
Lucio Mayoor Tosi, Composizione, acrilico 2017
Lucio Mayoor Tosi
In alternativa, non dico alle poesie di Maurizio Cucchi ma alla poesia degli aggettivi, e a sostegno del polittico:
Valvole.
Un’ultima cosa da chiarire.
La guardò e non aggiunse altro. Ma più tardi, a letto, lui
pretese il rito sacrificale dell’orgasmo simultaneo.
Ciò che Dio unisce in terra. Per queste e altre ragioni,
tutte entusiasmanti. Quello era un avanzo di galera.
Poi si mise a cantare: «La doccia è già finita, gli amici
se ne vanno».
Aveva da poco concluso un buon affare con una casa
produttrice di arsenico. Le meraviglie del solleone.
Come gli fosse venuta l’idea. Così, sul far della sera.
I due erano ormai d’accordo. Non si trattava di fare
più denaro, piuttosto di crearsi sempre nuovi guai
in modo da dover DECIDERE. Perché questa era la pazzia,
e forse anche il destino.
Andassero a Messa. Non posso accompagnarti,
ho le vertigini. È da un po’.
Che piove. Su i freschi pensieri che l’anima schiude / novella.
Hai visto la nuova di Gengis Khan? Le porse il cappellino.
[…]
A maggio le rose e tutti quei complimenti. Chissà
quali pensieri nella testa.
Le stesse rose sul sofà. Non serve risposta. Corriere degli affitti:
in meno di un’ora, Banca Avvenire. Sarò io la tua sorpresa.
Un gruppo di majorette in equilibrio sulle rotaie del Frecciarossa.
E’ pieno giorno, in lontananza si vedono le montagne.
Chi non lo vorrebbe un cane mastino che infila le zanne
negli occhi porpora; mentre noi lontani, forse nemmeno
su quegli yatch.
Prima di morire dimenticherò tutto, anche di essere nato.
In questo siamo simili: noi come tutti gli altri, la gente. Resta
l’Impero, numeri e mattoni. Non un libro, un filo di biancheria.
Le cose andranno avanti per conto loro. Il vecchio mondo
delle pustole; ai musei per il food, il semifreddo. Ricordi?
Vent’anni meno, l’anticomunismo in vasetti lilla. E a breve
torneranno i marziani.
[…]
Uno così non lo metti sul pianoforte della bidonville?
La brutta cera del mango e tutte quelle fesserie
che si dicono, mentre le capre si fingono nel paesaggio.
Biancore d’architetti fin sulle posate.
Paradiso inferno, in mezzo nuvola rosa: l’appetito
vien danzando. Offerta molteplice. Guerra di cavie
contro ogni cosa arrivi dal sud. La chiamano tecnologia,
plastica nei mari.
Poeti, clavicole. Sai, tutte quelle asperità. Asperità.
D’accordo, faremo narrazione in finta pelle. Gabbiani
e vecchie limousine. Non vedo l’ora di avere al governo una miss
in gabardine, che sappia il fatto suo. Una che pare uscita
dal fon ma decisiva sull’orientamento dei social. Come farsi
venire il cancro e quali rimedi. Lui tesse una corda di chitarra,
le canzoni della mia giovinezza. Quella altrui, del parroco,
la prima sigaretta in chirurgia.
Nella moria anche i bachi da seta. Nobel per la Pace. Il marcio
in plasma, premi al miglior retrobottega. Come avere denaro,
vero e finto. Attaccarsi alle mandibole. Due mesi luglio. Indonesia.
Ti piace? Lei sulla chiatta di Barbablù, come fosse sua. Saluta,
anima di nessuno e droni variopinti. – Se Maometto non va
al mare… Al mare, al mare! Gridarono tutti. Tanti col braccio teso
verso Roma, Parigi, come ci fosse qualcosa.
[…]
Si sentirono anche il giorno dopo. Qualsiasi pensiero, e io vengo.
Sono tua. Svanisci-mi. Donami le costole. Fa di più l’orgasmo
ragionato, il primato della gazzella sul divenire scosceso
di una certezza.
L’assoluto in vitro a cui dono corpo e preghiere.
L’asma e lo strapotere dei figli. Gli anni trascorsi a battere
nei pied-à-terre, come femmina ciclista, solo con la vocazione.
Calcolo e scudiscio. Ma sono mamma.
Lui aveva da poco concluso un buon affare con quelli
dell’usa e getta. Nel radersi il mento gli scoppiò il cuore.
È la telefonia.
(maggio 2019)

Lucio Mayoor Tosi, COmposition, acrilico
Lucio Mayoor Tosi
Grazie, Mauro. E’ normale che nell’ottica NOE si considerino le poesie nella loro interezza, alla stregua di oggetti, anzi di «cose»; in questa circostanza, da valutare, direi visivamente, ponendole di fianco alle poesie di Maurizio Cucchi, che sono di fumosa ma bella scrittura. Può sembrare un comportamento ingenuo, orgogliosamente infantile, anche acritico,quello di voler confrontare ma c’è di mezzo una questione complessa, sulla quale credo si debba fare chiarezza, quella del bello: se sia bastevole o non, piuttosto, una questione totalmente da rivedere. Perché riesco a immaginare che la poesia NOE possa sembrare talvolta brutta… a mio modo di vedere, particolarmente il polittico; anche se, a voler restare nel canone, è evidente che vi sono poesie NOE che hanno stile – quelle di Mario M. Gabriele, ad esempio – ma anche in queste di oggi non manca bellezza; ne danno prova la diamantina Marina Petrillo, e in molti versi la Donatella Giancaspero. E quando leggo, di Lorenzo Pompeo “Un vascello fantasma appare e scompare, / lampeggia tra le costellazioni”, capisco subito di essere uscito, dove l’aria è più respirabile, fresca.
Di contro, Maurizio Cucchi scrive:
Sono pronto, finalmente, a scivolare
in pace indietro, ma è sempre poco,
verso ciò che è stato e che non so,
che è, permane, pur senza visibile traccia
e mi ha generato anonimo (…)
Giorgio Linguaglossa
La rivoluzione dello spazio espressivo formale-integrale della nuova forma-poesia
Dopo questa poesia di Lucio Mayoor Tosi, non sarà più possibile mettere passivamente le parole in un contenitore oggetto e lasciare che il risultato avvenga in modo, diciamo, naturale, ma in realtà con le parole sempre teleguidate dalla presupposizione dell’io normografo e storiografo. Non sarà più possibile pensare la parola, il metro e l’enunciato come unità stabili dalla parte di un soggetto. La «nuova poesia polittico» di Tosi esce fuori dagli schemi ortodossi della poesia novecentesca; pensa la parola, il metro e l’enunciato come unità metastabili che non stanno più dalla parte di un soggetto. E qui, arrivati a questo punto, tutto viene rimesso in gioco, tutte le categorie con le quali eravamo abituati a pensare la poesia della tradizione novecentesca italiana saltano come sulla dinamite, non resta nulla di integro di tutte quelle cose lì perché siamo entrati in un nuovo universo, siamo entrati in un nuovo mondo e la poesia non poteva continuare ad ignorarlo.
La «struttura polittico» richiede un nuovo universo immaginale e concettuale. Non è possibile aderire a questo nuovo tipo di forma-poesia se non ci si è sbarazzati delle nozioni un tempo ritenute «stabili» di soggetto, di oggetto, di parola, di metro, di pentagramma uninominale unilineare ora invece saltate in aria in mille pezzettini, in mille frantumi. La «nuova poesia» non può non accettare di avere a che fare d’ora in poi che con i frantumi, non può rifiutarsi di accettare le condizioni poste dal nuovo mondo, non può più rifiutarsi di entrare in consonanza con il mondo della nuova civiltà mediatica che prende forma sotto i nostri occhi; c’è bisogno di una nuova musica, c’è bisogno, come scrive Agamben, di una musica musaicamente accordata, e per far questo occorrono nuovi strumenti, nuovi strumentisti, una nuova orchestra e un nuovo direttore d’orchestra, bisogna avere il coraggio di abbandonare alle ortiche tutte le idee che avevamo accarezzato fino a stamattina sulla poesia come ce l’avevano insegnata. Ecco, quella è la poesia del passato, nobile sì, ma del passato.
La «struttura polittico» richiede il concetto di simultaneità nell’istante di tempo, di molteplicità di voci, di sintagmi, di relitti verbali, di rumori verbali, di interferenze, la compresenza simultanea di tempi e di spazi diversissimi, richiede però una grande responsabilità in capo al poeta ed anche una grande capacità di accordare tutte le «voci», le voci dell’inconscio, quelle della memoria ormai disabitata e le voci della radura internettiana dei giorni nostri; una grande capacità di accettare nella forma-poesia di dover convivere con la disparità, l’eterogeneo, l’interruzione, il salto, la peritropé, l’inciso, la cerniera parentetica, e anche con la metonimia e la metafora disposte però in un nuovo concetto di metratura dello spazio e del tempo, un nuovo concetto del pentagramma musicale.
Si tratta di una rivoluzione dello spazio espressivo formale-integrale della nuova forma-poesia che qui ha luogo.
Dobbiamo salutare la poesia del glorioso novecento con dei fazzoletti rossi, agitando fazzoletti rossi.
Pier Aldo Rovatti
«Non sarà più possibile trattare le parole nei limiti di un linguaggio oggetto, perché se da qualche parte esse fanno sentire il loro peso, sarà dalla parte del soggetto: lungi dall’eclissarsi, come molti nietzschiani vorrebbero far dire al testo di Nietzsche, il “soggetto” diviene tanto più importante come questione per tutti (e di tutti) quanto più l’uomo rotola verso la X (con la spinta che Nietzsche ci aggiunge di suo). Passivo, quasi-passivo, attivo nella passività; soggetto-di solo in quanto (e a questa condizione) di sapersi-scoprirsi soggetto-a… La frase di Nietzsche documenta, come tutte quelle che poi la ripetono, una condizione della soggettività, di cui sarebbe semplicemente da sciocchi volerci sbarazzare (sarebbe un suicidio teorico)… Ma sappiamo anche che è innanzi tutto e inevitabilmente una questione di linguaggio, e che l’effetto davanti al quale preliminarmente ci troviamo è un effetto di parola». 1]
1] 2] Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2007, pp. XX-XXI
Il soggetto è quel sorgere che, appena prima,
come soggetto, non era niente, ma che,
appena apparso, si fissa in significante.
L’io è letteralmente un oggetto –
un oggetto che adempie a una certa funzione
che chiamiamo funzione immaginaria
il significante rappresenta un soggetto per un altro significante
(J. Lacan – seminario XI)

Giorgio Linguaglossa
L’«Evento» è quella «Presenza»
che non si confonde mai con l’essere-presente,
con un darsi in carne ed ossa.
È un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote l’io,
o, sarebbe forse meglio dire, lo coglie a tergo, a tradimento.
Il soggetto è scomparso, ma non l’io poetico che non se ne è accorto,
e continua a dirigere il traffico segnaletico del discorso poetico
La parola è una entità che ha la stessa tessitura che ha la «stoffa» del tempo.
La costellazione di una serie di eventi significativi costituisce lo spazio-mondo.
Con il primo piano si dilata lo spazio,
con il rallentatore si dilata e si rallenta il tempo.
Con la metafora si riscalda la materia linguistica,
con la metonimia la si raffredda.
Nell’era della mediocrazia ciò che assume forma di messaggio viene riconvertito in informazione, la quale per sua essenza è precaria, dura in vita fin quando non viene sostituita da un’altra informazione. Il messaggio diventa informazionale e ogni forma di scrittura assume lo status dell’informazione quale suo modello e regolo unico e totale. Anche i discorsi artistici, normalizzati in messaggi, vengono silenziati e sostituiti con «nuovi» messaggi informazionali. Oggi si ricevono le notizie in quella sorta di videocitofono qual è diventato internet a misura del televisore. Il pensiero viene chirurgicamente estromesso dai luoghi dove si fabbrica l’informazione della post-massa mediatica. L’informazione abolisce il tempo e lo sostituisce con se stessa.
È proprio questo uno dei punti nevralgici di distinguibilità della Nuova Ontologia Estetica: il tempo non si azzera mai e la storia non può mai ricominciare dal principio, questa è una visione «estatica» e normalizzata; bisogna invece spezzare il tempo, introdurre delle rotture, delle distanze, sostare nello Jetztzeit, il «tempo-ora», spostare, lateralizzare i tempi, moltiplicare i registri linguistici, diversificare i piani del discorso poetico, temporalizzare lo spazio e spazializzare il tempo…
Ovviamente, ciascuno ha il diritto di pensare l’ordine unidirezionale del discorso poetico come l’unico ordine e il migliore, obietto soltanto che la nostra (della NOE) visione del fare poetico implica il principio opposto: una poesia incentrata sulla molteplicità dei «tempi», sul «tempo interno» delle parole, delle «linee interne» delle parole, del soggetto e dell’oggetto, sul «tempo» del metro a-metrico, delle temporalità non-lineari ma curve, confliggenti, degli spazi temporalizzati, delle temporalisation, delle spazializzazioni temporali; una poesia incentrata sulle lateralizzazioni del discorso poetico. Ma qui siamo in una diversa ontologia estetica, in un altro sistema solare che obbedisce ad altre leggi. Leggi forse precarie, instabili, deboli, che non sono più in correlazione con alcuna «verità», ormai disabitata e resa «precaria».
La verità, diceva Nietzsche, è diventata «precaria».
Il «fantasma», il revenant che così spesso appare nella poesia della «nuova ontologia estetica», si presenta sotto un aspetto scenico. È il Personaggio che va in cerca dei suoi attori. Nello spazio in cui l’io manca, si presenta il «fantasma».
Dal punto di vista simbolico, è una sceneggiatura, il «fantasma» è ciò che resta della retorizzazione del soggetto là dove il soggetto viene meno; il fantasma è ciò che resta nel linguaggio, una sorta di eccedenza simbolica che indica una mancanza.
L’inconscio e il Ça rappresentano i due principali protagonisti della «nuova ontologia estetica». Il soggetto parlante è tale solo in quanto diviso, scisso, attraversato da una dimensione spodestante, da una extimità, come la chiama Lacan, che scava in lui la mancanza. La scrittura poetica è, appunto, la registrazione sonora e magnetica di questa mancanza. Sarebbe risibile andare a chiedere ai poeti della «nuova ontologia estetica», mettiamo, a Steven Grieco Rathgeb, Anna Ventura, Mario Gabriele o a Donatella Giancaspero che cosa significhino i loro personaggi simbolici, perché non c’è alcuna significazione che indicherebbero i fantasmi simbolici, nulla fuori del contesto linguistico. Nulla di nulla. I «fantasmi» indicano quel nulla di linguistico perché Essi non hanno ancora indossato il vestito linguistico. Sono degli scarti che la linguisticità ha escluso.
I «fantasmi» indicano il nulla di nulla, quella istanza in cui si configura l’inconscio, quell’inconscio che appare in quella zona in cui io (ancora) non sono (o non sono più). L’essenza dell’inconscio risiede non nella pulsione, nell’essere istanza di quel serbatoio di pulsioni che vivono sotto il segno della rimozione, quanto nella dimensione dell’io non sono che viene a sostituire l’io penso cartesiano. La misura di questa dimensione è la sorpresa, l’esser colti a tergo. Tutte le formazioni dell’inconscio si manifestano attraverso questo elemento di sorpresa che coglie il soggetto alla sprovvista, che, come nel motto di spirito, apre uno spazio fra il detto e il voler-dire. Come nei sogni, dove l’io è disperso, dissolto, frammentato fra i pensieri e le rappresentazioni che lo costituiscono, così l’inconscio è quella istanza soggettiva in cui l’io sperimenta la propria mancanza. Come aveva intuito Freud: l’inconscio, dal lato dell’io non sono è un penso, un penso-cose, esso è formato da Sachevorstellung, è costituito da rappresentazioni di cose. La formula «penso dove non sono» è la formula dell’inconscio, che si rovescia in un «non sono io che penso». È come se «l’io dell’io non penso, si rovescia, si aliena anche lui in qualcosa che è un penso-cose».
Il «fantasma», il revenant inaugura quella dimensione della mancanza che si costituisce nella struttura grammaticale priva dell’io, cioè della dimensione della parola come luogo in cui il soggetto «agisce».A questo punto apparirà chiaro quanto sia necessario un indebolimento del soggetto linguistico affinché possa sorgere il «fantasma». Nella «nuova ontologia estetica» non c’è più un soggetto padronale che agisce… nella sua struttura grammaticale l’io si è assottigliato o è scomparso. O meglio, il soggetto viene parlato da altri, incontra la propria evanescenza. Continua a leggere →
Michel Meyer, La questione del logos è la questione fondamentale, con i Commenti del 24 aprile 2019, Poesie e Commenti di Giuseppe Gallo, Gino Rago, Donatella Giancaspero, Mario M. Gabriele, Nunzia Binetti, Giorgio Linguaglossa, Edoardo Nannipieri, Edgar Degas
La questione del logos è la questione fondamentale
Scrive Michel Meyer:
«Si tratta di pensare cosa bisogna intendere per logos. Una tale esigenza può sembrare superflua in un’epoca che ha visto fiorire tanti lavori sul linguaggio: Il logos è un’altra cosa: è il linguaggio della ragione, e della ragione che si apprende in tutta la sua ampiezza, e non secondo questo o quell’aspetto particolare. L’inflazione delle ricerche consacrate al linguaggio ne rivela piuttosto l’assenza di unità. Quanto è ricchezza per la scienza, che moltiplica analiticamente i ritagli di oggetti, si rivela povertà per la filosofia, che cerca il principio e la totalizzazione: Ma non è possibile che, dopo tutto, la questione sia falsamente una questione filosofica e che si debba lasciare questa riflessione nello stato di dispersione che le conosciamo? Tuttavia, neppure la scienza ha molto da guadagnarci. L’infinita diversità dei fenomeni linguistici ha dato luogo a numerosi studi parziali che mascherano il logos, proprio mentre vogliono mettere in evidenza la realtà che gli è propria.
La molteplicità degli approcci e dei punti di vista – li si chiami sintassi o grammatica (generativa o no), ci si rivolga piuttosto alla semantica, alla pragmatica o ancora alla logica – non ha alla fin fine risposto alla questione di sapere cosa significa parlare. Rivolgersi a questo o a quell’altro fatto linguistico, scelto a caso in base agli interessi del ricercatore, non ha nulla di condannabile: è soltanto arbitrario. Per giustificare la sua scelta, egli deve ricorrere a una teoria del linguaggio, ma è proprio questa che egli pretende di scoprire o di validare, rivolgendo la propria attenzione ai fenomeni particolari che egli prospetta. Una teoria scientifica può certo privilegiare i fatti che vuole, senza che questo escluda altre scelte. Così facendo, essa non potrà pretendere di aver catturato la realtà del linguaggio in quanto tale. I suoi risultati saranno proporzionali alle sue scelte: limitati…
Questa sommatoria operata a partire dalla scienza mira a raggruppare il parziale per farne qualcosa di generale, ad addizionare i fatti particolari per ricondurre il logos ad un’immensa empiria di linguaggio. Proprio questo presuppone una concezione del logos, della ragione… Egli rifiuta la filosofia per i fatti, come se proprio ciò non tradisse già una certa filosofia, non fondata, sul comportamento da adottare nei confronti del linguaggio, su ciò che bisogna apprendere e su ciò che bisogna evitare, in breve su ciò che determina e definisce la ragione parlante. Il linguaggio sarebbe con piena evidenza a immagine della scienza, anzi che dico, la scienza sarebbe il linguaggio, al di là della sua inevitabile razionalità analitica?…
Le proposizioni che affermano che il linguaggio è dell’ordine del risultato, e forse anche, a razionalità giustificativa come la scienza, sfuggono anch’esse a questa definizione o, piuttosto, a questo a priori. Quest’ultimo si distrugge se si dice. Il che prova che il linguaggio non è ciò che esso afferma, e che non può affermare, benché il linguaggio possa esprimere anche i risultati della scienza… Ne va del pensiero del linguaggio, nella misura in cui esso è il linguaggio del pensiero… Pensare il linguaggio significa prima di tutto aprire il pensiero al proprio linguaggio. Il pensiero del linguaggio mette in atto un linguaggio specifico che è quello del pensiero. È in ciò che risiede il carattere fondamentale della meditazione sul logos. Senza questa meditazione, come possiamo sperare di trovare uno spazio proprio del pensiero, che non lo releghi a forme abusate del linguaggio, e nelle quali esso si perderebbe inevitabilmente? Forme abusate, dunque uso delle forme, le stesse di cui si tratta di render conto e che le analisi contemporanee presuppongono affermando, vietando, contestando.
Ma è possibile procedere altrimenti? Senza il pensiero del linguaggio, il linguaggio del pensiero si dissolve di fatto, se non implicitamente di diritto, in forme e in usi che rendono il pensiero estraneo a se stesso. L’alienazione che inghiotte il pensiero si basa sull’uso di un linguaggio che non è il suo.
La questione del logos è posta come domanda fondamentale del pensiero. Fondamentale, perché non poggia su nessuna risposta preliminare e, per questo, su nessuna domanda più prima ancora. E fondamentale altresì, perché essa si vuole fonte della risposta prima. Fondamentale, dunque filosofica, cioè esente da presupposti e da asserzioni esterne che non discendano dall’interrogazione sul logos…
[…]
Come interrogare il logos senza dover presupporre proprio ciò che occorre mettere nella risposta? Quale domanda è necessario precisamente rivolgere al linguaggio? Come formulare questa domanda senza già orientare la ricerca su di una strada particolare e arbitraria, che ci condannerebbe a errare. Il linguaggio ci sfuggirebbe a causa della particolarizzazione alla quale saremmo abbandonati. Come sapere esattamente la domanda particolare da porre, senza cadere nel tranello dell’anticipazione di una risposta? […] Così, perché la questione del logos sia considerata come tale, occorre non soltanto non presupporre niente oltre ad essa, ma, in più, non è legittimo formularla come se chiedesse questo o quello, questo piuttosto che quello.
[…]
Affermando tutto ciò che abbiamo appena detto sulla questione del logos, sul fatto che essa sola deve e può concludere la ricerca iniziale, noi non siamo più a livello della domanda iniziale. Facciamo agire una discorsività che non è la domanda ma parla di essa. Parlare così della questione del linguaggio è qualcosa che si aggiunge alla semplice posizione della domanda. Così facendo, abbiamo preso atto, nell’atto linguistico che consisteva nel porre e nell’elaborare la questione, del fatto che c’è un’esigenza da rispettare, nella fattispecie quella delle domande e delle risposte. Dalla questione del logos scaturisce una risposta: il logos è fatto di domande e di risposte, e questo è essenziale al logos, ed è anche un’esigenza dal momento che le domande sono considerate in quanto tali. f»1
1 M. Meyer, Problematologia, Parma, Pratiche editrice, 1991 pp. 267 e segg.
Giorgio Linguaglossa
mi trovo un po’ in difficoltà a commentare singolarmente le poesie dei vari autori dei due ultimi post perché il livello molto elevato di introiezione dei segreti della NOE è ormai così consolidato che mi lascia addirittura sorpreso. Non credevo che autori che si sono accostati alla rivista da relativamente poco tempo, come Franco Intini, Giuseppe Gallo, Alfonso Cataldi, Giuseppe Petronelli, Francesco Gallieri e altri abbiano potuto assorbire così rapidamente i principi guida della nuova poesia. Evidentemente, erano già per proprio conto indirizzati in questa direzione, cercavano, magari a tentoni, qualcosa che galvanizzasse la propria scrittura. Questo è senz’altro un buon segno, un segno di vitalità della nuova poesia. Non occorre essere in centinaia, è sufficiente una piccola ma agguerrita (stilisticamente) pattuglia di interpreti. In particolare vorrei dire qualcosa su questa poesia di Giuseppe Gallo.
.
Giuseppe Gallo
Lilli
Lilli sorrise alle macchie sul muro,
aveva intravisto il colbacco di Lenin.
Elena per scendere scelse i gradini più comodi.
Ormai dipingeva in grigio solo scale in salita.
La primavera era sopraggiunta in treno.
E i papaveri si vergognavano di rosseggiare in città.
– La morte non sa che può fare male,
ha ancora i calzoni corti e la minigonna di Mary Quant!-
Oggi non è più oggi.
…attenda in linea…
Le carpe d’argento assalivano le barche dalle sponde.
Se non hai parole non puoi avere fantasmi.
Si scrive soltanto il passato
per sorreggere la potestas e l’auctoritas.
La voce è un gesto: la bocca mi baciò tutto tremante…
ma dopo, quando si spara…
Intorno alle acacie si agita la luce,
il pappagallo la sfoglia come un libro.
Ha imparato a leggere lungo la traversata.
…è un’inchiesta sulla qualità del servizio…
La morte è una scavezzacollo… deve fare esperienza.
Ha ancora i calzoni corti e la mini gonna di Mary Quant. Continua a leggere →
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