
«L’espressione esser-gettato sta a significare l’effettività dell’esser consegnato… L’effettività non è la fatticità, il factum brutum della semplice-presenza, ma un carattere dell’essere dell’esserci, inerente all’esistenza, anche se, innanzi tutto, nel modo dell’evasione».1 Con questa impostazione categoriale di Heidegger l’esserci è imprigionato nel mondo del «si», l’esserci non ha un orientamento, resta preda dell’inautenticità e non può uscirne, è privo di volontà, di pensiero e di azione. L’esserci è bloccato nell’esser-gettato nell’esistenza immobile, surrogato teologico della condanna divina alla espiazione di una colpa che trascende l’esserci. Ma c’è una via per Heidegger che definisce una via di uscita da questa condizione di immobilità dell’esserci, ed è la via per la morte, l’essere-per-la-morte. L’inautenticità per Heidegger ha sempre il sopravvento sull’autenticità. C’è una sola via di uscita da questo impasse: l’essere-per-la-morte. Questa è l’agghiacciante conclusione di Heidegger.
Scrive Heidegger: «Con questa tranquillizzazione che sottrae all’esserci la sua morte, il Si assume il diritto e la pretesa di regolare tacitamente il modo in cui ci si deve, in generale, comportare davanti alla morte. Già il “pensare alla morte” è considerato pubblicamente un timore pusillanime, una debolezza dell’Esserci e una lugubre fuga davanti al mondo. Il Si non ha il coraggio dell’angoscia davanti alla morte».2 «L’anticipazione svela all’esserci la dispersione nel si-stesso e, sottraendolo fino in fondo al prendente cura avente cura, lo pone innanzi alla possibilità di essere se stesso, in una libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Si, effettiva, certa di se stessa e piena di angoscia: La libertà per la morte».3
L’esasperazione semantica di una «libertà per la morte» indica chiaramente un lapsus filosofico. Non v’è «libertà» ma costrizione per la morte. È esattamente all’opposto che si dà la «libertà» nell’equivalenza della «illibertà». Insomma, come diceva Adorno: «non si dà libertà nell’illibertà generale». Qui il problema dell’inautenticità è connesso inestricabilmente a quelli della «libertà» e della «illibertà»; entrambe queste categorie vivono e prosperano soltanto nell’ambito della alienazione. Una esistenza alienata pone il dilemma insolubile tra libertà e l’illibertà, ma è nell’ambito della alienazione e soltanto in essa che può prosperare questa antinomia, al di fuori dell’alienazione questa dicotomia perde il suo valore ontologico e diventa un epifenomeno della storialità. Una esistenza ricca di senso può affrontare una morte ricca di senso. Socrate, con la sua morte, ne è un esempio. Gesù, con la sua morte, ne è un esempio. Nel senso che sia Socrate che Gesù mediante la decisione anticipatrice, hanno potuto intravvedere liberamente la possibilità della morte e accettarne le conseguenze, con tutto il dramma dell’angoscia connessa alla loro ingiusta morte (angoscia come impossibilità di accedere alla azione liberatrice).
Per questo Spinoza ha scritto che una filosofia genuina deve occuparsi della vita e non della morte, così come anche Epicuro rilevò che chi vive, fintanto che vive, non ha nulla a che fare con la morte, che resta al di fuori del demanio della vita e delle cose attinenti alla vita. Per questo l’ontologia ha a che fare con la vita, e nulla ha a che fare con la morte. La dove c’è la morte, non c’è più ontologia. Soltanto in una esistenza piena di senso si può operare autenticamente verso la vita. Al di fuori del senso della vita è vano parlare finanche della morte, che non occupa alcun demanio della vita. La decisione anticipatrice la si ha soltanto nell’ambito della vita e per la vita delle generazioni future, in questo senso e soltanto in questo senso essa ha a che fare con l’ontologia dell’essere sociale. Per Heidegger invece l’uomo cade vittima del «si», e questa caduta lo pone nell’impossibilità di adire alla autenticità, e non può che soccombere tra le cose della menzogna e dell’ipocrisia. Per Heidegger l’uomo gettato nell’inautenticità è vittima della «angoscia», per la quale non c’è riscatto.

Scrive Heidegger: «Se l’Esserci esiste, è anche già gettato in questa possibilità. Innanzi tutto e per lo più l’esserci non ha alcuna “conoscenza” esplicita o teorica di essere consegnato alla morte e che questa fa parte del suo essere-nel-mondo. L’esser-gettato nella morte gli si rivela nel modo più originario e penetrante nella situazione emotiva dell’angoscia. L’angoscia davanti alla morte è angoscia “davanti” al poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile. Il “davanti-a-che” dell’angoscia è l’essere-nel-mondo stesso… L’angoscia non dev’essere confusa con la paura davanti al decesso. Essa non è affatto una tonalità emotiva di “depressione” contingente, casuale, alla mercé dell’individuo; in quanto situazione emotiva fondamentale dell’esserci, essa costituisce l’apertura dell’esserci al suo esistere come esser-gettato per la propria fine».4
Qui Heidegger ci presenta un concetto astratto e vuoto della «angoscia», una entità immodificabile, eterna, eternamente addossata all’Esserci, un concetto della teologia formalmente de-teologizzato, che presuppone una posizione del tutto passiva dell’Esserci il quale non può sottrarsi ad un destino già scritto e dinanzi al quale non v’è possibilità di azione, o di liberazione. Il gioco delle categorie heideggeriane si rivela essere un gioco di bussolotti vuoti. Categorie svuotate di esistenza. Etichette. Segnali semaforici di un essere immodificabile. In questo contesto categoriale l’azione di uscita dalla inautenticità e dall’angoscia viene prescritta, anzi, viene del tutto cancellata. Alla inautenticità heideggeriana non c’è altra via di scampo che soccombere anticipando a se stessi la visione della propria morte.
Una categoria completamente assente nella ontologia di Heidegger è quella della «azione» (con la connessa categoria della «volontà»). Quando, come e dove nasce e si sviluppa l’«azione», qual è la sua direzionalità e il perché della «azione». Ecco, tutta questa problematica è misteriosamente assente nella ontologia di Heidegger. Ma ciò è comprensibile, perché attraverso la categoria dell’«azione» tutto il castello di categorie heideggeriane verrebbe a periclitare fragorosamente se soltanto la si prendesse in considerazione.
L’ontologia di Heidegger ha al suo centro l’essere dell’esserci, l’uomo isolato e alienato tra le due guerre mondiali. La sua analitica dell’esserci mostra a nudo le categorie ontologiche di questo ente, l’esserci, scisso e alienato, isolato anche nella sua vita quotidiana. L’ontologia di Hartmann invece parte dalla critica del modo in cui sorgono le categorie dalla vita quotidiana, le connessioni categoriali, gnoseologiche e psicologiche che garantiscono la sopravvivenza dell’ente umano nell’ambito della vita naturale e sociale. L’ontologia di Nicolai Hartmann5 riabilita il primato del pensiero nell’ambito della vita quotidiana, e di qui riparte per la delucidazione delle immagini del mondo religiose, filosofiche e scientifiche. Il realismo ingenuo della vita quotidiana e sociale dell’uomo è il miglior antidoto contro le distorsioni di una visione che adotta un punto di vista antropocentrico dell’uomo alienato e isolato nella sua fissità storica e biologico-sociale. Per Hartmann, in polemica con il concetto di angoscia in Heidegger: «l’angoscia è proprio la peggior guida che si possa immaginare verso ciò che è autentico e caratteristico»..6
Nella poesia di Miłosz che segue abbiamo la esemplificazione della ricerca del “reale”. Orfeo si muove nell’ambito del «realismo ingenuo», si reca nell’Ade per recuperare la sua amata Euridice. Orfeo è l’antesignano dell’Esserci moderno. Come l’Esserci di Heidegger è imprigionato nell’inautenticità e non può sortirne che attraverso la decisione anticipatrice della morte, così Orfeo è un eroe dotato di autenticità, scende nella terra, fino alle foci dell’Ade per strappare agli Inferi la sua amata, simbolo della bellezza, e riportarla in vita sulla terra, alla piena luce del sole. Orfeo lotta per la vita, vuole la vita. Ma, appunto, la Euridice che lui vede è soltanto un simbolo, un eidolon del “reale”, non il “reale”, perché Euridice è morta, ed il linguaggio poetico è impotente, non può riportarla in vita, può solo raffigurare la sua immagine fatta di nebbia e di non-vita. Il “reale” è irraggiungibile anche per la poesia, e non può nulla Orfeo con la sua lira a nove corde dinanzi al «Limite» costituito dalla «Morte». Per il pensiero mitico greco, l’esserci di Orfeo è avventura, azione, rivoluzione del Empireo e degli Inferi. Orfeo è l’eroe autentico che si batte contro la morte, per la vita, per riportare in vita l’amata Euridice.
Czesław Miłosz
Czesław Miłosz
Czesław Miłosz
Orfeo e Euridice
Sulle lastre del marciapiede all’ingresso dell’Ade
Orfeo era piegato dal vento impetuoso,
che gli tirava il soprabito, faceva roteare matasse di nebbia,
si agitava nelle foglie degli alberi. I fari delle auto
ad ogni afflusso di nebbia si smorzavano.
Si fermò davanti alla porta a vetri incerto
se le forze lo avrebbero sorretto in quell’ultima prova.
Ricordava le parole di lei: “Sei un uomo buono”.
Non lo credeva molto. I poeti lirici
hanno di solito, pensava, un cuore freddo.
E’ quasi un limite. La perfezione dell’arte
si ottiene in cambio di tale imperfezione.
Soltanto il suo amore lo riscaldava,
lo rendeva umano.
Quando era con lei, diversamente pensava di sé.
Non poteva deluderla, adesso che era morta.
Spinse la porta. Percorreva un labirinto di corridoi,
di ascensori.
La luce livida non era luce, ma oscurità terrestre.
I cani elettronici gli passavano accanto senza frusciare.
Scendeva un piano dopo l’altro, cento, trecento,
sempre più giù.
Sentiva freddo. Era consapevole di trovarsi
nel Nessunluogo.
Sotto migliaia di secoli rappresi,
nel cenerume di putrefatte generazioni,
quel regno sembrava senza fondo e
senza fine.
Lo circondavano i volti di una calca di ombre.
Alcuni li riconosceva. Sentiva il ritmo del proprio sangue.
Sentiva con forza la sua vita insieme con la sua colpa
e temeva d’incontrare quelli cui aveva fatto del male.
Ma essi avevano perso la capacità di ricordare.
Guardavano altrove, indifferenti a lui.
Come sua difesa aveva la lira a nove corde.
Portava in essa la musica della terra contro l’abisso,
che addormenta tutti i suoni col silenzio.
La musica lo dominava. Allora era remissivo.
Si arrendeva al canto imposto,
in estasi.
Come la sua lira, era soltanto uno strumento.
Finché giunse al palazzo dei governanti di quel regno.
Persefone, nel suo giardino di peri e meli seccati,
nero di nudi rami e di grumosi rametti,
e il suo trono, funereo ametista – ascoltava.
Egli cantava il chiarore dei mattini, i fiumi nel verde.
L’acqua fumante di un riflesso rosato.
I colori: cinabro, carminio,
siena bruciata, azzurro,
i piaceri di nuotare presso
gli scogli di marmo.
Il convito sulla terrazza nel chiasso
del porto dei pescatori.
Il sapore del vino, del sale, delle olive, della senape,
delle mandorle.
Il volo della rondine e del falco, il solenne
volo di uno stormo
di pellicani sul golfo.
Il profumo di fasci di lillà nella pioggia d’estate.
Cantava che componeva le sue parole contro la morte
e che nessuna sua rima lodava il nulla.
Non so, disse la dea, se tu l’ami,
ma sei giunto fin qui per riprenderla.
Ti sarà restituita. A una sola condizione.
Non ti è permesso parlarle. E sulla via del ritorno
di voltarti, per vedere se ti segue.
Ermes portò Euridice.
Il suo volto era diverso, affatto grigio,
le palpebre abbassate, sotto di esse l’ombra delle ciglia.
Avanzava come irrigidita, condotta dalla mano
della sua guida. Ah, come voleva pronunciare
il suo nome, svegliarla da quel sonno.
Ma si trattenne, sapendo che aveva accettato
la condizione.
Si avviarono. Prima lui, e dietro, ma non subito,
il battito sonoro dei sandali e quello tenue
dei piedi di lei impediti dalla veste come sudario.
Il sentiero in salita era fosforescente
nell’oscurità, simile alle pareti di un tunnel.
Si fermava e restava in ascolto. Ma allora
anche essi si fermavano, una fievole eco.
Quando riprendeva a camminare, risonava il duplice battito,
una volta gli sembrava più vicino, poi di nuovo lontano.
Sotto la sua fede cresceva il dubbio
e lo avvolgeva come freddo convolvolo.
Non sapendo piangere, piangeva per la perdita
delle speranze umane nella rinascita dei morti,
perché adesso era come ogni mortale,
la sua lira taceva e sognava senza difesa.
Sapeva di dover credere e non sapeva credere.
E a lungo doveva durare l’incerta veglia
dei propri passi contati nel torpore.
Albeggiava. Apparvero i gomiti delle rocce
sotto l’occhio luminoso dell’uscita dal sottosuolo.
E accadde ciò che aveva presentito. Quando girò la testa,
dietro a lui sul sentiero non c’era nessuno.
Il sole. E il cielo e le nuvole su di esso.
Soltanto ora sentì gridarsi dentro: Euridice!
Come vivrò senza di te, o consolatrice!
Ma profumavano le erbe, durava basso il ronzio delle api.
E si addormentò, con la guancia sulla calda terra.
(traduzione di Paolo Statuti)
1 M. Heidegger Essere e Tempo p. 213
2 Ibidem p. 254
3 Ibid. p. 266
4 Ibid p. 379
5 N. Hartmann La fondazione dell’ontologia Milano, Fabbri, 1963, p. 130 sgg. trad it. di F. Barone
6 Ibid. p. 197

Ritengo opportuno riproporre alcuni brani significativi del libro di Giuseppe Pedota (2012) per avere uno sguardo retrospettivo del nostro recentissimo passato, perché non si può capire il presente e le sue possibili derive filosofiche, estetiche e politiche se non si osserva attentamente il passato, recente e non. (G.L.)
Brani tratti da Giuseppe Pedota Dopo il Moderno CFR, 2012 pp. 120 € 13
Quello che un critico come Giorgio Linguaglossa vede attraverso la cortina di nebbia della «nuova ideologia del conformismo», è la «nuova insensibilità» delle masse post-culturali nella situazione del Dopo il Moderno, fenomeno cresciuto all’ombra del letargo politico dell’Italia e dell’Europa. La parola «impegno» è ormai invecchiata e fuori corso, il «qualunquismo», il «talqualismo» e il «turismo poetico» della poesia delle giovani generazioni è una spia allarmante di questo conservatorismo di massa. Ormai nessuno delle nuove generazioni si pone la domanda di comprendere il mondo con spiegazioni, ipotesi, responsabilità; una pedestre mitologia della scrittura che la mia generazione aveva debellato, riacquista vigore e credibilità: lo scrivere bene, l’innocenza dello scrittore, addirittura la «irresponsabilità dello scrittore», l’aura (che ritorna!) delle parole poetiche di certa poesia femminile, l’invasione delle storie d’amore catechizzate, drammatizzate e agghindate secondo uno smaccato (e ingenuo) montaggio di pezzi del cuore infranto. È ritornata la retorica della bella e dannata interiorità e del buonismo, ottimi sostituti della riflessione politico-estetica sulla situazione attuale di quello che il critico romano chiama «discorso poetico».
«Questa spoliticizzazione dell’arte, – scriveva nel 1953 Roland Barthes ne Il grado zero della scrittura – della Letteratura, non può essere accidentale, particolare. È l’espressione di una crisi generale che si potrebbe così definire: ideologicamente la borghesia non ha più realtà immediata, moltiplica gli schermi, i ricambi, le meditazioni: quasi non le si riconosce più una fisionomia».[1]
Forse oggi (e basta dare uno sguardo al proliferare dei blog letterari) siamo nel bel mezzo di una nuova forma di conformismo: un omologismo che non tollera l’esistenza di un diverso assetto del pensiero. C’è una simil-critica di cortigiani e una critica che non ha diritto di cittadinanza. È l’ideologia dell’omologismo che qui si annuncia.
Oggi, anche nella situazione di disarmo generale dell’intelligenza del Dopo il Moderno, non ci può essere altra strada che quella di un nuovo impegno e di una nuova responsabilità dello scrittore e del discorso poetico. Mi stupisce che critici e autori delle nuove generazioni come Salvatore Ritrovato e Stefano Dal Bianco rivalutino invece la «irresponsabilità» della scrittura letteraria. Questi autori dicono che lo scrittore non ha delle «risposte» da dare al suo pubblico, confondendo due concetti molto diversi e distanti tra loro, anzi, a mio avviso oggi lo scrittore è tanto più «responsabile» proprio in quanto non ha alcuna «risposta» da offrire in garanzia al lettore. Io piuttosto direi che oggi, molto più di ieri, il ruolo dello scrittore dipende dalla tragicità di un linguaggio impossibile. È questo il problema.
Il critico romano rivendica, con sottile ironia socratica, che oggi l’unica forma possibile di scrittura è davvero quella del talqualismo delle «scritture letterarie denaturate alla Valerio Magrelli e alla Vivian Lamarque»; «al di fuori del minimalismo sembra non esserci nient’altro che il minimalismo. Ma non è vero. Bisogna dirlo con forza ai giovani: non imitate i modelli deresponsabilizzanti offerti dai falsi padri. La via da seguire è esattamente l’opposta: la critica radicale ai falsi padri e ai falsi modelli che essi rappresentano». Sono scritture che hanno avuto successo e hanno fatto scuola. E chi osa mettersi contro il successo e i grandi marchi editoriali che li hanno pubblicati? Ed ecco spiegato il successo di epigoni degli epigoni come la poesia di Gianni D’Elia e di Franco Buffoni. È un epigonismo che si autogenera e che sembra non avere mai fine. Qui, credo, siamo andati ben oltre l’«ideologia del conformismo», siamo entrati, senza che ce ne siamo resi conto, nella nuova situazione dell’omologismo e dell’emulazione di massa.
L’arte e la letteratura europea dagli anni Novanta del Novecento in poi, segnano una lenta e inarrestabile crisi della grande cultura novecentesca? Non so, può darsi. Il fatto indiscusso è che la poesia dell’ultima decade del Novecento sembra avviata in una inarrestabile deriva epigonica delle grandi direttrici della cultura novecentesca. Si profila una interminabile cultura epigonica, la crisi di identità di una cultura. Nel frattempo, nel 1989 crolla il muro di Berlino, scompare il limen con la divisione in due parti dell’Europa e dell’Italia (un fenomeno simile a quello del crollo di una diga). Ciò che in qualche modo contribuiva, almeno in Italia, a tenere in vita una visione critica è venuto meno, in più c’è stato l’esaurimento di un modello di sviluppo delle economie capitalistiche del mondo occidentale e la fine della prima Repubblica. Scrive Linguaglossa:
«Oggi, noi non possiamo comprendere la crisi della cultura epigonica del minimalismo senza gettare lo sguardo al di là di essa, a quegli sviluppi dell’arte contemporanea che sembrano prefigurare uno sbocco, una via di uscita dall’arte dei minimalia.»
[1] R. Barthes Il grado zero della scrittura Lerici, Milano, 1969 p. 15
czeslaw milosz
Czesław Miłosz
Ars Poetica – Czesław Miłosz, 1957
Ho sempre aspirato a una forma più capace,
che non fosse né troppo poesia né troppo prosa
e permettesse di comprendersi senza esporre nessuno,
né l’autore né il lettore, a sofferenze insigni.
Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente:
sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse,
sbattiamo quindi gli occhi come se fosse sbalzata fuori una tigre,
ferma nella luce, sferzando la coda sui fianchi.
Perciò giustamente si dice che la poesia è dettata da un daimon,
benché sia esagerato sostenere che debba trattarsi di un angelo.
È difficile comprendere da dove venga quest’orgoglio dei poeti,
se sovente si vergognano che appaia la loro debolezza.
Quale uomo ragionevole vuole essere dominio dei demoni
che si comportano in lui come in casa propria, parlano molte lingue,
e quasi non contenti di rubargli le labbra e la mano
cercano per proprio comodo di cambiarne il destino?
Perché ciò che è morboso è oggi apprezzato,
qualcuno può pensare che io stia solo scherzando
o abbia trovato un altro modo ancora
per lodare l’Arte servendomi dell’ironia.
C’è stato un tempo in cui si leggevano solo libri saggi
che ci aiutavano a sopportare il dolore e l’infelicità.
Ciò tuttavia non è lo stesso che sfogliare mille
opere provenienti direttamente da una clinica psichiatrica.
Eppure il mondo è diverso da come ci sembra
e noi siamo diversi dal nostro farneticare.
La gente conserva quindi una silenziosa onestà,
conquistando così la stima di parenti e vicini.
L’utilità della poesia sta nel ricordarci
quanto sia difficile rimanere la stessa persona,
perché la nostra casa è aperta, la porta senza chiave
e ospiti invisibili entrano ed escono.
Ciò di cui parlo non è, d’accordo, poesia,
perché è lecito scrivere versi di rado e controvoglia,
spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza
che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento.
(Czesław Miłosz, Poesie Adelphi, Milano, 1983, traduzione di Pietro Marchesani)
Giorgio Linguaglossa
Commentando questa poesia di Czeslaw Milosz “Ars poetica” del 1957, scrivevo:
Proviamo a ragionare intorno a ciò che vuole dirci il poeta polacco nella poesia sopra citata:
Il momento espressivo-metaforico della forma-poesia è uno spazio espressivo integrale (che può essere colto in un sistema concettuale filosofico, che oggi non c’è per via della latitanza di pensiero estetico da parte dei filosofi). Il momento espressivo coincide con il linguaggio, e il linguaggio è condizionato dai linguaggi che l’hanno preceduto… se il momento espressivo si erige come un qualcosa di più di esso, degenera in non-forma (si badi non parlo qui di informale in pittura come in poesia!), degenera in mera visione del mondo, cioè in politica, in punto di vista condizionato dagli interessi di parte, in chiacchiera, in opinione, in varianti dell’opinione, in sfoghi personali, in personalismi etc. (cose legittime, s’intende ma che non appartengono alla poesia intesa come «forma» di un «evento»).
Il problema di fondo (filosofico, ed estetico) della poesia della seconda metà del Novecento (che si prolunga per ignavia di pensiero in questo post-Novecento che è il nuovo secolo), è il non pensare che il problema di una «forma» non può essere disgiunto dal problema di uno «spazio», e quest’ultimo non può essere disgiunto dal problema del «tempo» (tempus regit actum, dicevano i giuristi romani). Ora, il digiuno di filosofia di cui si nutrono molti auto poeti, dico il problema di pensare questi tre concetti in correlazione reciproca, ha determinato, in Italia, una poesia scontatamente lineare unidirezionale (che segue pedissequamente e acriticamente il tempo della linearità metrica), cioè che procede in una sola dimensione: quella della linea, della superficie… ne è derivata una poesia superficiaria e unidimensionale. E, si badi: io dico e ripeto da sempre che il maggiore responsabile di questa situazione di imballo della poesia italiana è stato il maggior poeta del Novecento: Eugenio Montale con Satura (1971), seguito a ruota da Pasolini con Trasumanar e organizzar (1968). Ma queste cose io le ho già spiegate nel mio studio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010 edito da EiLet di Roma nel 2011.
In questa sede posso solo tracciare il punto di arrivo di questo lungo processo: il minimalismo e il post-minimalismo.
Con questa conclusione intendevo tracciare una linea di riflessione che attraversa la poesia del secondo Novecento, una linea di riflessione che diventa una linea di demarcazione.
Delle due l’una: o si accetta la poesia unidirezionale del post-minimalismo magrelliano (legittima s’intende), che prosegue la linea di una poesia superficiaria e unidirezionale che ha antichi antenati e antichi responsabili (parlo di responsabilità estetica) precisi; o si opta una linea di inversione di tendenza da una poesia superficiaria a una poesia tridimensionale che accetta di misurarsi con una «forma più spaziosa», seguendo e traendo le conseguenze dalla impostazione che ha dato Milosz al problema della poesia dell’avvenire. La poesia citata di Milosz è un vero e proprio manifesto per la poesia dell’avvenire, chi non comprende questo semplice nesso non potrà che continuare a fare poesia superficiaria (beninteso, legittimamente), ma un tipo di poesia di cui possiamo sinceramente farne a meno.