
valerio magrelli
Nei linguaggi del Grande Labirinto
di Giorgio Linguaglossa
Oggi tutto è compreso nel presente. 1 vale 1. 2 vale 2. È tutto compreso, prendi tre paghi uno. Viviamo tutti in una Grande Dimensione polifrastica, un Grande Labirinto dove si parla una Babele di linguaggi disparati nei quali i bambini si perdono. I bambini non sanno nulla dei generi poetici e dei sottogeneri narrativi, però capiscono tutto, tutto l’essenziale. Così, in un panorama in cui i parametri fideistici che fino in pieno novecento indicavano i conflitti estetici tra forme poetiche e i generi romanzeschi, oggi quei parametri indicano l’impiego che si fa di essi per restare editorialmente sulla cresta dell’onda con tanto di iniezioni nella narrazione di massicce dosi di déjà-vu, di cronaca e di situazioni maramaldesche. La partita della immaginazione senza fili è relegata alla sfera dei bambini e l’ultroneo del pensiero infantile viene derubricato dagli adulti a modello autoriflessivo, così il «successo» non si gioca più all’interno della letteratura, perché passa per altri e ben più potenti media, attraverso le stanze dei bottoni e dei salotti televisivi. Ma i bambini nulla sanno del linguaggio degli adulti, per loro il linguaggio è una palestra della immaginazione senza fili, ma gli adulti che vivono stabilmente nella zona di compromissione che chiamano libertà, non sono più capaci di dialogare con i bambini, mancano di un linguaggio idoneo perché hanno perduto il senso del gioco.
Dopo Il pubblico della poesia, antologia di autori di poesia pubblicata nel 1975 da Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, siamo ormai giunti al pubblico del varietà privatistico e mediatico che nel frattempo è diventato pubblico della chatpoetry e del romanzo chat; l’indotto conta più del dotto e del prodotto e l’affiliazione più del merito, i linguaggi tendono a diventare una efficiente organizzazione, all’interno del Grande Labirinto, della “Ditta” di riferimento.
Sopra tutto questo panorama giunge la luce fioca dal lampione della Ragione. C’è una platea in chiaroscuro che chiede ai libri di essere bianchi e, soprattutto, blasoni sociali, etichette e benemerenze, i libri sono considerati non più che dei videogiochi. Più lontano ancora, l’angusto cortile di casa che è la letteratura delle benemerenze, sfuma nelle galassie dello storytelling e nella glaciazione di una generica scrittura creativa in promozione generalizzata a televendita. La letteratura, che nella modernità era una lingua speciale, è diventata oggi comunicazione ordinaria, il modo più spiccio per affermare il proprio Ego, la propria autorialità e la propria autostoricizzazione.
Per Magrelli, che ha sempre aspirato a perdersi come i bambini all’interno dei linguaggi e che interpreta da sempre una narrativa e una poesia che non considera più necessaria alcuna ermeneutica, l’approccio ad una poesia per bambini è stato un risultato agevole, diciamo così naturale, perché essi non hanno bisogno di alcuna guida ermeneutica, sono già diventati anzitempo sufficientemente e precocemente adulti da aver preso a prestito dagli adulti il loro cinismo e la loro ipocrisia; per il poeta romano che ha da sempre preferito agire tra i piani sconnessi della paraletteratura, della letteratura, del midcult e delle (rarissime) opere complesse, non è stato disagevole trovare un linguaggio che corrispondesse alle esigenze dei bambini. Ma almeno a Magrelli va il merito di non averci affibbiato del modernariato in piena epoca di ipermoderno metalmediatico, lui almeno è sincero: adotta il registro del minimalismo del linguaggio infantile che è una modalità plausibile e presentabile: quello delle micro storie e delle piccole morali con cui il poeta romano presenta la Storia degli eventi bellici di oggi ai bambini. Magrelli questo compito lo esegue con perspicacia e acume, forse il suo libro migliore, perché qui l’autore non utilizza gli stereotipi della cronaca ma accenna soltanto e di sfuggita alla Storia con la maiuscola, la Storia che ci minaccia di estinzione con la guerra nucleare.
La frase di Lacan: «Io mi identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto», Magrelli la risolve facendo poesie per bambini, perdendosi nel linguaggio solo come un bambino può perdercisi, le sue poesie per fanciulli sono un eccellente interludio alla assurdità e alla incredibilità della guerra, e la forma-poesia diventa un congegno davvero assurdo, ultroneo, anzi il miglior congegno linguistico atto a descrivere l’assurdità e la barbarie della guerra vista dal punto di vista dei bambini con la psicologia dei bambini; l’autore romano si cimenta nel compito di presentare ai bambini i lati assurdi di quella cosa orribile che chiamiamo guerra. Che però, dal punto di vista psicologico dei bambini appare come un mondo capovolto. E Magrelli ci riesce al meglio, fa una poesia in modalità infantile.
Scrive l’autore in una didascalia in calce al volume:
«Fino a oggi, non avevo mai scritto versi dedicati ai bambini. Avevo soltanto composto poesie sui bambini, e soprattutto un saggio sui disegni dei bambini. Ciò significa che adesso succederà qualcosa di opposto: saranno loro a osservare i disegni che Alessandro Sanna ha creato a partire dai miei testi. Ma cosa implica “Scrivere per i bambini”?
Visto che non l’ho fatto mai prima di ora, sono l’ultimo a poterlo dire. Posso però raccontare come mi sono regolato personalmente ho giocato su forti contrapposizioni, ricorrendo a soggetti precisi attraverso un linguaggio preciso. Ognuno ha una sua propria idea del bambino: io lo immagino curioso, avido di sapere, il “polimorfo perverso” di cui parlava Freud. Certo, me lo figuro ancora svantaggiato rispetto all’adulto, in quanto dotato di meno strumenti a sua disposizione – pochi, ma assai più potenti (basterebbe pensare alla sua forza di immaginazione!).
Dunque, ho cercato di stabilire un ponte radio in grado di unire le mie parole, illustrate, al suo ascolto. Ecco, io spero esattamente nel miracolo di una sintonizzazione, nel miracolo di un canale che si apra tra il mio lavoro e lo splendore infantile.
(v.m.)
Scrive Marie Laure Colasson:
«È vero, qualcuno, leggi la poetry kitchen, ha smobilitato il discorso poetico del Grande Labirinto, lo ha decostruito, lo decostruisce di continuo. Nessuno di noi (adulti) fa più un discorso poetico, ognuno se lo fa per se stesso e se lo cuoce e se lo deglutisce. Il bello della modalità kitchen (o infantile) è che ciascuno può pescare nella propria soggettività (evanescente) quello che vuole, al contrario dei poeti elegiaci che partono dal principio di affidarsi alle virtù balsamiche della soggettività salvatrice.
Questa poesia per bambini è nata felice, perché scritta con un linguaggio infantilizzato, minimal, sembra scritta durante un terremoto della 9a scala Mercalli. Sei stato per caso in Turchia? (attento allo tsunami!). Ma sì, noi tutti facciamo poesia ma senza prenderci più sul serio, della seriosità dei poeti elegiaci e degli adulti che parlano la Lingua del Labirinto, si fa poesia perché è un nulla di nulla e non conta nulla, perché «l’essere svanisce nel valore di scambio» (Heidegger). Almeno questo lo possiamo dire, senza innaffiarci di «sublime» e senza le furbizie degli elegiaci».
testi scelti da La guerra, la pace, (2022)
La guerra nella neve
La guerra nella neve
ha un non so che di irreale.
Tutto viene attutito:
anche i colpi di cannone
vengono fuori avvolti nell’ovatta.
C’è un’aria bianca, frizzante, natalizia,
ma nessuno che nasce,
anzi, il contrario.
.
La Pace nella neve
La Pace nella neve
ha un non so che di irreale.
Tutto viene attutito:
anche i saluti
vengono fuori avvolti nell’ovatta.
C’è un’aria bianca, frizzante, natalizia,
che spinge il mondo a rinascere,
anche se tutto sembra seppellito.
.
La guerra in riva al mare
La guerra in riva al mare
è soltanto ridicola.
Le spiagge bianche, le onde, il sole fresco,
e invece di sdraiarci mezzi nudi
soffochiamo coi caschi, le divise,
la sabbia che si infila nelle scarpe
e quelli che ci sparano acquattati
dalla pineta.
La guerra in riva al mare è una vergogna.
.
La Pace in riva al mare
La Pace in riva al mare!
Ignorarla, è ridicolo.
Le spiagge bianche, le onde, il sole fresco,
e noi sdraiati mezzi nudi,
la sabbia che ci indora,
e qualche pecorella acquattatella
nella pineta.
La Pace in riva al mare…
rinunciarci, è un peccato.
.
La guerra in città
la guerra in città
non ha senso.
Appena arriva, saltano le regole.
Adesso vanno tutti contromano
e senza che nessuno glielo vieti.
Sono spariti i divieti:
come è possibile circolare così?
.
La Pace in città
La Pace in città
è la festa dei sensi
Teatri, cinama, palestre, librerie,
ristoranti, caffè, pasticcerie.
E tutto regolato come un orologio,
frecce, semafori, strisce pedonali…
Chi viola le leggi, viene sempre multato.
Si può vivere meglio di così?
.
La guerra in campagna
la guerra in campagna
fa meno impressione.
Sembra di più una caccia
a qualche animale nascosto.
Anche i vestiti sono quasi uguali,
mimetici, per non farci scoprire.
E c’è un’eccitazione in tutti noi,
per questa specie di gioco a nascondino.
Anche se dopo è brutto,
vedere l’altro giocatore a pezzi.
.
La Pace in campagna
La Pace in campagna
è il paradiso.
Finalmente vietata la caccia,
l’animale si mostra, non più timoroso,
mentre l’uomo si mostra sapendo
di non suscitare timore.
E c’è un’eccitazione in tutti noi,
per questa festa unanime.
Abbiamo superato la ferocia della natura,
siamo natura spogliata del suo male.
.
La guerra nella pioggia
La guerra nella pioggia
è un doppio schifo.
fa freddo e sei bagnato,
ma l’ombrello è vietato:
si è mai visto un soldato con l’ombrello?
Potremmo addirittura definire “soldato”
chi non porta l’ombrello.
Perché l’ombrello si usa in tempi dolci,
dove ci si protegge dalla pioggia.
In guerra, invece, nessuna protezione,
nessuna cura, nessuna attenzione.
.
La nebbia in tempo di pace
La nebbia in tempo di pace:
liquido amniotico.
Tutto è dolce e indistinto,
tutto è attutito
cullati nella pancia della mamma.
CONTROVENTO
I migranti sulla crosta di ghiaccio
si erano piegati gli abeti in tasca.
Con i guanti non ancora scaduti
si prendevano per mano
e ritoccavano il make up della bora.
I muscoli cardiaci sprizzano sangue sui pattini.
Se i Tre Confini preparano intemperie
non resta che il Daspo perenne.
Tiziana Antonilli
Ho avuto l’onore di essere invitata a tenere un laboratorio poetico per due classi di quinta elementare. Avendo insegnato sempre alle scuole superiori e avendo tenuto laboratori poetici con gli adolescenti, fare poesia con i bambini è stato nuovo ed esaltante. Come dice Marie Laure Colasson la poesia kitchen ha una modalità infantile, proprio la poesia kitchen mi ha permesso di tuffarmi nella poesia dei bambini. Il loro approccio alle immagini e al ritmo è irriverente, disubbidiente, laterale, imprevedibile.
Possiamo pensare un nuovo linguaggio poetico come una nuova formalizzazione della grammatizzazione
Ogni grammatizzazione di un linguaggio introduce un quid di nuovo e determina una nuova individualizzazione dei locutori. La grammatizzazione di un linguaggio è sempre una formalizzazione, ma ogni formalizzazione non si limita ad essere soltanto una mera descrizione del mondo in quanto si tratta di una vera e propria inscrizione sul registro linguistico, cioè una modificazione delle capacità cognitive del locutore e delle sue capacità di esternalizzazione delle sue capacità all’esterno della cosiddetta soggettività.
In fin dei conti, un nuovo linguaggio implica sempre una nuova grammatizzazione, cioè una formalizzazione di un nuovo idioletto. Prima o poi quando un certo numero di grammatizzazioni prende luogo, si forma un nuovo linguaggio e i locutori si adeguano, non possono non adeguarsi se non riproponendo il problema di una nuova grammatizzazione che interviene sul linguaggio per disarticolarlo e riarticolarlo in termini nuovi.
Così, possiamo pensare un nuovo linguaggio poetico come una nuova formalizzazione della grammatizzazione.
La digitalizzazione che caratterizza l’epoca iperindustriale delle mnemotecnologie è la formalizzazione di tutti i grammi, interni ed esterni. Questo ci aiuta a capire come procede l’acquisizione del linguaggio da parte dei bambini i quali procedono per assimilazione inintenzionale dei grammi in idioletti individuali. e di qui alla acquisizione dei linguaggi complessi come complessificazioni degli idioletti primordiali.
“A me interessano solo le sciocchezze, solo ciò che non ha alcun significato pratico. La vita mi interessa solo nel suo manifestarsi assurdo…”
LINCIAGGIO
di Daniil Charms
Petrov sale su un cavallo e tiene un discorso, rivolgendosi alla folla, su quello che avverrà se sullo spazio, dove ora si trova un giardino comune, verrà costruito un grattacielo americano. La folla ascolta e, evidentemente, è d’accordo. Petrov scrive qualcosa su un suo libretto degli appunti. Dalla folla si stacca un uomo di media statura e chiede a Petrov che cosa ha scritto sul suo libretto degli appunti. Petrov risponde che sono soltanto affari suoi. L’uomo di media statura incalza. Una parola tira l’altra e parte il litigio. La folla si schiera dalla parte dell’uomo di media statura e Petrov, per salvarsi la pelle, incita il cavallo e sparisce dietro l’angolo. La folla si agita e, in mancanza di una nuova vittima, afferra l’uomo di media statura e gli stacca la testa. La testa staccata rotola lungo la strada e si incastra in una caditoia. La folla, soddisfatti i suoi impulsi, si disperde.
Daniil Charms
#lospecchiopoesiarussa
Mettendo da parte ogni considerazione sul linguaggio depurato, manzoniano, di Valerio Magrelli, ecco, queste poesie per bambini io le trovo eccellenti. Piacevoli e pacifiste.
… ma siamo tutti pacifisti. D’altra parte perché si fanno le guerre, se non per raggiungere un ideale di pace?
Devo confessare che queste poesie di Magrelli mi giungono davvero gradevoli. E’ come se si volesse piegare la liquidità dei concetti di pace e guerra, vita e morte e in definitiva il Bosch dei nostri giorni (quello sui campi di battaglia e quello nei nostri animi accesi dalla violenza dei fatti e delle idee variamente raccontate) a una forma presentabile persino ai bambini. Il poeta si sostituisce ad un caleidoscopio in cui dipinge gli scenari più semplici (neve, pioggia, mare, bosco, città, nebbia etc.) alternando il colore della pace, con il nero della guerra. La bravura del poeta sta nella capacità di cambiare con una parola un contesto di guerra e sortire l’effetto contrario e viceversa. Facendo a meno di finzioni e poetichese, ne viene fuori un’immagine davvero potente di distruzione\costruzione capace di penetrare in profondo il lettore. Aldilà dell’intento dell’autore, in questo contesto, a parer mio, i bambini rimangono un potente pretesto per guardare senza infingimenti le cose come stanno, aldilà delle ragioni e dei torti : danni, nonsense, morte e schifo. “Il re è nudo”, come sempre e vale solo la PACE.
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PICCOLI STALIN DA BARBECUE
ROSSO
Se non è autodafè che guerra è?
Alla fine, stanca di uomini che giocavano a scopone,
anche Lei si mise in proprio.
Le barby di Circe, dopo aver incendiato Troia
accecarono il ciclope, ma non prima di ottobre.
La lotta di classe si trasformò in ibrido
E nel 2035 in green.
Da allora solo Valchirie sedettero in parlamento
Sigaro in bocca e furgone sul marciapiede.
ARANCIO
Che ci fa l’ AI con le pantofole d’uomo?
Meglio sarebbe se ci mostrasse
La bigiotteria di Torquemada a Campo dei fiori.
L’inconscio del PC fa pazzie. Piscia lenzuola
E di notte mangia cordoni ombelicali.
GIALLO
La signora velocità dall’alto della marea si proclama Tank.
Plutone o Mercurio non impediranno il cammino e se marcheranno la via
Sarà per catturare un colombo e trovare un Pinta per alfa centauri.
VERDE
Alla cipolla il premio Nobel
che battè in volata una sequoia.
La triturarono fino all’alba ma invece di commuovere
versò benzina nel barbecue.
BLU
Da una Q ad una Ù, solo perché un semiconduttore s’è messo in testa idee blu.
Parola che scorre nel bidet ma poi salta da una fiamma all’altra.
Ad averla tra le mani assomiglia al drago di Komodo
Ma giurerei sull’ umanità nel deglutire.
Placarla con un macaco e valli fiorite
Premiarla con una menzione di merito
e invitarla a un talk show.
Razionale è la tregua del giorno,
e se giri l’angolo del Mac Donald
trovi Andromeda nel piatto d’insalata.
A uno stafilococco chiesero del padre
E all’inceneritore notizie delle ossa.
INDACO
A barlumi si aggiungono barlumi ma niente luce.
Trovammo verità che circondavano cioccolatini
Con guida satellitare.
L’indaco ricordava quando da cigolio
Divenne spiraglio e a chi gli domandava dei poeti
Rispondeva:
-Se non cambiano il mondo almeno gli mordano il culo.
COSE DA VECCHI
Raccontano di uno sciroppo che non sortì effetti.
Questa la ricetta: togliere gli zuccheri e sostituire le consonanti
Ma il farmacista lesse: né vocali, né arpeggi
Quanto basta di burro in supposte terra aria.
(Francesco Paolo Intini)
Del resto anche le tue poesie brevi caro Intini possono essere capite dai bambini, penso che ne riderebbero di gusto.
Auden ha scritto una volta una breve frase che bisognerebbe scolpirla sulla facciata del Partenone, che
“Oggi non è possibile scrivere una poesia di qualche valore senza che essa non contenga del comico”.
Ecco ciò che scrivevo nel novembre 2013 su un blog a proposito di dieci poesie per bambini scritte da Mandel’štam :
Osip Ėmil’evič Mandel’štam nasce a Varsavia da una famiglia della media borghesia ebraica. I primi versi Osip li pubblica nel 1910 su «Apollon», la rivista della nuova scuola poetica: l’acmeismo. Nikolaj Gumilëv, l’inventore dell’acmeismo, nel 1913 scriveva: «In cambio del simbolismo sorge una nuova tendenza, comunque la si voglia chiamare: acmeismo (dalla parola acmè, il più alto grado di qualcosa, il fiore, la stagione del rigoglio), oppure adamismo (visione virilmente ferma e chiara della vita), che in ogni caso esige un maggior equilibrio di forze e una più esatta cognizione dei rapporti tra soggetto e oggetto di quanto non sia avvenuto nel simbolismo».
Nel 1912 Mandel’štam entra nella prima Corporazione dei poeti acmeisti, si lega con Nikolaj Gumilëv e Anna Achmatova. Nel 1913 pubblica Kamen’ (Pietra), nel 1922 Tristia. Le poesie per bambini Il fornello a petrolio di cui qui si presentano le prime dieci, sono del 1925. Nel 1923 Mandel’štam viene colpito dal primo «invito» a non pubblicare versi. Di qui in avanti il poeta vivrà unicamente dei magri redditi che gli derivano da traduzioni e da qualche sporadica collaborazione letteraria.
Nella notte tra il 13 il 14 maggio 1934 il poeta viene arrestato dagli agenti della polizia segreta. Durante gli interrogatori gli contestano una sua poesia scritta contro Stalin. Mandel’štam trascorre tre anni di confino a Voronež, durante i quali scrive le grandi poesie della maturità. Scontata la pena il poeta e la moglie tornano a Mosca, dove il 2 maggio 1938 Mandel’štam viene arrestato e deportato. Ufficialmente, la data della morte è il 27 dicembre 1938.
Tutta la poesia della maturità di Mandel’štam, se si fa eccezione di Pietra, che pur rivela una perfetta levigatezza del verso di squisita fattura ellenistica, poggia sulla consapevolezza che la concezione del mondo del poeta si trova sempre in contrasto con il proprio tempo, “contropelo rispetto al mondo”. Nel Discorso su Dante egli parla di una capacità visiva affatto speciale e specifica del poeta che gli permette, al pari degli uccelli rapaci e dei defunti della Commedia, di distinguere gli oggetti lontani, di scorgere i particolari a distanze enormi, pagando lo scotto di ciò con la cecità verso il presente. Già in uno dei suoi primi saggi, Sull’Interlocutore, l’allora ventiduenne poeta parlava della «preziosa consapevolezza della verità poetica»; sin da giovane si considerava un «costruttore»: «dalla triste gravezza anch’io un giorno creerò il bello». Nessun disgusto per la materia grezza, la acuta percezione della sua pesantezza, delle sue qualità intrinseche (la solidità, il peso, il colore, l’incastro): di qui l’idea di una poetica non «di tipo normativo», bensì «biologica», basata cioè sulle qualità originarie, fisiologiche, della materia. Mandel’štam non usava mai il termine «creazione», né il verbo «creare», concetti questi che gli erano totalmente estranei; l’acmeista ha bisogno dello spazio tridimensionale, per lui la terra «non è un fardello, non è un caso infausto, bensì il palazzo donatoci da Dio». Se per Mandel’štam si può costruire soltanto nell’ambito della tridimensionalità, ne consegue che muta radicalmente lo sguardo dell’artista verso il mondo degli oggetti: questo mondo può essere ostile all’artista, ovvero al «costruttore», perché gli oggetti ci sono dati per fungere da materiale da costruzione. La pietra ne è un esempio eloquente. È «come se essa agognasse ad una esistenza diversa» e si volesse inserire «nella volta a crociera» di una «cattedrale gotica». E proprio come la cattedrale gotica rappresenta il compimento della pietra, «per l’artista la visione del mondo è un’arma e uno strumento, come il martello nelle mani del muratore; l’unica realtà è l’opera stessa» (Il mattino dell’acmeismo).
Mandel’štam aveva un concetto corporeo della parola, distingueva «la forma interna della parola dalla parola-segno e dalla parola-simbolo» cara ai poeti simbolisti. Accolse freddamente i celebri versi di Gumilëv sulla «parola» ma senza spiegarne mai il motivo; diversamente da Gumilëv intendeva anche l’importanza del numero dei versi e delle strofe di una composizione. Infatti, usava contare il numero delle righe e delle strofe di una poesia ed il numero dei capitoli nella prosa. A Voronež, Mandel’štam assiste meravigliato alla nascita di poesie di sette, nove, dieci, undici versi che entravano in azione gli uni con gli altri fino a comporre poesie più lunghe: stava nascendo una nuova forma. Venivano alla luce di getto, misteriosamente, nuove poesie di una lunghezza inusitata.
Nelle composizioni de Il fornello a petrolio si assiste ad una peculiarissima fusione delle immagini, dei concetti e delle rime dal punto di vista dell’occhio infantile. È il nuovo tipo di sguardo che determina la nuova forma della poesia.
Le poesie qui tradotte fanno parte di un ciclo di composizioni di genere «leggero», da non intendere nel senso di «cose minori», bensì nel senso di «esercitazioni», esercizi tematici con i quali spesso i poeti provano il proprio bagaglio tecnico in relazione ad oggetti «semplici», prima facie, ma che nascondono in sé notevolissime difficoltà di costruzione e di assemblaggio. Di tale natura è per l’appunto il tentativo compiuto con le poesie del ciclo Il fornello a petrolio. Innanzitutto, un oggetto di uso quotidiano (il fornello a petrolio, il ferro da stiro, le galline «parlanti» etc.), per un interlocutore letterariamente non smaliziato: i bambini, per i quali sarebbe superfluo approntare poesie stilisticamente elevate che rimarrebbero del tutto incomprese, meglio puntare alla semplicità, mediante tecnicismi elementari ed universali che formano la base per la comprensione della poesia «alta», ossia i giochi di parole, i lapsus ed i giochi di immagini. Orbene, non si creda che un poeta del calibro di Mandel’štam voglia unicamente occuparsi di esercizi fonematici o di equilibrismi di immagini. Niente di più alieno dalle sue vere intenzioni. Il poeta russo tenta qui una vera e propria «muscolatura» delle immagini, pone in essere una ricca strumentazione di nervature interne sotto forma di gioco, di sciocchezze, di nugae. Ormai vicino alla morte, Mandel’štam in una lettera a Tynianov ci chiarisce il concetto di certa sua produzione: «È già un quarto di secolo che, mischiando le cose serie alle sciocchezze, io sputo sulla poesia russa, ma presto i miei versi entreranno in lei mutando qualcosa nella sua struttura e nel suo corpo…». C’è in queste poesie una sorta di sospensione del mondo degli adulti, dove le leggi stesse della gravità e della connessione spazio-temporale sembrano saltate. Ma non è Mandel’štam il poeta che aveva scritto: «L’uomo non è più padrone a casa sua… Tutto il vasellame si è ammutinato. La scopa chiede riposo, la pentola non vuole più bollire… Hanno cacciato di casa il padrone ed egli non osa più entrarvi?» Sì, è il poeta russo che si prova qui con il mondo degli oggetti che non obbediscono più alle leggi della fisica degli adulti. Gli oggetti sembrano essersi ammutinati.
Dunque, sciocchezze di tipo superiore, sciocchezze per l’educazione estetica dell’umanità futura. L’interesse dei poeti verso l’infanzia lo si può riscontrare, in generale, quando le sorti dell’umanità seguono momenti di criticità, e non è un caso che un poeta come Mandel’štam si rivolga ai bambini russi quale concreto «interlocutore» della poesia a venire, quando la lotta per l’imposizione di un nuovo modello di poesia è divenuta problematica e l’esito stesso, la stessa sopravvivenza della poesia nel «nuovo» mondo appariva problematica. D’altra parte, Mandel’štam non aveva bisogno di un lettore qualsiasi. Non certo che disprezzasse i lettori come detestava gli attori che solevano recitare versi in stile «trombonesco», aveva bisogno di un «interlocutore», di qualcuno che lo ascoltasse quando leggeva i versi appena composti. Ma per questo ufficio era sufficiente la moglie Nadežda. L’educazione estetica dei lettori era un concetto che lo faceva sorridere di scherno; a questo ci pensavano già i simbolisti con la loro aura sacrale, i futuristi e i lefovci con l’estetizzazione della politica. Mandel’štam preferiva parlare degli «uomini», non dei «lettori»: «gli uomini conserveranno le poesie… se ne avranno bisogno, le troveranno da soli, trovano sempre quello di cui hanno bisogno».
Nell’isola di Sevan, Mandel’štam aveva notato che le lenti del binocolo Zeiss aumentavano l’intensità del colore, lo rendevano più puro. Mandel’štam non si stancava mai di lodare le capacità di questo binocolo, finché non lo citò in una delle sue poesie più belle.
In un certo senso, l’operazione che il poeta compie in queste Poesie per bambini è di riuscire ad ottenere una poesia più immediata, ingenua, che lo conduca più in prossimità agli oggetti e ne sveli la particolare nobiltà «fisiologica»; tutto ciò senza ricorrere al alcuna nobiltà denominativa. Non per nulla Mandel’štam possedeva un acutissimo senso del tatto, come i bambini, toccare le cose lo aiutava a riconoscerle. Per lui il poeta «tocca» la forma interna degli oggetti ancor prima che questi si materializzino in parole. Il toccare lo aiutava a ricordare, ed il ricordo era lo stadio che immediatamente precedeva il vestito di parola. In queste poesie per bambini, Mandel’štam per prima cosa ricompone per lo sguardo infantile oggetti ad essi familiari, che nella vita quotidiana dell’epoca essi avevano continuamente sotto gli occhi (per esempio, il ferro da stiro incandescente che le nostre nonne ponevano sul davanzale della finestra per farlo raffreddare; il fornello a petrolio con le sue particolarità costruttive, etc.).Questi oggetti vengono animati dall’interno come se fossero delle entità viventi e parlanti: così l’elettricità è paragonata ad un «fuoco freddo» che fa illuminare la lampadina; il latte non bollito si trasforma in yogurt per via di trasmutazione quasi magica, e così via. Ovviamente, nella versione in italiano raramente è stato possibile rendere i parallelismi fonetici che stigmatizzano le trasmutazioni; cionondimeno, non tutta la freschezza e l’agilità di queste composizioni viene perduta; ciò che resta è sufficiente a farci apprezzare l’alta qualità della manifattura poetica che è alla loro base. Ad esempio, nella composizione numero dieci è stato possibile conservare la rima del testo russo con una analoga in italiano. Tanto basta a rendere lo squisito sapore dell’originale, nonché, degno di nota è il raffinatissimo nesso incrociato dei «violinisti» e dei «trombettieri» legati dalla giuntura della rima in «elle» e dall’unità di luogo e di tempo dell’azione: il mercato.
L’interesse per la poesia infantile era comune ai poeti della generazione di Mandel’štam; ricordiamo qui per inciso le poesie della bambina ucraina che Chlébnikov commentò già prima degli anni ’20, dove la ingenua «trasgressione… solleva il velo dai versi monotonamente rivestiti dal metro». Lo sforzo di Chlébnikov era orientato verso la rottura della struttura sillabico-tonica della versificazione simbolista. La trasgressione consapevole e ingenua era intesa nel senso di un recupero del parlato quotidiano. Se Chlébnikov fu il primo ad introdurre nella poesia russa le rime «marginali», prima di lui repertorio della poesia comica, un grande continuatore di questo indirizzo è rappresentato da Majakovskij e dalla rivista Novij Satirikon, nonché dal poeta umoristico Sasa Cërnyj, autore, tra l’altro, di uno splendido racconto lungo, Diario di un cane, pubblicato a Parigi nel 1926, dove il mondo degli adulti è illuminato dal riflettore del punto di vista dello sguardo infantile. Ad esempio, anche nella prosa il punto di vista infantile-ingenuo produrrà i racconti stranianti di Daniil Charms. La teorizzazione di Chlébnikov sulla lingua come di «un gioco alle bambole», così che «la parola è una bambola sonora e il dizionario una raccolta di giocattoli», fu una delle più feconde per la poesia russa. Poiché «la lingua si è naturalmente sviluppata a partire da poche unità basilari dell’alfabeto», compito del poeta per Chlébnikov sarà di riassemblare, sulla base di pochi «straccetti sonori» una lingua transmentale che si sviluppi a partire da pochi radicali con l’aggiunta di suffissi e affissi, in direzione di un linguaggio «stellare», «pentaraggiale», universale, dove i tradizionali nessi semantici e sintattici si affievoliscono per far posto ad un nuovo processo di etimologizzazione e semasiologizzazione dei testi. Se in Chlébnikov è uno sguardo infantile che osserva la lingua, in Mandel’štam lo sguardo infantile costruisce gli oggetti. Mandel’štam invidiava nei bambini quella loro particolare attitudine ottica che permette loro di ricostruire, da oggetti immobili gli oggetti in movimento; impadronirsi di questa facoltà avrebbe significato una grande acquisizione per un poeta. Affinare la facoltà ottica e tattile significava poter padroneggiare in misura eccelsa gli oggetti, riconoscerli in ogni loro istante, riuscire a rappresentarli in modo più icastico, completo. Per Mandel’štam i cinque sensi erano una «finestra sul mondo», in particolare, la vista ed il tatto, i più sublimi; facoltà che nell’uomo moderno erano ormai in declino. Tratti infantili erano presenti anche nella personalità di Mandel’štam, il quale era solito vantarsi, dinanzi all’Achmatova, delle prodigiose capacità della propria vista, e di frequente, per le strade di Pietroburgo, sfidava la amica poetessa a chi leggeva per primo il numero dei tram in arrivo. La moglie di Mandel’štam fungeva da arbitro. Con grande scorno di quest’ultimo, vinceva sempre la Achmatova. Mandel’štam era solito chiamarla la «piccola vespa», si era convinto della suprema acutezza della vista della Achmatova e la ammirava. Nessuno riusciva a capire perché mai Mandel’štam frequentasse assiduamente il museo zoologico di Pietroburgo: per sfogliare libri e studiare la struttura della vista di uccelli, insetti, lucertole, mammiferi. Fu così che «l’occhio sincipitale» degli insetti entrò in una delle sue poesie più alte. Mandel’štam era convinto che i bambini vedessero meglio e più in profondità degli adulti, fu per questo che intraprese a scrivere un ciclo di poesie per bambini, per tentare di impadronirsi di questa suprema capacità visiva. Era convinto che per poter costruire una grande poesia fosse necessario riconoscere gli oggetti in modo sintetico e diacronico, con sguardo plastico ed animistico, con occhio parallattico e sincipitale.
Risposta all’inchiesta “lo scrittore sovietico e l’ottobre” inaugurata dalla rivista “Citatel’ i pisatel’” (Lettore e scrittore) del 1928
La rivoluzione di ottobre non ha potuto fare a meno di esercitare un’influenza sul mio lavoro, poiché mi ha tolto la «biografia», la sensazione di un significato personale.
Le sono grato per aver posto fine una volta per sempre alla sicurezza spirituale e al vivere di rendita culturale… Mi sento debitore della rivoluzione, ma i doni che le offro non le sono, per ora, necessari.
La domanda su come debba essere uno scrittore, mi è del tutto incomprensibile: per rispondere dovrei inventare uno scrittore, il che significherebbe scrivere le sue opere in sua vece.
Sono altresì profondamente convinto che, sebbene gli scrittori dipendano dai rapporti di forza sociali e ne siano condizionati, la scienza moderna non possegga alcun mezzo per evocare la comparsa di questo o quell’autore che ritiene auspicabile. Dato lo stadio embrionale dell’eugeneutica, gli incroci e gli innesti culturali possono dare i risultati più inaspettati. È invece possibile una produzione in massa dei lettori. Per questo esiste un mezzo diretto: la scuola.
Mandel’štam aveva compreso un fatto fondamentale: che per fare poesia occorre ritornare ad avere uno sguardo, in un certo senso, «infantile» (dizione di Mandel’štam), che occorre ripristinare uno «sguardo sincipitale» (dizione di Mandel’štam) delle api e delle lucertole, e «stereometrico» (dizione di Mandel’štam), che occorre vedere la «parola» (del linguaggio poetico) dall’interno e dal di fuori, da destra e da sinistra, dall’alto e dal basso ((dizioni di Mandel’štam)… e che questa particolare attitudine del linguaggio umano e di quello poetico è una attitudine naturale… soltanto le stratificazioni culturali ottundono lo sguardo costringendoci ad un VEDERE istituzionalizzato ed omologato.. La poetica dell’acmeismo, nelle intenzioni del poeta russo mirava a mettere in risalto le cose non solo perché esse sono cose in senso ontologico ma perché le cose nel linguaggio sono altra cosa dalle cose in sé. Mandel’štam diceva che «bisogna considerare la parola come un fascio, ed il significato si stacca da esso in varie direzioni senza però dirigersi verso alcun punto ufficiale».
Straordinaria e acutissima intuizione.
A Valerio Magrelli
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Ciò che scrive il Linguaglossa nella presentazione è ben scritto, così anche l’Intini.
Se la digressione un po’ lunghetta riferita al poeta russo “Mandel’stam” del Linguaglossa la accetto è perché serve a meglio comprendere i versi del Magrelli, e in qualche maniera è stata utile.
I versi del Magrelli, diversamente da quelli del passato, sono più accattivanti e direi innocenti, poiché della innocenza dei bambini in essi si narra con spigliatezza e dolore. Come non mai in passato questi versi, di questo autore, mi sono gradevoli a leggerli con tanta amarezza però, perché intorno ci sono rovine e morte e la neve tante volte ripetuta come parola non “attutisce” (termine ricorl poeta) affatto la sgradevole visione di tanta distruzione, realizzata a tavolino dalla cricca spietata che domina sul\e il Cremlino. E come so da innumerevoli libri :“tutto ciò che si crea nel Cremlino nel Cremlino perisce”, ed è ciò che spero al più presto avvenga.
Non solo i bambini viventi chiedono con le loro manine a mò’ di preghiera giustizia fin tanto sono ancora viventi, ma sono quelli già morti violentemente che per diritto la vogliono, e non certo con occhi in pianto – le loro lacrime sono evaporate – ma la vogliono con determinazione.
Non so cosa diranno i carnefici di INPUT ai bambini russi un giorno, come sarà raccontata la storia, ma so per esperienza diretta e per studio che ancora una volta la menzogna trionferà, perché fin da adesso , in questi giorni, vogliono i boia far passare questa guerra per guerra “patriottica” (non ne ha affatto le caratteristiche: tra l’altro una guerra patriottica non si serve di mercenari!).
E’ sconfortante vedere come la guerra fra cristiani (e non è la prima volta!) sia così spietata e crudele; giustamente la madre di Elias Canetti scrisse che “le guerre sono il fallimento di tutte le religioni”.. e questa guerra ha anche aspetti fortemente religiosi: sappiamo il comportamento del patriarca moscovita che aizza a guerreggiare contro la chiesa ucraina: c’è tutto un passato secolare che spiega questo comportamento.
E la cosi detta “missione speciale” messa in atto da INPUT non è una cosa nuova, affatto! -: questa missione speciale veniva messa in atto già al tempo degli zar con le stesse parole.
E definire INPUT zar è una mistificazione “occidentale” di questi tempi.
Ma tornando ai versi del Magrelli qui sopra presentati devo dire che meritano tantissima diffusione specie tra i bambini e i giovani in generale, e soltanto un premio importante e serio ha il potere di diffonderli ovunque, e dunque sia premiato al più presto questo libro; e non come spesso è accaduto per poca serietà di premiare schifezze come l’ultimo premio Strega ha fatto.
Antonio Sagredo
caro Antonio Sagredo,
perdersi nel linguaggio come un oggetto, come scrive Lacan, è un utilissimo suggerimento che darei a tutti gli autori di poesia. Provate a leggere le vostre poesie a dei bambini, se rideranno, vuol dire che la poesia va bene, se rimarranno muti o interdetti vorrà dire che è mera letteratura. Mandel’stam era andato a scuola dai bambini, aveva loro rubato il segreto della inventività verbale, come mettere le parole traslate nel luogo “sbagliato”. Il segreto della poiesis è tutto qui. Mettere le parole nel punto “sbagliato”.
24 febbraio 2022
Valerio Magrelli – Sangue amaro
Alfonso Berardinelli, da Il Foglio 22/03/2014, 22 marzo 2014
TUTTI GLI SFORZI DI MAGRELLI PER CONVINCERSI DI ESSERE POETA
Preferisco essere truffato da un bottegaio che da un finto poeta. Per questo ogni dieci, quindici anni, non molto spesso e senza accanimento, sento il bisogno di dire qualcosa sul poeta Valerio Magrelli, che ci aiuta a capire la situazione della poesia, nonché della critica italiana e a me fa subito venire in mente il solito, abusato Karl Kraus, secondo il quale gli scrittori si dividono in due categorie: quelli che lo sono e quelli che non lo sono. Per legge di natura, la seconda categoria è prevalente, cresce e prospera, mentre scovare qualche esemplare della prima, quella dei poeti che lo sono, è un’impresa ardua e poco remunerativa: se lo fai, rischi di condannare una maggioranza e fai la figura del “rosicone” e del “malmostoso”, aggettivi che piacciono molto ai lodatori del “così è, così è bello” e a tutti coloro che, per dubbie ragioni, si sentono invidiabili. Dopo un silenzio di otto anni (segnalato in copertina), silenzio che vorrebbe far pensare alla ventennale afasia poetica di Paul Valéry, esce ora di Magrelli una nuova e accuratamente confezionata raccolta di poesie intitolata amaramente Il sangue amaro (Einaudi, 2014).
Magrelli non è uomo che ami attriti e conflitti, si tiene reticente e prudente ed evita finché può le fonti di amarezza e tutto ciò che lo può danneggiare. Dato che è (come è) il più abile e laborioso promotore di se stesso che si incontri oggi nella poesia italiana, mestiere nel quale si è lasciato indietro chiunque altro, perfino Maurizio Cucchi, ormai quasi dimenticato, Magrelli dovrebbe rivelarci in questo libro che cosa lo affligge e lo amareggia. No, la ragione, letto il libro, resta oscura. Al posto di ragione e senso, c’è in Magrelli un incolmabile vacuum. Ma se la causa appare oscura, chiari e visibili sono gli effetti. Si vede che Magrelli ha una gran paura di non esserci, di non consistere, e cerca di rimediare intensificando le dediche, le epigrafi, i riferimenti, le allusioni, gli appigli, gli agganci, i salvagente. In questo libro il salvagente più esibito sembrerebbe niente di meno che il Kierkegaard di Timore e tremore (debitamente segnalato in quarta di copertina).
Già. Magrelli teme e trema e va in cura dal Socrate di Copenaghen. Avendo sempre avuto l’epigrafe facile e comoda (cita ma non sembra aver letto) Magrelli allunga le mani su tutti gli autori di prestigio, quelli che al momento fanno chic, creano consenso, circolano nell’ambiente. Vent’anni fa osò prendere epigrafi da Simone Weil e da Auden per mettere in salvo un paio di poesiole che un autore dotato di pudore avrebbe fatto sparire nel cestino. Per , diavolo!, su quei versicoli da niente c’erano i nomi di Simone Weil e di Auden e quindi (si era detto l’autore) sono al sicuro: chi mi legge penserà che sto pensando ai massimi livelli, penserà di aver letto qualcosa che in qualche modo avrà a che fare con due degli autori più intelligenti del Novecento. Magrelli gioca e punta infatti a fare il poeta intelligente, il poeta di pensiero. Sulle scatolette verbali che ci offre ci sono le etichette con tanto di nomi-garanzia. Per dentro il pensiero non c’è. Dunque, dov’è il Kierkegaard annunciato in copertina? Cerchiamo Kierkegaard… Le dediche e le evocazioni a vuoto arrivano subito.
La prima poesia si mette sotto l’ombrello di Watteau. La seconda è dedicata a Pagliarani. La terza di dediche ne ha due, a Sanguineti e a Cortellessa. La quarta nomina ripetutamente, in anafora, Schwitters. La quinta fa il nome di Beuys. Seguono due dediche a Pino Varchetta e a Stefano (Giovanardi). E così si chiude la prima sessione. Con la seconda sezione, subito due epigrafi, una da Chateaubriand (che fu rilanciato da Garboli) e una da Montaigne (tutta la città ne parla). Si affaccia un Babbo Natale che qui è definito “gnostico”, come Ceronetti, Calasso e dintorni (farseli amici aiuta). Si notano alcune litanie in rima. Tornano anche, come di dovere, Gesù e Dio. Ne parlano tutti, la chiesa ha ipnotizzato i laici, Papa Bergoglio ha fatto sembrare l’ateo Scalfari un povero ingenuo pieno di pretese. Subito dopo si fa il nome di Gutenberg (il precursore di Steve Jobs!) con un’epigrafe assurda dall’assurdo Jarry.
Le rime ora abbondano. Magrelli ha scoperto il verso regolare e la rima, e si mostra artifex. Una di queste rime sembra anzi un lapsus di quelli che pugnalano alle spalle e dicono tutto del nostro poeta: la parola “poesia” viene fatta rimare con la parola “burocrazia”. E dunque, almeno su se stesso, qui Magrelli dice la pura verità. Ma ecco la terza sezione. Il suo titolo suona impudicamente “Timore e tremore” come quello di Kierkegaard (più avanti si parlerà di “tremarella”). Dunque siamo arrivati al filosofo usato per tenere in piedi il libro come libro di pensiero. Ma Kierkegaard non basta ancora all’autore, che aggiunge due epigrafi sulla paura, una di Kafka e una di Hrabal.
La paura, il timore, il tremore. Le muse di Magrelli? Ma paura di che? Paura di non esserci, sempre quella? Paura del (proprio) vuoto che si fa minaccioso come mai prima? Questo vuoto va riempito e tutto va bene. È citato l’immancabile “spread” ma poi arriva un’altra rivelazione: a Magrelli viene in mente di fare un po’ à la manière de Patrizia Cavalli e nomina una dea. Ma quale? La dea “dell’Assenza e del Vuoto”. Dov’è finito Kierkegaard? Magrelli lo ha citato e la cosa finisce lì. Quarta sezione, altre due epigrafi: Agostino (che io chiamo sant’Agostino) e naturalmente Zanzotto, che va sempre bene. Perché sprecarsi a citare, non so, Giudici o Sereni? Titolo della sezione: “La lettura è crudele”. Cioè? Io credo che qui Magrelli abbia nominato la cosa di cui ha più paura. Per un poeta che non c’è, la lettura di qualcuno è un rischio, una minaccia, una vera crudeltà. Se qualcuno davvero leggesse, capirebbe crudelmente con che cosa ha a che fare: con il nome di qualcosa in assenza della cosa.
Vado avanti. Dopo qualche dubitosa moina, risulta che l’autore non sa perché scrive (come se qualche poeta l’avesse mai saputo). C’è una poesia dedicata a Henri Beyle, in arte Stendhal (stare in buona compagnia facendo nomi, costa poco). Un’altra poesia reca un’epigrafe da Wallace Stevens (Nadia Fusini lo stava traducendo per Adelphi, bel colpo). Un discreto sonetto è dedicato a John Donne, come dire: anche io, Magrelli, in fondo sono, come lui, un poeta metafisico che mette insieme le idee e la materia, come dimostra, ricordate?, quel mio titolo: “Nel condominio di carne” (un po’ ripugnante, no?).
C’è una lunga poesia sul rumore che fa l’asciugacapelli. Un’altra parla di “milioni di sinapsi” che lo scrittore non sa con quali pensieri nutrire (è proprio così: con quali pensieri?). C’è una poesia dedicata a Roland Barthes in cui si dice che la musica è “il Sempre-uguale” mentre (come sappiamo tutti) è vero il contrario. Poi arriva Tot , poi i giovani senza lavoro, poi la Thyssen con epigrafe da Tucidide, poi arriva Platone, poi, poi… Non se ne può più. Come in altri più drammatici casi, il problema non è Magrelli ma chi ci crede. E’ chi lo studia ma non lo legge (si usa). Io non vedo un poeta, vedo gli sforzi di Magrelli per convincersi, per convincere di esserlo. Il risultato, benché minimale, è per lui fondamentale, è la scritta che compare accanto alle sue foto: Valerio Magrelli, poeta. Essere nominalmente poeta, questo vuole e questo gli basta. Per questo, ha la passione dei nomi, e basta.
Ecco qui un inedito in italiano, una poesia per bambini di Iosif Brodskij, un autentico gioiello, traduzione di Donata De Bartolomeo
SANSONE, IL GATTO DI CASA
Il gatto Sansone è registrato in centro (ha la residenza?)
nel vicolo vicino alla chiesa.
E’ grazioso e nullafacente.
Di natura è spensierato.
E, mentre noi scriviamo in classe,
si aggira sui tetti
come una stella nel firmamento.
Ma quando il tempo è piovoso,
rifiutandosi di passeggiare,
guarda agli accadimenti nel vicolo
con espressione indifferente
dalla finestra del suo appartamento.
Ecco, si è arrampicato sul davanzale.
Un colonnello cammina per strada.
All’occhiello ha una pistola.
Lungo il vetro vola una moschina.
Riflettendo sui verbi,
i bambini corrono lungo la scuola.
Troppo simile ad uno gnomo
un vecchietto – da un negozio di alimentari
trascina una sporta della spesa, piena zeppa.
Che ci sta là, nella sporta? Prosciutto?
Non si capisce, per quanto mi sforzi!
Nel cielo – otto colombi.
La sera, calando, ha sfiorato l’acero.
Il gatto fa le fusa, sprofondando
In fantasie confuse.
Ogni occhio è come una foglia di betulla.
Fornito di alloggio per la notte,
prova compassione per i colleghi:
quello – si beve un po’ d’acqua dalla fogna (scolo?),
quello – ha cenato nella spazzatura,
quello – si è fatto un pisolino di una mezz’oretta,
quello – si salva da un cane,
quello – è completamente malato per il freddo…
A tanti, miaooo, va sicuramente peggio…
Non posso aiutarli tutti…
Perché presto fa notte…
Questo supera le mie forze…
Perché…ho voglia di dormire…
Il fenomeno delle spie luminose dove mancano
dati sulla materia.
Sillabare Salsicce alla brace,
Code radianti.
Amici soldati in trincea.
LMT
Il sorriso del carceriere.
Grandi città.
Tappeti universali.
Il barboncino cinese.
LMT
mia proposta per bambini