolistico-satirico in 26 canti di sestine di Giambattista Casti (1803) o alle “Favole esopiane” dell’abate Gian Carlo Passeroni (1823). Ma in questo caso si rivela strategia comunicativa molto efficace: momento di “sottrazione di una tensione” (se volessimo prendere in prestito le parole di Bergson sul riso e il comico), di rottura della seriosità e solennità letteraria ma anche di stimolo alla socialità, dove la contrazione del linguaggio richiesta dallo schema ridotto di una forma chiusa valorizza la forza epigrammatica del testo.

Mottetti estemporanei, Musa pop e consumistica “last minute”, rutilante rotocalco di fulminanti icone poetiche in un corpo a corpo con la personalità posta, di volta in volta, sotto la lente d’ingrandimento.  Talìa è uno di quei poeti ai quali è congeniale l’epigramma, oppure un tipo di poesia satirica di mercuriale velocità e leggerezza.

L’osservazione ludica soprattutto si rivela modo nuovo d’interpretare, una vera e propria alternativa critica basata sul gioco comico sottile e sfuggente.

Alla lettura viene definendosi l’ironia di una poesia ermeneutica che critica scherzando. L’analisi accurata in punta di verso imposta una sorta di dialogo a distanza, una pungente colloquialità circolare tra il poeta che viene letto, interpretato e riscritto in versi da un altro poeta.

Medaglioni post-moderni, istantanee che fanno il verso a secoli di idealizzazione del poeta-Vate, alla solennità dell’afflato poetico o all’idea romantica dell’ispirazione, satireggiando sulla presenza “irrilevante” del poeta oggi che, seppelliti definitivamente aura e aureola, non ha più né identità, né collocazione sociale nella nostra contemporaneità:

Patrizia Valduga

Un requiem per una subrette
Un soundtrack di paillette
Una Gilda de’ poeti O Mame
Una sessa strafatta pour femme
Mia Sirventes o mia Servente(s)
Solo per me le tue tette

E se è vero che lo humour o il comico appartengono ad un genere letterario minoritario e spesso marginalizzato, proprio tale subalternità permette di sfuggire all’alienazione di codici linguistici e koinè poetiche a rischio di stallo espressivo, oltre al fatto che questa rappresentazione straniata se letta in chiave freudiana si polarizza di vis caricaturale che aggira le censure e le rimozioni.

Se prendiamo per buona la definizione di fisiognomica come “scienza quasi divina, indiziaria e profetica, fondata sulla leggibilità del tegumento sensibile…nel presupposto di un corporeo onnisignificativo come condizione del manifestarsi dell’autenticità dell’uomo” (AA.VV. Esercizi fisiognomici, Sellerio, 1996), allora questi particolari esercizi di “fisiognomica poetica” degli attori messi in campo si modellano sullo studio dei lineamenti linguistici. Là dove   il corpo è sostituito dalla lettera, dai segni, dai segnali dello stile, essendo la lingua della poesia nella sua verità stilistica un “modo dell’Essere”.

E poi, al di là del processo di individuazione che si va definendo nelle dediche profane e intuitive di Giuseppe Talìa, aleggia l’aura di un presagio o di un’interrogazione enigmatica, effimera ma incisiva, sul destino di ogni poeta consegnato al giro di giostra di una sapiente e vivificata sesta rima.

Giuseppe Talia Roma 4 marzo 2017 Roma

Giuseppe Talia, Roma 4 marzo 2017

 

L’ALMA e il GESTO

Appunto dell’autore

L’alterazione paradossale che sottolinea la realtà attraverso la simulazione, l’interrogazione, per mezzo di un procedimento speculativo nei sistemi estetici, come quello di K.W. Solger, viene solitamente considerata costitutiva dell’arte. L’antifrasi e l’eufemismo significano ribaltare, per sopravvivenza fisica e mentale, l’ironia in autoironia, distaccarsi dall’estetismo per una dimensione più etica. Ecco, questo è uno dei tanti profili che mi rappresentano.

Ma qual è stata la molla di questi frizzanti schizzi a Voi dedicati, care amiche e amici dell’Ombra delle Parole? Un cadeaux, una semplice come complessa traslitterazione di fatti analitici, psicoanalitici, qualche volta una semplice foto o l’impressione di un verso letto e che è rimasto nel substrato inconscio della comunità poetante di cui mi sento parte.
E come un artigiano che si rispetti ho dispiegato gli arnesi giusti su un piano geometrico adeguato e tessuto l’ordito: per ognuno di Voi, amiche e amici, sei versi, forme chiuse e forme variabili, citazioni, carattere, un qualche segno indelebile impresso nell’anima, una tradizione e un simbolo cosmologico abbinato che penso vi rappresenti nell’almagesto dell’unicità.
Questo gioco semi-serio, in cui si possono rilevare tracce di Palazzeschi, Stecher, Szymborska come di altri, l’ho iniziato con l’intento di omaggiare i Poeti costituenti del momento, Alfredo de Palchi (Giove), Antonio Sagredo (Marte), Giorgio Linguaglossa (Urano), Salvatore Martino (Saturno), per continuare con gli amici con cui tengo una corrispondenza, Ubaldo de Robertis e con le Poete e Poeti che stimo, Anna Ventura (nodo ascendente), Annamaria De Pietro, Antonella Zagaroli, Letizia Leone, Ambra Simeone, Sabino Caronia, Giuseppina Di Leo, Donatella Costantina Giancaspero (nodo discendente), anche se non sempre i miei commenti a riguardo, lasciati sul blog dell’Ombra delle Parole, sono stati gratificanti: ubi maior minor cessat

Mario Gabriele e Antonio Sagredo

.

Mario M. Gabriele

Ramsay disse che alla ciambella mancava il buco nero
James appese il cappotto di Gogol mentre Godot
En attendant discettava col sarto Petrovič sul modello
Senza cuciture dei collant Stonehenge di Eveline
Servirò dunque il pudding and pie direttamente sulla pietra
Ollare, pensò Patsy, per i nuovi convitati di Georgie Porgie

*
Patrizia Valduga

Un requiem per una subrette
Un soundtrack di paillette
Una Gilda de’ poeti O Mame
Una sessa strafatta pour femme
Mia Sirventes o mia Servente(s)
Solo per me le tue tette

*
Valerio Magrelli

Da bambino erano un codicino di nature e venature
I Dockers Kahaki Pants salenti e discendenti la grande
Échelle disgrafica e dislessica o più semplicemente
Manomessa dalla stella binaria dei pioli del carcerato
Che batte il Lexicon della rotativa sorgiva tatuata
Nella carne condominiale del codice fiscale come dell’ISBN

*
Patrizia Cavalli

E’ un teatro aperto la precessione della luce della stella faro
La magnitudine apparente testa di serpente e calamaro
Non salva il mondo dal compost della stella tripla Ethical
Treatment a caccia con i cani di Orione di Sadalsuud-Sadalmelik
Nel cerchio massimo dell’equatore e del suo punto spettrale
Con lo scafandro da palombaro e una compagna in orbita bisessuale

*
Milo De Angelis

La somiglianza è un addio di lavagne come di montagne
Di ossessioni di cancelli di metal detector privi di stelle luminose
Corridoi più che cortili e quel clangore di ferri allucchettati
Nei millimetri delle vene di Milano, sì Milano lì davanti
Col sangue in bocca annebbiata e una marea di navigli
Come scompigli o Sicari di una battaglia di sicura rinascita Continua a leggere

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Un omaggio a Elio Pecora – Happy new year – 15 poesie per 15 poeti. Poesie di Antonella Anedda, Pier Luigi Bacchini, Maria Clelia Cardona, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Roberto Deidier, Umberto Fiori, Biancamaria Frabotta, Mariangela Gualtieri, Jolanda Insana, Vivian Lamarque, Valerio Magrelli, Renzo Paris, Antonio Riccardi, Valentino Zeichen

 In occasione del conferimento della Laurea ad honorem in Scienze della Comunicazione a Elio Pecora, le edizioni San Marco dei Giustiniani hanno pubblicato un volume collettaneo contenente  poesie di altri poeti italiani per festeggiare l’evento. Riproponiamo in questa sede una scelta delle poesie e degli autori che hanno contribuito alla realizzazione del libro Geografie primaverili. Poesie per Elio Pecora a cura di Roberto Deidier, 2006.

È anche l’occasione per mostrare gli scritti di un ampio ventaglio di poeti contemporanei. Il loro omaggio al poeta Elio Pecora è anche un omaggio alla Musa. Sarebbe un buon segno se tali esempi si moltiplicassero e più di frequente i poeti concedessero le proprie poesie per festeggiare una personalità poetica, o salutare  qualcosa che si allontana da noi, o si avvicina…

È questo il modo, dell’Ombra delle Parole, di salutare un poeta rappresentativo di Roma, città di adozione del poeta napoletano, e della intima vocazione dell’Urbe da sempre città cosmopolitica, aperta a tutte le suggestioni culturali e a tutti i poeti provenienti da qualsiasi latitudine e longitudine.

E questa latitudinalità e longitudinalità di Roma è sempre stata una caratteristica della città eterna che ha accolto e allevato poeti, scrittori e artisti di varia nazionalità e provenienza in accordo con la sua vocazione millenaria e la sua storia cosmopolitica.

 

Elio Pecora è nato a Sant’Arsenio, in provincia di Salerno, nel 1936. Ha trascorso a Napoli una lunga adolescenza, dal 1966 abita a Roma dove risiede a via Paolo Barison 14 ( tel.349/4439444; email:e.pecora@tiscali.it). Ha come titoli di studio una maturità classica e una laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione dell’Università di Palermo. Non ha ricoperto incarichi pubblici. Ha pubblicato libri di poesie, racconti, romanzi, saggi critici, testi per il teatro. Ha collaborato per la  critica letteraria a quotidiani, settimanali e riviste (La Voce Repubblicana, Mondo Operaio, La Voce Repubblicana, Il Mattino, La Stampa-Tuttolibri, L’Espresso, il Tempo Illustrato, Wimbledon, Nuovi Argomenti, Ulisse,  Saggi critici ) e ai programmi di Radio Uno e Radio Tre. Dirige da un decennio la rivista internazionale “Poeti e Poesia”.

I suoi libri di poesia: La chiave di vetro  (Bologna, Cappelli 1970); Motivetto(Roma, Spada 1978); L’occhio corto (Roma, Studio S. 1985; Interludio (Roma, Empiria 1987 e 1990; Dediche e bagatelle  (Roma, Rossi & Spera 1990); Poesie 1975-1995 ( Roma, Empiria 1997 e 1998; Per altre misure   (Genova, San Marco dei Giustiniani 2001); Favole dal giardino (Roma, Empiria 2004 e 2013); Nulla in questo restare (Trieste, Il ramo d’oro 2004); L’albergo delle fiabe e altri versi(Roma, L’orecchio acerbo, 2007); Simmetrie ( Milano, Mondadori Lo Specchio, 2007 ); La perdita e la salute, I Quaderni di Orfeo 2008; Tutto da ridere?, Empiria 2010; Nel tempo della madre, La Vita Felice 2011; In margine e altro, Oedipus 2011; Dodici poesie d’amore  (con acquerelli di Giorgio Griffa), Frullini edizioni 2012.

I suoi libri di poesia per i bambini: L’albergo delle fiabe e altri versi, (con disegni di Luci Gutierrez), ed. Orecchio Acerbo, Roma 2007; Un cane in viaggio (Illustrato da Beppe Giacobbe), ed. Orecchio Acerbo, Roma 2011; di prossima pubblicazione per le stesse edizioni Firmino e altre poesie.

I suoi libri di prosa: Estate, ed. Bompiani 1981; Sandro Penna:una biografia, ed. Frassinelli 1984,1990, 2006; I triambuli, ed.Pellicano 1985; La ragazza col vestito di legno e altre fiabe italiane, ed. Frassinelli 1992; L’occhio corto, ed. Il Girasole 1995; Queste voci, queste stanze, (conversazioni con  Paolo Di Paolo), Empiria, Roma 2008; La scrittura immaginata, Guida, Napoli 2009; La scrittura e la vita, ed. Aragno 2012.

I testi per il teatro rappresentati: Alcesti, 1984 Roma Teatro SpazioUno, regia di Enrico Job; Pitagora, (edito nei Quaderni del Comune, Crotone 1987), Crotone, regia di Luisa Mariani;  Prima di cena, (Premio IDI 1987, in “Sipario”,474, gennaio-febbraio 1988),Roma Teatro Belli, regia di Lorenzo Salveti; Nell’altra stanza,1989 (in “Ridotto” 7-8,agosto-settembre 1989), Roma Teatro Due, regia di Marco Lucchesi; Il cappello con la peonia, 1990, Roma Teatro Due, regia di Marco Lucchesi; A metà della notte, Todi Festival 1992, regia di Maria Assunta Calvisi, edito da l’Obliquo, Brescia 1990; Trittico, Roma Teatro Due, regia di Marco Lucchesi, 1995. Le radiocommedie trasmesse: Il giardino, RadioTre il 21 luglio 1996; Il segreto di Lucio,  RadioTre il 19 ottobre 1997.

Quattro dei testi teatrali sono stati pubblicati nel 2009 dall’editore Bulzoni nel volume Teatro. Un ultimo lavoro teatrale Sandro Penna: una cheta follia, per l’interpretazione e la regia di Massimo Verdastro, è in corso di rappresentazione in diverse città italiane.

Nel 2006 l’Università di Palermo, Facoltà di Scienze della Formazione, lo ha insignito della Laurea ad honorem in Scienze della Comunicazione. Per conto della stessa Facoltà le edizioni San Marco dei Giustiniani , Genova 2008), hanno pubblicato il volume L’avventura di restare (le scritture di Elio Pecora) a cura di Roberto Deidier con contributi di vari critici fra i quali Daniela Marcheschi, Biancamaria Frabotta, Giorgio Nisini.

Sue poesie sono apparse tradotte, fra altre lingue, in  francese, inglese, rumeno, iugoslavo, arabo. Sue raccolte di poesia sono state edite in volume in portoghese, in olandese, in inglese ( Poemas Escolhidos, Quasi 2008; Liefdesomheining, Serena Libri, Amsterdam 2011; Selected poems, Gradiva Publications 2014.)

Ha curato:  Sandro Penna, Confuso sogno ed. Garzanti 1980; Antologia della poesia del Novecento, ed. Newton Compton 1990; Sandro Penna poeta a Roma, ed. Electa 1997; Diapason di voci (quarantadue poeti per Sandro Penna) ed.IL Girasole 1997; Ci sono ancora le lucciole (poesie di sessantadue poeti italiani) Milano, Crocetti 2003; La strada delle parole ( poesie del Novecento scelte per i bambini e i ragazzi delle scuole elementari ) Milano, Mondadori, 2003, 2013; I poeti e l’amore nel Novecento italiano, Roma, Pagine 2005; Il cammino della poesia, antologia poetica, ed. Pagine 2013.

Antonella Anedda

Oggi la vita è fulgida. Ho visto un corvo abbassarsi
su uno dei gradini della scala:
è stato un miracolo di nerità lucente
un lungo inchiostro sul bianco della pietra. L’intera discesa
– la mia e del corvo – sapeva di betulla e miele. I nostri corpi
– del corvo e mio – erano svelti e vecchi.
Guardandolo muoversi mi accorsi
di quanto il nero fosse offuscato
di qualche macchia e di come l’andatura fosse
incerta. Anche le mie gambe, qua e là macchiate dall’età e dal sole
erano un segno come per lui quel cieco saltellare.
eppure entrambi in amore
amavamo: lui le poche lucide piume, io un residuo di grazia:
l’affusolarsi delle gambe fino ai piedi e i piedi leggermente contratti
fragili (come i suoi) con artigli cremisi.
Ora voliamo lui verso il cielo e io verso la terra
laggiù sotto la scala che mi aspetta:
un lembo ancora senza colore, ma con muschio e pietre
un continente inesplorato.

È un bene che vacilla.

Il cielo chiude il corvo.
La pietra mi scricchiola sui passi un’orchestra di ghiaia.
inghiotte parti di me. Rode i talloni.

Pier Luigi Bacchini

Mappa dei voli

Quando gli astronomici migratori atterrano –

e intersecano i transiti
sulle geografie primaverili

e le scheletriche cicogne trovano posto
sulle pagine dei tetti
tra i fastidiosi battiti dei loro stecchi,
come femori di gru
con scricchiolii vocali,
allora anche i vocianti cigni s’adunano
con disperazione di urli
e di versi inconcludenti
e pieni di echi:
desolazioni, –
e resta un pianeta disabitato, con specchianti
solitudini di fiumi
e foreste estreme. Nell’attesa

del necessario compimento:
di chi mirabilmente se ne renda conto.
Ma tutto poi è stato depredato.
scavato, dal dispositivo degli istinti,
dall’alluminio degli uffici.
E hanno affumicato le nubi –
e imprigionate nelle stie
tutte le cangianti squadriglie delle oche

– e lo svasso dell’Oregon
in coppia
come ballerine stilizzate –
coercite
dalle linee primordiali.

Come la sterna costretta
nella piccola patria astrale, e quella pescatrice, la sula

che è sempre come un sasso
verticalmente scagliato nel mare.

.
Maria Clelia Cardona

A Elio

Non parlerò di poesia in questo biglietto augurale,
Elio, talvolta coperto di nubi, però mai piovoso,
mai autunnale, piuttosto custode di una luce primaria
che irradia calore, parole che nutrono germogli, luci
accese sulle acque terrestri, musica che vibra nell’aria.

A distanza i sensori captano tempeste magnetiche,
ombre, zone di solitaria, raccolta cura.

Non parlerò di poesia nel mandarti un augurio
che pure la sottintende e la include –
per le tante condivise passioni, per l’eloquenza
del tacere, per il parlare quanto tutti tacciono,
per un gelido divertito notturno aspettando l’Aci,
per il prossimo libro di cui vorrai
farci dono.

.
Maurizio Cucchi

Il marinaio scende nella botola
con uno straccio, fischiettando,
e dal fondo si alza subito un rumore
assordante di macchina. Poi ricompare,
si aggiusta il berretto sulla fronte
e guarda l’orizzonte, indifferente.
Sa già che presto si rivedrà il paese.
gif-women-colored

Milo De Angelis

Un’assoluta
gioia ci ha mancati
per un soffio
e ora precipita
tra due pareti, attimo
separato dal suo nucleo
e foglia moribonda, annuncio
di una volta sola: così
siamo stati vicini
al grido, nel cuore
buio dell’estate,
così ci lasciamo.

.
Roberto Deidier

Quindici giorni soltanto ed eravamo
Ancora sotto il cielo del raccolto –
Su assi di legno rozzo non marciva
L’allegria della mezza estate
Protetta dall’ala scura della notte.

Si sono addensate le stelle
Di Agosto, un lampo ha squarciato
L’illusione di quel tetto sicuro,
L’aria ha ceduto il suo spessore
Ai limpidi contorni di settembre.

Adesso la pioggia è rada e insiste,
L’ombra della montagna scende rapida
Ed io so a quest’ora
Cosa muove i passanti verso casa,
Cosa ti bisbiglia il bosco.

.
Umberto Fiori

Tre poesie dalla serie «Voi»

È quasi vuoto lo spiazzo
sotto i piloni del cavalcavia.
L’ultimo camper mette in moto,
si accoda alla carovana: via, via.

Via, lontano. Che fretta. Non vi bastava
l’aria, la luce, la compagnia?
Sarà più bella, Forlì?
Sarà più allegra, Pavia?

Andate, senza voltarvi.

E io, qui.

*

Come vorrei obbedirvi,
zorri e fatine.
Fare onore alle zeppole, ai coriandoli.
Lasciarvi, lasciarmi correre.

Ma è troppo pieno
il bicchiere di spuma.

Laggiù, nello specchio, è
troppo nudo
quel muso di scimpanzè,
è troppo grande il costume
da moschettiere.

*

Vi ho salutato.

Ve ne siete accorti,
pezzi di merda?
E allora: rispondete.

Non ce la fate più
nemmeno a fare così con la testa,
nemmeno a sollevare – che ne so –
un braccio, un dito? Siete
malati, siete morti? No?

e allora alzatevi, su, venite.

Spacchiamoci la faccia. Niente più facce.
Chiudiamo i conti, stiamoci di fronte
l’ultima volta.
Poi, però,
che sia veramente finita.

(gennaio, 2006)
gif-marilynBiancamaria Frabotta

Sosti sulla riva senza svestirti
temendo il dio che porta il tuo nome.
Indovinarti bisogna sotto la camicia
abbigliato dentro l’ombra di stanze
che davvero non sanno come riempire
le ombre, incerte nelle pose della vita
per compagnia rimaste accanto a loro
o sospese ariette
sparse all’orizzonte
o nuvole pericolanti a rincorrersi
intere, gran parte di quel tempo
che occorre al sole per oscurarsi.

.
Mariangela Gualtieri

Ti ricordi quando abbiamo disceso il fiume camminando sui sassi? Quando ti ero alle spalle, dove il fiume era largo, io ti ho visto volare. I nostri passi più belli sono stati in quel punto. È solamente dopo che ci siamo bagnati le scarpe.

.
Jolanda Insana

ricominciare da zero?
incespica il porcospino e io galleggio
e il cargo delle illusioni d’è rovesciato
sul suo pennone nero
non voglio acqua non voglio aceto
non voglio verde non voglio cielo
il geco è andato in letargo.

.
Vivian Lamarque

Una lettera da Pennino nella casella?
Proprio da Pennino Sandro Penna? Allora
si scrive anche là? Nell’aldilà? Si raccomanda
di festeggiare Pecora per bene, gli ho scritto
tranquillo ci sta pensando Deidier,
mi ha scritto la festa dov’è? Gli ho scritto
ancora non lo so, mi ha scritto forse
verrò, gli ho scritto magari Pennino! Poiché,
in terra non c’è più nessuno lo sai?
come te.

.
Valerio Magrelli

Musica, musica,
che vuoi da me?
Quale perfido Claudio
mi versò nell’orecchio il tuo giusquiamo?
Sovrano spodestato e posseduto,
preda di questa febbre auricolare,
sento il veleno pulsare e mi chiedo:
«Musica, musica,
che vuoi da me?»

.

Renzo Paris

Maggio 1974. Nella libreria
di piazza di Spagna c’era
un commesso poeta. Parlava

sottovoce, si lagnava della
poca attenzione dei lettori
ai romanzi d’autore. Diventammo

subito amici, ridanciani,
duellanti, con Dario che voleva
scoronarci, noi amanti

della poesia antica: tu penniano
io corbieriano. Suonavi la
chitarra, cantavi canzoni

napoletane. Ti esibisti anche tu
al Beat 72 quando i poeti
della nostra generazione
attirarono l’attenzione dei
nottambuli romani. in sordina,
sobrio, letterato fino al midollo,

ci guardavi come garzoncelli
scherzosi. È cattolico chi
segue qualcuno, Elio e la

Bellezza se con conduce a Dio,
è opera del Demonio? Sono domande
insorte in coda a questi versi per i tuoi

settant’anni. Chi siamo diventati
in una goccia di tempo? Ci attendono,
quando la vita sembra ancora

tutta da vivere, terra e cenere. Vale
Elio, vale.

.
Antonio Riccardi

Acquarama

1.
Lo sai che il mondo intero, e dentro
ogni atomo per sé, contiene troppe cose:
più di tutto il siero e la viltà.

Sono troppo bella per perdere così,
per aspettare qualcosa da te…
hai detto baciandomi lentamente
nel chiaroscuro dei bambù.

2.
Lo vedi ho una vita friabile
sento i grani della polvere e dell’amore
vicino alla radice.
Lo so che vorresti restare
la ragazza che s’incanta
e che non perdo, per sempre
mai più…

Poco più in alto
trascinando stelle e paglia, il sole
portava nell’aria più dolce
nutrimenti e farfalle.

3.
Il nostro eroe era francese, o milanese,
sentiva il profumo della felicità
nelle stesse strade di Milano
dove adesso nevica la lana dei pioppi.

Sempre dopo la furia, ingrati
l’uno dell’altra, ti sento
vibrare di delusione
e sento il mio privilegio franare
la mia bella vita ossidarsi e finire.

4.
Guardiamoli nel filmino
i giorni lucenti del nostro avvenire
– l’idea che avevi dell’uomo perfetto,
di una bella casa, di una cucina moderna
di una vacanza sull’Isola dei gabbiani.

Lo sai, nei nostri piccoli affari
tu sei sempre la più severa…

.
Valentino Zeichen

1.
Elio mantiene le distanze
dall’oscuro mondo interiore
quanto dall’intimismo deteriore.
Elio è un poeta filosofo
incline all’innesto interiore
d’un globo della filosofia
per schiarire le identità
dall’oscura profondità.
Lui canta cose mondane
le cui metafore hanno
parentele nell’aldilà,
delle quali si parla
senza mai nominarle.
Certi poeti si calano
nella caverna platonica,
altri rimangono all’aperto
e vi proiettano dentro
le ombre delle forme.
Elio è un proiezionista,
appartiene alla stirpe
dei poeti flemmatici
che scherzano filosoficamente
passando avanti e indietro
davanti alla caverna platonica.

2.
Quale sintetico scultore fonde
i sentimenti sfuggenti nella forma,
i suoi versi intonati hanno
un ritmo congeniale al cuore.
Il suo calco linguistico
imprime la mondanità
e il suo estro bizzarro insegue
il carro dei poeti latini;
contende loro il metro
nell’eterna fuggitività
dello spazio/tempo.
Suo è il neoclassicismo vivo
marmo che incarna il verso
e non diviene mai stucco.
Elio è infine poeta di poeti;
con garbo ci prende in giro
e per noi non è cosa da poco
essere privilegiati soggetti
dei suoi sfrecciati cammei.

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Caterina Davinio POESIE SCELTE da Il libro dell’oppio, (2012) – Nella poesia della Davinio c’è vitalismo ed esistenzialismo. La vita è un interludio della moltitudine. La poesia è qualcosa che si fa in diretta dalla vita, mentre si vive – Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: La ricerca dell’autenticità

Caterina Davinio è nata a Foggia nel 1957, ha vissuto a Roma dal 1961 al 1996, dove dopo la laurea in Lettere all’Università Sapienza si è occupata di scrittura e nuovi media come autrice, curatrice e teorica. Tra i pionieri della poesia digitale, ha esposto in centinaia di mostre nel mondo, tra cui sette edizioni della Biennale di Venezia e le Biennali di Sydney, Lione, Atene, Livepool, Hong Kong e altre; ha partecipato a festival internazionali come Polyfonix (Barcellona e Parigi), E-Poetry (Barcellona e Buffalo, New York), Artmedia (Università di Salerno), Oslopoesi (Oslo) e il Festival internazionale di poesia di Medellín.

Tra le pubblicazioni, i romanzi: Còlor còlor (1998), Il sofà sui binari (2013), Sensibìlia (2015); i saggi sulle arti elettroniche: Tecno-Poesia e realtà virtuali (2002) e Virtual Mercury House (2012); e i libri di poesia: Alieni in safari (poesia e fotografia, 2016), Fenomenologie seriali (2010), Il libro dell’oppio (2012, finalista Premio Camaiore), Aspettando la fine del mondo (2012, Premio speciale Astrolabio), Fatti deprecabili (2015, Premio Tredici), e Rumors & Motors (poesia digitale). Dal 1997 vive tra Monza, Lecco e Roma, operando a livello internazionale.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: La ricerca dell’autenticità

Va sotto il nome di Esistenzialismo quel movimento culturale sorto in Francia immediatamente dopo la seconda guerra mondiale che prende nome dalla corrente filosofica degli anni trenta del Novecento che muove storicamente dal pensiero del danese Kierkegaard (1813-1855) e prosegue in Germania, con Heidegger e in Francia con Sartre. L’esistenzialismo segna un ritorno di attenzione dell’uomo alla sua esistenza o, con linguaggio heideggeriano, all’essere dell’esserci. L’esistenzialismo francese postbellico, oltre a Sartre conta sull’apporto di romanzieri come Simone de Beauvoir, Camus e di un filosofo come M. Merleau-Ponty, e si presenta come una «filosofia della crisi». Nel dopoguerra, in Francia molti intellettuali fanno una scelta a fianco del Partito comunista e lo accompagneranno almeno fino alla invasione dell’Ungheria nel 1956. Si può dire che l’esistenzialismo anticipa il fenomeno della contestazione giovanile di massa caratteristica degli Usa negli anni cinquanta, con il rock’n roll e del ’68 francese. In Italia, spunti di esistenzialismo si possono rintracciare in romanzieri isolati del primo anteguerra come Giorgio Scerbanenco e Alberto Moravia del quale nel 1929 esce in Italia il primo romanzo di marca schiettamente esistenzialista: Gli indifferenti; in poesia invece l’esistenzialismo ha avuto da noi scarso attecchimento, tra l’altro, per motivi storici, giunge in ritardo ma con esiti comunque ragguardevoli, anche se le correnti artistiche poetiche stentano a trovare nell’esistenzialismo un punto di riferimento, lo troveranno alcuni autori, tra i quali Caterina Davinio, ma vale la pena ricordare un’altra poetessa, la romana Giovanna Sicari della quale ricordiamo le sue due prime raccolte: Decisioni (1986), e Sigillo (1988). C’è in quegli anni una élite di poeti che sceglie un vitalismo esistenziale per esprimere i dubbi e le angosce della generazione venuta dopo la affluent society e gli anni di piombo. Questo il quadro storico. Caterina Davinio in questo libro antologico della propria produzione, appare poeta significativo di quel momento storico stilistico. Possiamo considerare in questo orientamento anche poeti dissimili tra di loro come i milanesi Milo de Angelis con Somiglianze (1980) e Maurizio Cucchi con Il disperso (1976).

Ci sono in questi autori e in Caterina Davinio dei tratti stilistici comuni: la predilezione per gli scenari urbani e gli interni delle abitazioni private, il corpo visto come un oggetto, l’adozione del verso libero, segmentato e spezzato, la dizione veloce, l’impiego di un linguaggio parlato, antiletterario, la tematica esistenziale, il privato indagato dall’esterno e dall’interno: l’oppio, le droghe, il sesso, il disimpegno dal politico, l’alienazione, gli amori post-adolescenziali, la ricerca ossessiva dell’identità, un certo giovanilismo, il culto del suicidio…

Nella poesia della Davinio c’è vitalismo ed esistenzialismo. La vita è un «interludio della moltitudine». Incontriamo i bar notturni, «malfamati», le discoteche, i balli sfrenati, la droga, gli amori veloci, i «cieli grigi», il traffico delle città, una esistenza di sfrattati dall’esistenza, dispendiosa, anarchica, piena di «immondizie». C’è, in prima persona, l’autrice che dichiara: «raccolgo rifiuti», «Berlino prostituta esperta», «i graffiti sui muri», le «autostrade», «le gambe distese sul pavimento / rigido e freddo / come una camera mortuaria… / dentro i graffi nei denti», «l’edonismo arrabbiato» degli anni Ottanta, «la droga è niente, vedi?». La Davinio nelle sue poesie entra direttamente in medias res, ecco un incipit: «Dicesti: / adesso vado a casa e/ e me la sparo / e andammo a casa… (…) nella Roma languente / decadente / di matrone e portinaie / nella tua casa obliqua». Il verso è trattato sbrigativamente, perché non c’è tempo da perdere, è meglio la vita, viverla in diretta piuttosto che scriverla. Entrano in poesia, direttamente dalla strada, nuovi termini: «overdose», «shakerando», «incazzato», «eroina», «stronzo»…

La poesia è qualcosa che si fa in diretta dalla vita, mentre si vive.

caterina-davinio

Caterina Davinio

Caterina Davinio

da Il libro dell’oppio, Puntoacapo Editrice, 2012.

Bar.
L’ultima insegna
ancora accesa.

*

Ehi,
come va laggiù,
al Motel delle stelle?
Senti il suono della galassia?

*

Sì.
Ti dico di sì.

Fino all’ultimo stadio del male
delizioso.

*

Tu eri all’angolo della strada
e dietro di te il grigio del muro
e sotto, il grigio delle pietre e del selciato.
La strada era lunga e deserta
e la tua radio emetteva un suono metallico;
Tutto era sporco, era immondizia variopinta
a – u hu huuu
wha hu – u – u – dum dum.

(1981)
Correvamo divorando chilometri
la vita entrava e poi usciva da noi:
un buco vuoto
dove passa il vento

(1983)

Flash (Poema dell’eroina)

Il tempo di un sospiro
sprizza il sangue
nella plastica elastika
e injection suspirosa
ella trans-trahere transeunte
di felicità fugacissima
et intensissima
trans/actraversa attraversante
dal braccio alla schiena
come rampante graffio
salgono ragni di piacere
mi colpiscono (pugnalano) alle spalle
piacere
arrabbiato,
cattivo.
Testa piena full flash acqua
nulla dimentichi
intontito dai pugni dell’orgasmo
non l’org-chiasmo
non l’edonistico drappeggio
non quel pochissimo
che già muore
e ti lascia a fissare
la strada che scorre
e dici voglio ricordare
questo momento
questo sfuggire infinito
del temporaneo, un istante immenso
dilatato
che fluisce
voglio ricordarlo
e questo è tutto
è dio
è il meglio della vita
dei suoi aculei
del suo plasma addensante
archetipi
l’origine
la malattia della vita
equilibra
getta oro sulla bilancia
barbara (venduto al mondo)
ti stressa il cuore innamorato
ti innamori
guardi quelle luci correre lungo la strada
sto appoggiata a un fanale
a un obelisco di pietre lisce
e vedo
l’universo in strisce colorate
e riflettendo
linee di colore
fari delle cars oh America!
lontana
tutto quello che posso graffiare via
lo prendo nelle mani stanche
negli occhi del mio stupore
scorri strada
scorri via
scorrete case
macchine
notti luminose
riflessi di pioggia
la mia giubba di pelle con sinistri bagliori
mi stringe sono un piccolo dio
mi abbraccia
mi lega
ferrea come una camicia di forza
e ti guardo notte
negli occhi con tutto il mio coraggio
codardo
di tossicomane fallito arrabbiato
onore al fallimento
cipria su noi cadaveri
(risucchiati scheletri aulenti
nuda polvere di morte)
pregate
ma annotate nei vostri libri maledetti
che io sono nato oggi
che ho tutto
tutto è l’universo
è
quella poderosa scia.

Ella declina nel sonno
nei soffici sogni carezzevoli
come carezze di amante delicato fraterno
e lascia correre ragni agli angoli della stanza
cattivo taglio, presagio
striature nere di delirio
e tuttavia ricordo
(senza timore)
solo molle delirio d’ombra
tu steso sul materasso morente
io a darti salvezza in piccole gocce nere
noi risorgemmo dal nostro inferno come lievi angeli
con il solletico di dio nelle vene giudiziose
graffiate da artigli, aghi come baci

sul paradiso sull’inferno
non ho niente da aggiungere
non mi pento
nulla aborrisco del mio sangue
rabbioso
delle sue effervescenti bollicine
di frizzante amore universale
di universo universo
ubi/verso
dove stai tu di casa
sotto gli imbrogli della mia quotidiana
brama di afflitto
afflitto per voi inermi spettatori
della mia decadenza e demenza
del mio suicidio alienato e
della vita suicidaria
ma io costruisco mattoni di un muro possente
una barriera indecifrabile
di cellule, un chimico muro
nei cancelli del cervello
non dire oblio
non dirmi folle
costruisco una vita liberata dal peso della vita
lasciami correre come un angelo nella giungla
so delle tigri straziate
dalla colpa
uccidere
per bisogno
lasciami libero
i graffi bianchi sulla mia schiena mi sciolgono
e devolvono
come vivo senza quel peso della materia
senza quella raucedine di mille sigarette
fumate a catena, fumo – – –
vivo leggero come il fulmine
come la persistenza come la meteora
dimmi che mi comprendi
o dimmi che mi odi
ho la potenza del suono e degli eventi
ora lascio scemare l’oltraggio
alla mia carne tremula
domani sarà paura e vuoto
sarò un fantoccio di stracci implorante
la rabbia di dio dirà le mie colpe
e io aspetterò di nuovo per strada
lacrimando come un penitente
con i coltelli negli occhi
e aspetterò pregando l’ora della siringa e delle linee
l’acqua che supplizia le mie vene
all’altezza del giorno deambulante pensoso
aspetterò come Cristo sulla croce
la resurrezione
l’acqua e il fuoco,
l’amore infinito,
eroina.

1984
caterina-davinio-video
Frasi rubate

– Lascia passare il tempo
per quello che dura –
– Un uomo può anche sbagliare
– Tu non preoccuparti di questo
e stai a guardare –
– Ascolta…
il violino
che copre la ragione –
– Canti e dolore
droga e dolore
dice G. –
– Cosa ti fai –
– Lascia stare –
– Cosa ti fai –
– Stai a guardare –
Tamburi tamburi
Tum tuum
Chi ha ragione
e chi torto
– Sai
fa caldo
vedi… –
– balliamo balliamo –
ohhh
– dieci fantasie matematiche
algebra pura –
Non c’è un senso in quello che dice
– Il prigioniero
e la sua faccia
sono davanti allo specchio –
– Hai ragione,
è per guardarti dentro –
– Allora? –
– Non so –
– Cosa vedi –
– Tamburi Tamburi
tutto può essere vero
Il piano
uccide i violini
– ti sembra giusto questo –
– a casa di sera
una grande vetrata
sulla città
al diciassettesimo piano
sulla notte.
– Sono un musicista
una persona seria –
Milioni di stelle.
– Il ballerino
dagli occhi folli
si contorce
come un lungo serpente
non mi contraddire
– Non ti sembra bello?
– Anche stanotte sarà una notte da pazzi
La città sembra ancora una prigione
– Lascia stare…
– Cosa ti fai
cosa ti fai –
– Questa è tutta una voglia di droga –
– Qualunque cosa sia,
non durerà a lungo.
– Sei un musicista serio
molto bravo
e hai del coraggio
o no? –
– La tua musica mi piace –
– Questi concerti
che non finiscono mai –
– Mi fanno proprio perdere la testa
– Il solito sballato
che ficca la testa dentro un canale –
– Stai a vedere
che non te la cavi
– Torna domani
hai capito? –
– Un mio amico è affogato in un cesso –
– Brutto guaio –
– Peccato, brutta fine –
– Sì torno domani –
– Sei anche tu uno sballato da niente –
– Torna domani
hai capito? –
Un uomo può anche sbagliare
Un uomo si può anche ammazzare
– Sei un borghese e uno stronzo –
– Che cosa ti fai
Cosa ti fai –
questi tamburi,
a quest’ora di notte.

1976

 


(Eroina)
Bassi/Fondi

Ho bisogno del tuo tocco,
giù, nei bar malfamati della città,
dove sorrisi e occhiate s’intrecciano
e qualcuno cadrà
sulla strada.
Luci dei caffè
quasi vuoti,
faccia a faccia
deporre ogni arma
inseguendo un’onda struggente,
il maroso soffice.

Galoppano
incalzati dal freddo.

1981

*
Berlino

I cieli erano grigi
lunghi freddi
sembrava di guardare tutto
attraverso un vetro appannato.
Calpestavamo immondizie.
Berlino prostituta esperta
sopravviveva saggia e frenetica
ci divertivamo, eravamo tristi,
ci scambiavamo occhiate
piene d’intesa.

1981
*
Perché sono tornati?
Perché sono caduti di nuovo
nella durezza nella dolcezza?
Tu verrai avanti
tutto in nero
in uniforme notturna
portando la tua innocenza per le strade.
È passato il tempo
è durato un secondo
sento il sangue scorrere via cupo
mi accorgo
che ho sofferto per nulla.
Ho visto ore che non passavano mai
se ne sono andate da sole
dove andavano?
Non le ho sentite passare.

1982
*
Ad A., morto di overdose

Nel buco del nulla
ti scavasti un cantuccio
nell’utero di madre natura
sorridendo con occhi
ambigui
ti raccomandasti
alla benevola spietatezza dell’uomo
Scheletro raccolto
piccolo ritratto d’anima
volata via
e ancora errante
sul letto della morte
e a te è amore
a te è desiderio e passione la morte
piccola morte
ti ritrovai ritratto spezzato
immagine corrotta
in tutta la tua verità
la tua meschina potenza
con il segno indelebile
dell’infinito.

1985
*
Mi alleno all’imperfezione.
Torni e le porte sono aperte.
Per giacere con me
chiami, in multivisione,
da una specie di astronave ultima,
ma sono in ginocchio,
su di me insetti,
un segno della mia morte;
quei morsi mi lasciano intatta
come se venisse un vecchio amore a trovarmi,
una memoria di vita, bimbi e rifiuti.

1983

*

Un punto fermo
(Sul grattacielo)

Era notte, notte fonda
(perché la notte ha un significato)
e io ero in alto
e le automobili giocattoli
punti sulla pista illuminata
dalle luci gialle.
Il tempo gettava sabbia
fastidiosa sottile;
al ventunesimo piano
guardai la neve fioccare giù
quasi in mezzo alle nuvole
dove piccole stelle
di neve
si formano
(nascono gemendo dal buio).

1983

 

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Donato Di Stasi GLI ANDROIDI SCRIVERANNO POESIE ELETTRICHE? Riflessioni sull’ultrapresente e sul futuro della poesia – L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica – La poesia non muore e non si estingue. La sua storicità lo impedisce -Marxiani e marxisti in poesia –  Della poesia ingenua e sentimentale – La poesia italiana ricomincia da zero a ogni libro – Il destino della poesia

Dalla parte di Giambattista Vico. La poesia non muore e non si estingue. La sua storicità lo impedisce.

L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica. L’occhio naturale ha prodotto l’elegia, l’epica, la lirica. Che cosa produrrà l’occhio artefatto della Tecnica?

The Technique in sunshine. La Tecnica cattura sulle reti cablate l’inizio e la fine di una forma-sonetto. Riproduce alla perfezione le strofe, il numero delle sillabe, le rime alterne e baciate, ma non riesce a far percepire il calore e il movimento del pensiero. Esagera in metafore e visioni, non potendo creare dal nulla la bellezza di un sillogismo. Può imitare con i suoi algoritmi lo strapotere dell’immaginazione, ma non gli stati della mente. Come per tutti gli epigoni: scorrono fiumi di retorica.

Un pamphlet fuori dal coro. Che si pronuncino, ovunque e novunque, geremiadi contro chi relega al margine di tutti i margini teoria e critica, celebrando i fasti del depensiero.

Primum studere, deinde carmina scribere. Perché tanta diffidenza, se non idiosincrasia, per la teoria? Per quale motivo sembra tanto superfluo dover spiegare il proprio metodo compositivo? Per quale ragione appare così assurdo riuscire a coniugare talento, passione e concetti? A nessun versivendolo dovrebbe essere permesso di presentarsi in pubblico senza aver prima elaborato (in proprio) uno straccio di poetica.

Marxiani e marxisti in poesia. In cerca di modelli teorici ci si può imbattere nella marxiana Critica del gusto, risalente al 1960, del filosofo Galvano della Volpe, sostenitore del valore razionale e non sentimentale dell’opera d’arte. Fin dal primo capitolo (Critica dell’immaginazione poetica) il riguardo maggiore viene riservato all’esposizione unitaria dei temi, alla coerenza dei concetti, all’armonia dell’architettura compositiva.

Resta su posizioni regressive  l’autore che ritiene di istituire il poetico a partire dalla fantasia, e non di costituirlo nella  fantasia. Non di una sottigliezza grammaticale si discute, ma di una differenza abissale, perché il primum  nella composizione non appartiene a un arbitrario volo della mente, ma a un saldo organizzarsi attorno a concetti  polisensi, autonomi, plurali, aperti.

Resiste ancora (e ce ne rammarichiamo) la vetusta concezione romantica della poesia ineffabile, univoca e universale. Si tratta dello stampo crociano (idealistico-intuizionistico) che ha trovato accoglienza anche presso il marxista Lukács negli anni Trenta-Quaranta del Novecento.

Libertà progettante e imitazione passiva definiscono il senso dell’esistenza, non solo la presa di posizione nei confronti di un canone, piuttosto che di un altro. 

L’esercizio razionale della creatività. Se l’attualità veicola una forte allure negazionista, chi pratica la poesia sappia sviluppare una conoscenza di pari grado rispetto alla scienza. Non ritenga la propria posizione di seconda fila, o peggio un riflesso condizionato di natura sentimentale, in risposta a eventi pubblici e privati, prodottisi con qualche rilievo.

Il testo poetico come atto polisenso di una specifica produzione culturale. Ogni aspirante poeta appenderà al collo un cartello con l’indicazione degli autori che lo hanno ispirato e formato. Potremo giudicare a priori la possibilità di leggerlo o no.

Cartello esemplificativo. Esenin, Blok, Majakovskij, Chlebnikov, Mandel’štam, Brodskij, Holan, Hölderlin, Trakl, Benn, Villon, Rimbaud, Bonnefoy, Rebora, Lucini, Campana, Dickinson, Sexton, Plath, Rosselli.

Il lettore forte e il letto di Procuste. Pound, Cantos. D’accordo, testo caotico, frenetico, ritmato da citazioni impossibili (l’elenco delle dinastie cinesi imperiali, il rapporto fra usura e capitalismo, l’esempio politico-artistico del Rinascimento italiano). Ancor più d’accordo, testo illeggibile, indisponente, urticante, metallico, ma si possono comporre versi nel secondo decennio del Duemila, senza essere passati per le forche caudine dei Cantos? Saremmo arrivati a questo stadio di civiltà letteraria senza i colpi d’ariete del verso liberissimo di Pound?

Agrammatoi psophoi (suoni inarticolati).  Ma noi  capiamo quando la poesia parla come poesia e non come letteratura?

Della poesia ingenua e sentimentale. Non ce li figuriamo i presunti poeti, chiusi in casa nel porto sicuro  della scrivania, con la testa reclinata all’indietro in attesa che qualche divinità del Parnaso venga a versare miele nelle loro bocche ispirate?  

Il secondo mestiere. La scrittura poetica non è più chiamata a rappresentare e a consolare, ma a analizzare,  conoscere,  formulare una credibile weltanschauung (Montale 1956).

Paradossi. Anche nella sua forma più difficoltosa e complessa, la teoria è per tutti.

La poesia italiana ricomincia da zero a ogni libro. Cadere a corpo morto ingenuamente dentro il Trecento letterario e petrarchizzarsi è un buon modo per ibernarsi.

Contradictio in adjecto. Se la poesia si concentra esclusivamente sulla lirica, perde terreno. Se non ricorre almeno a un elemento lirico, perde per intero la sua forza espressiva.

 

Né avanguardia, né retroguardia.  Togliamo alla poesia la condanna al metalinguaggio e alla tautologia dei classici.

La terribile corporazione dei poeti. Sprovincializzare. Disaggregare gli –ismi. Impedire che gli epigoni facciano mucchio.

 Per dirla alla maniera di Antonio Pizzuto.  La poesia non si ripara. Non è una bambola.

Peripli e periclitazioni. I viaggi di Ulisse, il nostos, ovvero la fondazione della civiltà occidentale. Valgono come utile confronto le peripezie di larga parte dei poeti odierni attorno al loro ombelico.

Amor fati. La poesia non deve temere di decostruire se stessa e di mettere in conto la propria fine. L’assioma dell’apocatastasi parla, a ogni tornata d’epoca, di fulgide e repentine rinascite.

Ritorno al futuro. In qualche frattura dello spazio-tempo Pessoa, Kavafis, Quevedo, i trovatori licenziosi del XIII secolo continuano a macinare versi. Continueranno a scrivere in ogni ipotizzabile futuro.

Insegnamento sintetico di un capitolo di storia letteraria. Un poeta tondo che rotola troppo (Giuseppe Conte). Un poeta quadrato che non rotola affatto (Milo De Angelis). Un poeta che versa acqua fredda sulla testa (Mario Luzi). Una tarma che fa buchi nei mobili (Edoardo Sanguineti).

10 agosto 1829.  Nikolaj Vasil’evič Gogol brucia tutte le copie di un suo ridondante e irrilevante poema. Un gesto bellissimo, oltre la catarsi: liberarsi in un colpo solo della bruttezza del mondo, passata di soppiatto nelle sue pagine. Se i legionari della nostra Repubblica delle Lettere prendessero Gogol come esempio…

Il destino della poesia (1).  Se la poesia ha un’avvenire, è a condizione di imporre a se stessa nuovi compiti,  quelli che non hanno ancora un nome e per i quali non si ha un’idea.  Se la poesia ha un’avvenire, è a condizione di sentirsi sollecitata e scaraventata verso un nuovo ignoto.

Il destino della poesia (2).  Nel bric-à-brac postmoderno con il continuo tracimare di generi e correnti, è venuta meno la specificità dei singoli oggetti  letterari. Del resto, solo su oggetti pertinenti e fissi è possibile esercitare un’azione metodologica e  teorica.   Perciò al lavoro, serve un nuovo orizzonte fenomenologico e concettuale.                                                                                                                                                                                                                                   L’antiProtagora. L’uomo non è più la misura di tutte le cose. Le cose lo misurano e lo schiavizzano. Di questo, dell’essenziale, la poesia per ora dice poco.

Sia lode a Friedrich N. Il nichilismo va lontano, perché viene da lontano. La poesia attualmente non riesce ad andare da nessuna parte.

Hic stantibus rebus. La poesia si traveste da prosa, ma non seduce più. La prosa domina e non abbandona il campo, ergo la poesia non riesce a riguadagnare le posizioni perdute.

Il teorema di Gödel e la prassi poetica. Reintegrarsi nelle forme vegetali e animali per ritrovarne il linguaggio perduto. Reintegrarsi nella forma umana per trasformare il potenziale di energia in un linguaggio nuovo, coerente, compiuto.

Rovesciamento dialettico. Un buon punto di partenza: l’assoluta certezza del soggettivo, l’altrettanto assoluta incertezza dell’oggettivo. Come dire che gli automatismi dell’io appaiono indiscutibilmente certi, mentre le dinamiche legate all’esteriorità si estenuano in un relativismo scettico e senza limiti.

Non far cadere in prescrizione il dissenso. Non arrendersi alla natura ex lege del Mercato, nel cui tritacarne finiscono ogni bellezza e speranza. Veicolare verso i lettori voci in disuso, scardinanti, realmente antagoniste, come se sorgente etica e imperativo categorico  mantenessero ancora una loro dignità e agibilità nelle relazioni tra individui e corpi sociali.

Il romanzo è stato sempre appannaggio della borghesia medio-alta (Verga, Pirandello, Svevo), la poesia della fascia bassa della piccola borghesia (Saba, Scotellaro, Pagliarani).  Si capisce perché uno ricco come Attilio Bertolucci abbia percorso la strada del romanzo in versi, appartenendo naturaliter al facoltoso ceto dei proprietari terrieri.

Il destino della poesia (3). Il poeta di ricerca deposita i suoi versi al bivio fra Letteratura e Industria. Sa che il grande pubblico non passerà mai di  lì.

Deliberati analitici. La poesia è alta e pura, la solleva al Parnaso una lingua verticale che scarta con le sue magie sonore dalla quotidianità. Tutto vero, ineccepibile (sostengono gli integrati). Ma la poesia è anche bassa e infame, canale di scolo delle melme esistenziali. Tutto altrettanto vero, altrettanto ineccepibile (a detta degli apocalittici).

Vernissage. Quando un androide presenterà il suo primo libro, finalmente conosceremo il punto di vista delle macchine su di noi.

Explicit. Luce d’inchiostro, controluce della pagina bianca, ombre di significati toccano il corpo e la mente del lettore umano e non umano. (Rientrano tutti in scena)

Nereidi, sotto la costellazione del Cane, luglio 2016  

Donato Di Stasi  Donato di Stasi è nato a Genzano di Lucania, ha viaggiato a lungo in Europa Orientale e in America Latina prima di stabilirsi a Roma dove è Dirigente Scolastico del Liceo Scientifico “Vincenzo Pallotti” dal 1999. Ha studiato Filosofia a Firenze, interessandosi in seguito di letteratura, antropologia e teologia. Giornalista diplomato presso l’Istituto Europeo del Design nel 1986, svolge un’intensa attività di critico letterario, organizzando e presiedendo convegni e conferenze a livello nazionale e internazionale.

Ha pubblicato articoli per il Dipartimento di Filologia dell’Università di Bari, per l’Università del Sacro Cuore di Milano e per l’Università Normale di Pisa. In ambito accademico ha insegnato “Storia della Chiesa” presso la Pontificia Università Lateranense. Attualmente collabora con la cattedra di Didattica Generale presso l’Università della Tuscia di Viterbo.

È Consigliere d’Amministrazione della Fondazione Piazzolla, è stato eletto nel Direttivo Nazionale del Sindacato Scrittori. Per la casa editrice Fermenti dirige la collana di scritture sperimentali Minima Verba.

Ha pubblicato «L’oscuro chiarore. Tre percorsi nella poesia di Amelia Rosselli», «II Teatro di Caino. Saggio sulla scrittura barocca di Dario Bellezza» (1996, Fermenti) e la raccolta di poesie «Nel monumento della fine» (1996, Fermenti)

               

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Roma, via Baccina 79, martedì 5 aprile dalle ore 18 alle 21 Empiria festeggia  l’ottantesimo compleanno di Elio Pecora  con la riedizione del suo primo libro  LA CHIAVE DI VETRO  Salvatore Zambataro alla fisarmonica, clarinetto e voce di Pierfrancesco Ambrogio.    Elio Pecora (1936) “La chiave di vetro” (Empiria, 2016, prima edizione 1970,  pp. 122 € 15) con un Commento di Giorgio Linguaglossa e uno stralcio della nota di Roberto Deidier in calce al libro

pittura Bauhaus

Bauhaus

Elio Pecora è nato a Sant’Arsenio, in provincia di Salerno, nel 1936. Ha trascorso a Napoli una lunga adolescenza, dal 1966 abita a Roma dove risiede a via Paolo Barison 14 ( tel.349/4439444; email:e.pecora@tiscali.it). Ha come titoli di studio una maturità classica e una laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione dell’Università di Palermo. Non ha ricoperto incarichi pubblici. Ha pubblicato libri di poesie, racconti, romanzi, saggi critici, testi per il teatro. Ha collaborato per la  critica letteraria a quotidiani, settimanali e riviste (La Voce Repubblicana, Mondo Operaio, La Voce Repubblicana, Il Mattino, La Stampa-Tuttolibri, L’Espresso, il Tempo Illustrato, Wimbledon, Nuovi Argomenti, Ulisse,  Saggi critici ) e ai programmi di Radio Uno e Radio Tre. Dirige da un decennio la rivista internazionale “Poeti e Poesia”.

I suoi libri di poesia: La chiave di vetro  (Bologna, Cappelli 1970); Motivetto (Roma, Spada 1978); L’occhio corto (Roma, Studio S. 1985; Interludio (Roma, Empiria 1987 e 1990; Dediche e bagatelle  (Roma, Rossi & Spera 199O); Poesie 1975-1995 ( Roma, Empiria 1997 e 1998; Per altre misure   (Genova, San Marco dei Giustiniani 2001); Favole dal giardino (Roma, Empiria 2004 e 2013); Nulla in questo restare (Trieste, Il ramo d’oro 2004); L’albergo delle fiabe e altri versi (Roma, L’orecchio acerbo, 2007); Simmetrie ( Milano, Mondadori Lo Specchio, 2007 ); La perdita e la salute, I Quaderni di Orfeo 2008; Tutto da ridere?, Empiria 2010; Nel tempo della madre, La Vita Felice 2011; In margine e altro, Oedipus 2011; Dodici poesie d’amore  (con acquerelli di Giorgio Griffa), Frullini edizioni 2012.

I suoi libri di poesia per i bambini: L’albergo delle fiabe e altri versi, (con disegni di Luci Gutierrez), ed.Orecchio Acerbo , Roma 2007; Un cane in viaggio (Illustrato da Beppe Giacobbe) , ed. Orecchio Acerbo, Roma 2011; di prossima pubblicazione per le stesse edizioni Firmino e altre poesie.

I suoi libri di prosa: Estate, ed. Bompiani 1981; Sandro Penna:una biografia, ed.Frassinelli 1984,1990, 2006; I triambuli, ed.Pellicano 1985; La ragazza col vestito di legno e altre fiabe italiane, ed.Frassinelli 1992; L’occhio corto, ed. Il Girasole 1995; Queste voci, queste stanze, (conversazioni don  Paolo Di Paolo), Empiria, Roma 2008; La scrittura immaginata, Guida, Napoli 2009; La scrittura e la vita, ed.Aragno 2012. 

I testi per il teatro rappresentati: Alcesti ,1984 Roma Teatro SpazioUno, regia di Enrico Job; Pitagora, (edito nei Quaderni del Comune, Crotone 1987), Crotone, regia di Luisa Mariani;  Prima di cena, (Premio IDI 1987, in “Sipario”,474, gennaio-febbraio 1988),Roma Teatro Belli, regia di Lorenzo Salveti; Nell’altra stanza,1989 (in “Ridotto” 7-8,agosto-settembre 1989), Roma Teatro Due, regia di Marco Lucchesi; Il cappello con la peonia, 1990, Roma Teatro Due, regia di Marco Lucchesi; A metà della notte, Todi Festival 1992, regia di Maria Assunta Calvisi, edito da l’Obliquo, Brescia 1990; Trittico, Roma Teatro Due, regia di Marco Lucchesi, 1995. Le radiocommedie trasmesse: Il giardino, RadioTre il 21 luglio 1996; Il segreto di Lucio,  RadioTre il 19 ottobre 1997.

Quattro dei testi teatrali sono stati pubblicati nel 2009 dall’editore Bulzoni nel volume TeatroUn ultimo lavoro teatrale Sandro Penna: una cheta follia, per l’interpretazione e la regia di Massimo Verdastro, è in corso di rappresentazione in diverse città italiane.

Nel 2006 l’Università di Palermo, Facoltà di Scienze della Formazione, lo ha insignito della Laurea ad honorem in Scienze della Comunicazione. Per conto della stessa Facoltà le edizioni San Marco dei Giustiniani , Genova 2008), hanno pubblicato il volume L’avventura di restare (le scritture di Elio Pecora) a cura di Roberto Deidier con contributi di vari critici fra i quali Daniela Marcheschi, Biancamaria Frabotta, Giorgio Nisini.

Sue poesie sono apparse tradotte, fra altre lingue, in  francese, inglese, rumeno, iugoslavo, arabo. Sue raccolte di poesia sono state edite in volume in portoghese, in olandese, in inglese ( Poemas Escolhidos, Quasi 2008; Liefdesomheining, Serena Libri, Amsterdam 2011; Selected poems, Gradiva Publications 2014.)

Ha curato :  Sandro Penna, Confuso sogno ed. Garzanti 1980; Antologia della poesia del Novecento, ed. Newton Compton 1990; Sandro Penna poeta a Roma, ed. Electa 1997; Diapason di voci (quarantadue poeti per Sandro Penna) ed.IL Girasole 1997; Ci sono ancora le lucciole (poesie di sessantadue poeti italiani) Milano, Crocetti 2003; La strada delle parole ( poesie del Novecento scelte per i bambini e i ragazzi delle scuole elementari ) Milano, Mondadori 2003, 2013; I poeti e l’amore nel Novecento italiano, Roma, Pagine 2005; Il cammino della poesia, antologia poetica, ed.Pagine 2013.

pittura Matthias Weischer Erfundener Mann

Matthias Weischer Erfundener Mann

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

«Questo libro fu composto fra gennaio e luglio 1968 in Germania (…) Aggiunsi le due pagine finali a Napoli, quando vi tornai nei primi giorni di agosto. A Roma… fu letto in dattiloscritto da un gruppo di amici e di conoscenti, che se lo passarono a mia insaputa. Non so per quali vie pervenne a J.R. Wilcock che volle conoscermi e insistette perché lo pubblicassi solo dopo aver scritto molto altro (a sentir lui mi ero troppo esposto, per un primo libro (…) Fu edito sul finire del 1970 dall’editore Cappelli… L’editore ne rispettò caratteri e spazi, ma chiese un titolo diverso da quello che ritenevo il più esatto: Narciso in pensiero. Il titolo nuovo mi venne guardando i quadri di Magritte, ben certo che la chiave di ogni possibile conoscenza non può essere che fragile e trasparente. Seppi dopo che quel titolo apparteneva già a un famoso poliziesco di Dashiell Hammet» *
Elio Pecora_cop La chiave di vetroUno degli aspetti più interessanti del libro d’esordio di Elio Pecora è l’impianto narrativo de-ideologizzato. Non c’era in esso nulla di ciò che all’epoca si era abituati a considerare poesia, il testo si presentava con un misto di prosa e poesia con un metro libero molto lungo che collimava e sconfinava con la prosa; per di più, la disposizione tipografica, con parti in maiuscolo che si alternavano ad ampi brani in metro libero in minuscolo normale e in corsivo, non aiutava certo il lettore ad orientarsi in quel tipo di scrittura che, peraltro, appariva particolarmente in sintonia con quel ritorno alla «oralità secondaria» teorizzata poco prima,  nel 1967, da McLuhan. Pecora infatti accoglieva nella forma-interna del libro di esordio l’esigenza di consegnare all’uditorio dei lettori una poesia vicina alla quotidianità, alla oralità e alla biografia con un modo disinvolto e fresco di porgere il plot. Il protagonista del libro è l’autore che parla in prima persona, ma è il modo con cui parla che qui è diverso. Innanzitutto, l’io che parla lo fa senza schermi o paratie retoriche; come nel romanzo, è una voce narrante che ci racconta le vicende sue personali, il travaglio dei lavoretti e dei licenziamenti del giovanissimo protagonista, i suoi rapporti con la madre e con la madre della madre, la scoperta del padre, quasi sempre assente per motivi di lavoro, gli scorci sul suo milieu familiare e sociale, i rapporti con gli scrittori che venivano alla libreria dove lavorava il giovanissimo Elio. C’è, in rilievo, la figura di un giovane intellettuale che viene a contatto con la vita di fine anni Sessanta della capitale. Le sue vicissitudini private, anzi, privatissime, come la scoperta del sesso e delle pulsioni libidiche. Ma qui il privato diventa, come per magia, un fatto pubblico, diventa la metafora del riflusso incipiente degli anni Settanta che si preannuncia da eventi minimi e inavvertiti. La «voce» che racconta lo fa senza infingimenti, senza retorismi, con un parlato ricchissimo di perlustrazioni esistenziali e oggettuali. La scrittura di Pecora è attenta agli spigoli, ai dettagli del privato-quotidiano e del sociale come mai era successo in precedenza; quella «voce», dicevo, così dissimile da quella di un Dario Bellezza che nel 1970 dà alle stampe Invettive e licenze, salutato da Pasolini come «il miglior poeta della nuova generazione», (giudizio lusinghiero che rivelava la capacità del poeta friulano di percepire il «nuovo» della nuova generazione), forse non era ancora pienamente riconoscibile in quei primi anni Settanta, gli nuoceva quello smarrirsi del protagonista nelle pieghe della capitale, quell’andirivieni tra un lavoretto e l’altro, quella gassosità degli eventi narrati, quel senso di disorientamento e di dispersione, molto sottile e pervasivo che si rinviene in modo percussivo in tutto il libro. Fatto sta che Dario Bellezza conosce un successo immediato di pubblico e di critica, il suo libro è aggressivo nei toni e anche nella violenza linguistica, fa breccia da subito; il libro di Elio Pecora, comunque salutato con attenzione e apprezzamento dalla critica dell’epoca, dovrà attendere alcuni decenni per entrare di diritto nell’immaginario delle citazioni critiche ed essere rivisitato come avrebbe meritato. I libri di poesia, si sa, hanno un loro cammino autonomo, fanno la loro strada, camminano da soli, a volte zoppicano, vengono superati da altri più veloci di autori che godono della approvazione mediatica, ma non c’è dubbio che il libro, a rileggerlo oggi, a distanza di quarantasei anni, mostra una imprevedibile vitalità e capacità di durata, una sua immediata riconoscibilità. Ai libri di Pecora e di Dario Bellezza, nel 1974 si aggiunge quello di Patrizia Cavalli con il noto titolo Le mie poesie non cambieranno il mondo ben consigliato da Elsa Morante. Nel corso degli anni che vanno dal 1970 al 1976 escono i libri dei principali protagonisti della nuova generazione. A Milano nel 1976 escono Il disperso di Maurizio Cucchi e Somiglianze di Milo De Angelis. Altri autori si aggiungeranno subito dopo. Verrà così a configurarsi con sufficiente precisione la mappa della poesia della «nuova generazione». Eppure rimarrà un mistero l’approdo tardivo di un poeta come Elio Pecora alla grande editoria, visto che il primo libro pubblicato da Mondadori nello Specchio è del 2007, Simmetrie. Epperò è in questi anni che si muove la poesia sotterranea di Helle Busacca (1915-1996), la quale nel 1972 dà alle stampe, a sue spese, la trilogia de I quanti del suicidio, e nel 1974, I quanti del karma, in totale antitesi con la poetica della Cavalli. Ma la sua voce era dissonante con quella maggioritaria della sua collega romana che scriveva una poesia in linea con la sensibilità dell’epoca. E come non citare Salvatore Martino (1940) il cui primo libro La fondazione di Ninive (1965-1976) pubblicato nel 1976 voleva segnare un momento di continuità piuttosto che uno di rottura. Analogo discorso vale per il romano Luigi Manzi (1944) il quale esordisce con “Nuovi Argomenti” pubblicandovi alcune poesie nel 1974, e per il poeta di Campobasso, Mario Gabriele (1940), il quale pubblica in quegli anni alcuni libri significativi: Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976).

* Avvertenza in calce al volume p. 115

dalla Nota di Roberto Deidier in calce al volume

Possiamo finalmente leggere La chiave di vetro come un prosimetro indefinito, al cui interno il passaggio di forma resta spesso inavvertito e inavvertibile. Quando il narrato cede al lirico, non sempre la prosa cede al verso. e lo stesso accade se invertiamo l’ordine e rovesciamo la prospettiva. Insomma, l’evidenza della novità congiurava contro la natura di quella novità, la occultava tra le pieghe di una scrittura mobilissima, la cui materia autobiografica si distaccava precocemente dai modi in cui la «nuova generazione», e Bellezza stesso, l’avrebbero «bruciata».
Faticheremmo non poco, infatti, a cercare in queste pagine l’«io che brucia». Non c’è alcun soggetto in fiamme, ma un ritorno pieno, e problematico, di quello che Debenedetti aveva definito «il personaggio uomo». Un’intera e ampia stagione sperimentale si affaccia nella Chiave di vetro, e con essa una geografia letteraria che comprende l’Inghilterra di Virginia Woolf e la Francia di Michel Butor, nonché la grande esperienza della Mitteleuropa. Ma sotto questo ritmo si agita soprattutto il Gombrowicz dei diari. Elio Pecora, questo il nome dell’autore, non aveva dunque mancato di guardarsi intorno e si era recato da Roma fino in Baviera. Lì, a opportuna distanza dai luoghi più suoi, si era arreso alla scrittura.
Di italiano questo libro conservava solo la lingua. Che i più accorti lo accogliessero con giudizi lusinghieri è credibile alomeno quanto la defezione di chi allora non seppe, o non volle, misurarsi con esso. La complessità dei suoi referenti si mostra oggi, a più di cinquanta anni dalla prima edizione, come una sfida accattivante sul piano dell’interpretazione, ma anche su quello della ricostruzione di un contesto. Di fatto la Mitteleuropa non aveva perduto nulla del suo fascino e del suo prestigio, per quanto il raggio dei suoi influssi risultasse indubbiamente indebolito. Perché la sua forza propulsiva tornasse pienamente ad accendersi, bisognava attendere di rileggere Walser, o che apparissero le prime traduzioni da Thomas Bernhard. quella cultura, invece, aveva profondamente inciso nella formazione letteraria di Pecora, accanto alla frequentazione dei classici. Irrorando quella matrice antica con nuovi attriti e nuove tensioni, psicologizzandola. […]
Ogni percorso di osservazione dell’io risponde oggettivamente a un principio di oggettivazione: Narciso contempla se stesso perché l’acqua ne riflette il sembiante. Solo così sarà possibile chiarire il ruolo effettivo che la parte di lirismo e quella di narratività inscenano in questa costruzione; e si tratta di un ruolo ibrido, cangiante come le mille maschere di Dioniso. Il lirismo si fa paradossalmente oggettivo. E Narciso affonda tra le acque: Dioniso, il dio misterioso, ci attende proprio lì dove siamo certi che «Le cose stanno così».

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Elio Pecora,  La chiave di vetro, Cappelli Editore 1970, Ed. Empiria 2016

I

Le cose stanno così.
Sono cresciuto in mezzo a gente che, il giorno,
mentre cava il fosso per le immondizie,
si racconta di reami e di santi.
Le favole non mi contentano.

Così, una domenica siedo alla fontana.
Attacco a parlare con un tedesco, psichiatra, a Roma
scrive un romanzo.
Gli dico che ho scritto dei versi, me li ha vantati
un critico attento e ignoto; che lavoro in libreria,
ci passano le celebrità. Non mi qualifico commesso,
che spolvero mensole e taglio spago ai pacchi.
Ma lui frequenta le librerie.
Parliamo soprattutto di me.
Da « Rosati », a cena alla « Buca », negli intervalli
a teatro, all’Osteria dell’Orso.
Io mi presento nella parte giusta, controllo i gesti,
scompiglio sulla fronte i capelli marrone e,
abbandonato al divano soffice,
ascolto canzonette con evidente malinconia.
E il mio amico mi santifica « poeta », un po’
Hofmannsthal, un po’ bardo arruffianato alla luna.
E scopre in me l’ambivalenza che, prima, m’era
solo servita nelle guerre casalinghe.
— mio saltar dal letame all’urna del Santissimo.
— issar l’asta della vittoria e leccar lo sputo.
Io precipitosamente discorro, lui col suo italiano
puntellato e veramente ci conosciamo.
Pazienta ad aspettarmi la sera, mi pungola a
scrivere, mi consiglia letture, m’accenna
al Narcisismo.
Già. Io vado curiosamente per le strade,
il padrone del mondo.
Mi specchio nelle vetrine:
ogni occhiata incupirmi e bearmi.
Il passo fatto d’aria,
la testa in alto contro i cavi del filobus.
Insomma Narciso.
Io odio il compromesso e corro
sfiancandomi.

Narciso non è bello né conosce la sua bellezza.
Si finge bello.
Perché gli altri plaudendo sentenzino: vive.
Narciso procede nel gioco;
e non sente misericordia per i suoi piedi stanchi,
per la speranza che gli si consuma d’altre parole.
Nel cavo del sogno riconosce l’intesa
che si traveste d’impegno.

Egli vive con un segreto e si piace.
Mai felice né veramente infelice,
sperduti gli occhi,
guardar tutto come da una nuvola.
Il mistero, ossia la verità mai conquistata.
Un segreto come quello di Dio.
L’ateo cerca Dio per smentirlo.
Il fedele inchioda il suo Dio in capo al letto e
l’ ossequia di sera per prendere sonno.

Narciso non vuole compromettersi.
Permanentemente adolescente ascolta tutte le voci,
è preda di tutti i dolori, delle gioie più lievi,
la paura come quotidiana attesa
la ricerca come programma esaltante
il sogno come domanda, ritorno
— la voglia di pianto è il desiderio dell’istrione.

Certo ogni ora attende un gesto, un soffio
che gli significhino il presente.
Un legno scricchiola, s’appanna il vetro ed ecco
un nuovo elemento per l’aritmetica dell’anima.

Narciso deve compromettersi.
La sua adolescenza senza spiegazioni, senza
programmi. Quando l’ideale lungamente inventato
si scontra con persone ed eventi e questi gli resistono
ed esso si piega in se stesso e un momento
si divinizza un momento si sprofonda d’ansia.
Allora ti viene incontro una totale incertezza,
una solitudine universalmente dubitante,
una nostalgia d’ignoranze superate.
Vorresti essere il bambino,
la bestiola sicura al caldo, ma corri verso la rabbia
e il disprezzo di te.
Necessità della guerra.
Una guerra senza bandiere.
Cercarsi. Superare la disperazione.

II
A Roma ero venuto l’altro Settembre.

Dopo le prime due notti, accampato in un lurido
guscio dell’Albergo del Popolo, trovai camera nel
quartiere africano. Da un’emiliana coi reni incrostati,
la pressione alta, il cuore incerto, un rilasso uterino,
e la bocca che non reggeva la dentiera.
La vecchina mi raccontò del marito morto
paralitico, delle figlie in America, della guerra che
l’aveva spiantata: lei sul carretto impietrita dall’artrosi,
gli altri nei fossi e i nazisti mitragliavano.
S’agitava per i terremotati del mese e per il
ragazzetto del terzo piano.
Raccoglieva bottiglie vuote e scatole unte di
conserva per la sua quota d’obolo all’Orfanatrofio
che il venticinque del mese disseminava gli esattori
alle porte.
Con la vecchia dividevo i dolci della domenica
e gli anemoni che m’allegravano la stanza.
La notte nel corridoio luceva un santo barbuto, lei
ronfava nello stanzino del guardaroba, con l’uscio
spalancato per non soffocare.
Da quella casa, con l’orario che mi scadeva,
partivo il mattino.

A Roma mi ci ero avventurato.

Un compaesano, deputato e giornalista, mi promise
impiego e interessamento per bocca del segretario.
Tre mesi dopo un cartoncino m’avvertiva d’una sua
conferenza marxista su fondale cristiano.

Trovai lavoro a Monte Sacro.
Con altri due telefonavamo alle amministrazioni
proponendo abbonamenti a un foglio previdenziale.
Quando capitava un ragioniere indeciso
gli spedivamo rivista e contrassegno.
In un mese telefonai a collegi, cliniche, latterie e
quanto il commercio fa e disfa in Roma.
Dicembre e Gennaio a via Veneto, in libreria.
Una galleria di marmi e lampadari, mancavano
i pattini a rotelle all’ingresso, la musica c’era —
quattro microsolchi in sessanta giorni.
La mattina tardavo un cinque minuti e il direttore,
omuncolo a molle, fulminava l’orologio stradale e
scoteva il capino. Sfacchinando due mesi,
cortesemente mi licenziarono.

Un pò godei al sole di Trinità dei Monti.
Ché m’abbindolò una società americana per un
libro d’infanzia.
Girai Roma e provincia.
Copiavo indirizzi dall’elenco telefonico, suonavo
alle porte ogni volta esitante, spesso scendevo
afflitto e sfiatato,
di rado pasticciavo l’intesa = percentuale.
Un mese ed ero depresso.
Altro lavoro in libreria.

Stavolta minuscola, un ombelico verde con
scaffali di palissandro,
due poltrone di pelle,
un’anfora di peltro con gladioli.
Mi ci sono costretto otto mesi,
ad agosto quando tutti rosolavano sulla sabbia
e a Natale quando signori panciuti compravano a
dozzine, per cardinali e ministri, i coloratissimi
volumi che accatastavamo a trincee.

elio pecora 2

Elio Pecora

III
Mia madre visse la sua giovinezza in una casa
sulle colline. Una casa con gradinate e colonne
di pietra.
Sulla porta lo stemma con leoni, molte camere
chiuse. Cortili di glicine, azzurri
d’ortensie a giugno.
Pozzi d’acqua gelida, larghi giardini, scalette
nel verde, Madonne in edicole fiorite,
ovunque un silenzio di sole e di tempo.

In quei giardini ho visto farfalle e lucertole,
l’uva annerirsi d’agosto, stillare di latice i fich.
Per quegli orti ho scoperto le stagioni e il cielo,
la luna del tramonto e le stelle alte della sera.
In me, per questi orti,
i ricordi di mia madre e della madre di mia madre.

Nel racconto,
la madre di mia madre s’alzava all’alba,
coglieva rose di rugiada
una ornarne la treccia altre per la figlia,
apriva la finestra
annunciava il mattino
e la destava con voce di rimprovero.

Nel racconto
questa madre di mia madre
aveva neri capelli sino all’ultima vecchiezza.
Si profumava di colonia, incipriava le gote,
spingeva dalla fronte un ricciolo e andava a messa
poi al mercato e tornava
con molte parole e frutta d’altri paesi
e sedie di paglia intrecciata.

La madre di mia madre fischiava.
Al plenilunio, con tenera voce
chiamava i figli morti da tanto.

La madre di mia madre,
davanti al focolare avvampato di quercia,
accoglieva vecchi preti e lavandaie di lunga
memoria. Nella brace abbrustolivano castagne,
bevevano rosso Falèrno dentro tazze di creta.

Morì un giorno d’ottobre la madre di mia madre.
Nell’alto letto giaceva esausta, ma
allegramente parlò: è bene ch’io muoia.
La vendemmia è stata scarsa e
dovrei bere poco quest’inverno.
Poi, si perse nella pena. Chiamò i figli morti,
gli stese incontro la mano.
Un giorno di pioggia,
d’ottobre.

Io vengo da una razza di contadini.
I parenti di mia madre
per secoli hanno allargate le terre,
cavalcato per dirupi, si sono in piazza scannati
con chi gli spostava i pali di confine,
hanno impeciato i tini per le vigne gonfie, una
di loro pare stesse dai Borboni — nelle soffitte
tarlavano i farsetti dei paggi.
Gli avi paterni zapparono,
furono macellai e cantinieri. Mio nonno emigrò
in Venezuela scordando moglie e figlio; tornò sordo
e vecchio.
Mio padre s’arruolò in Marina
meritandosi i gradi dorati, il rispetto dei paesani,
una casa con tende e porcellane e la moglie
nata signora.

IV
Dei primi giorni a Napoli ricordo
la pena che mi colse
in una strada, verso il mare, ascoltando dal pianino
la canzone d’una promessa e di un amore finito.
A quel sole, odorando il mare.

Anni vari.
Gli onomastici di mia madre con dolci e fiori,
le sue passioni rabbiose a pianoforte,
la scuola col giardino ampio e sfolto, certe domande,
le barche a Posillipo.

Avevamo lasciato il paese dove tutti eravamo nati
un mattino di giugno.
Si chiuse la casa senza coprire i mobili; la guida
per le scale, k tende alle finestre, le forbici al chiodo
in cucina.
Qualche mese dopo, i ladri avrebbero tutto portato
via e dopo quindici anni, dietro un tiretto,
mia madre trovò il suo velo di sposa.

Mio padre a quei tempi imprecava contro il mondo,
a mia madre crescevano i mali, tingeva
i capelli a onde,
il mio amico Vanni non rispose alle mie lettere,
io leggevo la mia enciclopedia alle pagine verdi
delle favole e a quelle gialle della storia e dei miti.
Al ritorno da una vacanza in paese trovai i miei
in una casa lontana dal mare, in vicoli vocianti
coi panni stesi fino al sole.
Da un lato premeva contro i balconi un monastero
di cadenti terrazze, dall’altro s’allineavano bassi
con pergolati sulle porte; fra le foglie d’edera
spuntavano rose di celluloide.

In quel quartiere i grammofoni urlavano senza
requie, il tanfo delle cucine esalava fino alle tegole,
nelle risse giornaliere si cimentavano grasse donne
e bambini gracili, si proclamavano i numeri per
vincite di uova e d’olio, a gennaio su un falò
di sedie rotte ardeva un pupo di stracci,
di sera una vecchia
spiava dall’alto gl’innamorati, i ragazzi squassavano
a calci le saracinesche, nel balcone d’angolo
una ragazza si vestiva di nero; avevo un binocolo
per le terrazze lontane.

In quella casa la mia interminabile adolescenza.
Un salotto stile luigisedici, vecchie mura traversate
da topi e scarafaggi, carte a fiori alle pareti,
una piccola stanza per ascoltare la radio,
uno spazio fra balcone e tenda dove starmene
a leggere.

Tutto leggevo.
Le puntate dei romanzi vendute dal giornalaio,
le storie della Peverelli, la Karenina di Tolstoi,
Sue, Hugo, Dostoevskij, i libretti dei melodrammi,
la Nanà di Zola e libri che m’imprestavano i vicini,
libri che a poche lire compravo sulle bancherèlle,
giornaletti di Gordon e dell’Uomo Mascherato,
ancóra le favole della mia enciclopedia.
La notte mio padre spegneva sul mio comodino la
lampada e raccoglieva in terra il libro.

A scuola andavo rassegnato.
Mi fingevo assorto in un disegno per meglio
ascoltare le confidenze dei compagni.
Una notte sognai la ragazza bionda che guardavo
per le scale e da allora smisi di guardarla.

Pittori e muratori facevano in casa il nuovo.
Mia madre con me fingeva le più concrete favole.
Io piangevo di rado. La malinconia mi governava
le giornate. Entrai nel dolorosissimo sbaglio.
Allora forse mi volli diverso da quel padre assente,
da quegli zii senza cuore e dalle donne languenti
solitudini. Un uomo appresta la felicità.
Uno sbaglio dolorosissimo.

elio pecora 1

Elio Pecora

***
V
Tunzenberg, Marzo

Iersera ho preso a camminare.
Le case chiare, le tendine rialzate, una donna
con bambino dietro i vetri, il lago increspato,
il vento sgominar foglie,
un cane guaisce legato, mai percorse foreste.
Sono tornato indietro.
Ho spiato il cielo strisciato di rosso, il cane ancora
ha guaito, la stessa donna dietro i vetri col figlio,
sul selciato rane schiacciate, risecchite al sole.
Ho continuato il cammino.
Le ombre slargavano. Il vento mi percuoteva freddo.
Bestiole balzavano nei cespugli. La luna
agli inizi del primo quarto.
Ho raccolto un ramo per difendermi da qualche
assalto e andavo tra abeti e quercie.
Ho preso una strada più buia, brulicante di rumori,
di legni cigolanti. Foglie m’inseguivano come ragni,
come serpi.
Mi sentivo pronto a quelle solitudini.
Col corpo fiero, il bastone nodoso, entrare più
dentro il boscame.
Dalla strada ora aperta scorgevo finestre accese,
fanali d’auto.
Ho desiderato qualcuno che mi cercasse. Qualcuno
che mi gridasse, son qui fermati. Io sono qui e
tu sei vivo. Tu hai mani e faccia. Questi alberi
inverdiscono. Questa nebbia appanna le case. Tutto
questo vento traversa.
Noi siamo fuori del sogno.

SIGISMONDO, AMBIGUO AMLETO.
NELLA PIÙ FITTA DISPERAZIONE E NEL DUBBIO
DI QUESTA DISPERAZIONE.
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AFFAMATI DUBITARE DELLA FAME, DEI DENTI,
DEL CORPO DIGIUNO.
DISPERARE DELLA DISPERAZIONE.

— ci sono giorni terribili in ogni mio mese, nei quali
io sono completamente perduto.
Tutto inutile e vano.
Chi il giorno avanti m’amava e amavo, ora m’è
estraneo, i suoi occhi ipocriti, ogni suo gesto una
bugia. E veramente sono solo.
Una pietra al sole, in fredda delusione,
in sofferenza senza parole.
Una pietra al sole e alla pioggia, morta tra le cose.
Piangere, bestemmiare è una corda che ci allaccia.
Ma il silenzio che sa l’inutilità del parlare, gridare,
gemere, questo silenzio è soffertissima morte.
Io devo ignorare le distruzioni che sempre premono.
Io cerco i ricordi perché essi m’impediscono di
vivere.
Io ricordo per non più ricordare.

In questo paese io sento tutti i rumori, del cuore
e di fuori.
Un corvo nero per l’aria; si staccano dagli abeti
i fagiani; i caprioli si volgono incerti e spariscono
nella boscaglia; viole fragili sul dorso dei viottoli;
l’acqua scivola nei canali lungo le terre.
Sono arrivato la sera dell’otto Gennaio.
A Napoli Osvaldo lungamente mi salutò.
A Bolzano una musichetta si sparse per i vagoni;
monti, precipizi, campanili, distese.
L’allegria degli inizi.
Poi la folla di ritorno dai campi di sci.
A Monaco, Wolf m’attendeva con un curioso
cappello. Io intontito e deluso, come a ogni
arrivo. A Dingolfin, Lotti con l’auto.
Per via cercai d’essere allegro.
Quando fummo nella camera assegnatami, in una
dipendenza del Castello, cavai dalle valigie i doni
e ci dirigemmo alla loro casa.
Il cancello di legno. La mia disattenta emozione.
I bambini presero i regali, noi cenammo, poi Wolf
m’accompagnò alla mia stanza e fui solo.
Cinque quadri alle pareti, tende verdi alla finestra,
una grossa poltrona, un divano récamier,
la stufa a legna, due lumi.
M’accinsi al sonno.
Al mattino mi svegliò la voce di Wolf.
Disposi libri nello scaffale e sullo scrittoio di noce.
Uscimmo al sole bianchissimo.
A Tundig, nel cimitero fra le case, spiavo dentro
le finestre gli armadi e le cucine,
io fermo tra le lapidi,
su quei morti allegri di neve.
Tornavo in quella stanza, tra quelle mura senza
parole.
— io odiavo quei lumi, quel tappeto sardo, i
bicchieri sullo stipo.
Faticavo ad accendere la stufa.
Il dieci gennaio annotavo … « io veramente voglio
scrivere tutto. Il tempo di fuori e quello dell’anima
… io so, debbo farmi vuoto per farmi nuovo,
per sentir musica, vedere un quadro,
odorare un fiore, scaldarmi,
dormire, io lo voglio, nonostante queste notti,
questi sonni interrotti da paurosi pensieri…
desiderare la morte,
fuggire. dove?… »

Oscillavo tra un dolore grande, una paura folle di
persone e di cose e la voglia di tutto superare, di
aver pazienza.
Di vincere, rifiutando la felicità.
Chi m’ha raccontata la favola della felicità?
Quando m’ha raccontata la terrificante bugia?
È lui, è lei, sono loro i colpevoli della mia
sofferenza.

Il pomeriggio andavamo per i boschi.
Paesaggi di Bruegel, orizzonti sterminati.
Avevo detto a Wolf le mie paure. Uguali, le stesse,
ripetizioni, mi rispose.
Di sera io tornavo alla loro porta, trasalendo
al crepitio della neve sotto le scarpe. Restavo
a guardare lo studio e la biblioteca illuminati.
Poi correvo a dormire
sonni inquieti. Ogni volta, nella mia camera
calda, m’impauriva la sosta.
Tutti dentro mi parlavano quelli del mio passato.
Io chiuso, il freddo fuori, tutto inutile e lontano.
Stavolta non potevo fuggire ……..

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DIECI POESIE di Umberto Fiori da “Poesie” (Oscar Mondadori, 1986-2014) con un Commento di Giorgio Linguaglossa

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Umberto Fiori è nato a Sarzana nel 1949 dal 1954 vive a Milano. È autore di saggi e interventi critici sulla musica (Scrivere con la voce, 2003) e sulla letteratura (La poesia è un fischio, 2007), di un romanzo, La vera storia di Boy Bantàm (2007) e del Dialogo della creanza (2007). Del 2009 è Sotto gli occhi di tutti, un cd di canzoni tratte dalle sue poesie, in collaborazione con il chitarrista Luciano Margorani. Il suo primo libro di poesia, Case, è uscito nel 1986 per San Marco dei Giustiniani. Sono seguiti, per Marcos y Marcos, Esempi (1992), Chiarimenti (1995), Parlare al muro (con immagini del pittore Marco Petrus, 1996), Tutti (1998) e La bella vista (2002). L’ultima raccolta è Voi (Mondadori, 2009), ora inclusa, insieme a tutte le sue poesie e ad alcuni inediti nell’Oscar Mondadori uscito nel 2014.

umberto fiori copertinaCommento di Giorgio Linguaglossa

Nella poesia di Umberto Fiori c’è un percorso che parte da Sereni de Gli strumenti umani (1965), attraversa Giovanni Raboni e giunge fino al De Angelis di Somiglianze (1976) e al Cucchi de Il disperso (1976); c’è un abbassamento tutto lombardo del lessico. È una poesia di sottotoni, c’è il parlato anonimo di un «io» che si sottrae dalla scena, che si nasconde. La poesia di Fiori, fin dai suoi esordi, è sempre stata ricca di figure segnaletiche di luoghi urbani indicati di scorcio, in tralice (mai in prospettiva); le figuralità sono intercambiabili, gettoni della anonimia della vita moderna («i palazzi», «la tangenziale», «un capannone», «sui viali»); ci sono poi le diciture  del tempo  atmosferico e cronometrico, per lo più dizioni intenzionalmente indistinte: «In piena notte», «un giorno…», «una volta», «Ogni mattina», «Quando», «come quando», «È come quando di nuovo…», «una certa fermata», «in giro», «per un paio di piani», «tra le case», «da qualche parte», «è stato ottobre, gennaio». Molto frequentati risultano i deittici: («qua intorno», «lì intorno», «Qui ora c’è questa rete / e al di là della rete / questo terreno», «Le cose sono lì…», «Giorno e notte, qua sotto», «ogni giorno son qua»), che indicano luoghi generici, indistinti, indeterminati e intercambiabili. Gli oggetti, i macchinari, gli strumenti sono anch’essi indicati da termini generici («le macchine si muovono a scatti»), sembrano non avere nessun rapporto con gli agenti umani, sembrano mossi da forze esogene, esterne, indipendenti dalla volontà degli umani; anche le parti del proprio corpo sembrano essersi liberate dalla dipendenza dell’io, sono pezzi meccanici che si sono sottratti alle leggi della fisiologia («Lo vedi questo piede, / quando mi siedo, come lo metto?»); il sintagma «gente» è impiegato in modo equivalente al sintagma «i tanti»:

In tanti vanno, lungo il marciapiede,
continuamente. S’incrociano e si scansano,
rallentano e poi avanti. Filano, scorrono
svelti e tranquilli

Le indicazioni di luogo non indicano mai in quale città si svolgano i «fatti»; le locuzioni stradali sono sempre asettiche, indeterminate, neutrali non sono serventi alla riconoscibilità dei luoghi; le figure non sono neanche tipizzate come simboli (di qui la distanza abissale dai simboli montaliani, dalle Dora Markus, da Clizia, da Arsenio etc.) ma sono anonime, indistinte, grigie, impersonali, impolverate, unidimensionali; la ricorrente frequenza di nomenclature toponomastiche: strade, viali, angoli di strada, tangenziali, semafori (sottopassaggi, tram, macchine, giardini, autosilo, piazzale, cantieri, scavi, asfalto etc.), indica località urbane intercambiabili, ci si può trovare a Milano ma anche a Genova o altrove. I verbi coniugati per la maggior parte al presente vogliono indicare questa anonimia di fondo dei luoghi, delle persone e del tempo, non illustrano mai azioni concrete, atti, volizioni, quanto piuttosto degli accadimenti estemporanei e intertestuali tra una poesia e l’altra, denunciano l’appiattimento sulla dimensione del presente. Non c’è una temporalità riconoscibile, c’è semmai una temporalità impolverata, opaca, indistinta, si avverte quasi l’odore dei muri scrostati, i fumi di scarico del traffico urbano, dei destini affetti da anonimia. Diversamente da Montale, non c’è mai alcun momento che introduce all’epifania, non c’è alcuna epifania. La poesia sliricizzata di Fiori prende atto, come un registratore, delle esistenze nelle metropoli dei nostri giorni, non si propone, né lo potrebbe, alcun antagonismo al simbolismo (come erroneamente è stato sostenuto da qualche commentatore), perché non c’è alcun simbolismo nella segnaletica dei segnali stradali o nelle nomenclature delle strade. Anche dal punto di vista stilistico e sintattico questa poesia accetta di sopravvivere nella latenza anonima del «parlato» e di un «dettato» in chiave mimetico-realistica. Paradossalmente, si realizza una poesia senza stile, peraltro non richiesto dalla materia trattata, anzi, si verifica addirittura un raddoppiamento delle istanze mimetiche, quasi un iperrealismo, quasi a voler compensare l’irrealtà e l’indistinzione dei paesaggi urbani: «Cancellate, ringhiere, / scale, colonne, cornicioni»; «Siamo lontani dalle cose vere / che abbiamo intorno. / Siamo in errore» (Pedone); «lì davanti li hai / e non li vedi ancora» (Tangenziale); «Vedi? Parlare ci separa» (Spiegarsi); «nessuno parla – o ascolta – veramente». (Il discorso e la voce I)

Umberto Fiori

Umberto Fiori

Umberto Fiori

Apparizione

Alte sopra la tangenziale, chiare,
due case con in mezzo un capannone.
È questa l’apparizione,
ma non c’è niente da annunciare.

Eppure solo a vederli
là fermi, diritti davanti al sole,
i muri ti consolano
più di qualsiasi parola.

Cancellate, ringhiere,
scale, colonne, cornicioni:
ha l’aria, tutto, come se qualcuno
dovesse veramente rimanere.

.
Allarme

In piena notte
sui viali scatta un allarme.
Si ferma, e poi ripete
due note acute, tremende, con la furia
di un bambino che gioca.
Nei muri bui dei palazzi lì sopra
le finestre si aprono, si accendono.

Tranne la strada
in mezzo ai rami, vuota,
niente si vede.
Si tirano le tende
e si rimane intorno a questo urlo
come si sta in un campo
intorno a un fuoco.

(da Esempi, 1992)

.
Di guardia

Mi conoscono bene, hanno ragione:
io sono come un cane,
una di quelle bestie nere che dormono
intorno ai capannoni industriali
e se passi, si avventano di colpo
sulla rete metallica
e più gli dici “Buono!”, più si sgolano.
Adesso, chi li consola?
Finché non hai girato l’angolo
gli bolle il sangue. Tirano tutti sordi.
Scoprono i denti, mordono
anche il filo spinato; ma sono gli occhi
che fanno più paura: sereni
e puri come quelli di un neonato
o di una statua.
Hanno imparato il compito: questo recinto
tenerlo sgombro. Sia senso del dovere
o invece solo istinto, non ti commuove
almeno per un attimo
la scena che -loro- sempre, tutta la vita,
li fa smaniare, li esalta
e li avvelena?
Io, per me, lo capisco
meglio di tutti gli altri che ho mai sentito,
questo discorso.
La riconosco bene la voce
fanatica, che sbraita per difendere
-così, alla cieca, per pura gelosia-
l’angolo dove l’hanno incatenata.
Tu non sai che cos’è, stare di guardia,
in ogni odore
sentire una minaccia
a quei tre metri di terreno,
urlare in faccia al mondo intero
fino a perdere il fiato, e non sapere
cosa c’è da salvare, a che cosa
veramente si tiene.

(da Chiarimenti, 1995)

Minitram anni Cinquanta

Minitram anni Cinquanta

Per strada

Se all’angolo una signora
– o magari un vigile –
si volta
con la faccia scavata dalla luce
della bella giornata
e parla –proprio a me,
a me, qui- del rispetto che si è perso
o del caldo che fa,
io mi sento mancare, come un santo
quando lo sfiora l’eternità.

Sento le piante crescere, sento la terra
girare. Tutto mi sembra forte e chiaro, tutto
deve ancora succedere.

(da Chiarimenti, 1995)

Strettoie

In tanti vanno, lungo il marciapiede,
continuamente. S’incrociano e si scansano,
rallentano e poi avanti. Filano, scorrono
svelti e tranquilli, finché
di qua c’è un mucchio di assi, di là
un rimorchio di camion.

Soltanto uno ci passa.

*

milano, il naviglio pavese in secca e palazzi residenziali del quartiere barona alla periferia sud --- milan, dry naviglio pavese channel and residence buildings of barona district at south periphery

milano, il naviglio pavese in secca e palazzi residenziali del quartiere barona alla periferia sud — milan, dry naviglio pavese channel and residence buildings of barona district at south periphery

Uno soltanto: ma chi?

Ogni volta ti incanti,
prima di entrare.
Rimani lì a pensarci
una vita.

Dall’altra parte la gente arriva spedita,
s’infila nella strettoia. Tu le fai ala
come una folla al suo sovrano.

*

Con un mezzo sorriso
ti fai da parte, lasci che sfili
un cane
che tira una signora,
poi un tizio che viene
dietro di lei, deciso; ti sporgi appena
e subito rientri,
fai largo a un altro con una moto.

Guardali come sono calmi, sereni,
mentre ti passano di fronte
senza parlare, con gli occhi fissi nel vuoto,
ognuno un sole che sorge.
Beati, indifferenti:
sembrano dèi.

Tu invece, lì sull’attenti,
mastichi amaro.

*

Cos’è, rancore
quello che ti prende
ogni volta? Che torto ti hanno fatto?
Passare tu, volevi,
al posto loro?

No, non è questo.

*

Né tu, né gli altri. In quel passaggio stretto
vorresti che nessuno avesse cuore
di penetrare;
che durasse per sempre
e per tutti quell’attimo di scrupolo,
di esitazione;
che soltanto a vederlo, questo sentiero
sacrificato, in mezzo a due transenne,
le persone restassero impietrite
da un infinito rispetto.

*

Allora, fermi a un imbocco
e all’altro della strettoia,
mille volte ripetere l’invito
– prego, si accomodi!-
e mille volte regalarci il mondo
con gli occhi e con le mani, e mille volte
rifiutare, e invitarci, finché l’asfalto
che ci separa, a furia di cerimonie
si spacchi, e l’erba lì in mezzo ricresca alta
come se mai
ci fosse passato un uomo.

(da Tutti, 1998)
*

Contatti

Lo vedi come sono
storto, contratto? Lo vedi questo piede,
quando mi siedo, come lo metto?
È tutto per lo sforzo, in tanti anni,
di non urtare le persone. Stretto
contro un sedile, dentro l’autobus pieno,
stare a posto, evitare
coi miei vicini
persino il minimo contatto.
Sulle panchine delle sale d’aspetto
o in treno, in corridoio, era una pena
ogni momento sentire sfiorarsi il buio
del mio ginocchio e del loro.
Ore e ore, giornate intere:
uno di fianco all’altro
stavamo, come i gusti del gelato
nel bar della stazione.
Di vero tra noi, di giusto,
lo spazio di due dita
era rimasto.

(da Tutti, 1998)

*

Eccomi

Dello sbuffo di polvere che si alza
tra le forsizie e le macchine,
di quest’aria di pioggia, di questi morti
alla televisione,
richiami di cornacchie, sirene
di ambulanze,
nessuno ci assicura.
Del baretto incendiato, dell’abbraccio
di una donna al suo dobermann
all’ombra, qui, del portone
– del loro male, del loro bene –
abbiamo perso la misura.
Facce, bottiglie rotte, rami fioriti:
il mare in cui nuotiamo
precipita
nei nostri occhi senza fondo.
Eppure quando mi chiamano
mi volto ancora – vedi? –
e rispondo.

(da La bella vista, 2002)

bruxelles-tram

bruxelles-tram

Diciotto e ventisette

Le macchine che si muovono
a scatti lungo il viale, poi restano
ferme in fila al semaforo,
non sono vuote.

Ogni volante, una testa. Come due uova
rimaste nel cestello di cartone,
il taxista e il cliente
guardano avanti.

È troppo nuova per te, questa scena?
Perché tremi? Cos’è, non l’hai mai visto
il suo broncio di pietra
venirti incontro? Non sei ancora pronto
a queste facce, a queste ruote?

Ancora ti sconvolgi, di fronte
all’autotreno che non si ribalta,
alle minacce che non arrivano, al cuore
strappato vivo
dal petto di nessuno
e stretto in mano, e sollevato in alto?

(da La bella vista, 2002)

.
[Insieme a voi]

Insieme a voi
ho visto il mare brillare, le case correre
sempre più grandi
sotto i carrelli del boeing.
“Che caldo fa oggi”, ho detto
quando era caldo.
Anche per me è stato ottobre,
gennaio. So cos’è un letto,
una stella, un autobus.
Ho riso, ho avuto sete.
La terza ho fatto, la quarta.
Non basta ancora? Quando
mi prenderete?
Potrò essere mai
dalla vostra parte?

.
[Le vostre accuse, i vostri]

Le vostre accuse, i vostri
rimproveri, di nuovo.
……………………………….Mentre li smonto
come posso, uno a uno,
citando fatti, nomi, date,
mentre riconto sulle dita i miei due,
tre, quattro meriti,
e vi abbaio sul muso la mia vita
non dite niente: mi guardate.

Le orecchie rosse, le vene
gonfie sul collo
– cosa guardate? Lo so, lo so che il bene
è diverso.

Ma non vi fa pietà
vedere come
ogni giorno son qua
a fargli il verso?

(da Voi, 2009)

20 commenti

Archiviato in critica della poesia, poesia italiana contemporanea

POESIE di Isabella Vincentini da “Geografia minima del Dodecaneso” Biblioteca del Vascello, 2015 con una nota esplicativa dell’autrice

 TRIPODE raffigurante Apollo

TRIPODE raffigurante Apollo

Maria Isabella Vincentini (Rieti, 1954) è nata da una famiglia storica reatina, compiuti gli studi liceali, si trasferisce a Roma per conseguire la laurea in lettere classiche e un perfezionamento triennale in filologia moderna presso l’Università La Sapienza. Tema della sua tesi di laurea sono gli scritti filologici di Nietzsche e il mondo classico della tragedia greca. L’attrazione e la commistione con il mondo greco antico e in seguito contemporaneo, si configura subito come un intreccio inseparabile e una circolarità non casuale che caratterizza la sua intera riflessione poetica e saggistica. Dopo un felice esordio come antologista, recensore e critico della generazione poetica italiana al passaggio degli anni settanta-ottanta, ha pubblicato saggi, monografie, interventi critici, articoli e interviste su poeti, gruppi e tendenze della poesia del secondo Novecento, dai maestri come Andrea Zanzotto, Amelia Rosselli e Cristina Campo ai più giovani poeti come Milo De Angelis, Giuseppe Conte e Roberto Mussapi. La sua è una saggistica attenta al dibattito sulle teorie della letteratura e orientata verso una lettura tematica delle poetiche novecentesche. Ha pubblicato due raccolte poetiche, Le ore e i giorni (2008), e Diario di bordo (1998), vincitore del premio Alpi Apuane. È stata autrice di numerosi programmi culturali della RAI (Radio I, Radio II, Radio III, Isoradio, Rai international), consulente editoriale e redattrice delle riviste Agalma e Galleria, collaboratrice di diverse testate giornalistiche, riviste e e almanacchi tra cui il quotidiano Il Tempo, Alfabeta e Poesia. Ha partecipato come relatore a convegni nazionali e internazionali sulle poetiche e l’estetica contemporanea, ha tenuto dei seminari presso l’Università di Roma Tor Vergata e l’Università di Padova.

Uno degli interessi principali della ricerca di Isabella Vincentini è la poesia italiana post sessantottesca, cui ha dedicato diverse monografie e antologie, tra cui La pratica del desiderio. I giovani poeti negli anni Ottanta (1986); Colloqui sulla poesia. Le ultime tendenze (1991) e Varianti da un naufragio. Il viaggio marino dai simbolisti ai post-ermetici (1994). Si tratta di una storiografia letteraria di matrice critica, teorica e filosofica che spesso sconfina in una scrittura complessa e allo stesso tempo lirica come è stato notato da Andrea Zanzotto e Silvio Ramat.

Isabella Vincentini foto di Dino Ignani

Isabella Vincentini foto di Dino Ignani

La pratica del desiderio

La pratica del desiderio consiste in un saggio orientativo sui percorsi della poesia italiana venuti alla luce dopo la neo-avanguardia, ed in un’antologia di versi di ventitré autori nati dopo il 1950. Vincentini si sofferma in particolare sul rapporto tra letteratura e rivoluzione, un motivo di riflessione proprio dei movimenti di contestazione che originarono dal maggio francese e che si estenderanno con la loro influenza fino ai successivi anni Settanta. Il saggio introduttivo, come ha affermato Andrea Zanzotto, “che è quasi una sessantina di pagine, merita attenzione per quella vasta ricognizione dei temi filosofici, oltre che di stilistica letteraria, da lei messi in atto anche nell’estendere questo suo stesso saggio. […] Dalla presentatrice quindi viene definita anche la propria identità, un’identità, che si mette sullo stesso piano dei poeti presentati. È una forma di coesistenza, vorrei dire di critica, che nasce insieme con i testi poetici e che ricorda altri squisiti casi poetici che sono capitati di questo fenomeno […] Isabella Vincentini, si colloca in quella zona dove si è collocato il pensiero debole, ad esempio: il post-heideggerismo, il post-moderno e le varie teorie del post-moderno, Deleuze, Guattari e Derrida, scrittori e pensatori francesi che hanno lasciato una traccia vivissima in tutta la cultura. […] Diciamo che, per esempio, Porfirio e gli specchi di Narciso, è un elegante dialogo che viene messo in atto dalla presentatrice, in chiave, direi proprio di conclusione del suo saggio di introduzione a questi poeti. Allora, un saggio che si conclude con un dialogo, già non è più un saggio nel senso tradizionale della parola, e, veramente, ci si trova di fronte ad una maniera di far critica che è interessante e complementare a quella della nuova poesia che viene qui illustrata”.

grecia zeus artemisium

zeus artemisium

Colloqui sulla poesia

Colloqui sulla poesia. Le ultime tendenze si presenta come un’antologia di interventi poetici e critici, nati da una serie di interviste, condotte dall’autrice e trasmesse dalla Rai (Radiouno) nel 1987. La raccolta è uno strumento d’informazione che va direttamente alle fonti e di grande interesse storico-documentario, in quanto contiene oltre alla trascrizione delle conversazioni, una ricchissima trattazione delle guide antologiche, degli articoli in rivista, dei bilanci, delle polemiche, delle prospettive e dei proclami che hanno animato un decennio della poesia italiana. In Appendice vengono anche pubblicate le Tesi di Lecce stilate dal Gruppo 93, nato come filiazione dei Novissimi, di cui furono promotori tra gli altri Romano Luperini, Alfredo Giuliani, Edoardo Sanguineti e Francesco Leonetti, nonché le 19 Tesi sulla vita della bellezza espresse da poeti come Giuseppe Conte, Tomaso Kemeny, Roberto Mussapi e il filosofo Stefano Zecchi. Si illustrano le contrapposizioni tra simbolo e allegoria, moderno e post-moderno, scuola romana e scuola lombarda, neo-orfismo e “parola innamorata”. Tra le voci dei maggiori protagonisti in antologia: Antonio Porta, Alfonso Berardinelli, Giuseppe Conte, Franco Cordelli, Maurizio Cucchi, Romano Luperini.

grecia La contesa per il tripode tra Apollo ed Eracle in una tavola tratta dall’opera Choix des vases peintes du Musée d’antiquités de Leide. 1854. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs

La contesa per il tripode tra Apollo ed Eracle in una tavola tratta dall’opera Choix des vases peintes du Musée d’antiquités de Leide. 1854. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs

Varianti da un naufragio. Il viaggio marino dai simbolisti ai post-ermetici

In Varianti da un naufragio. Il viaggio marino dai simbolisti ai post-ermetici Vincentini rileva che dalla seconda metà degli anni Settanta in numerosi poeti ricorre il tema del naufragio (e con esso tutta una terminologia legata ai motivi dell’acqua, del mare in particolare, e dunque mareggiate, tempeste marine, fondali, profondità e così via), una iconografia che risale agli scritti di Coleridge, Poe, Baudelaire, Leopardi e Rimbaud. La riproposizione della metafora del naufragio secondo Vincentini si riallaccia infatti a tutta una tradizione che va dal simbolismo francese e passa per l’ermetismo, i cui padri spirituali sono i romantici da un lato e i surrealisti dall’altro. Lungo questa tradizione il naufragio diventa oggetto di una serie di affascinanti interpretazioni sia per la disanima critica degli aspetti retorici e figurali, attraverso la quale la Vincentini si addentra nel vivo del più vasto dibattito teorico sullo statuto attuale della critica letteraria, sia per la declinazione di significati, che il topos del naufragio assume nel tempo (varianti o variazioni di senso e di forma di una figura), mutuate di ripetizione in ripetizione su cui si incentra il tema del libro. Come ha notato Silvio Ramat: “Con alle spalle naturalmente il richiamo all’Infinito leopardiano, la Vincentini più che a un inventario, punta in profondo, fino alle ragioni che hanno spinto autori del nostro secolo a specchiarsi in quelli del secolo scorso”, “in un febbrile andirivieni tra la suggestione esercitata dai motivi filosofici e il fascino delle scenografie e dei paesaggi”. “Sostenuta da una fin troppo dichiarata impalcatura critico-retorica”, “da una solida conoscenza della questione e delle teorie sulla questione”, la Vincentini “fra i metodi di lettura a cui si rifà sembra privilegiare l’equilibrata intelligenza del grande critico canadese Northrop Frye. La Vincentini, che ama non tanto pedinare quanto direi imitare, ove le sia possibile, amorosamente, i suoi poeti, stringe volentieri in una frase, poetica a sua volta, il succo del proprio esame”. “Chi si fermasse soltanto su queste formule isolandole, sbaglierebbe a criticarle, la loro poeticità infatti, non nasce da una pura illazione mentale, perché si è già detto, che il libro della Vincentini è una documentazione congrua e seria e imponente, è una ricerca aggiornata sui numerosi modi nei quali si atteggia e si rielabora nel tempo, uno dei miti portanti della lirica moderna e c’è molto da imparare.”. Tra i pensatori contemporanei su cui si sofferma Vincentini ricordiamo Carlo Michelstaedter, Dino Campana, Sergio Corazzini, Milo De Angelis, Giuseppe Conte e Salvatore Quasimodo.

grecia scena di un banchetto

scena di un banchetto

Nota di Isabella Vincentini

Fin dall’epoca classica i Greci avevano serbato la memoria di “quelli di prima”.  Ma chi erano “quelli di prima”?, quando inizia l’antico?, da dove venivano i popoli del Mare?, chi erano i Pelasgi, i Pre-elleni, quale l’Exapoli dorica, quali le antiche alleanze e i primordi delle colonizzazioni?

Il viaggio dell’estate del 2008 in alcune isole del Dodecaneso (Rodi, Karpathos, Chalki, Tilos, Nissyros, Kos e Symi), mi ha fatto scoprire un’altra immagine dell’Ellade, quella che avevo cercato inutilmente due anni prima lungo la costa dell’Asia Minore: da Antalya a Troia, da Cnido ad Alicarnasso, Efeso e Pergamo.

Profanate e sottomesse per millenni, le isole dove abitarono i Giganti Polibote, Giapeto, Efialte e Prometeo, mostravano epoche inalterate, bellezze semplici e inaspettate, come se il paesaggio e la sua gente fossero rimasti indenni, protetti da quella gigantomachia. Discrete, paesane e allo stesso tempo cosmopolite, le piccole isole del Dodecaneso, svelavano un cuore antico che faceva trapelare insediamenti profondi come la storia. Diversissime e all’incrocio tra tre continenti, formano un amalgama di civiltà millenarie che conservano un’immagine fluida, ancestrale e indecomponibile. Da qui tornano alla memoria i popoli e i luoghi della prospiciente Ionia, le città di Eraclito e Anassimandro, l’isola di  Saffo, le poetesse meno note come Corinna, Nosside, Erinna, Mirtide, Prassilla e Telesilla, le guerre troiane, le invasioni e le catastrofi fino alla Catastrofe dell’Asia Minore (Mikrasiatikì katastrofì) del 1922 e il genocidio dei greci del Ponto.

Qui il Dodecaneso sembra ergersi come un avamposto remoto a difesa di un’identità di frontiera in cui si toccano Oriente e Occidente. Qui un’altra Grecia sembra ricomporre spazio e tempo in un’unica Geografia. Qui, tra resti euroasiatici, micenei e fenici, anche la lingua conservava tesori antichissimi, come il dorico che si parla ancora  a Karpathos.

Grecia eroi-di-TroiaPochi giorni prima della partenza ho ricevuto da Nasos Vaghenàs il suo La luna nel pozzo, viatico benaugurale alla mia piccola “periegesi” da cui sono nati questi testi colmi di riferimenti, che accennano o citano direttamente nel virgolettato, le tante letture dei libri magistrali di Santo Mazzarino  (Fra Oriente e Occidente), Mario Liverani (Antico Oriente), Dario Del Corno (Nella terra del mito), Giovanni Semeraro (La favola dell’indoeuropeo, L’infinito: un equivoco millenario), le guide archeologiche di Mario Torelli, La grande Storia. L’antichità, a c. di Umberto Eco, i libri di James Hillman …, nonché i poeti e gli scrittori greci antichi e moderni, da Plutarco a Elitis, Kavafis e Seferis.

     Riporto di seguito alcuni  riferimenti tratti da queste  letture.

Tra le varianti mitiche la leggenda vuole che Rhòdon sia nata dal mare per volontà di Helios, il Sole, innamoratosi di una ninfa, che il suo nome derivi da Rodo, figlia di Poseidone e che rhodon sia anche il nome del fiore più bello, la rosa, per cui l’isola è una fioritura della terra dal fondo del mare. Un altro mito  narra che i più antichi abitanti di Rodi, il popolo anfibio dei Telchini, furono i primi a raffigurare gli déi in forma di statue. Il Colosso di bronzo alto 31 metri opera di Carete di Lindos che rappresentava il dio Sole, rimase all’imboccatura del porto per settanta anni, finché non fu distrutto da un terremoto e poi venduto dagli Arabi nel 654 a un mercante dell’Asia Minore, il quale ne trasportò i pezzi in Siria sul dorso di 900 cammelli. La supposizione che il Colosso stesse a gambe divaricate sopra l’entrata del porto, nasce su suggestione shakespeariana, dall’italiano De Martoni che visitò Rodi nel 1395.

Ma la preistoria di Rodi è legata anche al mito di Eracle. Tlepòlemo, figlio di Eracle, originario del Peloponneso, a Tirinto aveva ucciso durante una lite Licimnio, zio di suo padre Eracle. Tlepòlemo aveva sposato Polisso, la quale governò Rodi dopo la morte del marito ucciso da Sarpedonte durante la guerra di Troia. Dopo il ritorno di Elena e Menelao a Sparta, alla morte di Menelao, la più bella tra le donne causa della guerra di Troia, si rifugiò dall’amica Polisso a Rodi. Polisso meditava la vendetta per la morte del marito sotto le mura di Troia e perciò inviò delle ancelle travestite da Erinni, che impiccarono Elena ad un albero mentre faceva il bagno.

Castore di Rodi era un autore del I sec. a. C. che ha fissato una cronologia dei principali avvenimenti fin dai tempi dei primi re Assiri e dei popoli dominatori del mare. Cnido è una città fondata dagli spartani nell’VIII sec. a. C. di fronte all’isola di Kos. Plinio racconta che l’Afrodite nuda scolpita da Prassitele intorno alla metà del IV sec. a. C. aveva un doppio: l’Afrodite vestita e velata. Gli abitanti di Kos avevano infatti comprato per primi l’Afrodite velata, mentre gli Cnidii la statua nuda. Sempre Plinio narra l’episodio del ragazzo che si accoppiò al marmo.

grecia Il dio Dioniso, figlio di Zeus e di Semele, giunge in forma umana a Tebe, patria della madre

Il dio Dioniso, figlio di Zeus e di Semele, giunge in forma umana a Tebe, patria della madre

Il mito di Adone (che in una lingua semitica Adonai sta per l’invocazione mio signore), è legato alla dea Afrodite innamoratasi della sua bellezza. Adone era nato dall’amore incestuoso tra Mirra e suo padre, il re di Siria. Inseguita dal padre che intendeva ucciderla, Mirra fu trasformata da Afrodite in albero e dal legno dell’albero nacque Adone. Il bellissimo Adone fu ucciso da un cinghiale incitato dalla gelosia di Ares e mentre Afrodite accorreva in suo aiuto, si punse un piede con una rosa bianca che da allora, tinta dal suo sangue, diventerà il fiore rosso sacro di Adone. Dal sangue di Adone nasceranno gli anemoni e per onorare la morte del giovane dio, nacque l’usanza di seminare in vasi di coccio semi di finocchio, orzo, grano e lattuga (i giardini di Adone).

Piuc-Che-Perfetto, allude ad un doppio significato, facendo riferimento al tempo verbale della grammatica greca che indica uno stato perdurante nel passato derivante da un’azione ancora anteriore. Il futuro Do-So-Nti , letteralmente “daranno”, è la terza persona plurale del futuro dorico, dialetto parlato nel Peloponneso, a Creta e nella Doride microasiatica. Il termine attico xénos,, “straniero, ospite”, conserva nel dorico xenwos e nello ionio e nell’eolico d’Asia xéinos, cioè tratti arcaizzanti e comuni al dialetto arcado-cipriota, connesso al miceneo. Così pure l’esclamazione imperativa “coraggio”, tharrei in attico, tharsei negli altri dialetti.

La Lista dei sacerdoti di Rodi è un’epigrafe, del 99 a. C., inglobata nella pavimentazione stradale di fronte alla chiesa di Aghios Stephanos a Lindos, nell’isola di Rodi, che riporta un elenco dei tesori contenuti nel santuario. La Cronaca di Lindos sono delle lastre rinvenute sull’Acropoli di Lindos dove si trova il santuario di Atena, con  iscrizioni che documentano gli artisti operanti a Rodi e la lista dei sacerdoti eponimi.

Pelike è un termine archeologico che indica una forma di anfora vascolare, con crateri a campana, qui usato per una forma tipicamente femminile. Il testo Ottobre ’44 si riferisce a una piccola scultura di bronzo, la nave della salvezza Immacolata, raffigurante un caicco nel  porticciolo di Finiki nell’isola di Karpathos, alla cui base un’epigrafe ricorda gli eroi che partirono l’8 ottobre del 1944 e giunsero dopo cinque giorni di navigazione ad Alessandria in Egitto, per chiedere l’intervento del governo greco in esilio contro il Comando degli Italiani.

grecia scene di omeroI.V.
TI PORTAVO CON ME DOVUNQUE ANDASSI

Samotracia 1922,
per Le Spose di Pandelìs Voulgaris

.
Ti portavo con me dovunque andassi
ma tu sai, non si ammettono capre sull’Acropoli.

Abbiamo visto statue bifronti, lo Zeus con tre occhi,
abbiamo sillabato abbeccedari minoici,
contato il tempo su calendari stranieri,
e letto iscrizioni frigie
mentre il meltemi ci spingeva a nord ovest.

Storie di acque e specchi
statue e ninfe
ma dove avevamo vissuto?

Eccoli nomi e luoghi,
dentelli fregi architravi,
un corpo dentro i vestiti di pietra,
l’obbedienza al silenzio, alla perfezione,
alla bellezza,

il gesto che impietrì la morte,
un vecchio sulla sedia
i nostri due bicchieri di rakì
il profumo di bugatsa.

Il mare è livido, ulivi fichi carrubi,
cespugli di mirto e rosmarino,
ma l’alloro è amaro e
il rosmarino è il fiore del lutto.

Eleni, Charò,
un dio vi protegge,
gli dèi ci guidano per mano e scrivono destini
con punte a secco.

Eleni, Charò,
dove è ora il cedro del sud, la piazza veneziana,
l’enorme platano e la fontana,
le strade impervie e i vicoli lastricati?

Qui le ninfe sono le spose
anime leggere,
Eleni Charò Aristea Stilianì,
Odissei e Penelopi
Penelopi e Circi.

La sposa traccia una croce sull’architrave
e la casa è benedetta.

Aristea, Stilianì,
le spose vestite di bianco
ora viaggiano in terza classe, e hanno foto e speranze,

il tempo non ha rotta
domani è già l’alba,
il tempo resta chiuso in cabina,
e il mare moltiplica la fine del viaggio.
Ricette e sorrisi
singhiozzi e speranze.
Ma la Grecia dei cinque mari
e dei tre continenti
vi circonda le spalle.

Benedetta è la liturgia del mare,
la liturgia delle conchiglie
delle piccole lucerne,

la nave si chiama Iasson
la stirpe ha un solo luogo
e la terra è inviolabile.

La lingua è la vostra geografia
nella terra dei cinque mari e dei tre continenti.

Forse è vero che gli Eteocretesi
parlavano lingue semitiche
e che immigrati erano i Greci e i Cidoni,
ma finché le donne di Lemno
educheranno i figli alla maniera attica,

finché con il vento i Borea, in un solo giorno,
Milziade compirà il viaggio,

le spose vestite di bianco
saranno ninfe
e millenni dopo i viaggi della necessità, i viaggi della speranza,
il mare, parola antichissima, preellenica,
si chiamerà ancora
Thàlassa.

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VERSO RODI

Se abbiamo frantumato le loro statue
e li abbiamo scacciati dai loro templi
non per questo sono morti gli dèi.
(Kavafis, IONICA)

La bellezza nasce nelle isole
come Afrodite
e non è un limite, ma
confine aperto e insidioso
verso il mare, mutamento
di fluidità solida, come l’acqua.

Né mare né terraferma
l’anima, dove si annida
la monotonia
non delle onde, ma della fantasia.

Luce del sole
ombra della terra,
tra terra e luna
nascono asfodeli
spighe di fiori bianchi
come nei piani Elisi.

Chi erano gli Cnidii?
Perché comprarono
la verità nuda e non velata?
E quando il ragazzo si innamorò della statua?

Rose bianche, insana passione
accoppiarsi al marmo
finocchio orzo lattuga.

Noi andiamo verso il Colosso del Sole
e portiamo ex-voto
rose bianche, milza
finocchio orzo e lattuga.

Luna, mezzaluna, specchio
gli occhi specchiano
l’immobilità dell’amore.

Fasi lunari mostrano
coni d’ombra prodotti dalla notte
circonferenza dei giorni.

Dodici i pleniluni,
nove le congiunzioni
senza il novilunio,
trenta giorni e mai tramonta il Sole.

Ma esiste davvero
il soggiorno lunare
delle anime, come scriveva
Castore di Rodi?

In prossimità della luna
i prati di Ade
fungono da purgatorio,
condanna o espiazione?

In noi discendono rigogliosi,
come capelli di Iside
o cuori di corallo,
gli allori e gli ulivi
e non temono l’aridità
ma gli inverni, le piogge
le nebbie, i cieli neri,

coni d’ombra
tra apogei e perigei
tracciano una
geografia minima
verso il Dodecaneso.

(4-22 agosto 2008)

grecia Afrodite Cnidia (copia ellenistico-romana da un originale di Prassitele, 360 a.C.).

Afrodite Cnidia (copia ellenistico-romana da un originale di Prassitele, 360 a.C.).

OTTOBRE ‘44

Pitta Michail, Lampridi Konstantino
Stamataki Nikolaon,
dove oggi ormeggiano caicchi e pescherecci
sette uomini partirono a bordo dell’IMMACOLATA
e portarono Karpathos insorta
in soli cinque giorni sul mare d’Africa.

Tornano oggi a centinaia sul sagrato di Apéri
gli emigranti e il pope canta
prega, racconta e piange. Danzano i giovani
mostrando collane e stivali
e dimenticano le case a strapiombo
i granai vuoti, i pini piegati e arrampicati
la terra sterile a scarpate.
Ci offrono pani, dolci, pesci
polpette di ceci e latte di mandorla
e si abbracciano mentre richiamano i piccoli figli
in americano.

Aghios Nikolaos, Santa Sofia
Santa Caterina, Sant’Anastasia
Aghia Fotinì, bianchissime
le trecentosessantacinque chiesette
dell’Annunziata, della Dormizione,
dei Santi Apostoli, San Pietro, San Giorgio e San Giovanni
ma è inutile cercare le coroncine in regalo
quando lo sposo spaccava la melagrana
e le sarte per giorni cucivano l’abito della sposa,
e le culle erano appese tra coperte multicolori
pizzi, piatti e lane.

Emigranti cosmopoliti imbiancano
le case diroccate, i fusti delle viti,
i gradini dei vicoli tra le enormi rocce.
E i paesi si colorano
come le facciate neoclassiche delle case
celeste, ocra, giallo arancio, rosa.
Pescatori di spugne
lasciano l’attracco ai velisti
e tornano nei kafenion a giocare a dadi.

Ma tornerà l’inverno, si svuoteranno i sagrati
e come i sette uomini
poche donne, pochi vecchi
qualche ragazzo e ragazza bruni
aspetteranno

l’IMMACOLATA.

.
IL FUTURO DO-SO-NTI

Impariamo a non disseppellire le ossa
in difesa dei santuari
in difesa degli dèi
in difesa delle are e dei templi

difendiamo oggi le mura
di questa città e impariamo i colori
del marmo, giallo rosso bianco nero.
Rimettiamo ai lobi forati
della testa femminile gli orecchini
della pelike scomparsi.

Un tempo le antiche statue
furono utilizzate per produrre
calcina, mentre gli scultori litigavano.
Ora il vuoto entra nei millenni
e i millenni nel sole
e la voragine silenziosa
riprende a parlare:

un busto un centauro
cento braccia di mostri e giganti
il dolore negli occhi
che si oscurano, nel volto
che reclina, ma le braccia robuste
non si arrendono alla morte.

Statue zoppe monche acefale
sbriciolate

ora si riposano i guerrieri
curano le ferite, preparano le armi.

Ma perché proprio adesso?
L’antico era memore dell’antichità
e il mito del mito.

Le statue abbracciano Omero
Prassitele, Stesicoro, Fidia
e negli occhi degli eroi sofferenti
l’illusione non si dissolve
ma entra come un corredo funebre
nell’unica residenza stabile della morte.

Non siamo più spettatori ma eredi
di quel dolore
di quel coraggio
di quella forza.

Le statue si riposano
e i guerrieri preparano le armi.

 

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POESIE SCELTE di Milo De Angelis da Incontri e agguati Mondadori, Lo Specchio, 2015 con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Milano Periferia_PortaVigentinaMilano 1952 Mario De Biasi

Milano Periferia_PortaVigentinaMilano 1952 Mario De Biasi

Milo De Angelis è nato nel 1951 a Milano, dove insegna in un carcere di massima sicurezza. Ha pubblicato Somiglianze (Guanda, 1976); Millimetri (Einaudi, 1983); Terra del viso (Mondadori, 1985); Distante un padre (Mondadori, 1989); Biografia sommaria (Mondadori, 1999); Tema dell’addio (Mondadori, 2005), Quell’andarsene nel buio dei cortili (Mondadori, 2010). Ha scritto il racconto La corsa dei mantelli (Guanda, 1979 e poi Marcos y Marcos, 2011) e un volume di saggi (Poesia e destino, Cappelli, 1982). Nel 2008 è uscito Colloqui sulla poesia, dove appaiono le sue principali interviste. Nello stesso anno viene pubblicato un volume che raccoglie la sua opera in versi (Poesie, Oscar Mondadori). Ha tradotto dal francese e dalle lingue classiche.

Milo De Angelis Incontri e agguati Mondadori Lo Specchio, 2015 pp. 70 € 18

Milano Quartiere Quarto Oggiaro, periferia nord, un condominio

Milano Quartiere Quarto Oggiaro, periferia nord, un condominio

Commento di Giorgio Linguaglossa

Che il tema della «morte» sia un leitmotif e una macrometafora che attraversa tutta l’opera di Milo De Angelis fin dall’opera di esordio del 1976, appare chiaro dai due versi di Bigongiari citati in Poesia e destino: «la morte è questa / occhiata fissa ai tuoi cortili», particolarmente apprezzati dal poeta milanese per quella pausa al termine del verso e quella nominazione diretta della «cosa», per quelle spezzature e pause interne ai versi che il poeta milanese adotterà come uno dei cardini del proprio fare poesia fin dagli esordi di Somiglianze del 1976 e Millimetri del 1983. In quest’ultimo libro il periscopio di De Angelis si è indirizzato su un unico tema, lo mette a fuoco da tre punti di vista corrispondenti alle tre sezioni del libro («Guerra di trincea», «Incontri e agguati» e «Alta sorveglianza»). Il pensiero della «morte» è il tema regnante di questo libro, il dialogo con la «morte» intesa come naufragio, scacco, possibilità interrotta, esperienza del limite, sfondamento del limite.
Recita il risvolto di copertina: «Una ricognizione sulle avventure mentali di un passato ormai remoto e sul loro quotidiano scontrarsi doloroso e frontale con l’idea di un precipizio assoluto, di un risucchiante nulla infinito; e poi il riemergere di giovani volti e figure, di minime vicende, salvate, chissà perché, dalla memoria: e infine il resoconto, condotto con oggettiva esattezza, di un drammatico fatto di cronaca, di un episodio di tenero amore e orribile violenza. Sono questi i tre momenti essenziali, quanto mai ricchi di situazioni e implicazioni interne, della nuova opera di Milo De Angelis».
Con le parole di De Angelis: una serie di «incontri e agguati», una «guerra di trincea», una «alta sorveglianza». È chiaro che un tale tema non poteva venire pronunciato se non con un lessico diretto, spoglio e scabro. Un discorso frontale. L’inizio del libro è eloquente:

Milo De Angelis (Viviana Nicodemo)

Milo De Angelis (Viviana Nicodemo) – Questa morte è un’officina/ ci lavoro da anni e anni

da Guerra di trincea I

Questa morte è un’officina
ci lavoro da anni e anni
conosco i pezzi buoni e quelli deboli,
i giorni propizi, la virtù
di applicarsi minuto per minuto e quella
di sostare, sostare e attendere
una soluzione nuova per il guasto.
Vieni, amico mio, ti faccio vedere,
ti racconto.

*

Tutto cominciò in una cameretta
con i regali e le candeline
che in un soffio spensero mio padre
fermo nella sua giacca per sempre
e un cerchio di puro niente mi assalì
in un solo attimo franò sul tavolo
e mi mostrò cento di questi giorni.

*

………………………………………………
………………………………………………
…… nel 1967, dopo una lunga guerra
di trincea, dopo una guerra di metri
guadagnati e persi, iniziai
una trattativa con la morte.

*

iniziai dunque a trattare, sì, a trattare
ma lei recalcitrava, negava la firma,
si dava per dispersa e riappariva sul più bello
nella vela di una carezza o nella voce
che indicava lassù un’orsa favolosa
era lei con un sapore di mandorle bruciate
iniettava nell’alba il suo buio primitivo.

*

Con la morte ho tentato seriamente
per un po’ è stata buona
ha rinunciato al suo impero universale
ha cominciato a muoversi caso per caso
ha lenito alcuni sussulti con il suo unguento
poi ha cominciato a intonare
una canzone in re.

*

Con la morte ho cercato ancora
un patto, ma lei era astuta e discontinua
appariva nei traffici dell’amore,
diventava giallore e numero fisso
era il respiro e l’artiglio nel respiro
un’ora murata
galleggiava nel fradiciume della vasca.

*

Poi, di colpo, un lunedì di febbraio
tutto è tornato come prima… è uscita
dal suo feudo,
ha fatto incursioni, all’alba,
nella casella della posta, ha ripreso
la sua cerimonia incessante, ha diffuso
un canto di puro gelo
ha cercato proprio noi.

*

E ha cominciato a parlare,
quella figura plenaria,
come il capobranco della nostra fine
soffocava il lievito felice,
affondava con il piede la barca
infantile di due foglie
ci lanciava il suo avvertimento

Milo de Angelis

Milo de Angelis

L’essere si rivela solo nel naufragio dell’esserci. E il naufragio dell’esserci è, con le parole di Milo De Angelis, il suo «destino», che si rivela in eventi del tutto fortuiti («nella punta di questa matita»), senza spiegazione, inspiegabili, non razionalizzabili, imprevedibili «in questo immobile trasloco», dove l’accadimento non può essere registrato da «nessun diario… nessun giornale, cronaca o storia». Così, la poesia di Milo De Angelis è tutta intessuta di accadimenti che brillano solo per attimi che subito dopo si spengono, scompaiono; gli accadimenti sono percettibili solo nell’attimo del loro scomparire, non prima e non dopo, e che si situano tra il prima e il dopo.

XII

Nella punta di questa matita
c’è il tuo destino, vedi, nella punta
aguzza e fragile che scrive sul foglio
l’ombra di ogni fase e scrive
le mura cieche, l’attenuante e il soliloquio
il tuo destino è proprio qui, in questo
immobile trasloco, in questo impercettibile
sorriso che un uomo offre
al mondo prima di sparire.

XIII

Questo destino che nessun diario
raccoglie, nessun giornale, cronaca
o storia, vive nel sibilo
di un ricordo, nel suono
della giovinezza: il frutteto fantastico
e un fruscio negli abbaini,
e poi qualche grammo, il pigolio
del giudice di sorveglianza,
un’edicola notturna, una retata.

copertina milo de angelisCosì risponde Milo De Angelis a una domanda di Claudia Crocco pubblicata di recente su LPLC:

«L’attimo? Sì, una vera e incrollabile ossessione. Anche la mia attenzione alla fotografia (non a caso vivo con Viviana Nicodemo) è legata all’attimo, che non è mai statico, quando è davvero un attimo destinale. Raccoglie in sé le stagioni, fa convergere in se stesso il tempo che precede e quello che segue. E il grande fotografo, come il grande poeta, fissando quell’istante fecondo, crea l’alone di un’altra storia sfiorata, di qualcosa che può essere. È un istante che bisogna cogliere tra i mille possibili, è l’istante cruciale, il kairòs. Evoca una stagione mentre annuncia la prossima. Ecco, il kairòs è questo congiungersi delle epoche, questo movimento centripeto con cui il passato e il futuro confluiscono nell’attimo. Ricordo e profezia, memoria e promessa, atomo gremito di tempi. Il fatto è che una sola immagine può contenere un tale vigore, una tale attesa, un tale spaesamento da irradiarsi fuori di sé e diventare un mondo. Questo intreccio di singolare e di cosmico è tipico della lirica, dagli antichi a oggi, da Alcmane a Bonnefoy. E infatti la fotografia è sorella della lirica. Potremmo dire così: la fotografia sta alla lirica come il video sta al racconto e come il film sta al romanzo. Al pari della lirica, la fotografia narra ciò che avviene una sola volta. E proprio perché avviene una sola volta, porta con sé l’ombra delle esistenze escluse, che circondano come una moltitudine l’unicità del momento, lo caricano di dinamismo e di forza cinetica. In questo senso fotografia e lirica sono esperienze iniziatiche, ossia esperienze che, mostrandoci un tempo intero nel tempo microscopico dello scatto, tendono all’epifania. Tendono allo svelamento del significato recondito dietro a quello immediato. L’attimo non è fermo, se ci pensi. Tutte le parole che lo esprimono nella nostra lingua sono parole di moto permanente: momento (movimentum), istante (partici-pio presente), e attimo, a-tomo, qualcosa che giunge nudo ed essenziale dopo infinite divisioni, nucleo carico di imminenza da cui scaturisce la vita, come insegna Lucrezio: «Guarda i raggi del sole quando rischiarano l’oscurità della stanza e vedrai un esercito di atomi vorticare nel fascio di luce, ingaggiare una lotta infinita, vedrai scoppiare battaglie, schierarsi truppe e squadroni, succedersi senza tregua scontri e ferite. Vedrai l’eterno agitarsi dei corpi nel vuoto (De rerum natura II, 117-122)».

copertina milo de angelis somiglianzeLa «morte», dunque, si rivela nell’accadimento, sfugge a qualsiasi tentativo di chiusura del nome, di qui il frequente impiego della figura retorica dell’epanalessi, la problematicità di porre in poesia il tema di un dialogo frontale con la morte, con gli accadimenti, quella condizione che zampilla dal fondo oscuro che sempre si affaccia alla coscienza ma sempre sfugge («chiuso nel quadrilatero della tua voce»). L’essere stesso è accadimento. L’essere rappresenta ciò che l’uomo non può mai abbracciare con un unico sguardo frontale, ma solo avvicinare, come alla ricerca di un qualcosa che giustifichi e chiarisca lo spettacolo del mondo, ma che non potrà mai darsi alla conoscenza dell’uomo nella sua integrità. Proprio per questo, per questa sua inarrivabilità, l’essere è accadimento, ovvero, quell’attimo in cui i personaggi deangelisiani sono se stessi senza saperlo, senza volerlo.

Opera, sei dappertutto ma non so dove sei.

«Opera» è il supercarcere di Milano dove è racchiuso l’autore di un orribile delitto, l’uccisione a coltellate di una giovane donna, sua moglie. Un luogo che si dà e si sottrae insieme alle tracce degli accadimenti trascorsi. Il mondo poetico di De Angelis è un aprirsi di eventi, un ritornare di ciò che è stato sottratto, uno zampillare illogico e senza alcun senso apparente di «incontri e agguati» dal fondo oscuro di una «voce» che ritorna (come amore o incubo) alla coscienza, che va al di là di ogni possibilità di comprensione della coscienza. In questo senso, il mondo intero (il mondo dei «fenomeni») è un «naufragio», non un navigare certo nell’immutabile che da sempre è per la filosofia, consolazione, ma un continuo essere in balia delle onde degli accadimenti. La costruzione dell’«Opera» (poetica) al pari dell’Opera (carcere) è quindi una condizione imprevedibile e non determinabile, una condizione angosciosa, periclitante, instabile, e una condizione metafisica insieme. Un luogo metafisico. La poesia di De Angelis si nutre di questa instabilità (che diventa anche metrica, sintattica, stilistica), ne fa la propria ragione di vita, raccoglie gli echi, le tracce degli accadimenti che sostano per un attimo nella memoria, nell’attimo del loro sottrarsi.
Oserei dire che Milo De Angelis è il primo poeta del nuovo modernismo italiano che utilizza il discorso diretto (facilitato in ciò dalla sua lunga esperienza di docente di italiano nel carcere di Opera), di qui l’impiego continuo di dialoghi… e il discorso indiretto, il correlativo oggettivo con il correlativo soggettivo (cioè lo s-postamento del soggetto, lo s-paesamento del soggetto, la dis-locazione del soggetto).

Milo De Angelis Incontri e agguati copIl naufragio accadimentale sta all’«Opera» come il poeta sta alla poesia. Il «naufragio», com’è noto, è la figura filosofica che Jaspers utilizza per definire il senso ultimo dell’esistenza umana. L’esistenza è il «divenire», ovvero un «naufragio» nel mondo mutevole e accadimentale. Il tentativo di concepire l’immutabile è certamente destinato allo scacco se non negli «attimi» che ci rivelano quel naufragio. La «morte» è costruzione del naufragio, compimento di esso. Al naufragio non si può sfuggire. I personaggi di De Angelis vanno incontro al loro «accadimento». Il loro «destino» è questo andare incontro alla «morte», è questo «andarsene per il buio dei cortili», questo rotolare dal centro alla periferia di se stessi… essere visibili in questo «immobile trasloco».

Il «naufragio» per Jaspers è un naufragio nel tempo, annientamento di tutte le cose e di tutte le certezze, di ogni stabilità e immutabilità. La condizione di vita dei personaggi deangelisiani è «scacco», precarietà, incapacità di diventare padroni del proprio destino, essere sempre in «situazioni» limite, essere sempre «situati», «gettati» entro un orizzonte di eventi possibili. Essere in una situazione significa non poter vivere senza lotta e dolore, dover assumere l’onere della propria colpa, dover morire. Questo orizzonte di eventi è una situazione limite, un muro contro cui i personaggi deangelisiani in ogni loro azione sbattono inevitabilmente senza possibilità di alcuno scavalcamento di questa condizione. Il muro della realtà resta invalicabile.

Per De Angelis, la condizione che la «morte» pone alla verità dell’essere risiede nella condizione del naufragio infinito. Una condizione accadimentale, di attenzione ai dettagli impercettibili, dettagli dell’eccedenza, di ciò che «viene radiato», un rotolare perpetuo dal centro verso la periferia, come ha scritto Nietzsche. Una condizione propria del l’età del nichilismo.

Ero diventato ormai l’incarnazione
di ciò che perdiamo, in me si raccoglieva
tutto ciò che a poco a poco viene radiato
non prendevo più nota del giorno e dell’ora
mi assentavo
dall’antico fenomeno del mondo.

da Incontri e agguati II

Una lama di fosforo ti distingueva
e ti minacciava, in classe terza,
ti chiedeva ogni volta il voto più alto, l’esempio
perfetto del condottiero: sei stato tra la gloria
e il sacrificio umano
e hai scelto di non avere più nulla.

Ma oggi ti è riuscito
l’antico affondo, il pezzo di bravura,
chiamandomi per nome tra la Polfer e i sonnambuli
del binario ventidue “Ti ricordi di me?
Io abito qui”. “Ricordo quella versione
di Tucidide difficilissima. Solo tu… solo tu.”

Hai ancora il guizzo
dello studente strepitoso, l’aggettivo
che si posa sul foglio e svetta, la frase
di una lingua canonica e nuova, quel tuo
tradurre all’istante a occhi socchiusi. Dove sei,
ti chiedo silenzioso. Dove siamo? I frutti
restano dentro e bruciano segreti
in un tempo lontano dalla luce,
in una giostra di libellule o in un sasso.

Milo de Angelis

Milo de Angelis

da Alta sorveglianza III

XXIV

“Una donna così si uccide solo con il coltello
si uccide corpo a corpo in una vicinanza
che zittisce le melodie del suo respiro
e l’ho colpita l’ho colpita con una certezza
vicina all’oblio… poi l’estate
precipitò nella notte
e mi nascosi lì, colpevole e tremante…
… per un intero minuto
l’ho colpita”

*

Il nome, il nome, il nome.
Lo ripetiamo certi o increduli,
in un tremore di pernici, lo incidiamo
nell’urlo, lo salviamo
con lo stupore inconfondibile dell’unico dono
che abbiamo meritato: giunge
dalla nostra alba più remota e ci nomina,
ci attende, ci pretende, ci chiede
la parola e la protegge nel silenzio dei pioppeti.

*

È di tutti la splendida uccisa, la sorridente,
cammina nei corridoi, dea o spettro, cantico
del grande zafferano, si aggira come un oltraggio
alla morte, ritorna puntuale al mattino
nelle battaglie tenebrose del risveglio,
si stende sulla branda, si toglie i sandali,
sorride ancora una volta. Oppure esce nel mondo
e mostra alle strade il nostro errore e la collera
di noi che abbiamo ucciso la cosa più amata
e ora la tocchiamo, tracciamo per terra
un annuncio oscuro di linee
e parole, barlumi di volti e di città: un disegno
di salvezza, forse, o un’esecuzione.

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Milo De Angelis UNA POESIA “Fuori c’è la storia” (1973) commento di Walter Siti

 Milo De Angelis 2 foto Viviana-Nicodemo

(da la Repubblica 30 marzo 2014)

Quando nel 1976 uscì Somiglianze (la raccolta a cui questo testo del ’73 appartiene) ricordo di aver provato un senso di liberazione: nei dieci anni precedenti la poesia in Italia aveva rischiato il soffocamento. Prima la neoavanguardia l’aveva spolpata e razionalizzata, poi l’aveva colpevolizzata il Sessantotto; i due poeti forse più in vista, Montale e Pasolini, per motivi diversi avevano smontato i loro versi con ironia o con rabbia. L’impegno politico sembrava così urgente che perder fiato e intelligenza con la poesia era roba da vergognarsi come di un passatempo per reazionari. (Solo un’antologia di Cordelli e Berandinelli, l’anno prima, aveva lasciato intravedere un fermento). E invece ecco, un poeta venticinquenne era lì, con una voce sua e con testi che nonostante il titolo non somigliavano a nessuno, che non si abbandonavano alla futile orgia del metalinguaggio e non si prendevano tartufescamente sottogamba; che si spingevano al sublime della lirica usando le parole di tutti i giorni. Dunque si poteva ancora fare?

Milo de Angelis1

“Fuori c’è la storia…”

 Un perdente

Fuori c’è la storia,
le classi che lottano.
Cosa fare dunque una volta per tutte
rifiutando il mondo
accettandolo al mattino
(“Era vero, sai, era profondo
il litigio con lei. Ma c’era un solo letto
e prevalsero i corpi”).
C’erano i confini
biologici e le grandi leggi del profitto.
Perciò inventò gli dei e l’interiore.
Alla sera, durante l’erezione
pretese anche un destino
(“dove sei stata
per tutta la mia vita ?”).

1973  (da “Somiglianze”)

milo_de_angelisQuel venticinquenne poi, a guardar bene, era meno alieno di quel che sembrasse; aveva letto gli ermetici italiani e i francesi, Char e Bonnefoy; durante il liceo a Milano aveva avuto come professore Francesco Leonetti, poeta marxista e engagé  quant’altri mai (portando all’esame di maturità il libretto rosso di Mao); Leonetti gli aveva presentato Franco Fortini, eretico della sinistra, maestro di dubbi e di forme chiuse. Il lessico dell’ideologia comunista è lì che preme: “le classi che lottano”, “le grandi leggi del profitto ”  –  il protagonista si definisce un perdente perché lascia queste cose fuori dalla finestra. Preferisce il privato, la blanda soddisfazione del sesso: con la ragazza si litiga, sinceramente, per cose che sembrano importanti, poi se c’è un solo letto si sa come va a finire. Ma perde pure nel privato, perché non domina la situazione: lui che vorrebbe essere stratega e definitivo (“cosa fare” risente del “che fare” leninista, “una volta per tutte” richiama l’amato Pavese che definiva il mito “lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte”  –  e forse anche un recente titolo fortiniano,
Una volta per sempre), lui rifiuta il mondo per accettarlo la mattina dopo. Non sa diventare mitico, contrapporre agli adulti ideologi una propria certezza.

Il presente assoluto si trasforma in un imperfetto narrativo, ed è nelle minuzie degli episodi quotidiani che la fragilità esistenziale si manifesta. È troppo duro accettare, oltre alle leggi economiche, anche i limiti biologici e la morte.

copertina milo de angelis

Così il doppio perdente si inventa la religione e l’interiorità: non come i grandi, come Freud o Kierkegaard, che ne scoprono le leggi, ma come ripiego e sotterfugio psicologico. Durante l’erezione, sorpreso al vivo della debolezza animale, pretende di trasfigurare il sesso in amore e addirittura in destino (ancora Pavese e la sua idea triste che i poeti “riducono a destino”, cioè a simbolo, la potenza selvaggia della vita). Sceglie una frase che dovrebbe impressionare la ragazza: una frase che De Angelis ripeterà seriamente, vent’anni dopo, in Cartina muta e in Scavalcamento ventrale, due poesie di memoria e d’amore dedicate alla saltatrice e poetessa Nadia Campana; ma qui la frase non nasconde la propria origine sentimentale e pop (“dove siete stata per tutta la mia vita?”, chiede William Holden alla Hepburn in Sabrina, ballando cheek-tocheek).

Smarrimento di un giovane che sa a che cosa opporsi ma non sa ancora come, eppure non si nasconde dietro l’alibi della tradizione retorica; la sua musica è elementare. Versi liberi ma sicuri nell’andare a capo, ogni verso uno snodo; qualche rima quasi casuale (mondo/profondo; mattino/destino), grumi di consonanti a fine verso (lottano  –  tutte  –  letto  –  profitto); perfino un endecasillabo e settenario regolari nel sottofinale; come segno di una necessità che si impone contro l’inerzia della prosa. I frammenti di discorso diretto tra parentesi, che sono una sua sigla in tutto il libro, si ispirano forse a Su fondamenti invisibili,
il libro di Luzi del 1971; ma in Luzi le frasi tra virgolette erano oracolari, un dialogo coi morti: qui è piuttosto un dialogo con la stupidità, schegge rubate al vero a cui concedere pietosamente la chance di diventare significative.

Tutto il libro è teso sul discrimine tra insignificanza e decisione, tra capire e accadere; c’è l’ossessione del kairòs, dell’attimo che passato quello si ricade nell’impotenza (“Forse è ora, è quasi ora./ La guarda, chiude gli occhi, sbaglia”). Ma insieme si insiste sul diaframma che impedisce all’azione di compiersi, che “divide il pugnale/ dal gesto “). De Angelis interpreterà questo divario come distanza tra il contingente e il metafisico, la sua poesia si farà più consapevolmente tragica (poesia dell’agonismo e del vuoto) e sarà imitata da molti. Io preferisco fotografarla qui, nella confusione di un perdente che in modo paradossale interpreta la stagione politica: quegli anni Settanta che sono gli ultimi in Italia in cui l’azione radicale sia parsa ancora possibile. Tra la tentazione di rifugiarsi nel privato per disertare dal pubblico, e quella di rifugiarsi nel pubblico per disertare dal privato.

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Milo De Angelis – Autoantologia – Retrospettiva della sua poesia (1976-2010)con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

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Milo De Angelis è nato nel 1951 a Milano, dove insegna in un carcere. Ha pubblicato Somiglianze (1976); Millimetri (1983); Terra del viso (1985); Distante un padre (1989); Biografia sommaria (1999); Tema dell’addio (2005); Quell’andarsene nel buio dei cortili (2010); Incontri e agguati (2015).   

Milo De Angelis 2 foto Viviana-Nicodemo

copertina milo de angelis somiglianze

La poesia di Milo De Angelis da Somiglianze (1976) a Quell’andarsene per il buio dei cortili (2010), che vuole essere la più decisa reazione alla cultura dello sperimentalismo, a guardare bene dentro i suoi meccanismi segnaletici e semantici, è uno «sperimentalismo interiorizzato», un deragliamento dei legamenti di inferenza e di inerenza che costituiscono la struttura della significazione, è insomma uno sperimentalismo rovesciato. Ma è grazie a questo «rovesciamento» che l’autore milanese è riuscito ad imprimere alla poesia del secondo Novecento quell’accelerazione, quei cambi di marcia, quelle cuciture inserite tra le dis-connessioni sintagmatiche che sono state il prodotto più cospicuo di novità degli anni Ottanta e Novanta; ma c’è un equivoco di fondo che va sciolto: il discorso poetico inteso dall’autore milanese come «parola destinale», presso i suoi numerosissimi epigoni diventa una forzatura, un prodotto di epigonismo mimetico. La parola poetica abita il linguaggio mentre il destino abita l’esistenza storica dell’ente. Sono due sfere separate e distinte che la poesia deangelisiana tenta di far combaciare. Ecco il vero nodo da sciogliere, che la poesia post-deangelisiana degli epigoni che vive nell’equivoco di dichiararsi a priori destinale non potrà mai risolvere. Che una lussureggiante lettura di Heidegger possa condurre a questa conclusione non può esimerci dal dire che la pratica e la teorizzazione della parola-destinale indica l’esasperazione di un concetto forzoso. Nel primo libro di De Angelis viene assunto a linguaggio poetico la struttura emozionale, emotiva e commotiva di un linguaggio transmentale potato di ogni legame e riferimento al linguaggio strumentale-relazionale. De Angelis opera un vero e proprio disboscamento di tutto ciò che è razionale nel linguaggio relazionale. C’è il trionfo della parola-frontale, della parola-destino della parola-emotiva che diventa una sorta di super modellizzazione secondaria del linguaggio poetico che presso gli epigoni conoscerà un successo di massa eguagliato soltanto da quello arriso alla poesia di un Magrelli. Va detto però che l’influenza esercitata dalla poesia di De Angelis su quella italiana è stata senz’altro positiva ma si è risolta in un fenomeno di costume negativo per la chiave conservatrice con la quale i suoi elzeviristi ne innalzano sperticate lodi. Ma è dalla modellizzazione secondaria di De Angelis che occorre ripartire per ricostruire il discorso poetico.

Ad un consunto retrospettivo oggi si può affermare con cognizione di causa che la poesia di Milo De Angelis è forse l’unica del tardo Novecento che si è posta come consapevole forma di mitologizzazione della nuova iconologia urbana e dei suoi drammi esistenziali mediante una intensificazione senza precedenti delle fraseologie del «nuovo» poetico.*

Mi è stato chiesto, recentemente, che cosa avessi in mente con questa «oscura» locuzione filosofica:

«La parola poetica abita il linguaggio mentre il destino abita l’esistenza storica dell’ente».

Non è semplice dire ciò che avevo in mente nel momento in cui ho scritto quella frase, circa tre anni or sono, certo è che oggi, a distanza di quasi un anno dalla pubblicazione del libro dove quella frase si trova posso dire che il concetto di discorso poetico (che avevo in mente allora) è quella «cosa» che tenta di far combaciare il non identico con l’identico riportando il tutto sotto la legislazione del principio di identità. Detto così la cosa diventa ancora più confusa, ma certo è che il discorso poetico di De Angelis è quello che ha saputo introdurre una intensificazione tra gli oggetti linguistici e, al contempo, una divaricazione tra di essi: di qui la «vertigine» dei piani alti dove si svolge l’esperienza dei suoi personaggi linguistici; e questa vertigine è l’index veri, la verifica di quei piani alti… l’altitudine, l’astrazione dialogica ed esperienziale dei suoi personaggi poetici, sono la migliore conferma di quel posizionarsi su, appunto, quei piani alti del linguaggio poetico. Intendo dire che il «poetico» abita sempre il linguaggio, il suo linguaggio, che si ritaglia a misura delle sue esigenze.
Se «la contraddizione è il non-identico sotto l’aspetto dell’identità» (Adorno), ecco che ci appare chiaro come il linguaggio poetico di De Angelis riflette questa «contraddittorietà diffusa» presente nel cosiddetto «reale», nella storia del paese chiamato Italia. La riflette e la trasloca. La lunghezza di questo trasloco ci può dire molto sulla strada percorsa da questa poesia. Il tempo che scorre è sempre il migliore viatico per una poesia (o il suo migliore assassino).
Dunque, l’esistenza storica sta lì, sta fuori… e bussa per ottenere udienza al linguaggio relazionale delle collettività, e quest’ultimo bussa e chiede udienza al linguaggio poetico, il quale, in ultima istanza procede al trasloco delle masserizie linguistiche. E pone un nuovo problema alla poesia a venire. Che qualcuno, forse, un giorno, risolverà.

* da Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea Società Editrice Fiorentina, 2013 pp. 150 €14.

da Somiglianze (1976)

LA LUCE SULLE TEMPIE

Che strano sorriso
vive per esserci e non per avere ragione
in questa piazza
chi confida e chi consola di colpo tacciono
è giugno, in pieno sole, l’abbraccio nasce
non domani, subito

il pomeriggio, i riflessi
sui tavoli del ristorante non danno spiegazioni
vicino alle unghie rosse
coincidono con le frasi
questa è la carezza

che dimentica e dedica
mentre guarda dentro la tazzina le gocce
rimaste e pensa al tempo
e alla sua unica parola d’amore: “adesso”.

L’ISOLA SARÀ GUARDATA NELLA SUA BELLEZZA

Anche la faccia, al risveglio
ogni volta, panico e ansia
di diventare diversa:
un secolo intero scorreva
nei suoi movimenti
perché era l’unicità.
Eppure qualcuno, già salvo,
sfidando i suicidi vicino al letto e le pastiglie
che cadono dalle mani
qualcuno sta dicendo:
l’isola sarà guardata nella sua bellezza
non importa se da noi o da altri.

T. S.

Ognuno di voi avrà sentito
il morbido sonno, il vortice dolcissimo
che si adagia sul letto
e poi l’albero, la scorza, l’alga
gli occhi non resistono

e i flaconi non sono più minacciosi
nella luce chiaroscura del pomeriggio
mentre mille animali
circondano la lettiga, frenano gli infermieri
il disastro del respiro sempre più assopito
nei vetri zigrinati
dell’autoambulanza, appare
il davanzale di un piano, il tempo
che sprigiona i vivi
e li fa correre con la corrente nelle pupille,
l’attimo dell’offerta, per scintillarle.
E improvvisa, la quiete
della vigna e del pozzo, con la pietra levigata
dividendo la carne
una calma sprofondata dentro il grano
mentre la donna sul prato partorisce
sempre più lentamente,
finché il figlio ritorna nella fecondazione
e prima ancora, nel bacio e nel chiarore
di una camera, il grande specchio,
il desiderio che nasce, il gesto.

milo_de_angelis

foto di Dino Ignani

da Biografia sommaria (1999)

SEMIFINALE

La Doxa mi chiede per chi voterò. La voce
è di un ragazzo che, dall’altra parte, respira. Non so
quale chiarezza dentro la rovina. Tutto
ritorna qui, confine del luogo. Quel non parlato
di chiodi per terra. Il professor D’Amato spieagava
un pronome…nemo: nessuno, non nemo: qualcuno
nessuno giungerà oltre le vene, è semplice, ragazzi. Qualcuno
è scomparso o comunque non dà notizie. Il postino
mi consiglia di guardare meglio nella buca,
anche in quella vicine. Guarderò. Neminem
excepi diem: per nessun giorno ho fatto eccezione.
Morire è dunque perdere anche la morte, infinito
presente, nessun appello, nessuna musica
di una chiamata personale. Oltre le vene che furono rito
e dimora, milligrammo e annuncio, grido infinito
di gioia e di soccorso, nessuno mai
oltre queste vene. È semplice, ragazzi, nessuno.

Foto Milo De Angelis (Viviana Nicodemo)

IDROSCALO

Il ragazzo che si tuffa
In un crawl potente e urta un sasso…
…la ciocca insanguinata…
…la giovinezza prese la forma
di un passo oscuro, di una rosa
appesa alla finestra
«salvami, padre, da quest’ora dolorosa»
la gente saliva, scendeva, cercava
una fune, una cosa
qualsiasi, sputava, gettava in acqua
il suo fazzoletto, ciascuno
parlava all’orecchio
di un altro, diceva
Dio non ha più desiderio,
una volta aveva freddo, Dio, tendeva
le mani per indossare,
un cappotto, il primo, anche questo
che è vecchio, guarda,
toccalo, tienilo pure…
un cappotto, capisci, non i velluti
scesi dal cielo, ma questo,
il mio, persino il mio cappotto.

*

CARTINA MUTA

          Ora lo sai anche tu
          lo sappiamo
          mentre stiamo per rinascere
                   Franco Fortini

Entriamo adesso nell’ultima giornata, nella farmacia
dove il suo viso bianco e senza pace non risponde al saluto
del metronotte: viso assetato non posso valicarlo,
è lo stesso che una volta chiamai amore, qui
nella nebbia della Comasina.
Camminiamo ancora verso un vetro. Poi lei
getta in un cestino l’orario e gli occhiali,
si toglie il golf azzurro, me lo porge silenziosa.
«Perché fai questo?»
«Perché io sono così», risponde una forma dura della voce,
un dolore che assomiglia
solamente a se stesso. «Perché io…
…né prendere né lasciare». Avvengono parole
nel sangue, occhi che urtano contro il neon
gelati, intelligenti e inconsolabili,
mani che disegnano sul vetro l’angelo custode
e l’angelo imparziale, cinque dita strette a un filo,
l’idea reggente del nulla, la gola ancora calda.

«Vita, che non sei soltanto vita e ti mescoli
a molti esseri prima di diventare nostra…
…vita, proprio tu vuoi darle
un finale assiderato, proprio qui, dove gli anni
si cercano in un metro d’asfalto…»

Interrompiamo l’antologia
e la supplica del batticuore. Riportiamo esattamente
i fatti e le parole. Questo,
questo mi è possibile. Alle tre del mattino
ci fermammo davanti a un chiosco, chiedemmo
due bicchieri di vino rosso. Volle pagare lei. Poi
mi domandò d’accompagnarla a casa, in via Vallazze.
Le parole si capivano e la bocca
non era più impastata. «Dove sei stata
per tutta la mia vita» Milano torna muta
e infinita, scompare insieme a lei, in un luogo buio
e umido che le scioglie anche il nome,
ci sprofonda nel sangue senza musica. Ma diverremo,
insieme diverremo quel pianto
che una poesia non ha potuto dire, ora lo vedi
e lo vedrò anch’io…lo vedremo,
ora lo vedremo…lo vedremo tutti…ora…
…ora che stiamo per rinascere.

da Quell’andarsene nel buio dei cortili (2010)

Era buio. Il centro di agosto era buio
come il corpo nudo. Non potevo
trovare riposo né movimento: solo il battere
del sangue sulle labbra. Il buio
giungeva dal respiro aperto, dalla freccia alata
che entra nel mondo. Il buio
era lì. Era lì, nel vertice
della prima caduta, era me stesso,
questo freddo che, oltre i secoli, mi parla.

*

Non rispondono all’appello, sono
dispersi ai bordi della terra, hanno
il segreto della linea che trema, sono usciti
dalle vene dell’essere amato e ora
potete vederli, di sera, verso le tangenziali
chiedere silenzio con un dito sulle labbra.

*

E’ tardi
nettamente. La vita, con il suo
perno smarrito, galleggia incerta
per le strade e pensa
a tutto l’amore promesso.
Cosa attende da me? Dove batte
il cuore dei perduti? E’ questa
la meta misteriosa
di ciò che vive?
La casa si allontana
dai soggiorni, tutto
è consegnato all’evidenza
della fine, tutto è sfuggito….
… ma la sillaba
che stringeva la gola
è questa.

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