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Salvatore Martino, Aforismi testamentari,  Nota di lettura di Giuseppe Talìa, la fedeltà ad un proprio statuto di poeta 

Foto Come arredare una parete bianca e noiosa

Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel 1940, nel cuore più segreto della Sicilia, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra (1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). Ha ottenuto i premi Ragusa, Pisa, Città di Arsita, Gaetano Salveti, Città di Adelfia, il premio della Giuria al Città di Penne e all’Alfonso Gatto, i premi Montale e Sikania per la poesia inedita. Nel 1980 gli è stato conferito il Davide di Michelangelo, nel 2000 il premio internazionale Ultimo Novecento- Pisa nel Mondo per la sezione Teatro e Poesia, nel 2005 il Premio della Presidenza del Consiglio. Nel 2014 esce con Progetto Cultura di Roma, in un unico libro, la sua produzione poetica, Cinquantanni di poesia. È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010  con la direzione di Sergio Campailla , insieme a Fabio Pierangeli ha tenuto un laboratorio di scrittura  creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008, un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.

Nota di lettura di Giuseppe Talia

Essere fedeli a se stessi. Cosa significa oggi la fedeltà ad un proprio statuto di poeta? È una domanda principe. È la domanda che si dovrebbero porre i nuovi o vecchi poeti generazionali, i quali, a dispetto della storia letteraria della seconda metà del ‘900, con lo spartiacque generato da Montale con Satura (1971) e Pasolini con Trasumanar e Organizzar (1971)  e l’avvento di Alfredo de Palchi con Sessioni con l’Analista (1967)  sulla scena poetica, non hanno avuto altri modelli che le così dette scuole minimali milanesi e romane di Milo de Angelis e di Valerio Magrelli.

Possiamo solo immaginare, e immaginiamo bene, le reazioni di Salvatore Martino agli ultimi due nomi di cui sopra. Martino, che per tutta la sua vita di attore/poeta ha sempre dedicato la sua ars poetica ad un ideale estetico rigoroso, basti pensare alle centoventidue sbarre dell’auto-consapevole prigione “azzurra” del sonetto in cui il poeta indaga, nella forma regolare di terzine e quartine, la Meditatio mortis della poesia di fine secolo. Chiude il cerchio del ‘900,  dopo aver cercato di ri-fondare Ninive con la maestranza e l’alto valore etico-estetico in un “atto fondativo”, il riconoscimento di elementi formali e materiali attraverso apposite norme giuridiche di poiesis.

Un tipico esempio di narrazione nevrotica La Fondazione di Ninive, di letteralizzazione della nevrosi, una variegata tassonomia di isterismi, di cortocircuiti del sistema nervoso in generale, in cui il tempo interno (E poi starsene a ragionare… Se sapessi quanto fu lungo…) e il tempo esterno (Quando/piove strade…) si accavallano, si avvicendano l’uno all’altro come il lampo e il tuono.

Scrive Donato di Stasi nella introduzione alla Fondazione di Ninive, “Ardente di classicità, Salvatore Martino continua a occuparsi del regno della crudeltà, indagando la fondazione della capitale assira, Ninive, giocando una straordinaria partita spazio – temporale sulle ceneri della Storia e della civiltà umanistica.

E quando un Poeta arriva, dopo un lungo percorso, a distillare dal magma di una vita dedicata alle Muse, poesie che concentrano tutta l’energia e tutti i raggi nella kora spettroscopica, allora il lettore consapevole non può esimersi dallo scandaglio che misuri non solo la profondità ma anche lo spessore degli strati,  dei sedimenti e  dei processi  che agiscono nella costruzione del sé poetico.

La massa ha finalmente rapito la poesia
e cosi ci hanno sconfessati.

 Questa silloge inedita di Martino è un lascito testamentario, un manoscritto ritrovato nella sabbia:

“Anche se l’errore è sempre dietro l’angolo, ignotum per ignotius, per insidiare una improbabile conoscenza di dare un nome all’amore, gettò le sue mani dentro il Nulla.”

Salvatore Martino in pensiero

Salvatore Martino

Giorgio Linguaglossa

2 febbraio 2018 alle 9.59

Non c’è dubbio che Salvatore Martino sia stato un poeta che non ha goduto della «visibilità» maggioritria, e pensare che si tratta di un autore di lunghissimo corso, il primo libro, Attraverso l’Assiria, risale al 1969, si tratta di cinquanta anni di poesia, ma è anche indubbio che anche poeti di alto livello come Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher nel secondo novecento hanno goduto di scarsissima considerazione. Il problema posto, quindi, può essere derubricato a non problema, poiché L’Ombra delle Parole non considera tra i suoi criteri di valutazione quello della «visibilità». Per noi tutti i poeti partono, alla staffetta, su un piano di parità ontologica. La differenza la fa la valutazione estetica, solo quella. Certo, è da dire che la poesia italiana dagli anni sessanta non ha aiutato Salvatore Martino nel suo tragitto verso la «poesia», anzi, gli ha frapposto ostacoli, stilistici, politici (di politica estetica), estetici… una lunga storia che il pezzo introduttivo di Mario Gabriele ha fotografato con precisione.

È senz’altro vero quello che scrive Mario Gabriele: «I poeti del Sud, in un certo senso, si sono autoemarginati con la loro poesia, minoritaria e monotematica, legandosi al paesaggio e agli affetti familiari, saturando l’ambiente, tra realtà e mito, all’interno della cosiddetta “civiltà contadina”», ma è senz’altro vero che la rivoluzione del ’68 in Italia ha visto la poesia italiana in una posizione di sfruttamento del demanio, i poeti si sono fatti una casa propria e si sono auto dichiarati poeti, l’antologia di Berardinelli e Cordelli Il pubblico della poesia (1975) fotografava con precisione questa nuova realtà dei «poeti massa» e dei «poeti di fede», che si auto nominavano «poeti» senza aggettivi… mi correggo: con una miriade di aggettivi qualificativi.

Ecco, siamo arrivati al punto dolente: L’impiego degli aggettivi e degli attanti concreti. Se chiedete ad un poeta italiano come si regola dinanzi a questa cosa qui al massimo ti guarda come un marziano.
Il fatto è che ben pochi poeti del secondo novecento si sono posti il problema della de-fondamentalizzazione della «forma-poesia» (intendo dire delle ripercussioni che tale fenomeno ha avuto all’interno della forma-poesia), fenomeno intervenuto in Europa (non so in America ma mi sembra che li le cose non siano state diverse). Ecco una serie di problemi: che cosa significa decostruzione in poesia? Che cosa significa la dis-locazione dell’io? Che cosa significa dis-locazione dell’oggetto? – Ecco, un poeta che non si pone questi problemi è un «poeta di fede», dobbiamo credergli sulla parola, dobbiamo credere che lui sia veramente un poeta anche se non capisce niente di che cosa significa la tridimensionalità in poesia e il quadri dimensionalismo in poesia. Come disse una volta Brodskij: «dal modo con cui metti un aggettivo capisco che tipo di poeta sei».

Non c’è dubbio che Martino metta gli aggettivi in un modo consequenziale e qualificativo, ovvero, unidirezionale come gran parte della poesia italiana del secondo novecento, ma io mi chiedo sempre più spesso se non ci sia un altro modo per infilare nel verso gli aggettivi e i sostantivi, se, insomma, non ci sia una diversa ontologia estetica delle parole, se insomma, i tempi non siano maturi oggi per un Cambiamento radicale del paradigma poetico nella poesia italiana.

Salvatore Martino, Inediti (2018-2019)

Mi chiedono talvolta
perché porto due cerchi d’oro
nella mano sinistra
la mia fedeltà al teatro
– gli rispondo –
la fedeltà alla poesia Continua a leggere

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Poesie di Lidia Popa, Marina Petrillo, Valerio Magrelli, Alfonso Cataldi, Edith Dzieduszycka – La struttura del distico, Il distico tra Logos e Phoné, il Quadridimensionalismo, il Kitsch, con il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

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La struttura del distico è la più elementare struttura relazionale

Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

La struttura del distico

La struttura del distico è la più elementare struttura relazionale, è la base di tutte le altre strutture, è anzi la superstruttura che tutto struttura. All’interno delle due linee, c’è il vuoto, quel vuoto che «sostiene» le linee delle parole. Voglio dire che può scrivere in distici soltanto chi percepisce nitidamente la presenza del vuoto tra le due linee. Soltanto un poeta della nuova ontologia estetica può avere quella sensibilità che gli permette di scrivere in distici, perché lui sa per istinto, percepisce per istinto la presenza del vuoto.

Così ho scoperto che moltissime tra le mie poesie riuscivano molto meglio se le suddividevo in distici perché con quella struttura il testo acquistava maggiore leggibilità e forza polisemantica, e mi erano più chiare anche le zeppe o le parole di troppo che avevo messo in precedenza; in sostanza, la struttura mi forniva la guida per la iscrizione delle parole, una guida molto più funzionale di altre strutture che invece mi complicavano la scrittura e non mi permettevano di distinguere là dove avevo detto troppo o troppo poco. E così ho scoperto che il distico mi forniva un regolo formidabile.

L’effetto di straniamento è l’esercizio spirituale del poeta della nuova ontologia estetica, accondiscendere attivamente alla pratica dell’effetto di straniamento sancisce la ingovernabilità dello stato di estraniamento permanente, un vero e proprio abito di vita, una pratica ascetica di vita.

Il distico tra Logos e Phoné

In sostanza, a mio avviso, chi adotta il distico (Mario Gabriele mi corregga se vado fuori binario), lo fa nella piena consapevolezza di impiegare una forza impositiva, astringente, costrittiva che esercita pressione sulla libertà e la sregolatezza della «voce», la quale invece è una forza dirompente, esplosiva, che tende a rompere, spezzare la pressione che il distico esercita con il semplice fatto della presenza della «gabbia».

Scrivere in distici implica la coscienza di mettere in competizione due forze contraddittorie e divergenti, implica la scommessa che le forze in competizione trovino un punto di equilibrio, sempre mutevole e sempre temporaneo, punto di equilibrio quindi fragile, precario. Sono quindi portato a pensare che una tale struttura sia particolarmente adatta a filtrare i contenuti stilistici (gli spezzoni stilistici) del post-post-moderno (non saprei come chiamarlo in altro modo), spezzare l’andamento elegiaco di cui purtroppo è zeppa la poesia italiana di questi ultimi decenni.

Gli elegiaci e i neo-veristi nostrani invece non hanno alcuna consapevolezza del problema costituito dal plesso storico delle forze stilistiche in competizione; letteralmente: non vedono il problema, e quindi procedono dritti verso l’elegia e verso la poesia direzionata dall’io con una sensibilità monocorde e acritica.

Non dico che la struttura in distici sia l’unica struttura a nostra disposizione, dico solo che è una struttura «regolativa», «normativa», «pattizia» che, per esistere, ha bisogno della forza contraria costituita dalla «voce» (la phoné). Il Logos per esistere ha bisogno della phoné, ma è vero anche il contrario. Il poeta dotato di senso critico e di senso storico non può sottrarsi alla sfida della complessità che le due forze in competizione gli offrono. La nuova ontologia estetica non fa altro che sondare le possibilità espressive che si dischiudono con questo modo di intendere la struttura regolativa del distico.

Il factum loquendi, il mero fatto che qualcuno parli in una lingua o in un’altra, è un fatto misterioso, che non può essere spiegato ma deve essere dato per presupposto. Se si dà il factum loquendi ciò implica che vi sia un soggetto parlante, solo la voce, la phoné può dar luogo al factum loquendi, la phoné significante, non il puro suono, il suono animale, il quale non significa nel senso del linguaggio umano.
Il factum loquendi che avviene in poesia comporta il fatto che qualcuno parli e che parlando un linguaggio esso non significa propriamente quella cosa che indica perché il linguaggio poetico mostra ma mai indica, come avviene invece per il linguaggio referenziale. Il linguaggio poetico mostra il factum loquendi di un mondo che si apre alla comprensione.

Riprendo la poesia di Valerio Magrelli (da Sangue amaro, 2017) postata sopra da Gino Rago quale esempio di Kitsch:

“La Minetti platonica avanza sulla scena
composto di carbonio, rossetto, silicone.
Ne guardo il passo attonito, la sua foia, la lena,
io sublunare, arreso alla dominazione

di un astro irresistibile, centro di gravita
che mi attira, me vittima, come vittima arresa
alla straziante presa della cattività,
perché il tuo passo oscilla come l’ascia che pesa

fra le mani del boia prima della caduta,
ed io vorrei morirti, creatura artificiale,
tra le zanne, gli artigli, la tua pelle-valuta,

irreale invenzione di chirurgia, ideale
sogno di forma pura, angelico complesso
di sesso sesso sesso sesso sesso.”

È chiaro che qui l’autore si ferma al «dicibile», tutto ciò che il componimento dice, lo dice subito e lo capiamo subito. Tutto è stato «detto», non è rimasto nulla al di fuori del «detto». A fine lettura abbiamo la sensazione di aver compreso tutto e che nulla sia rimasto inespresso, come accade per un articolo di giornale che, una volta letto, possiamo tranquillamente voltare pagina. Il componimento di Magrelli è Kitsch in questo senso, non va e non pensa neanche di andare oltre il «dicibile» perché non sospetta che vi sia un altro «dicibile» che non è ancora stato «detto».

…però, nel concetto di lékton degli stoici, del «dicibile», vi è compreso anche l’«indicibile», perché altrimenti, se tutto ciò che è «dicibile» equivalesse al «detto», non ci sarebbe più bisogno della lingua, essendo tutte le cose già dette confluite nel detto e, quindi, nel dicibile. Ma siccome non tutto il «dicibile» è composto dal «dicibile» ma comprende anche un quid di «indicibile», ecco che appare chiarissimo questo nostro concetto di «dicibile» che comprende anche una quota di «indicibile», altrimenti la lingua, anzi, il linguaggio, cesserebbe semplicemente di esistere. La voce, la phoné, può aver luogo soltanto dal togliersi del linguaggio. Il sorgere della voce è il togliersi del linguaggio. «Noi parliamo sempre all’interno del linguaggio e parlando di questo o di quell’argomento, predicando qualcosa di qualcosa, dimentichiamo ogni volta il semplice fatto che ne stiamo parlando. Nell’istante dell’enunciazione, tuttavia, il linguaggio non si riferisce a nessuna realtà lessicale né al testo dell’enunciato, ma unicamente al proprio aver luogo. Esso fa riferimento soltanto al suo aver luogo nel togliersi della voce, si tiene in relazione negativa con la voce che, secondo il mito, sparendo, gli dà luogo. […] Dove voce e linguaggio sono a contatto senza alcuna articolazione, là avviene un soggetto, che testimonia di questo contatto. Il pensiero che si rischia in questa esperienza deve accettare di trovarsi ogni volta senza lingua di fronte alla voce e senza voce di fronte alla lingua».1]

La poesia, l’arte, si occupano in primissimo luogo di percepire e dire, per il tramite della voce, nel «dicibile» quella quota di «indicibile» che è già nel linguaggio. È ovvio che la finalità della «nuova poesia» sia quel «dicibile» che comprende in sé una maggiore quota di «indicibile», dare voce a quell’«indicibile» che appartiene al «dicibile». La poesia deve arrischiarsi di giungere in quel punto dove la voce viene meno, soltanto allora potrà trovare la sua lingua, soltanto in quel togliersi della voce la poesia potrà trovare la sua lingua.

1] G. Agamben, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata, 2016 p. 45

Ecco una poesia di Marina Petrillo che si inoltra nei segreti della nuova ontologia estetica, che pur resta fedele ad una tradizione poetica novecentesca di alta ascendenza, che pur tenta di dare voce a qualcosa che sembra essere al di là della voce, al di là del dicibile.

Marina Petrillo

Come fosse digiuno della mente
il perseverante fluire in divina forma
scissura dello Spirito
colto in metafisica roccia.

Non teme alcuno sforzo
il pallido pensiero
se vigile trasecola in alto spazio
sino a giungere al limite sognante.

Io diffuso ad Uno.

Lì giunge il morituro Ego
ad irrorare l’esteso campo delle Anime Uniche
piccole erbe vegetate in temporali estivi
brevi singulti adiacenti
il vuoto transito ad altra sponda.

Partenogenesi in siderea notte
delle cui stelle in vacuo solco
non permane chiarore.

Riprendo la poesia di Alfonso Cataldi postata sopra, con una chiarissima impronta NOE e in distici:

Alfonso Cataldi

«Con monete sonanti… » suggerisce SwiftKey
ma non prosegue – consapevolmente –

Nel cuore della nascente incisione si festeggia l’originalità.
Lontano dalle mura è giusto che si paghi?

La comunità ha l’imbarazzo della scelta
«Chi di però perisce, di però ferisce.»

Ruth è schiacciata dai pensieri laterali
dà il suo primo bacio al ghetto, a un giovane radical chic.

In un caffè di Sderot Rothschild
Rosanna si mette le mani nei capelli

ha tagliato la frangia e se ne compiace
spiega a un militare già vestito per il fronte

la startup che misura la caducità di Amos Oz
e l’arte necessaria alla ricerca dei finanziamenti.

«Quick, get up, Open The Post
and find the last self-evidence.»

Anche in questa poesia di Lidia Popa è avvertibile il tentativo di andare oltre il «dicibile», riuscendoci in notevole misura!

Lidia Popa

Dall’oblio, una colpa o forse una maledizione

Se ti manca un punto o una virgola
per favore, scrivi con la mente quando mi leggerai.

Non farmi colpa per gli occhiali
quelli che ho dimenticato sul tavolino sotto il portico.

Hanno lasciato che gli occhi si contrattassero con le ombre
ritoccando le pareti in cerca di una rima.

Si ritroveranno in un verso bianco
al braccetto con la luce delle iridi

Non si vogliono in attesa.
Un unicorno mostra la via.

La poesia non ha il corpo di fata,
accelera come una nebbia attraverso i secoli.

Fa una reverenza al giorno come una croce di legno
galleggiando sull’acqua, si consuma, diventa una riva.

Dalla costa crescono radici e rami,
sui rami una maledizione di testi.

Per sapere chi eri. Per sapere chi sei.
Quando l’eternità ti chiederà di scioglierti insieme a lei.

Edith Dzieduszycka

La statua

Una statua un’alta statua
scagliata
di pietra sgretolata fu scoperta
eretta sulla punta del molo nell’alba d’un mattino

Arrivata in segreto senza destar sospetto
Come? Perché?

Una statua sporca una statua livida

Non guardava il mare
ma nemmeno avanti verso le case
mute sulla soglia del borgo

Graffiata e sbrecciata faceva quasi pena
un uccello posato chi sa se cieco

Dentro il suo petto
nessuna luce a tramutarla in faro

Forse verrà coperta con un mantello nero

Arrivò tante gente a strisciarle intorno
ad accarezzarla
perfino a baciarla

Non era la Madonna
non piangeva nemmeno
il volto a malapena senza corona

Disse qualcuno
“Proviamo a girarla così che veda il mare”

Si misero in undici una squadra di calcio
da quanto era pesante

Ma durante la notte
come se niente fosse
si era rivoltata

Per non vedere il mare
sporco più di lei.

*

Riprendo qui di seguito il pensiero sconcertato di Salvatore Martino. Ed io comprendo benissimo il suo stupore, ormai la distanza tra la poesia della nuova ontologia estetica e quella di derivazione novecentesca è diventata abissale:

Evidentemente io sono sceso nel rimbambimento della tarda età se non riesco ad avvicinarmi a questi versi, mi appaiono come statements, asserzioni in una stesura sintattica di assoluta monotonia. La meraviglia è nel leggere l’entusiastico commento di Linguaglossa, che mi lascia perplesso. Ma probabilmente è colpa della mia completa inettitudine a comprendere questo straordinario nuovo linguaggio. Finora mi sembrano parole prive di qualsiasi fascino, non dico emozionale, ma nemmeno tali da commuovere un procedimento di intelligenza positivo, un barlume di trasmissione di pensiero per il povero lettore non aduso alle alchimie della nuova estetica. Non credo che Eliot e tantomeno Ezra Pound sarebbero colpiti da codesti versi..

(S. Martino)

quadridimensionalismo
da https://analiticimpertinenti.wordpress.com/2015/02/23/il-paradosso-del-divenire/

«Che tipo di mondo abbiamo davanti ora? Un mondo strano: il pc che avete davanti adesso, per esempio, non è tutto il vostro pc, ma solo una parte: la parte di pc che c’è in questo momento. Il vostro pc è un oggetto esteso nel tempo così come è esteso nello spazio: non attraversa “tutto intero” il tempo, ma è letteralmente “disteso” nella dimensione temporale. Quella che vedete adesso è solo una sua “sezione temporale”. Di fatto, dato che non riuscite ad avere una visione “prospettica” della dimensione temporale, così come ce l’ avete di quelle spaziali, voi non riuscirete mai a vedere il vostro pc tutto intero.
Se lo vedeste “tutto intero”, esso sarebbe una sorta di “verme” quadridimensionale, fatto dalla somma delle sue sezioni a 4D, corrispondenti a quelle che vedete ad ogni istante
Non possiamo vedere gli oggetti in 4d, però possiamo averne un’immagine in 3d: immaginate di fare una fotografia a lunga esposizione di voi stessi che passeggiate per la stanza. Alla fine verrà fuori un’immagine di un lungo “verme” che si intreccia e si avvinghia: quella è l’immagine 3d di ciò che siete veramente, cioè esseri quadridimensionali.

Spero che non ve la prendiate se vi do dei “vermi quadridimensionali”. Per i filosofi quadridimensionalisti, tutti gli oggetti sono così: riescono a “durare” nel tempo perché si estendono nel tempo, così come riescono a “durare” nello spazio perché vi si estendono. È un’idea affascinante: secondo questa teoria tutti gli oggetti sono degli eventi, come le “partite di calcio” o le “elezioni del presidente”. Così come non c’è differenza tra ciò che accade nella partita e la partita, così non c’è differenza tra il ruotare di una sfera e la sfera che ruota.

Addio divenire

Ma il divenire, secondo questa prospettiva, è reale? No. È una illusione. Il tempo non scorre di più di quanto non lo faccia lo spazio. Voi non siete, secondo il quadridimensionalista, un punto che scorre su una linea del tempo: voi siete un segmento della linea. Se in qualche modo fossimo capaci di “uscire” dalle quattro dimensioni e osservare l’universo dall’alto, vedrete un universo immobile, congelato. Tutto ciò che accaduto, accade e accadrà è “già lì”, disteso nella dimensione temporale. Presente, passato e futuro non sono delle cose “reali”, ma sono solo espressioni indicali, come dire “qui” o “vicino”. Ci sono infiniti presenti, passati e futuri, tanti quanti sono le mie parti temporali. Capite bene che se non esiste veramente passato, presente e futuro, non ha nessun senso dire che il tempo scorre. Dove scorrerebbe?»

Conclusione di Giorgio Linguaglossa

…se dico che la poesia di Gino Rago, come quella della nuova ontologia estetica in generale, pesca nel concetto di costruzione quadridimensionale, non penso di dire una sciocchezza. La differenza tra una poesia di scuola tardo novecentesca italiana e, in genere, occidentale e quella della nuova ontologia estetica sta tutta qui: che la NOE costruisce con un concetto quadridimensionale dell’essere.

Cogliere d’un colpo d’occhio: il passato, il presente e l’avvenire, non solo, ma anche il mio, il tuo, il nostro, il vostro «reale» in un unico flusso. Per riuscire in questo obiettivo occorre modificare non solo la semantica, ma forzare la sintassi, agire in profondità sulla modellizzazione secondaria del verso, ridimensionare fino ad annullare il ruolo dell’«io», quell’Ego puntiforme di stampo cartesiano che oggi è soltanto un antico ricordo; significa abolire il tempo lineare e aggiungerne altri, moltiplicare i tempi e gli spazi, moltiplicare le prospettive e i punti di vista.

Scrivere una poesia secondo i principi della nuova ontologia estetica è infinitamente più difficile che scriverla secondo le categorie della ontologia unidirezionale della poesia italiana del secondo novecento

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L’aporia del presente nella poesia di Mauro Pierno e di Donatella Costantina Giancaspero – L’ingresso del fattore T nella poesia della nuova ontologia estetica – Le parole oscurate di papa Francesco – Riflessione sulla poesia di Gino Rago, Poesie di Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa

Foto Kurt Perschke - Progetto di arte urbana

Kurt Perschke, Progetto di area urbana

Giorgio Linguaglossa

22 dicembre 2017 alle 11:02

 Nell’edizione serale del TG1, la frase di Papa Francesco indirizzata contro i «complotti» è sparita: “«Riformare la Curia è come spolverare la Sfinge d’Egitto con uno spazzolino da denti» diceva monsignor De Mérode; e Francesco ieri ha ripetuto quella frase. Giunto al suo quinto anno di lavoro sulle riforme e al suo quinto discorso per gli auguri natalizi ai collaboratori romani, il papa spiega che «una Curia chiusa in sé stessa sarebbe condannata all’autodistruzione». è come voler togliere la polvere dalla Sfinge con uno spazzolino da denti”. Ebbene, questa frase è stata “oscurata”.

È incredibile, adesso siamo arrivati addirittura a CENSURARE le frasi del papa che non riescono gradite alle orecchie dei mercanti di schiavi dei Padroni e del conformismo mediatico più spregiudicato. Voglio proprio vedere se di questa frase c’è traccia nei quotidiani di oggi.

Parafrasando la frase che oggi Papa Francesco ha pronunciato in Vaticano:

Voler fare pulizia nella poesia italiana è come voler togliere la polvere dalla Sfinge con uno spazzolino da denti.

 *

 Lucio Mayoor Tosi

Lungo il viale del tempo

– oh, grazie! Che immagine romantica.

… dove nascono ad aprile le cavallette
e a giugno le prime aragoste

dentro la scatola bianca dei souvenir,
per un soffio, il forte vento fa tremare
le statue sui basamenti.

Sì, è scritto nell’articolo di una rivista letteraria:

“Nella realtà inquieta dei poeti, tutte le cose
sono immense, o infinitamente piccole”
e
“L’anello grigio del secolo scorso
potrebbe ustionare chi lo porta al dito. Farlo piangere”.

– Oh, Il canto silenzioso delle lumache!

L’oasi K2 quando arrivano rifornimenti e libagioni!
Le prime Candies Blue alla frutta danese!
Il bel tramonto su Baudelaire!

A pagina chiusa, il libro narra di noi
nel Mausoleo del Parlamento.

Non un granello di polvere tra i corpi
refrigerati.
Ho lasciato il mio guardaroba
tra mille anni.

      Ermeneutica di Gino Rago

21 dicembre 2017 alle 18:34

Salvatore Martino, ovvero, “la poesia di Eros nel gesto controllato che riesce a farsi segno…”

“Al mio paese ci sono notti che le barche corrono lungo il soffio dei pesci e l’albero appassito della prua notti nel sonno di maree umide e gialle Tutto il giorno ho sperato di te con la testa all’angolo del braccio Umide e gialle di scogli appuntiti Nel chiuso della stanza le pareti si gonfiano lo specchio quadrato il tavolo le sedie il gioco alterno dei marosi rossi e bianchi e bianchi l’assurda figura dei vestiti la porta che non s’apre Sei intero come il tutto che ci divide nel tuo corpo di vetro E notti ci sono allungate dal buio di correnti che lampeggia il tossire dell’aria e distendi alla luce del ventre l’inutile sorriso…”.

Si assiste all’affiorare dei temi centrali della tradizione lirica italiana e della poesia fatta dagli insulari, dal nostos omerico alla trasfigurazione epica della pesca, dalla presenza della morte a quella dei delfini e delle sirene, ma almeno in questo brano di cristallina prosa d’arte ci imbattiamo in un Salvatore Martino alle prese con i segni di quell’immenso lavoro sul linguaggio in atto che troverà nell’opera futura in via di preparazione una sua realizzazione più compiuta.

La selezione da me effettuata risponde a una lettura possibile, senz’altro parziale. Aggiungo che ho preferito esporre, bruscamente e talvolta estraendoli a forza dal corpo dei versi postati su l’Ombra, un passaggio nel quale si trovano inseriti quei segni che sembrano garantire un’illuminazione immediata, la cui matrice affettiva e nostalgica assume un rilievo specifico ma tuttavia mai incline all’arreso ripiegamento intimista.

 Dalla nostalgia per i tempi a quella per gli spazi e fino al ricordo di ” amici” o compagni che fanno la guardia in sembianza di animali fedeli, Martino ci sospinge dalla parte di chi parla nei «versi oscuri della divozione», con la voce di un mitico fanciullo che viene dal Sud, un Sud isolano mai consegnato all’oblio, come fu per Ripellino, per Cattafi e soprattutto per Stefano D’Arrigo alle cui frequenze delicate accosto quelle di Salvatore Martino, almeno se mi limito a considerare i versi riportati di seguito, tratti da “Pregreca” del D’Arrigo poco prima di Orcynus Orca:

da Pregreca di Stefano D’Arrigo:

“Gli altri migravano: per mari
celesti, supini, su navi solari
migravano nella eternità.
I siciliani emigravano invece (…)”

Due sensibilità poetiche ben precise e senza sforzi riconoscili, dai contorni ben disegnati, Salvatore Martino e Stefano D’Arrigo, ma entrambe mosse, agitate, nutrite da Eros come forza vitale, come forza cosmica primordiale che nei loro versi riesce a farsi trasparenza d’alabastro di contro alla opacità della pietra. Eros, il gesto controllato che riesce a farsi segno nella “insidia della soglia”, come in questi versi di Salvatore Martino:

” I morti sono morti e basta
e freddi
perché la morte è fredda
e dio è volato
sopra i gabbiani che piangono”

2 – Lucio Mayoor Tosi, ovvero un poeta che gioca con il tempo nello Spazio Espressivo Integrale:

Lucio Mayoor Tosi “Lungo il viale del tempo”

 In “Picasso” che Gertrude Stein dedicò al personaggio dominante dell’arte del Novecento europeo, tra narrativa e critica d’arte, la Stein ebbe a dire, fra le tante raffinate meditazioni sul padre del Cubismo, che le idee letterarie di un pittore non sono come le idee letterarie di uno scrittore.

Perché? Perché l’ “egotismo” del pittore è un egotismo assai diverso dall’egotismo dello scrittore, dall’egotismo del poeta. E Gertrude Stein più avanti nel libro articola il suo pensiero così:

“Il pittore non concepisce se stesso come esistente in se stesso. Il pittore concepisce se stesso come il riflesso degli ‘oggetti’ che egli ha collocato nei suoi quadri; un poeta invece concepisce se stesso come esistente in sé e per se stesso, perché il poeta (o lo scrittore) non vive affatto nei suoi libri: per scrivere deve prima di tutto esistere in se stesso, ma perché un pittore possa dipingere prima di tutto deve essere fatta la pittura…”.

 Ecco perché per Picasso i suoi disegni non erano tracce di ‘cose’ vedute ma di ‘cose’ espresse. Insomma, i disegni per Picasso erano le sue parole, erano il suo modo di parlare.

Nel caso di Lucio Mayoor Tosi, dunque, proprio perché artista e poeta nello stesso tempo, l’egotismo del poeta è obbligato a coesistere con l’egotismo del pittore. Non sempre questa coesistenza probabilmente in lui, nella sua psiche, è coesistenza pacifica e dunque non sappiamo se scrive disegnando o se disegna scrivendo… L’esito estetico che s’indovina nei suoi versi è attribuibile necessariamente al muoversi di Lucio Mayoor Tosi nel linguaglossiano Spazio Espressivo Integrale in cui tempo e spazio hanno altezza, larghezza e profondità tridimensionali e i nomi e le immagini sono disegni-parole, parole-disegni, in un continuo scambio di energie interne.

Energie interne che toccano l’acme nel verso memorabile:

“Oh, il canto silenzioso delle lumache!”

 Orazio parlò di “monumento” da erigere par la sua Opera, Mandel’stam, sulla scia schiumosa di Orazio, parlò anch’egli di “monumento”, Letizia Leone, forse anche per una risonanza rimbaudiana del ‘Battello ebbro’, di recente ha parlato anche lei di “monumento” anche se ebbro (Il monumento Ebbro).

Invece Lucio Mayoor Tosi parla di “statue” sui basamenti pronte a tremare sotto i colpi del vento, segno inconfondibile d’una weltanshauung tosiana incardinata sul senso del Difetto del Sé e della precarietà della presenza dell’uomo nel mondo. In piena consapevolezza della indeterminazione della condizione del poeta e del pittore in una stagione della storia dell’uomo non proprio volta verso il vero, il giusto, il bello.

3 – Giorgio Linguaglossa, “Preghiera per un’ombra”

“Noi tutti siamo ombre fuggevoli…” è l’apoftegma linguaglossiano che sostiene il componimento ove l’idea di “ombra” è già nel titolo. Conoscendo, da lunga frequentazione, la formazione culturale di Giorgio Linguaglossa posata su chiari e irrinunciabili punti di riferimento anche di filosofia estetica, un commento organico a questa “Preghiera per un’ombra” non può sottrarsi al mito platonico degli uomini incatenati in una caverna, con le spalle nude rivolte verso l’ingresso e verso la luce del fuoco della conoscenza. Altri uomini si muovono liberi su un muricciolo trasportando oggetti; sicché, questi oggetti e questi uomini, colpiti dalla luce del fuoco, proiettano le proprie ombre sulle pareti della caverna. Gli uomini incatenati, volgendo le spalle verso il fuoco, possono scorgere soltanto queste ombre stampate alle pareti della caverna.

Nel mito platonico, la luce del fuoco è la “conoscenza”; gli uomini e gli oggetti sul muricciolo rappresentano le cose come realmente sono, cioè la “verità“ delle cose (aletheia), mentre le loro ombre simboleggiano l’”opinione”, vale a dire l’interpretazione sensibile di quelle stesse cose (doxa). E gli uomini in catene con lo sguardo verso le pareti e le spalle denudate verso il fuoco e l’ingresso della caverna? Sono la metafora della condizione naturale dell’individuo condannato a percepire soltanto l’ombra sensibile (doxa) dei concetti universali (aletheia), fino a quando non giungono alla “conoscenza”. Senza questa meditazione filosofica a inverare l’antefatto estetico, culturale, cognitivo che sottende l’attuale, febbrile ricerca poetica di Giorgio Linguaglossa non si comprenderebbe appieno l’approdo-punto di ripartenza di questa poesia e delle sue implicazioni, nominabili in poche ma singolari parole-chiave: forma di poesia senza forma; linguaggio di molti linguaggi; astigmatismo scenografico; stratificazione del tempo e dello spazio; metodo mitico per versi frammentati; intertemporalità e distopia. Il tutto compreso in quella invenzione linguaglossiana dello “spazio espressivo integrale”, l’unico spazio nel quale i personaggi inventati da Giorgio Linguaglossa (Marco Flaminio Rufo, il Signor K., Avenarius, Omero, il Signor Posterius, Ettore che esorta i Troiani contro gli Achei, Elena e Paride nella casa della Bellezza e dell’Amore, il padre, la madre, Ulisse, i legionari, Asterione, etc.) simili agli eteronimi di Pessoa, possono ricevere la piena cittadinanza attiva che richiedono al loro “creatore” quando, altra novità di vasta rilevanza estetica in questa poesia di Giorgio Linguaglossa, “parlano” nelle inserzioni colloquiali, o nel “parlato”, dentro ai componimenti linguaglossiani recenti.

Lo “spazio espressivo integrale” della “Preghiera per un’ombra” è il campo in cui “nomi”, “tempo”, “immagine”, “proposizione” vengono rifondati, ridefiniti, spingendo il nuovo fare poetico verso paradigmi fin qui esplorati da pochi poeti del nostro tempo [Mario Gabriele, fra questi, con Steven Grieco-Rathgeb, Letizia Leone, Lucio M. Tosi, in parte Antonio Sagredo e lo stesso Gino Rago a costituire un “nuovo” poetico da far sentire “vecchia” ogni altra esperienza di poesia contemporanea esterna a tale campo.

[Nota.

Segnalo l’ottimo commento di Alfredo Rienzi a “Preghiera per un’ombra” (al quale non mi sono voluto sovrapporre con la mia lettura del 30 marzo 2017 – Roma, Laboratorio Poesia Gratuito, Libreria L’Altracittà, Via Pavia, 106) apparso su La presenza di Erato]

4 – Mario Gabriele (“In viaggio con Godot”)

I due poeti al centro della NOE, Giorgio Linguaglossa, già considerato, e Mario Gabriele, che stiamo considerando) nel loro fare poetico all’interno dello Spazio Espressivo Integrale, sanno che:

* il vuoto non è assenza di materia;

* l’assenza di musica non è l’affermarsi del silenzio;

* il Campo Espressivo Integrale è l’unico in cui la poesia può inglobare spazio e tempo, filosofia e mito, musica e silenzio, metafisica e scienza, memoria e armonia delle sfere, meraviglia e sapienza, in una unità di linguaggio di numerosi linguaggi differenti…

Esemplare sotto tale specifico aspetto è il recentissimo Libro-Poema di Mario Gabriele , con un memorabile saggio introduttivo di Giorgio Linguaglossa, In viaggio con Godot, 69 composizioni che s’intrecciano l’una con l’altra, ma ciascuna con una propria completezza finita. Un Libro ad architettura e struttura di poema da inserire nel meglio della poesia pubblicata negli ultimi 15/20 anni in Italia.

Ed i meriti sono etici ed estetici, stilistici e linguistici, ecc. con una abilità del poeta di nominare con esattezza e leggerezza luoghi, situazioni. occasioni, personaggi, giornali, riviste, libri, esperienze musicali, opere d’arte visive, in uno stile che definirei ‘adamistico’, pensando all’inevitabile collegamento con la corrente più significativa dell’acmeismo mandelstamiano:l’ “adamismo “.

Ma nei 69 pezzi de In viaggio con Godot  ho sentito vibrare un’adesione gentile, consapevole, cordialissima alle dinamiche contorte del mondo e della vita che l’autore (Mario Gabriele) interpreta e segnala giocando sulla asimmetria spaziotemporale, all’insegna della indeterminazione del vivere e altro…L’esito estetico finale è una poesia, rubando le parole a Giorgio Linguaglossa, autore del saggio introduttivo, “atetica, non-apofantica, pluritonica, vario ritmica.”

Ne è paradigmatico il componimento numero 51.

Questo componimento numero 51 della raccolta gabrielana si lega strettamente agli altri 50 che lo precedono e d’altro lato prepara il terreno agli altri diciotto che lo seguono, pur presentando e possedendo una propria finitezza stilistico-emotiva, una compiutezza tematico-etico-stilistica:

(51)

“Dora scrive versi.
Sorprendono le metafore e i giorni della resa.

Al Circolo Heidelmann
si replica il Partigiano Johnny.

Con Le Demoiselles d’Avignon
siamo andati a cercare Le Illuminazioni.

Il tempo è in agguato. Ci minaccia.
Dora alle sette apre le imposte.

Toglie i ragni sui muri. Chiude la porta.
Benn l’accompagna alla stazione.

-Milano- dice.- è una grande città
con tante Silicon Valley.

Puoi contattare qui la M.G.M.
per un lavoro part-time.

Poi si vedrà se andare a Boston.
C’è però un problema ed è la famiglia Salomon

che parla sempre di decaloghi
e di colombe che tornano dopo il diluvio-.

Un’altra stagione è alle porte
con lampi di sole sulle tavolette di Lucio.

Domani è di scena Mrs Dalloway,
ma senza Virginia Woolf.” Continua a leggere

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 Giuseppe Talìa  Poesie da La Musa Last Minute (Progetto Cultura, 2017), Sestine per Alfredo de Palchi, (Giove), Antonio Sagredo, (Marte), Giorgio Linguaglossa, (Urano), Salvatore Martino, (Saturno),Ubaldo de Robertis, Anna Ventura, Annamaria De Pietro, Antonella Zagaroli, Gëzim Hajdari, Steven Grieco-Rathgeb, Letizia Leone, Sabino Caronia, Giuseppina Di Leo, Donatella Costantina Giancaspero, Patrizia Cavalli, Patrizia Valduga, Maurizio Cucchi, Roberto Bertoldo, Valerio Magrelli, Nanni Balestrini, Franco Buffoni, Gian Mario Villalta

 

Gif paesaggio onirico

Il risultato è una confezione poetica esplosiva, derisoria, caustica dove Talia fa poesia sulla poesia e iperpoesia, poesia sui singoli personaggi della galleria letteraria, confondendo gli stili e plaudendo alla «Musa last minute», poesia «low cost»

Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta) nasce in Calabria, a Ferruzzano (RC), nel 1964. Vive a Firenze e lavora come Tutor supervisore di tirocinio all’Università di Firenze, Dipartimento di Scienze dell’Educazione Primaria. Pubblica le raccolte di poesie, Le Vocali Vissute, Ibiskos Editrice, Empoli, 1999; Thalìa, Lepisma, Roma, 2008; Salumida, Paideia, Firenze, 2010. Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano, I sentieri del Tempo Ostinato (Dieci poeti italiani in Polonia), Ed. Lepisma, Roma, 2011; Come è Finita la guerra di Troia non ricordo, Edizioni Progetto Cultura, 2016. nel 2017 pubblica la silloge Thalìa edizione bilingue, per Xenos Books – Chelsea Editions Collaboration, California, U.S.A., traduzioni di Nehemiah H. Brown, nel 2018 pubblica La Musa Last Minute con Progetto Cultura di Roma. Ha pubblicato, inoltre, due libri sulla formazione del personale scolastico, L’integrazione e la Valorizzazione delle Differenze, marzo 2011, curatela; AA. VV. Progettazione di Unità di Competenza per il Curricolo Verticale: esperienze di autoformazione in rete, Edizioni La Medicea, Firenze 2013 

Prefazione di Giorgio Linguaglossa

Negli anni Settanta Robert Escarpit scriveva che «la tipografia ha fatto della scrittura un mezzo di comunicazione di massa». Ecco, giunti nel 2017, oggi lo sviluppo dei social media e di internet credo abbia accentuato questo aspetto, diciamo, comunitario, nel senso che la letteratura è ciò che transita attraverso la rete, la rete fabbrica la letteratura nel senso che è ad un tempo il medium e l’editore di riferimento di un testo; oserei dire che un enunciato è tale solo se transita nel web. Oggi non c’è più alcun bisogno di alcun legame extratestuale tra il lettore e l’autore, entrambi sono opzioni del web, entrambi sono terminali di una comunicazione segnica, informazionale o letteraria quale che sia. Nelle nuove condizioni del web il rapporto tra autore e lettore diventa più che mai una lotta di segni, di significanti, «ma una lotta ha senso soltanto se viene condotta tra avversari che hanno una certa consapevolezza l’uno dell’altro», scrive sempre Escarpit, il quale prosegue: «è necessario almeno che tale consapevolezza ci sia nel momento della produzione del testo».1 Ecco, proprio questo è il punto: una scrittura poetica come questa di Giuseppe Talia nasce senza che vi sia alcuna relazione reciproca tra l’autore e il lettore, è il web che determina il comune terreno di scontro e/o incontro, è il web che decide il medium, è il web che decide il messaggio. Leggendo queste strofe ironiche, istrioniche e ilari di Giuseppe Talia possiamo comprendere in che misura il supporto e la destinazione del web abbiano avuto un ruolo nel determinare la scrittura di questi pensieri aforistici, innanzitutto perché gli interlocutori ai quali viene appiccicata e dedicata ogni singola poesia, sono quei medesimi interlocutori che transitano, in maniera diretta o indiretta, tra le pagine della rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com dalle quali l’autore Giuseppe Talia ha tratto gli spunti e le occasioni scrittorie. Poesie che uniscono un fare sarcastico e un andamento ironico-scettico, un passo canzonatorio e tonalità derisorie, un mix lungimirante e desiderante di stilemi disparatissimi, del piano basso del linguaggio parlato e dei piani alti delle circonlocuzioni forbite ed euforbiche. Il risultato è una confezione poetica esplosiva, derisoria, caustica dove Talia fa poesia sulla poesia e iperpoesia, poesia sui singoli personaggi della galleria letteraria, confondendo gli stili e plaudendo alla «Musa last minute», poesia «low cost», derisoria, dicevamo, che rovescia, parodisticamente, la montaliana poesia d’occasione e la poesia progetto dello sperimentalismo, la poesia minimal e quella massimalista, quella personalistica e quella privatistica, tutti conglomerati ed emulsionati degli odierni simulacri letterari.

Epperò, bisogna anche dire della sapienza con cui Talia sa entrare nelle maglie della poesia di ogni singolo autore, cogliendone le ubbìe e le mitopoiesi con grande sagacia ermeneutica e caustica ironia. Talia coglie un tratto essenziale del post-contemporaneo: che ormai viviamo in mezzo ad un guado permanente, che siamo lontanissimi da ogni approdo ed egualmente lontani dalla riva di partenza, una situazione esistenziale permanentemente instabile, un quadro psicologico «debole». Ecco, siamo arrivati alla parola chiave che mondi ci può aprire sulla nostra contemporaneità; quella «debolezza» della nostra condizione ontologica sulla quale Talia erige la «debolezza» della sua poesia ontologicamente destrutturata. È questo il suo punto di forza, aver saputo capovolgere la condizione ontologica di «debolezza» in una nuova condizione di «forza», l’aver capovolta la «clessidra dell’esistenza che si capovolge sempre di nuovo», come scriveva Nietzsche centocinquanta anni or sono.

Giuseppe Talia Cover

Nel 1999 Talia pubblica con Ibiskos Le Vocali Vissute, un libro di svolta che segna la presa d’atto della crisi della forma-poesia, lo scoppio e la polverizzazione delle «vocali». Scrive in proposito l’autore: «Un pomeriggio del 1992 ho acceso una miccia ed ho fatto esplodere il Logos nelle Vocali Vissute. Non so quanto quel gesto iniziale fosse consapevole. Come un bambino che sfrega lo zolfanello sulla superficie ruvida per accendere un petardo, così, quel pomeriggio in Calabria, io capii, o forse solo percepii, che le strade erano due: l’epigono, «la morta gente, o epigoni, fra noi… (Carducci), oppure il sommovimento dell’Io, la ribellione.

La creta della poesia era nel bivio, bisognava solo plasmarla, darle forma. Gli ingredienti c’erano tutti, letture, studio, poeti conosciuti, allora altisonanti pubblicati dallo Specchio, circoli letterari viziosi e viziati, premi letterari con tasse di lettura (allora come ora), antologie sciatte e furbe. C’erano tutti gli ingredienti, bisognava solo shakerarli e versare nelle coppe un nuovo cocktail, «Se giro e mi rigiro/mimando le correnti /Se mi rannicchio a nuvola/ o mi distendo carico di pioggia».

La deflagrazione delle «vocali vissute» porta con sé la necessità di trovare una nuova forma della poesia. Talia impiegherà più di tre lustri per giungere a questa sistemazione della sua forma poesia, un equilibrio «imperfetto» che consentirà all’autore di conservare quanto della tradizione era conservabile in frigo e quanto invece doveva essere tradito e collocato in un nuovo universo stilistico e simbolico. L’incontro con la teorizzazione e la pratica della «nuova ontologia estetica» praticata dalla redazione de L’Ombra delle Parole, è stato risolutivo, è stato un incontro fruttuoso.

Particolarità di questi «medaglioni» è che la forma-poesia ha raggiunto una sua stabilità nella instabilità generale, ormai la deflagrazione delle «vocali vissute» è stata digerita, siamo entrati nella stabilizzazione della instabilità permanente; occorreva prendere atto della necessità di trovare un punto di equilibrio, e Talia l’ha trovato nella forma tellurizzata di queste sestine improprie.

Robert Escarpit L’écrit et la communication, Presse Universitaires de France, 1973 trad. it. Scrittura e comunicazione, Garzanti, 1976 p.  61

 Retro di copertina della edizione americana di Thalia:

Ha scritto Giuseppe Talia: «un pomeriggio del 1992 ho acceso una miccia ed ho fatto esplodere il Logos nelle Vocali Vissute»; e le vocali sono esplose in una congestione di significanti e di significati disconnessi. Le parole sconnesse sono andate alla ricerca di un nuovo luogo da abitare, di una nuova patria delle parole. Una «nuova poesia» richiede sempre una nuova metafisica, una nuova patria delle parole nella quale le parole possano albergare. E questo cos’è se non pensare nei termini di una nuova metafisica? Se non pensare nei termini di una «nuova ontologia estetica»?

Una volta preso atto di ciò, un poeta non può che dimorare presso la nuova «patria» delle sue parole. È quello che ha fatto Talia in quest’opera, ha disegnato la cornice della sua nuova patria linguistica.

 Appunto dell’autore

 L’alterazione paradossale che sottolinea la realtà attraverso la simulazione, l’interrogazione, per mezzo di un procedimento speculativo nei sistemi estetici, come quello di K.W. Solger, viene solitamente considerata costitutiva dell’arte. L’antifrasi e l’eufemismo significano ribaltare, per sopravvivenza fisica e mentale, l’ironia in autoironia, distaccarsi dall’estetismo per una dimensione più etica.  Ecco, questo è uno dei tanti profili che mi rappresentano.

Ma qual è stata la molla di questi frizzanti schizzi a Voi dedicati, care amiche e amici dell’Ombra delle Parole? Un cadeaux, una semplice come complessa traslitterazione di fatti analitici, psicoanalitici, qualche volta una semplice foto o l’impressione di un verso letto e che è rimasto nel substrato inconscio della comunità poetante di cui mi sento parte.

E come un artigiano che si rispetti ho dispiegato gli arnesi giusti su un piano geometrico adeguato e tessuto l’ordito: per ognuno di Voi, amiche e amici, sei versi, forme chiuse e forme variabili, citazioni, carattere, un qualche segno indelebile impresso nell’anima, una tradizione e un simbolo cosmologico abbinato che penso vi rappresenti nell’almagesto dell’unicità.

Questo gioco semi-serio, in cui si possono rilevare tracce di Palazzeschi, Stecher, Szymborska come di altri, l’ho iniziato con l’intento di omaggiare i Poeti costituenti del momento, Alfredo de Palchi (Giove), Antonio Sagredo (Marte), Giorgio Linguaglossa (Urano), Salvatore Martino (Saturno), per continuare con gli amici con cui tengo una corrispondenza, Ubaldo de Robertis, e con le Poete e Poeti che stimo, Anna Ventura (nodo ascendente), Annamaria De Pietro, Antonella Zagaroli, Letizia Leone, Sabino Caronia, Giuseppina Di Leo, Donatella Costantina Giancaspero (nodo discendente), anche se non sempre i miei commenti a riguardo, lasciati sul blog dell’Ombra delle Parole, sono stati gratificanti: ubi maior minor cessat.

Sono tante costellazioni più una, misteriosa, che in ogni gioco che si rispetti tocca al partecipante indovinare a chi è dedicata e perché. Con i miei migliori Auguri per un poetico e sempre più comunitario 2017. Evviva (è viva) la Poesia.

(Giuseppe Talìa)

Gif gli orologi

INDICE

Alfredo de Palchi 15
Milo De Angelis 16
Patrizia Cavalli 17
Valerio Magrelli 18
Patrizia Valduga 19
Maurizio Cucchi 20
Nanni Balestrini 21
Franco Buffoni 22
Guido Oldani 23
Gian Mario Villalta 24
Roberto Bertoldo 25
Luigi Manzi 26
Mario M. Gabriele 27
Giuseppe Conte 28
Salvatore Martino 29
antonio Sagredo 30
Giorgio Linguaglossa 31
Tomas Tranströmer 32
Kjell Espmark 33
alberto Pellegatta 34
Steven Griego-Rathgeb 35
Silvana Baroni 36
Gino Scartaghiande 37
Donatella Bisutti 38
Claudio Damiani 39
Mario Lunetta 40
Luigi Fontanella 41
Erri De Luca 42
Carla Saracino 43
Giuseppina Amodei 44
Gabriele Pepe 45
Gëzim Hajdari 46
Sabino Caronia 47
Giorgia Stecher 48
Anna Ventura 49
Gabriele Fratini 50
Gino Rago 51
Lucio Mayoor Tosi 52
Guglielmo aprile 53
Renato Minore 54
Claudio Borghi 55
Tommaso Di Dio 56
Antonella Zagaroli 57
Annamaria De Pietro 58
Giuseppina Di Leo 59
Letizia Leone 60
Ubaldo De robertis 61
Costantina Giancaspero 62
Franco Marcoaldi 63
Alfredo Rienzi 64
Francesca Dono 65
Adam Vaccaro 66
Autoepigramma 67
Germanico 68
Paolo Ruffilli 69
Nacht und Nebel 70

Gif Astronauta che sogna

Questo gioco semi-serio, in cui si possono rilevare tracce di Palazzeschi, Giorgia Stecher, Wislawa Szymborska come di altri,

A Alfredo de Palchi

Cielo d’agosto e Zefiro che lucida l’occhio concavo
Lo sputo delle stelle per un’ora d’aria nel periplo della pena
Le unghie spezzate nel quadrilatero dell’Ades*
Tra sessioni scorpioni e paradigmi la gatta Gigì incatena
Una Storia più grande degli anni e della stessa presenza
Che pone l’Essere nella forma di una galassia antenna

*Adige, e non solo

A Steven Grieco-Rathgeb

Vorrei tanto essere un mistico. E ci ho provato.
Sono stato in India. Ho tentato di controllare
La pressione e il battito del cuore. Il cuore,
il cuore mi tradisce sempre. Da bollywood, inorridito
scappai in Rajasthan, lungo la valle dei fiumi,
per finire in una perla come un cuore che tradisce.


A Anna Ventura

Nella costellazione di Eridano vi è una corposa nebulosa
La testa di una Strega ascendente nella selva circumpolare
E allatta Coefore massicce con l’alamaro quando uno zio
Coniglio (sorta di ricordo fotoevaporante o stella brillante)
Con Torquemada Tauri icastico e mostrino lavora di fino
E al je m’en moque dell’aguzzino oppone un tu quoque (?)


A Antonio Sagredo

Bayer ti diede il nome o forse solo il suo cognome
Figlio di una costellazione inconsueta come
La Nave di Argo nel coelum dei frangiflutti
Con una Nereide dissipata in un soprannome
Spoliazione della Colchide e dei suoi frutti
Smembrata senza rotta e con i remi asciutti


A Letizia Leone

Summa creata e sola virtute della cometa nera
Tra un debole Cancro e una vasta Venere eclittica
Chi dona speranza dona vita alle stelle bambine
Della costellazione madre di tutte le galassie
Con poche mandorle per confetti d’un matrimonio
Nei primordi mai consumati del Tutto in un granello

A Giorgio Linguaglossa

I frantumi dei giganti gassosi del Tempo e del Padre
Bande magnetiche di stelline soffiate dalle Parche
Graie con stami fusi e cesoie gli ombelichi mortali
Corpi minori negli editoriali di una qualche cometa
E rari ammassi di luce nelle effemeridi siderali
I transaturniani evoluti imprevedibili e rivoluzionari

A Antonella Zagaroli

Fortilfragile volpina nell’eterno presente sei Cassiopea
Della via Lattea e Anfitrite ti tagliò i lunghi capelli biondi
Da allora come ora riesci dal tempo e ti ritrovi Gilania
Una Venere minima a cui il dono del silenzio è condanna
O forse manna di Psiche il respiro che serra a ventaglio
L’Abito immaginario per il corpo nudo pieno d’anima

A Gëzim Hajdari

Rerum novarum oppure rerum causas? Chi di domanda ferisce
Di domanda perisce sanciva Hoxha e il canto del gallo nell’esilio
Dell’alba, nel ritmo circadiano come un muratore le stigmate di calce
Il Kanun della coscienza universale, gli infiniti esseri e gli illimitati èpos
In un delta profanato dalla storia e riparato in una preghiera laica
Di un contadino che ara stornelli “e il tutto spia dai rami irti del moro”.*

*Giovanni Pascoli-Arano

Gif Uccellino

A Salvatore Martino

Nella tua prigione, o stella blu, i bracci delle galassie
Trovano ammassi aperti di giganti nel disco galattico
D’una vita dedicata alla gravitazione di pregiate malvasie
Da cinquant’anni e oltre l’almagesto nell’atto catartico
Dal locus amoenus del Capricorno a est del Sagittario
Tu, cancellazione, sfera ideale, nutri il marmo erbario

A Annamaria De Pietro

Con te non è certo facile solleticare il carapace
Si dice rimario abbecedario binario come glossario
Certo Annamaria di miracoli ne fai stella arancione Tauro
o Aries che infila le perline e di parole ne fa Pietra
Conservazione tālis-qualis dell’ordine del multiverso
Una cera persa nello stampino del creato creatore

A Ubaldo De Robertis

Chi pensa sia semplice tracciare il moto delle Pleiadi
Non sa che ammassi di leggende l’astro occulta
Nella crepa segaligna della parti d’un discorso
Poetico l’anfora sussulta nelle spore gravitazionali
Delle Naiadi con le geramiadi e lo spartito sferico
Del re minore incompiuto o del minotauro che ausculta

A Giuseppina Di Leo

Quanta bellezza e quanta gioventù lontano nel sole
Una stella ancora nell’infanzia prima del monossido
Quando solo ghiaccio e rocce e una firma spettroscopica
Segnavano il passaggio d’una cometa dialogante a più voci
Una lunga notte la più lunga che si ricordi in un inedito
Una parola impronunciata rimbalzata sul muro invisibile

A Sabino Caronia

Tolomeo s’era perso nell’Acquario tra stelle variabili
Ad eclissi controllata quando Copernico scoperchiava
Sfere omocentriche nell’accelerazione degli specchi di Borges
E l’amore che ne veniva sopperiva lo Stato gassoso dei Blazar
Nei minuscoli idilli di astroparticelle delle galassie ospitanti
Con l’apparenza del Zommo Pontescife pe’ castiga’ li bbuggiaroni

A Donatella Costantina Giancaspero

Da un presagio d’ali la casa di latte nella costellazione familiare
Di Stern stempera la tempera verbale esigua del Circinus
Nella periferia dell’universo con Iperoni e Neutrini a far
Piastrelle per il selciato domestico del sole pomeridiano
A Torre Spaccata nell’atonale pungiglione di luce
Con la Lira e il contrappasso per una musica di carta e di cielo

Patrizia Cavalli

È un teatro aperto la precessione della luce della stella faro.
La magnitudine apparente, testa di serpente e calamaro
Non salva il mondo dal compost della stella tripla Ethical
Treatment, a caccia con i cani di Orione di Sadalsuud-Sadalmelik
Nel cerchio massimo dell’equatore e del suo punto spettrale
Con lo scafandro da palombaro e una compagna in orbita bisessuale.

Gif Manichino 2

Valerio Magrelli

Da bambino erano un codicino di nature e venature
I Dockers Kahaki Pants salenti e discendenti la grande
Échelle disgrafica e dislessica o più semplicemente
Manomessa dalla stella binaria dei pioli del carcerato
Che batte il Lexicon della rotativa sorgiva tatuata
Nella carne condominiale del codice fiscale come dell’ISBN.

A ?

Lingua di lotta e lingua di luna la luna
Che non parla che non possiede che l’umano
Occhio il sovrumano splendore d’albume
Battente con un cuore di colibrì e chicchirichì
Mite chiarore aneliti brevi falce calante
Sterili economie allunate di messi mancanti

Patrizia Valduga

Un requiem per una subrette
Un soundtrack di paillette
Una Gilda de’ poeti O Mame
Una sessa strafatta pour femme
Mia Sirventes o mia Servente(s)
Solo per me le tue tette.

Maurizio Cucchi

Argo Panoptes è il disperso degli anni luce
Alla ricerca del vello d’oro, con una barchetta di carta
Immersa nel gradiente salino di Malaspina
Ossessionato dal sosia more uxorio
Come dell’antinfiammatorio da topografia
Del tramonto dell’Idra e dell’antitossina.

Nanni Balestrini

Sei pronto? Che faccio, scatto? Ecco, sì, scatto!
Ma no, ti sei mosso! Ma che fai, ti muovi come le masse?
Allora, dai, scatto. Fermo. Le Capital qui FIAT la guerre!
Forza, che ti pixello, ti taggo, ti bloggo, ti ritocco.
O nanni, e stattene un po’ fermo! Ora ti blocco!
Click. Ce l’ho fatta! Te la dedico: “Alla neoavanguardia
permanente”.

Gif Manichino

Franco Buffoni

Che nome di casata la Musa edulcorata
Che spaccia i lacerti al mercato degli Eoni
Ai giurati crapuloni che filmano gli snuff movie
Con il giro vita pettorina di Narciso e Boccadoro,
Carta straccia igienica tedesca interstellare
Di nuovissima e caldissima carne da abusare.

Gian Mario Villalta

Una certa Musa non dovrebbe calzare stivali da mattatoio
Non dovrebbe nemmeno pensare ai pubblici dialettali
Al Maternato che con un minimo sindacale scalza i rivali
Gli squali mortali, illegali, con occhiali eccezionali
Bufale aziendali e pettorali soprannaturali, havel havalim,
Una certa Musa direbbe: vieni, ti insegno a scrivere mentre muoio!

Roberto Bertoldo

Hebenon o non Hebenon è forse il tuo tema natale
Ma semper fidelis all’anarchia logica della mente
Tra costellazioni bioetiche fenomenognomiche alla Bernstein
Con un che di fisionomico come di ergonomico o di titanico
Magari di nullismo leptosomico e sempiterno del Mythos
del Logos postcontemporaneo dell’umana (in)coscienza.

 

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L’ESTRANEAZIONE È LA CATEGORIA BASE DELLA NUOVA POESIA – Pensieri e poesie di Donatella Costantina Giancaspero, Mario M. Gabriele, Carlo Livia, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Salvatore Martino, Antonio Sagredo, Jan Larrea, Mauro Pierno, Luigina Bigon, Lucio Mayoor Tosi

 

Il-Mangiaparole-locandina-abbonamento (2)

Giorgio Linguaglossa
19 febbraio 2018 alle 10.00

L’ESTRANEAZIONE È LA CATEGORIA BASE DELLA NUOVA POESIA

L’estraneazione è l’introduzione dell’estraneo nel discorso poetico; lo spaesamento è l’introduzione di nuovi luoghi nel luogo già conosciuto; il mixage di iconogrammi e lo shifter, la deviazione improvvisa e a zig zag sono gli altri strumenti in possesso della musa di Mario Gabriele. Queste sono le categorie sulle quali il poeta di Campobasso costruisce le sue colonne di icone in movimento. Il verso è spezzato e interrotto, segnato dal punto e dall’a-capo è uno strumento chirurgico che introduce nei testi le istanze «vuote»; voglio dire che i simboli, le icone, i personaggi sono solo delle figure, dei simulacri di tutto ciò che è stato agitato nell’arte e nella poesia del novecento, non esclusi i film, anche quelli a buon mercato, le long story, le short story… sono flashback a cui seguono altri flashback che magari preannunciano icone-flashback… non ci sono né domande, come invece avviene nella poesia ultima di Gino Rago, né risposte come avviene, a volte, in alcune mie composizioni.

Altra categoria centrale è il traslato, mediante il quale il pensiero sconnesso o interconnesso a un retro pensiero è ridotto ad una intelaiatura vuota, vuota di emozionalismo e di simbolismo. Questo «metodo» di lavoro introduce nei testi una fibrillazione sintagmatica spaesante, nel senso che il senso non si trova mai contenuto nella risposta ma in altre domande mascherate da fraseologie fintamente assertorie e conviviali. Lo stile è quello della didascalia fredda e falsamente comunicativa che accompagna i prodotti commerciali e farmacologici, quello delle notifiche degli atti giudiziari e amministrativi; Mario Gabriele scrive alla stregua delle circolari della Agenzia dell’Erario o delle direttive della Unione Europea, ricche di frastuono interlinguistico con vocaboli freddi e distaccati, dal senso chiaro e distinto. Eppure, proprio in virtù di questa severa concisione referenziale è possibile rinvenire nei testi, di soppiatto e appena visibili, come nella filigrana delle banconote, delle fraseologie spaesanti e stranianti appena percettibili, appena ridondanti.

Ma tutto questo armamentario retorico era già in auge nel lontano novecento, qui, nella poesia di Gabriele non c’è nulla di nuovo, eppure è nuovo, anzi, nuovissimo il modo con cui viene pensata la nuova poesia che abbiamo denominato nuova ontologia estetica. È questo il significato profondo del distacco della poesia di Gabriele dalle fonti novecentiste; quelle fonti si erano da lunghissimo tempo disseccate e producevano foglie secche, pagine immobili, elegie mormoranti, chiacchiere da bar dello spot nel migliore dei casi, tutta quella tradizione (lirica e antilirica, elegia e anti elegia, neoavanguardie e post-avanguardie) non producevano più nulla che non fosse epigonismo, scritture di maniera, manierate e lubrificate.

Mario Gabriele dà uno scossone formidabile all’immobilismo della poesia italiana degli ultimi decenni, e la rimette in moto… È un risultato entusiasmante… che mette in discussione tutto il quadro normativo della poesia italiana…

Altro scossone formidabile lo dà la poesia-pensiero di Gino Rago che ruota attorno ai pensieri primordiali dell’homo sapiens: il vuoto, l’essere, l’esistenza, il nulla, il senso dell’essere e della poesia con l’ausilio del traslato e della metafora…

Collana-il-dado-e-la-clessidra-rosso

Donatella Costantina Giancaspero
19 febbraio 2018 alle 19:10

Ho qui il libro di Linguaglossa, Critica della ragione sufficiente (verso una nuova ontologia estetica), 500 pagine, l’ho sfogliato di qua e di là, ho iniziato a leggerlo… è un po’ una summa e un riepilogo di alcuni scritti che erano comparsi sull’Ombra delle Parole che affrontano una serie di gigantesche problematiche che galleggiano in questi tempi di debolismo e di epigonismo diffusi. Erano molti decenni (quanti non saprei dire, ma credo che bisogna risalire agli anni settanta) che nelle lettere italiane non venivano sollevate tante e tali questioni: il bello, il vuoto, il nulla, l’esistenza, il tempo interno delle parole, il tempo esterno, lo spazio, la spazializzazione e la temporalizzazione, l’Evento (Ereignis) in arte e tante altre questioni apparentemente slegate e fortuite come il selfie, l’autoritratto, il problema dell’inconscio nella “nuova poesia”… insomma, tali e tante questioni che messe assieme in un libro-zibaldone non si erano mai viste in un libro di critica (militante) in Italia.

E c’è da dire che molte cose sono chiare e lampanti, chiare e distinte direbbe Cartesio, ad esempio la questione dell’essere e dell’essere delle parole, la questione del linguaggio e quella del linguaggio poetico, la questione mandel’stamiana del discorso poetico. Un incredibile excursus su tutte le principali questioni oggi sul tappeto del fare poesia. Perché è bene dirlo con chiarezza: senza affrontare queste questioni non si può scrivere oggi poesia di una qualche serietà, perché è bene che un poeta sia anche un intellettuale e non soltanto un chiacchierone ciarlante, una cicala parlante e scrivente che scrive sulle margheritine e sui broccoli del proprio orto botanico.

Donatella Costantina Giancaspero
20 febbraio 2018 alle 20.30

cari Mario e Antonio,
che Nicolò Ammanniti e Aldo Nove abbiano abbandonato la scrittura in versi la considero una autentica fortuna, quanto a Giorgio Barberi Squarotti, dai, siamo seri, uno che scriveva migliaia di lettere ogni anno piene di elogi a chiunque gli inviasse pseudo poesie, a mio modesto avviso non è una persona attendibile e seria, magari sarà stato serio in altri campi, ma in poesia no, era uno dei tantissimi che voleva accaparrarsi il benvolere di tutti. Ridicolo. Intendo questa acquiescenza alla massa di aspiranti poeti sempre alla ricerca di riconoscimenti e approvvigionamenti. Penso che sia ora di finirla con i complimenti rivolti a tutti, e bene fa l’Ombra che non risparmia critiche a nessuno quando lo ritiene opportuno…
Bisogna ritornare ad essere seri in questo Paese e a non diramare complimenti a nessuno, anche a costo di attirarsi antipatie… la stagione degli scampoli è finita.

*
20 febbraio 2018
Gino Rago

L’atto poetico nel vuoto*

«Ci interessa la forma del limone
non il limone».*

*[Questo scrissero sul manifesto formalista quegli artisti
Nell’ammutinamento sui battelli del figurativismo
E del narrativismo.
Ma fu sera e mattina sulla Forma].

 

I
[…]
Un reziario nell’arena
Con un altro reziario un po’ più antico
Ma nella stessa arena, verso chi tridenti e reti?
Chi o cosa vogliono irretire, senza corazza ed elmo?
Il Vuoto? Vogliono imprigionare il Vuoto
con un balzo estetico.
Perché la bellezza è nel vuoto?
[…]
I due reziari all’unisono: «Perché se sei nel vuoto,
se davvero ti senti nel vuoto, devi agire prima che il vuoto ti risucchi…
È il gesto che salva. È l’urto tra l’atto poetico e il vuoto
che genera lo spazio e il tempo,
perché il vuoto e il nulla non coincidono affatto.
La forma-poesia non è l’inizio
ma il risultato dell’urto dell’atto nel vuoto che fluttua.
Perché il vuoto si può costruire, come al silenzio si può insegnare a parlare,
ma occorrono le parole-stringhe a cinque dimensioni».

II
Roma. Due reziari seduti a un tavolino.
Il bar di via Gaspare Gozzi [la linea B della Metro sferraglia].
A una parete gli occhi e le rughe di Samuel Beckett.
Il barista si avvicina con due tazze fumanti, sorride.
L’uomo somiglia a José Saramago, dice: «Vi ammiro,
voi conoscete la doppiezza delle parole, nelle vostre poesie una parola
tira l’altra e con la stessa parola si può dire la verità».
[…]
– «Una parola davvero scomoda», pensa l’interlocutore non visibile
che siede qui accanto nel bar –
[La verità fa rima con varietà], questo lo affermava il Signor K. nella omonima
poesia di Linguaglossa, dove il Signor K. fuma
un sigaro italiano e cincischia con il revolver…
[…]
«Ma voi non siete ciò che dite, siete dei truffatori, siete…
il credito che le vostre parole vi danno».

* [L’atto poetico nel vuoto è stato costruito come dialogo fra due amici poeti
(Gino Rago e Giorgio Linguaglossa) alla maniera della Nuova Ontologia Estetica) nel quale il parlato fra i due gioca un ruolo estetico decisivo.]

Luigina Bigon
20 febbraio 2018 alle 22.10 Continua a leggere

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Salvatore Martino, Poesie, sintesi critica su Autoantologia – Cinquantanni di poesia (Progetto Cultura, 2014, pp. 1000, € 25 ) – Presentazione critica di Mario M. Gabriele

Il Mangiaparole rivista n. 1

Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel 1940, nel cuore più segreto della Sicilia, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra (1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). Ha ottenuto i premi Ragusa, Pisa, Città di Arsita, Gaetano Salveti, Città di Adelfia, il premio della Giuria al Città di Penne e all’Alfonso Gatto, i premi Montale e Sikania per la poesia inedita. Nel 1980 gli è stato conferito il Davide di Michelangelo, nel 2000 il premio internazionale Ultimo Novecento- Pisa nel Mondo per la sezione Teatro e Poesia, nel 2005 il Premio della Presidenza del Consiglio. Nel 2014 esce con Progetto Cultura di Roma, in un unico libro, la sua produzione poetica, Cinquantanni di poesia. È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010  con la direzione di Sergio Campailla , insieme a Fabio Pierangeli ha tenuto un laboratorio di scrittura  creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008, un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.

Laboratorio-15-febbraio-2018

.

Salvatore Martino fa parte della fitta schiera di poeti della cosiddetta Quinta Generazione, locuzione con la quale Giampaolo Piccari diede vita all’omonima Rivista e a una significativa produzione poetica ed editoriale nelle regioni d’Italia. Martino entra nella Poesia con Attraverso l’Assiria del 1969, con testi che hanno una propria visibilità e tracciamento  estetico, fino al volume La metamorfosi del buio del 2012.

La poesia italiana fra le due guerre ha avuto un notevole impatto nella società delle lettere a Nord e a Sud dell’Italia. Su queste due aree hanno operato le grandi Case Editrici con una autonomia selettiva, escludendo poeti di rilievo con l’appoggio collaborativo della critica militante. Non c’è dubbio che la “questione meridionale” abbia avuto un ruolo importante in un periodo di crisi socio-economica e culturale. I poeti del Sud, in un certo senso, si sono autoemarginati con la loro poesia, minoritaria e monotematica, legandosi al paesaggio e agli affetti familiari, saturando l’ambiente, tra realtà e mito, all’interno della cosiddetta “civiltà contadina”. Più verosimilmente si trattò di una esperienza poetica e generazionale nel ristretto tempo in cui si venne a formare all’interno di una serra fatta di svariate vegetazioni poetiche.

Il superamento dalla stasi poetica, tipo country, avvenne  con la nascita della Neoavanguardia, che con il Gruppo 63 operò una vera e propria rivoluzione linguistica, determinando una frattura con la Tradizione. L’appoggio di Riviste come I Quaderni Piacentini, Officina, Tam Tam, ES, Carte Segrete, ecc. portò ad una rivoluzione sistemica e linguistica nella poesia. Dire dove nasce e muore la poesia o codificarla con delle proiezioni temporali, per un’analisi delle strutture e delle forme, è operazione assai complessa considerati gli innumerevoli reperti testuali e verboiconici, così ricchi di mezzi toni e di falsetti, e tuttavia abbastanza significativi nell’esprimere il clima dentro il quale si muove il poeta. Intanto, bisogna risalire agli anni Settanta, dopo l’operazione estetico-critica avviata da Luciano Anceschi con la rivista Il Verri, fino al Gruppo 63 di Sanguineti, con le varie indicazioni poetico ideologiche diffuse in Italia come strutture-simbolo dai ciclostili di “impegno e di lotta”, per avere una discontinuità con le forme più conservatrici della poesia. Va da sé ricordare che il cammino non è stato agevole e che ha avuto  periodi caratterizzati da flussi e riflussi, da impegno e disimpegno nella operatività ricostruttiva della parola, che rimane sempre il vero campo d’azione per rimuovere steccati e barricate. Qui ci si limita a indicare le antologie che maggiormente si introdussero nel “mare della oggettività”, come  I Novissimi,  di Alfredo Giuliani del 1961, Il pubblico della poesia, di Berardinelli e Cordelli, del 1975, La parola innamorata, di Pontiggia e Di Mauro del 1978, La poesia degli anni Settanta, di Antonio Porta del 1979, l’ampio Repertorio  della poesia italiana contemporanea di Zagarrio del 1983 e La parola Plurale di Cortellessa del 2005, inclusiva di una anagrafe poetica tra le più diverse e propositive. Le ragioni che hanno portato le antologie a immettere e ad escludere nomi e opere, sono da ricercare nella mercificazione del prodotto poetico basato sul profitto e non sulla qualità. Il fenomeno delle omissioni ha modificato completamente il quadro operativo e poetico di stagioni molto diverse l’una dall’altra, all’interno di una Storia che ha falsificato la realtà, procedendo per “repressioni, per grandi operazioni di natura etnica” (Luigi Baldacci: Novecento passato remoto, pagine di critica militante. Rizzoli, gennaio 2000-pp. 18.19).

L’invisibilità di questi poeti ci ricorda, vagamente, Il Cavaliere Inesistente, di Italo Calvino, e più in specifico, il protagonista Agilulfo Emo Bertrandino dei Guidilverni e degli Altri di Corbentraz  e Sura, Cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez, pignolo  e intransigente paladino che non esiste, dato che nella sua brillante armatura è il vuoto, e per questo è deriso e schermito dai suoi compagni. Tuttavia, Agilulfo è il migliore tra tutti gli armigeri al servizio di Carlo Magno. Ma quanti poeti hanno rivestito il ruolo di Agilulfo?, quante opere sono andate al macero o dimenticate solo perché non rientranti nelle antologie ufficiali? In occasione del ritiro del Premio Nobel, Montale ebbe a dire che: “La poesia è una entità di cui si sa  assai poco, tanto che due filosofi diversi  come Croce Storicista idealista, e Gilson cattolico, sono d’accordo nel ritenere impossibile una storia della poesia”. Allora a che serve scrivere? E come si giustificano le mille pagine relative a una produzione poetica pari a Cinquantanni di lavoro da parte di Salvatore Martino? un poeta meridionale che ha assorbito l’humus del proprio territorio senza esporsi alla cultura contadina con tutte le problematiche che essa poneva, tra ambiente sociale, povertà economica e figurazione del paesaggio?

Quando Salvatore Martino si propose con la sua prima opera poetica nel 1969, persistevano sul territorio italiano contraddizioni e dualismi di enorme portata. Alla poesia non bastava più il Gruppo e l’Antigruppo, l’umano e il disumano, il conscio e l’inconscio, il plurilinguismo e il neologismo, la metempsicosi  e la fabulazione discorsiva, il fumismo e la metafora, la viola d’amore e di morte, ma le occorreva un supplemento di rifondazione linguistica per colpire la stagnazione concettuale in cui si era immersa la cultura e la società. Su tutto questo bailamme, Salvatore Martino ha operato con una propria poesia democratica, e mai riduttiva; un long playing senza forzature sintattiche e visionarismo romantico. Si potrebbe tentare di dire che la sua opera rispecchi la vita di un uomo segnata da impegno e sincerità. Ora ci si trova qui ad esaminare la sua  Autoantologia – Cinquantanni di poesia, Edizioni Progetto Cultura, Roma 2014, che assembla itinerari linguistici e poetici di diversa proposizione. Ne viene fuori una struttura linguistica dove non pochi sono i procedimenti che hanno dato uniformità alla parola con ideogrammi psicoestetici. Si può dire che questa di Martino è una biografia in versi fatta di espressionismo soggettivo e di classicismo moderno. Egli si avvale di significative esposizioni stilistiche rispetto allo sperimentalismo tout court, che non ha mai influito sul suo modo di fare poesia, stabilendo fusioni con la memoria e il quotidiano, ricorrendo alla lingua chiara e a immagini mai surreali, o strumentali, scegliendo la nitidezza delle esposizioni e privilegiando soprattutto il rapporto con il lettore attraverso il vissuto, e le frammentazioni della vita, spesso come  un Poème en Prose.

Una poesia che emerge dal mondo interno del poeta senza schemi rigidi o da decriptare. Nessuna contraddizione, quindi, negli eventi temporali e psicologici, largamente motivati da una realtà in continuo fermento. Una esperienza poetica di tutto rispetto, fedele a un clichè che ha garantito nel tempo, uno spartito linguistico anche con il disagio di chi avverte un velo di tristezza sopra l’anima. Una via poetica rimasta sempre sulla giusta tangenziale, con un IO psichico anch’esso multiplo nella riflessione critica e soggettiva delle cose. Si va, dunque, da un lato verso la contiguità con L’Essere e dall’altro, lungo le rifrazioni del proprio periscopio esterno.

In questa operazione c’è posto anche per la dinamica metrica e polifonica. Martino si è visto costretto a fare una scelta operativa dopo l’establishment poetico degli anni Sessanta, con una operazione linguistica diversa  dalle correnti più consolidate, accumulando decenni e decenni di lavoro silenzioso e ricostruttivo secondo lo spirito del proprio Tempo. Egli sa aprire e chiudere il dialogo, il racconto, la storia di un evento, le figurazioni dell’effimero nel teatrino del mondo. Martino coglie dalla profondità dell’ES, gli aspetti più controversi dell’ everyday life  per riportarli in superficie alla luce del sole, attraverso un linguaggio che, all’epoca della sua formulazione, si lascia indietro le architetture e i centri storici della poesia interpretativa di un meridionalismo  fatto di miseria e desolazione. E qui che il disboscamento culturale si fa avanzamento estetico e prassi necessaria per arginare il vuoto, le iperplasie linguistiche, instaurando un modello di poesia racconto, di cadenze accentuative nel ritmo basilare delle storie e degli eventi, affidandosi, senza maschere e coperture,  alle richieste del subconscio convocandone i soggetti e le storie nella continua leggibilità del mondo esterno. L’immaginario e il realistico emergono come onde di un fiume in piena. Si ha a che fare con un magnetismo poetico. Ci sono grovigli di memoria per implosioni della materia mentale e psichica, scarti onirici dove il poeta ci si immerge per trovare un punto di sintesi e di armonia. A volte è una fuga dal quotidiano, altre volte è un ritorno ai micro-mondi evaporati. Non c’è ricorso all’utopia e agli universi extrasensoriali. Il suo linguaggio si presenta, in rapporto ai poeti della metà del Novecento, come strumento di innovazione rispetto alle tematiche della letteratura popolare.

Nelle sue stanze poetiche Martino dà appuntamento alle figure altamente lampeggianti nella memoria. Non so se egli abbia mai fatto una “dichiarazione di poetica”. Sarebbe interessante, in questo caso, seguirne i sottopassaggi dove sosta il mondo della reificazione. Forse si coglierebbero gli aspetti più segreti, perché partono da un poeta che ha costruito il proprio verbum senza palcoscenici. A volte sembra di imbattersi in certi traumi, attraverso l’infittirsi di relazioni, tra collasso e ricostruzione della vita, “nel silenzio di Dio e nell’erotismo del corpo e della mente”. La sua poesia vuole appunto dirci tutto questo. Sta dentro il paesaggio esistenziale. Lo scardina, lo lascia, riprendendolo subito dopo, per non restare in vedovanza, convivendo con la poesia; una specie di chiatta di salvataggio contro l’effimero e il quotidiano.

Qui si riportano alcuni stralci di autoanalisi poetica fatta da Martino nella sua relazione tenuta presso il Laboratorio di poesia dell’Ombra delle parole del 30 marzo 2017, che sembrano allinearsi con quanto sopra espresso, trovando dei rapporti interattivi tra:

“Ispirazione e immaginazione sentimento e magma, filo rosso col mondo più sotterraneo, una scrittura talvolta quasi automatica alla maniera dei surrealisti, queste credo furono le vie che intrapresi. Al vers libre preferii la cadenza non ritmata. Cercavo sempre anche in un ipermetro una certa musica, che verificavo con la lettura ad alta voce. Devo ammettere che già allora non avevo interesse per la poesia che si andava materializzando in Italia. Leggevo, conoscevo, ma nella totale indifferenza….. cominciarono a delinearsi le tematiche che mi avrebbero accompagnato nell’arco di oltre cinquanta anni: il rapporto dell’IO con se stesso, la maschera (persona), l’archetipo dello specchio, il colloquio con l’Altro, il viaggio reale e quello sognato, l’ambiguità dell’essere e delle parole, Eros nella sua duplice natura, principio di relazione proprio alla vita, o progenie della notte, fratello della morte, incapace di salvarci da essa, e i sogni (oneiroi), che sia Omero che la mitologia orfica collocano nel regno di Ade. Tutto sotto la freccia apollinea, l’ebbrezza dionisiaca, il fuoco della conoscenza, il freddo del bisturi nell’indagine razionale”.

Su queste coordinate si allinea il lavoro di Salvatore Martino, un poeta che traccia i disagi della vita di fronte ai suoi processi corrosivi, al caos degenerativo delle cose nell’accumulo degli eventi dai quali è impossibile uscirne fuori. Il tutto con l’elaborazione di una poesia, moderna, ricostruita secondo schemi propri sull’onda di un lirismo controllato e di diversa vocalità e immaginazione. Una poesia cresciuta patrimonializzando la lettura di poeti come  Pound, ed Eliot ed altri ancora, che hanno arricchito la sua sensibilità da cui sono poi nate le ripercussioni estetiche trascritte come egli scrive su “fogli, lettere, alfabeti, frammenti, tentativi lunghi e brevi, dispersi e ritrovati, abbandonati sui tavoli e mai distrutti, custoditi in un codice della memoria”.

                                                                                                 (Mario M. Gabriele)

Da La fondazione di Ninive (1965-!976)

…….Colmato è il piano Si procede a distanza dagli ultimi
vigneti per un’estate obliqua nella magia degli occhi
Si scendono pendii e bianco alla vista dei corvi
l’arsura ci unisce fino alla decima carta S’abbassano
a cerchi e intorno la sterpaglia assetata Qui riluce
il falco e si chiamano ovunque giostre di uccelli Quando
verranno a prenderti Un sibilo di piume Il gioco delle
sfere La pelle si attorciglia alla carotide Quando verranno
a prendermi Il gioco degli specchi oltre la decima carta
e il rammarico di non aver parlato e come potesse
finire un’altra storia o soltanto impietrirsi nel ricordo
Quando verranno a prenderci legati a doppio anello
di menzogne quando muti verranno col freddo piede
di uccello l’unghia ritorta nella gola – …….. Continua a leggere

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 Dialogo sull’essere e il nulla, il nichilismo e la poesia – Andrea Emo, Adalberto Coltelluccio, Giorgio Linguaglossa, Salvatore Martino, Antonio Sagredo, Steven Grieco Rathgeb, Gino Rago, Jean Paul Sartre, Carlo Livia, Mario Gabriele, Letizia Leone, Rossana Levati,

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da sx G. Linguaglossa, L. Leone, S. Grieco Rathgeb, Roma, Fiera del Libro, Convention Center, 2017

Giorgio Linguaglossa

6 gennaio 2018 alle 12:06

Perché in ogni poesia c’è qualcosa di scandaloso e di favoloso. La poesia che non fa scandalo viene subito dimenticata. La poesia che non è fabula viene anch’essa subito dimenticata.

Si ha sempre il sospetto che le parole non dette ci perseguitino… Anche le parole dette e scritte ci perseguitano con la superfluità e la vacuità con cui sono state pronunciate.

Perché le parole sono sagge, loro lo sanno di essere melliflue e superflue e di essere nate da un difetto di pronuncia del demiurgo…

Il poietès è il più grande nichilista perché porta le cose all’essere dal nulla. [citazione a memoria di una frase di Emanuele Severino]

 Salvatore Martino

6 gennaio 2018 alle 14:42

Questa volta carissimo Giorgio non posso che metaforicamente baciarti per queste pagine luminose che hai inserito nella Rivista. Tutti noi dovremmo leggerle rileggerle, farle diventare il vademecum, il libro dei libri sul nostro comodino. Una commozione profonda mi invade ad ogni passo. Emo scrive poesia dall’agolo della sua strada filosofica, con una lucidità, un Kommos,che ti trascina nell’Assoluto. Non importa di quale fede o non fede tu sia, di quali convinzioni estetiche o filosofiche tu ti abbeveri, le sue parole ti trafiggono come lama di Toledo nella carne di un El Greco, di un Goya della Quinta del Sordo. Quello che lui dice dell’Arte mi sembra uscito da un capitolo della Bibbia per un Ebreo, tanto è incontrovertibile il suo dettato.Tutta le filosofia germanica sull’estetica mi sembra cosa impenetrabilmente algida.

 Antonio Sagredo

6 gennaio 2018 alle 21:02

Ottima la scelta di Emo Andea e tutto ciò intorno, compresa la intervista. Bene ha fatto Lingualossa a pubblicare alcuni scritti del filosofo, che non ho mai approfondito abbastanza, ma alcuni suoi temi filosofici fanno parte dei miei versi come non avrei pensato mai; non mi sono certo riferito al filosofo per costruirli, ma credo che ci sia stata simpatia singolare. E allora dovrei andare in cerca di alcuni miei versi che hanno attinenza con la sua filosofia e qui pubblicarli.

 

Fiera 8 dic 2017 1

da sx G. Linguaglossa, L. Leone, S. Grieco Rathgeb, Roma, Fiera del Libro, Convention Center, 2017

Gino Rago

6 gennaio 2018 alle 21:54

La veste è orgogliosa della nudità che essa socializza”. Grande Andrea Emo e bravo Giorgio Linguaglossa che ce lo ha riproposto.

 Letizia Leone

7 gennaio 2018 alle 9:57

Una lettura entusiasmante. La proposta illuminante di Giorgio (che ringrazio vivamente), occasione di studio di un filosofo anomalo e totalmente sconosciuto in vita, confermano quanto nella modernità la questione estetica sia essenziale in un fare artistico che non può più fondarsi in una genesi ispirativa “ingenua e sentimentale” a rischio del ridicolo. Addirittura Emo considera impossibile non solo agire ma anche fare opere nella contemporaneità: “La poesia e l’arte in genere oggi purtroppo non possono essere che ridicole. Esse sono nate nel tempo in cui il lavoro, il trattamento della materia, in cui la storia (e la vita) erano condotte in maniera artigianale… Perciò il cosiddetto artista è una sopravvivenza ridicola dell’artigianato: egli si vergogna di quel glorioso passato” (Le voci delle Musescritti sulla religione e sull’arte).

Mi pare che qui siamo di fronte ad un salto quantico rispetto al neoidealismo di Croce e Gentile che ha dominato la scena italiana fino agli anni cinquanta. Emo (1918- 1983) ha condotto la sua ricerca filosofica in forma diaristica e frammentaria dal 1918 al 1981 in circa quattrocento quadernoni per un totale di quarantamila pagine! Scrive il filosofo Mario Perniola che se l’Estetica può essere paragonata all’inconscio della società, “il corpus di Emo è simile a uno specchio, posto a una profondità inarrivabile, che riflette ciò che sta alla superficie. Al tempo tirannico del mondo Emo contrappone un altro tempo speculare, ma opposto, che nessuno può vedere e che soltanto lui conosce: “L’abolizione dello scopo, della finalità, in una parola l’abolizione del futuro…è l’instaurazione di un presente eterno” ( Emo).

 Giorgio Linguaglossa

7 gennaio 2018 alle 12:37

Ecco cosa scrive Andrea Emo di Dante:

“il più consistente dei poemi in lingua italiana, quello dantesco, è il poema del mondo dell’ inconsistenza e delle ombre”. Le ombre degli uomini, del male e del bene. Di una vita “ridotta ad ombra per poter essere eterna”. La Divina Commedia diventa così – tra le mani di Emo – “la Cattedrale delle Ombre”.

Andrea Emo:

Io sono un buono a nulla, ciò posso anche confessarlo; ma sono appunto un buono a nulla, capace del nulla; capace di affrontare guardare sopportare il nulla”.

Sulla celebre mela di Cézanne.

La radice dell’ arte è l’ eternità dell’ effimero, il pervenire all’ eterno accettando, accogliendo l’ effimero come tale; senza tentare di fissare, di obbiettivare, di possedere l’ istante, accettandolo come pura negazione, come ciò che non si può affermare direttamente”.

È questo che fa la nuova ontologia estetica:

costruire una «cattedrale delle ombre» quale unica possibile rappresentazione del mondo dei cosiddetti vivi.

Se poi questo qualcuno lo chiama nichilismo, non so, non saprei, e neanche mi interessa…

Le sciocchezze e i banalismi dei luogotenenti del truismario che si affrettano a narrarci i banalismi dell’io, li trovo rivoltanti…

 

Fiera 8 dic 2017 3 nero e bianco

da sx  L. Leone, A. Sagredo, Pepito, Giuseppe Talia, Roma, Fiera del Libro, Convention Center, 2017

Giorgio Linguaglossa

7 gennaio 2018 alle 12:50

 […] La dicotomia su cui l’intera teoresi occidentale ha edificato le proprie fondamenta viene così scalzata da una speculazione diretta al superamento della logica immunitaria del principio d’identità e di non contraddizione in un oltrepassamento di fatto della stessa Grundfrage, la domanda fondamentale heideggeriana «perché l’essere e non il nulla?». Fulcro di questa operazione è la coincidenza, in seno al pensiero emiano, di essere e nulla, in quanto, come notò Romano Gasparotti, «se è vero che non si può pensare l’origine… essa necessariamente va pensata come lo stesso negarsi in quanto tale… l’originario e immediato autonegarsi» (Note sul pensiero di A. Emo, in Andrea Emo, Quaderni di metafisica 1927/1981, Bompiani, Milano 2007, p. 1388). Essere e nulla non sono allora contrapposti, bensì co-implicati, in quanto «gli enti appaiono dal nulla, da quello specifico sfondo abissale che consente loro di ex-sistere, di star-fuori dal Principio, per poi, attraverso un ulteriore atto di negazione, farvi ritorno: ogni ente manifesta il ni-ente e, nel mondo, l’eternità rinasce con gli enti come effimera» (p. 86). La potenza del negativo è l’unica forza grazie a cui è possibile concepire la purezza del positivo: il nulla è il lavacro ove tutto sorge e scompare senza mai distaccarsi completamente dallo sfondo enigmatico originario. Sotto un profilo teologico, secondo considerazioni analoghe a quelle succitate, il cristianesimo tragico di Emo si fonda sull’interpretazione di Cristo come aletheia, disvelamento, in quanto Dio è il suo stesso annichilirsi, «per esistere e farsi presenza deve necessariamente negarsi» (p. 92). Un Dio che muore e disgrega se stesso sulla Croce per tutelare l’enigma cosmico, secondo una prospettiva per certi versi non dissimile dal pensiero teologico del poeta portoghese Teixeira de Pascoaes, per il quale «l’Universo è il cadavere di Dio, la statua fredda e inerte della Speranza» (Aforismi. Scelti da Màrio Cesariny, Edizioni ETS, Pisa 2010, p. 31). Un Dio che è sacrificio, dramma, redenzione nella contemplazione della propria stessa tragedia… * Continua a leggere

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L’aporia del presente nella poesia di Mauro Pierno e di Donatella Costantina Giancaspero. L’ingresso del fattore T nella poesia della nuova ontologia estetica, Il tempo viene messo in scatola – Le parole oscurate di papa Francesco – Riflessione sulla nuova poesia di Gino Rago, Poesie di Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, Mario Gabriele, Giorgio Linguaglossa, Salvatore Martino,

Foto uomini che scendono le scale

Il tempo viene messo in scatola, ecco il fattore T.

 La redazione dell’Ombra auspica per tutti i lettori e commentatori della rivista serene festività e un Anno nuovo ricco e fertile di «cose».

Giorgio Linguaglossa
22 dicembre 2017 alle 11:02

Nell’edizione serale del TG1 di ieri, la frase di Papa Francesco indirizzata contro i «complotti» è sparita: «Riformare la Curia è come voler spolverare la Sfinge d’Egitto con uno spazzolino da denti» diceva monsignor De Mérode; e Francesco ieri ha ripetuto quella frase. Giunto al suo quinto anno di lavoro sulle riforme e al suo quinto discorso per gli auguri natalizi ai collaboratori romani, il papa spiega che «una Curia chiusa in sé stessa sarebbe condannata all’autodistruzione»; «è come voler togliere la polvere dalla Sfinge con uno spazzolino da denti”. Ebbene, questa frase è stata “oscurata”.

È incredibile, adesso siamo arrivati addirittura a CENSURARE le frasi del papa che non riescono gradite alle orecchie dei mercanti di schiavi dei Padroni e del conformismo mediatico più spregiudicato. Voglio proprio vedere se di questa frase c’è traccia nei quotidiani.

Parafrasando la frase che il Papa Francesco ha pronunciato ieri in Vaticano:

Voler fare pulizia nella poesia italiana è come voler togliere la polvere dalla Sfinge con uno spazzolino da denti.

Foto giallo sfondo con femme and hat

Voler fare pulizia nella poesia italiana è come voler togliere la polvere dalla Sfinge con uno spazzolino da denti

Lucio Mayoor Tosi

Lungo il viale del tempo

– oh, grazie! Che immagine romantica.
… dove nascono ad aprile le cavallette
e a giugno le prime aragoste

dentro la scatola bianca dei souvenir,
per un soffio, il forte vento fa tremare
le statue sui basamenti.

Sì, è scritto nell’articolo di una rivista letteraria:

“Nella realtà inquieta dei poeti, tutte le cose
sono immense, o infinitamente piccole”
e “L’anello grigio del secolo scorso
potrebbe ustionare chi lo porta al dito. Farlo piangere”.

– Oh, Il canto silenzioso delle lumache!

L’oasi K2 quando arrivano rifornimenti e libagioni!
Le prime Candies Blue alla frutta danese!
Il bel tramonto su Baudelaire!

A pagina chiusa, il libro narra di noi
nel Mausoleo del Parlamento.

Non un granello di polvere tra i corpi
refrigerati.

Ho lasciato il mio guardaroba
tra mille anni.

Onto Gino Rago_2

Salvatore Martino: Al mio paese ci sono notti che le barche corrono lungo il soffio dei pesci e l’albero appassito della prua

   

Gino Rago
21 dicembre 2017 alle 18:34

Salvatore Martino

ovvero, “la poesia di Eros nel gesto controllato che riesce a farsi segno…”

“Al mio paese ci sono notti che le barche corrono lungo il soffio dei pesci e l’albero appassito della prua notti nel sonno di maree umide e gialle Tutto il giorno ho sperato di te con la testa all’angolo del braccio Umide e gialle di scogli appuntiti Nel chiuso della stanza le pareti si gonfiano lo specchio quadrato il tavolo le sedie il gioco alterno dei marosi rossi e bianchi e bianchi l’assurda figura dei vestiti la porta che non s’apre Sei intero come il tutto che ci divide nel tuo corpo di vetro E notti ci sono allungate dal buio di correnti che lampeggia il tossire dell’aria e distendi alla luce del ventre l’inutile sorriso…”.

Si assiste all’affiorare dei temi centrali della tradizione lirica italiana e della poesia fatta dagli insulari, dal nostos omerico alla trasfigurazione epica della pesca, dalla presenza della morte a quella dei delfini e delle sirene, ma almeno in questo brano di cristallina prosa d’arte ci imbattiamo in un Salvatore Martino alle prese con i segni di quell’immenso lavoro sul linguaggio in atto che troverà nell’opera futura in via di preparazione una sua realizzazione più compiuta.

La selezione da me effettuata risponde a una lettura possibile, senz’altro parziale. Aggiungo che ho preferito esporre, bruscamente e talvolta estraendoli a forza dal corpo dei versi postati su l’Ombra, un passaggio nel quale si trovano inseriti quei segni che sembrano garantire un’illuminazione immediata, la cui matrice affettiva e nostalgica assume un rilievo specifico ma tuttavia mai incline all’arreso ripiegamento intimista.

Dalla nostalgia per i tempi a quella per gli spazi e fino al ricordo di ” amici” o compagni che fanno la guardia in sembianza di animali fedeli, Martino ci sospinge dalla parte di chi parla nei «versi oscuri della divozione», con la voce di un mitico fanciullo che viene dal Sud, un Sud isolano mai consegnato all’oblio, come fu per Ripellino, per Cattafi e soprattutto per Stefano D’Arrigo alle cui frequenze delicate accosto quelle di Salvatore Martino, almeno se mi limito a considerare i versi riportati di seguito, tratti da Pregreca”del D’Arrigo poco prima di Orcynus Orca:

da Pregreca di Stefano D’Arrigo:

“Gli altri migravano: per mari
celesti, supini, su navi solari
migravano nella eternità.
I siciliani emigravano invece (…)”

Due sensibilità poetiche ben precise e senza sforzi riconoscili, dai contorni ben disegnati, Salvatore Martino e Stefano D’Arrigo, ma entrambe mosse, agitate, nutrite da Eros come forza vitale, come forza cosmica primordiale che nei loro versi riesce a farsi trasparenza d’alabastro di contro alla opacità della pietra. Eros, il gesto controllato che riesce a farsi segno nella “insidia della soglia”, come in questi versi di Salvatore Martino:

” I morti sono morti e basta
e freddi
perché la morte è fredda
e dio è volato
sopra i gabbiani che piangono”

onto Lucio Mayoor Tosi

L.M. Tosi – oh, grazie! Che immagine romantica.
… dove nascono ad aprile le cavallette/ e a giugno le prime aragoste

2 –Lucio Mayoor Tosi, ovvero un poeta che gioca con il tempo nello Spazio Espressivo Integrale:

Lucio Mayoor Tosi, “Lungo il viale del tempo”

– oh, grazie! Che immagine romantica.
… dove nascono ad aprile le cavallette
e a giugno le prime aragoste
dentro la scatola bianca dei souvenir,
per un soffio, il forte vento fa tremare
le statue sui basamenti.
Sì, è scritto nell’articolo di una rivista letteraria:
“Nella realtà inquieta dei poeti, tutte le cose
sono immense, o infinitamente piccole”
e “L’anello grigio del secolo scorso
potrebbe ustionare chi lo porta al dito. Farlo piangere”.
– Oh, Il canto silenzioso delle lumache!
L’oasi K2 quando arrivano rifornimenti e libagioni!
Le prime Candies Blue alla frutta danese!
Il bel tramonto su Baudelaire!
A pagina chiusa, il libro narra di noi
nel Mausoleo del Parlamento.
Non un granello di polvere tra i corpi
refrigerati.
Ho lasciato il mio guardaroba
tra mille anni. Continua a leggere

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Poesie di Gino Rago, Steven Grieco Rathgeb, Kikuo Takano, Boris Pasternak, Samuel Beckett – Tre traduzioni di una poesia di Samuel Beckett – What is the word (Qual è la parola) di Beckett –  La petizione panlinguistica delle poetiche del secondo Novecento – Nuova ontologia estetica, Dialoghi e Appunti: Salvatore Martino, Paolo Statuti, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa 

Steven Grieco Rathgeb

 POESIE DEL MONSONE

 Per Chunni Kaul

1
Si dice che il poeta abbia un suo paesaggio

                                 “spoglio”

bianco-nero nella penombra
nel sogno variopinto del mondo

ecco il poeta

                                            apre le porte    apre le porte

2
Leggevo Seferis nel tempo delle piogge
a lungo dialogando
con la casa buia a mezzogiorno

Nella stanza accanto, una pittrice silenziosa.
Persone assenti gremivano l’aria.

Fuori, verde tuonante:
brezza che non soffia muove qualche foglia del banano.
Un cielo grave sulle strade ferme in ogni direzione.

Verde tuonante sulla vetrata, il grande geco.

Verde tuonante, ora pioggia sul tetto,
nella stanza di là, fra i mobili,
la mano di lei traccia colori nell’aria scura.

Dalla porta socchiusa le foglie del banano.
Dalla porta entravano strisciando i lunghi vermi del monsone.

Di esotico non esiste niente.

(da Supersimmetria, Jaipur, luglio 1996)

DALLA COLLINA DI BELLENDA

In effetti, non sappiamo più
se questo è scrivere o non scrivere.

Oltre un punto indefinito spariscono
anche le cose di cui scriviamo,
rimane solo la traccia del loro migrare:
e noi che ancora scendiamo sugli scogli
per studiare il mare, ad esempio,
lo spumeggiare che è già noi.

Perché le parole hanno un bell’inseguirsi
laddove il senso se ne libera: oltre
il punto di significazione
che non fornisce più certezze.

Solo dopo l’inspirazione sapremo meglio:
in questo tornare espirando
verso il suo silenzio.

(Ventimiglia, 2011)

Gino Rago
(Dal postmoderno decadentistico al postmoderno forte):

Il Vuoto non è il Nulla
Preferiva parlare a se stesso. Temeva l’altrui sordità.
“L’intenzione dello Spirito Santo è come al cielo si vada.
Non come vada il cielo”.
(…)
A Pisa tutti tremarono.
Il poeta vero ama la nascita imperfetta delle cose. Come fu.
In principio…Il vero poeta lo sa.
E’ nei primissimi istanti dell’universo materiale.
Non c’è lo spazio. Non c’è il Tempo.
Non si può vedere nulla. Perché per vedere ci vogliono i fotoni.
Ma in principio i fotoni non ci sono ancora.
Né si può ‘stare’. Perché per stare ci vuole uno Spazio.
Nessuno può ‘attendere’ (o ‘aspettare’).
Perché per poter attendere o aspettare ci vuole un Tempo.
(…)
In principio. Nei primissimi istanti… E’ solo il Vuoto.
Il Vuoto soltanto che non è il Nulla. E’ un Vuoto zeppo di cose.
E’ come il numero zero. Lo zero che contiene tutti i numeri.
I negativi e positivi che sommati giungono allo zero.
In Principio… Nei primissimi istanti il Vuoto. E il Silenzio.
Ma il silenzio che contiene tutti i suoni. Il silenzio di Cage.
E l’universo materiale? Viene dalla rottura della perfezione.
(…)
E’ stata l’imperfezione a produrre questa meraviglia?
Sì. Il Tutto viene dalla imperfezione.
Ma i paradigmi nuovi faticano a lungo prima d’essere accettati.
Finché Luce non si stacchi dalla materia opaca.
Ma se la luce si distacca esistono i fotoni, il moto, l’attrito.
Il tempo e lo spazio. L’uomo che scrive la vita.
La poesia che scoppia dal vuoto che fluttua.

Helle Busacca e Pasolini nella grafica di Lucio Mayoor Tosi

Giorgio Linguaglossa

Caro Gino Rago,

questa tua poesia è una delle punte più alte della «nuova ontologia estetica». Hai abbandonato alle ortiche la vecchia e antiquata concezione delle parole che parlano dell’«io» e del «tu», la tua poesia ricomincia daccapo, alla maniera di Lucrezio, dal De rerum natura. Riprendi a tessere il filo del discorso poetico dall’origine, dal nulla e dal tutto.

L’essere, ed è questo l’enorme problema della metafisica, sfugge alla predicazione, non risponde al predicato, non rientra nel linguaggio nel quale sembra, tuttavia, in qualche modo, anche risiedere come all’interno di una dimensione illusoria (come un palazzo fatto di specchi che si riflettono l’un l’altro), nella quale l’io pensa di esserci; ma, allora questo è il luogo di un grande abbaglio se l’io della percezione immediata crede ingenuamente in ciò che vede e sente. Ed è appunto questo ciò che fa il linguaggio della poesia: far credere in quel grande abbaglio. Ma è, per l’appunto, un abbaglio, una illusione. Per questo la poesia ha a che fare più con l’illusione e l’abbaglio piuttosto che con le categorie della certezza e della verità, che filosofi come Platone ed Eraclito non potevano accettare perché avrebbe messo in dubbio ciò su cui si edifica il mondo dell’edificabile, il mondo dei concreti e delle certezze, del nomos e del logos, parole altisonanti che all’orecchio della Musa invece suonano false e posticce.

L’io, per quanto manifesto, reperisce altrove il suo statuto ontologico,
nella sua mancanza costitutiva, che lo costituisce come impalcatura del soggetto.

l’io mento, è la vera dimensione dell’io penso.

L’abbaglio, l’illusione, l’illusorietà delle illusioni, lo specchio,
il riflesso dello specchio, il vuoto che si nasconde dentro lo specchio,
il vuoto che sta fuori dello specchio, che è in noi e in tutte le cose,
che è al di là delle cose, che è in se stesso e oltre se stesso,
che dialoga con se stesso…

Il mondo dell’innominabile, delle petizioni cieche in quanto prive di parole che stanno nell’inconscio, una volta raggiunto il Realitätprinzip, e cioè la dimensione propriamente linguistica, ecco che indossa l’abito di parole. Ma non sono quelle le parole che la petizione chiedeva, sono altre che la petizione non aveva previsto, né avrebbe mai potuto immaginare.

La petizione panlinguistica propria delle poetiche del Novecento scivolava invariabilmente nell’ombelico autoreferenziale, in quanto diventata ipoteca panlinguistica. […]
Il linguaggio poetico, in quanto potenza del rinvio, fame inappagata di senso
per via della stessa logica differenziale che vedeva nel gioco dei rinvii
la sua sola consistenza, si autonomizzava, si chiudeva su se stesso
e diventava linguaggio che si ciba di linguaggio. Una dimensione auto fagocitatoria.

Nella dimensione auto fagocitatoria scivola inevitabilmente ogni petizione panlinguistica.

Che lo si voglia o no, la poesia del post-Novecento, così come è stato per la poesia del Novecento, è stata colpita a morte dal virus del panlogismo, sconosciuto ad altre epoche e alla poesia di altre civiltà.
Nulla è più disdicevole dell’atteggiamento panlogistico proprio delle poetiche sperimentali e post-sperimentali che pretendono di commutare una ipoteca linguistica in petizione di poetica, in intermezzo ludico facoltativo.

C’è sempre qualcosa al di fuori del discorso poetico, qualcosa di irriducibile,
che resiste testardamente alla irreggimentazione nel discorso poetico.
Ecco, quello che resta fuori è l’essenziale.

L’unica sfera in cui si dà Senso è nel luogo dell’Altro, nell’ordine simbolico.
Allora, si può dire, lacanianamente, che «il simbolo uccide la “Cosa”».
Il problema della “Cosa” è che di essa non sappiamo nulla, ma almeno adesso sappiamo che c’è, e con essa c’è anche il “Vuoto” che incombe sulla “Cosa” risucchiandola nel non essere dell’essere.
È questa la ragione che ci impedisce di poetare alla maniera del Petrarca e dei classici, perché adesso sappiamo che c’è la “Cosa”, e con essa c’è il “Vuoto” che incombe minaccioso e tutto inghiotte.

È stato possibile parlare di «nuova ontologia estetica», solo una volta che la strada della vecchia ontologia estetica si è compiuta, solo una volta estrodotto il soggetto linguistico che ha il tratto puntiforme di un Ego in cui convergono,cartesianamente, Essere e Pensiero, quello che Descartes inaugura e che chiama «cogito». Solo una volta che le vecchie parole sono rientrate nella patria della vecchia metafisica, allora le nuove possono sorgere, hanno la via libera da ostruzioni e impedimenti perché con loro e grazie a loro sorge una nuova metafisica. Continua a leggere

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PER UN’ECOLOGIA DELLA POESIA EROTICA WHALES WEEP NOT! LE BALENE NON PIANGONO! UNA POESIA DI D. H. LAWRENCE Trinita Buldrini, Steven Grieco-Rathgeb – Commento introduttivo di Chiara Catapano Commento di chiusura di Steven Grieco-Rathgeb

foto Andy warhol paintings lips

LA MANTIDE E IL CAVALLUCCIO MARINO

di Chiara Catapano

La coppia più audace e longeva del mondo, Eros e Thanatos, come tutte le coppie del mondo, è soggetta al pettegolezzo. E più d’altre vi si espone, fraintesa, mal capita, erroneamente interpretata. Da psichiatri, filosofi, esteti, poeti. Non passa giorno che qualcosa sfugga o indebitamente vi si associ dell’altro, per eccesso di zelo, per narcisismo, per incapacità, per ostinata passione. Spesso sono le migliori intenzioni a tradire questa coppia.

Spinosissimo parlare di poesia erotica – spinoso in generale parlar di ogni cosa in arte, in tempi in cui il giudizio è sospeso, macchia d’olio nel mare del web. Ma bisogna provarci, con tutte le lacune che potranno rimanere aperte, o che si potranno – fresche – aprire; perché insomma un po’ d’ordine va fatto. Un po’ di chiarezza: così come non tutto ciò che viene scritto con audaci ‘a capo’ è poesia; e di quanto rimane nel setaccio, non tutto ciò che si denuda è erotico.

La poesia di D. H. Lawrence, tradotta da Trinita Buldrini e Steven Grieco-Rathgeb, ha accompagnato in noi tre considerazioni su cosa sia l’eros in poesia. Va chiarito da ben inizio che non su criteri di “bello” o “brutto” qui ci basiamo (che quelli già la fine dell’800 li ha – fortunatamente! – scardinati mettendoci tutti gambe all’aria), bensì ci appelliamo al sacrosanto diritto/dovere di riconoscere (e defenestrare) il banale in letteratura, il tossico nella vita. Il trito e ritrito. La scopofilia.

La banalità, sissignori, esiste. Striscia sempre sulla superficie, non s’immerge. Tanto più rischioso quando si associa il gesto artistico all’eros. L’atto carnale è di per sé solo una parte del movimento erotico; ridurre dunque un testo all’anatomia di un amplesso è proprio come ridurre, per riprender la metafora di sopra, una poesia ai suoi a capo.

Ma è la civiltà dei consumi, dove i corpi stessi vengono a loro volta consumati nella loro smania di realizzazione: corrosi, per raggiungere un’acme, una postura effimera – E Letizia Leone, nelle sue poesie erotiche mette in luce proprio questo aspetto. Come nel suo  “La disgrazia elementare” chiarisce la natura esasperata dall’umano, la fine imminente, “la fossa tossica/e ai margini un orto/per insalate di malve e asfodelo”, altrettanto le sue poesie erotiche sono immersioni e riemersioni nel consumo della carne, indagine dentro l’umano che non si sente più parte di un tutto. Al limitar del bosco, dove la donna riesce a cantare con voce propria il tempo dell’amore di lattice.

Questa è poesia erotica che chiarisce i tempi in cui viviamo: l’essere umano con la sua distopica visione di sé, il suo collocarsi altrove rispetto al resto del mondo. Pezzi da usare. Ma dove queste immersioni non avvengono, dove i versi si dedicano alla parola eiaculata a forza come autoerotismo davanti ad un film porno, cade il palco, cade l’eros, cade ogni utilità. Banalità e cattivo gusto si sfiorano, e non mi si parli di gusto personale. Perché per carità, è lecito ci si dedichi anche al banale: basta saperlo.

Erotismo non è una questione di eiaculazioni e ditalini, per spiegarsi chiaro. Eros ha sempre la capacità di aprirci al mondo, e non ci chiude nel piccolo, angustissimo mondo delle scopate e dell’uso dei corpi. Della fermentazione dell’ego. Ciò che continua a stupirmi, nel leggere poesia erotica è la miope condiscendenza ai propri genitali: davvero la percezione è che sia tutto lì, l’eros? Che sia lì l’indicibile forza e la creatività? Davvero è così difficile comprendere che essa esiste prima di tutto nella natura di cui il nostro corpo è parte?

onto catapanoRidurre il corpo al corpo è la deriva dell’inutilità cui ci ha condotti la schiavitù antiecologica dei consumi. Per denunciare, suvvia, non basta citare. Ho tirato in ballo Eros – Thanatos per riportare il punto alla partenza. Per iniziare con un punto: Eros non è – solo – propensione sessuale, ma sensualità contrapposta a Thanatos. Così mentre Thanatos distrugge per rimettere in circolo, Eros raccoglie e spinge verso la creatività, l’istinto creativo, la spinta a generare (che sia la propria discendenza o l’opera d’arte).

Nella poesia di D. H. Lawrence l’eros si realizza pienamente, e noi siamo portati, sollevati, eccitati alla corsa, a disperderci fiduciosamente nel mondo. Vi è la gioiosa affermazione del corpo naturale, degli sfioramenti, delle penetrazioni, del mistero. La cromatica gioiosa della sessualità, la naturalità che vive nelle fibre nostre, così come in ogni pertugio di vita nel mondo.

Così, nella poesia di D. H. Lawrence, non possiamo adattare il metro stolidamente umano e solo umano, che divide e rappresenta il frammento scollegato dal resto: quello dell’amore romantico, o sensuale, o sessuale… L’erotismo contiene in sé ogni categoria, mentre ogni distinzione è insignificante in natura. Non appannaggio dell’essere umano, in quanto apice di un processo evolutivo, è l’aver scoperto il sesso separato dall’istinto vitale, il corpo separato dal tutto: sono falsi problemi, strade chiuse. D. H. Lawrence lo proferisce così bene, in questa come in altre poesie cariche di erotismo, in cui ci riporta a far parte della meravigliosa creazione della vita.

Così qui ci nutriamo di buon pane, di pane sano, ci appaghiamo perché siamo trascinati dentro la vita e dentro ciò che la regola: il movimento. Mentre ci può capitare (ci sarà capitato) di leggere e rileggere e provar afflizione, disagio. O di aver morso un pezzo di quel pane bianco alla cui farina è stato tolto il cruschello, la crusca, la pula… ha tutto lo stesso gusto. Ci sazia, ci gonfia, ci appesantisce. Andiamo a schiacciare un pisolino per digerire. Continua a leggere

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Gino Rago, Steven Grieco Rathgeb, Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, Salvatore Martino, Ghiannis Ritsos, Vincenzo Petronelli, Andrea Emo, Martin Heidegger, Massimo Donà – Sul nichilismo, l’ontologia del novecento e la nuova ontologia estetica – il Signor Estraneo alla porta? – Riflessioni intorno alla Cosa – Il problema Leopardi Hölderlin

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Onto Gino Rago_2Gino Rago
Per una Nuova Estetica

(Versi per Luciano Nota, Giorgio Linguaglossa, Mariella Colonna, Lucio Mayoor Tosi)

Duchamp giocava meravigliosamente a scacchi.
Bussò senza preavvisi quel giorno d’incanti alla sua fervida mente.
In quel giorno speciale compì il gesto decisivo per l’estetica e la filosofia:
a New York espose uno scolabottiglie.
Disse al mondo che: « L’arte non è l’oggetto reale.
Ma è l’oggetto immaginario che tu cogli
quando ne hai distrutto le sue relazioni oggettive reali.
Perché soltanto distruggendo le condizioni oggettive reali
balzerà fuori l’oggetto immaginario.
L’oggetto della sensibilità.
L’oggetto emotivo pronto a farsi “Cosa”».
(…)
Malevitch comprende questo gesto.
Più tardi espone un quadrato nero in campo tutto bianco.
Poi fa di più. Mostra un quadrato bianco in campo tutto bianco.
L’arte tocca il suo annientamento. Noi siamo al silenzio.
(…)
Di morte in morte, di negazione in negazione.
L’ ”arte-araba fenice” risorge dal suo stesso fuoco e si rinnova.
Sulle ceneri di parole secche date alle fiamme da Giorgio Linguaglossa
si levano parole nuove. Ecco la morte dell’arte di Hegel
(che Benedetto Croce non comprese).

 Onto Linguaglossa tristeGiorgio Linguaglossa

25 luglio 2017 alle 12:03

Verso una «nuova ontologia estetica». Riflessione intorno alla «Cosa».

È noto il topos del vaso e del vasaio che Lacan riprende da Heidegger. Il vaso è quella cosa (Sache), quell’oggetto creato di uso quotidiano, prodotto di un fare che crea un utensile, una suppellettile, uno strumento. In esso è pienamente visibile l’idea del vuoto della Cosa (Ding). Da questa accezione derivano, per Heidegger, il romanzo la cosa, il francese la chose, e il tedesco das Ding, quell’alterità che «brilla» per la sua assenza. Esso ha la proprietà di presentificare il vuoto e il pieno, di esser pensato nel paradosso del vuoto e del pieno. Il suo essere utensile lo pone nella posizione di funzionare da significante, ma, allo stesso tempo, questo suo essere significante non significa nulla, ovvero, significa il vuoto intorno a cui esso vuoto prende forma, il vuoto che il vaso racchiude.

Per Heidegger la brocca è quella cosa che nella sua forma di recipiente assicura il contenere e l’offerta, connette mortali e divini, cielo e terra. Questo perché ciò di cui la brocca consiste non è il materiale di cui è fatta, non è nemmeno determinante la forma che il vasaio forgia, quanto il fatto che la brocca racchiuda il vuoto che essa crea.

La brocca è al contempo Sache e Ding, nel senso in cui sintetizza il rapporto tra il significante e das Ding, tra l’ordine della Vorstellung intorno a cui si articola la pulsione e il vuoto lasciato dalla Cosa a cui la stessa pulsione tende. Soffermiamoci per un momento al vaso, al suo uso come utensile e la sua funzione di significante. Ecco che il vaso è significante in quanto plasmato dalle mani dell’uomo, non è significante in sé. Il significante del vaso diventa significativo tramite il vuoto che esso crea, inaugurando l’aspettativa di riempirlo. Il vuoto e il pieno vengono creati dal vaso. È a partire da questo significante plasmato che è il vaso, che il vuoto e il pieno entrano come tali nel sistema articolatorio qual è la lingua. Il vaso dunque è quel significante che di per sé esprime l’ingresso nel sistema della lingua di un vuoto.

È questo vuoto che si presenta come nihil, come il nulla al centro della significazione, o come quel nulla del reale da cui proviene l’ordine della Vorstellung, il luogo in cui Lacan colloca il godimento, ovvero l’al di là del principio di piacere. È il vuoto del linguaggio. L’istanza discorsiva del soggetto viene articolata dalla catena significante, così come l’articolazione piacere-realtà introduce il rapporto del linguaggio con il mondo. La Cosa cioè, in quanto sita fuori del sistema articolatorio del significante e, allo stesso tempo, condizione di esso, resta la Cosa del linguaggio, quel punto di gravitazione che apre l’universo del nominabile, apertura che gli dà un limite, lo circoscrive come universo della significazione di fronte a cui, o meglio, al cui centro essa Cosa resta esterna, muta, innominabile.

Non si dà un significante che possa significare la Cosa, impossibilità che configura la condizione stessa della Parola, ovvero l’essere luogo di una lacerazione che pone il rapporto soggetto-Altro come inaugurale. Certo, il significante ambirà l’occupazione del posto della Cosa, ma sarà un tentativo condannato ad andare a vuoto, appunto perché non dotato di quell’assolutezza in sé che sarebbe necessaria per ricoprire il vuoto.

Cfr. veda M. Heidegger, La cosa, in Vorträge und Aufsatze, Verlag Günther Neske, Pfullingen 1954; trad. it. a cura di Vattimo G., Saggi e discorsi, Mursia, Torino 1976, 1990 (2007)., pp. 109-24. 197 J. Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 78.

londadeltempo

26 luglio 2017 alle 0:36

Perciò questa “Cosa”, muta, innominabile, al centro dell’universo dei significati dove gravitano le parole è MISTERO: ed è quel mistero a cui la parola poetica attinge la sua inspiegabile linfa vitale. Nessuno può possedere o nominare la verità, ma ai poeti è concesso evocarla nei mille modi che significante e significato rivelano grazie al loro sfinimento nell’impossibile tentativo di nominare o possederla. Grazie, Magister, per queste parole pronunciatesullondadeltempogravitanti… intorno alla “cosa”. Caro Giorgio Linguaglossa…mi accorgo che incominciamo a parlare lo stesso linguaggio…anche se io lo balbetto soltanto!
(Mariella)

Onto Grieco

Steven Grieco Rathgeb, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Giorgio Linguaglossa

26 luglio 2017 alle 8:22

UNA POESIA DI STEVEN GRIECO RATHGEB.

È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta,

gentile Mariella,
forse la parola «mistero» è quella più adatta ad indicare quel qualcosa che non riusciamo a nominare, ma forse è per il fatto che «quella» Cosa che non riusciamo a nominare è qualcosa che non possiamo indicare con «una» parola ma deve essere «evocata» dalle parole. Forse quella Cosa è qualcosa che sta «prima» del linguaggio, e cmq «fuori» del linguaggio. È di questo ciò di cui si deve occupare la poesia. Tutte le chiacchiere descrittive e paesaggistiche (anche ben scritte!) della poesia italiana degli ultimi cinquanta anni devono essere poste nel dimenticatoio, liberiamoci finalmente di tutta la poesia che non ha mai tentato (perché non ne era capace) di nominare l’innominabile. Eppure, questo è il compito della poesia, altrimenti è «chiacchiera».
Leggiamo una poesia di un autore , è Steven Grieco Rathgeb. Si tratta di poche parole:

Una brezza
la porta si è spalancata. Fitto fogliame,
nessuno,
la soglia non varcata.
In questo addio, sono tornato a casa.

(Steven Grieco -Rathgeb da Entrò in una perla, Mimesis Hebenon, 2016)

Non mi cimenterò in una analisi dettagliata delle parole, l’ho già fatto in altra sede e non mi ripeterò. Ecco, qui siamo messi davanti ad un «mistero», come lo chiama Mariella, o ad una «Cosa», come la chiamo io (il che è lo stesso).
La poesia disegna la «cornice» del «vuoto», non può fare altro che disegnare questa «cornice» per mettere a fuoco un «evento»: una «porta» che «si è spalancata». E qui la poesia è già finita.

Il fatto è che noi nella nostra vita quotidiana abbiamo visto miliardi di volte una porta «spalancata», e allora che cos’è che ci sembra abbia del miracoloso, del mirabolante in questa apparizione? Perché, che cosa fa di «quella» porta un evento singolare e irripetibile? È irripetibile perché nel verso seguente è detto «nessuno», non c’è anima viva là intorno. E allora ci chiediamo: che cosa fa di questa risposta della poesia una risposta significativa? Che cosa significa «per noi» che quella «porta» «si è spalancata» (da notare il riflessivo, quasi che l’azione dello spalancarsi sia stata compiuta da una terza persona o da «nessuno», che so, da un colpo di vento…), poi viene detta una semplice frase lasciata cadere lì per caso:

la soglia non varcata

Dunque, finalmente siamo arrivati alla parola chiave: «la soglia»; si badi al determinativo «la», quindi si tratta di una «soglia» davvero particolare, unica, che non si ripeterà, che non può più ripetersi perché è lì che si consuma un destino. Si badi, tutto intorno c’è silenzio, non c’è un rumore, non c’è una allitterazione, non c’è alcun concerto di significanti o di assonanze: tutto è muto, ciò che avviene avviene nell’ammutinamento della voce; non ci sono parole, «nessuno» parla e nessuno ascolta. Il silenzio irrigidisce la composizione che si esaurisce in pochissime parole. L’evento sta per consumarsi, anzi, si è già consumato. Il protagonista che parla, colui che sta a lato o dietro la «cornice» della composizione, ha preso la decisione, ha vissuto l’evento e l’evento gli ha parlato. L’Estraneo, colui che è invisibile, ha parlato, ha parlato, ovviamente, nella sua lingua non fatta di parole.

Non v’è chi non veda come questa poesia sia estranea al descrittivismo impressionistico della poesia italiana di questi ultimi decenni, quella alla moda, intendo; qui non ci sono battute di spirito o giochi verbali, qui si va all’essenza delle cose, si va verso l’essenza.

Ho scritto in altra occasione questi Appunti che voglio richiamare:

È stato possibile parlare di «nuova ontologia estetica»,
solo una volta che la strada della vecchia ontologia estetica si è compiuta,
solo una volta estrodotto il soggetto linguistico
che ha il tratto puntiforme di un Ego in cui convergono,
cartesianamente, Essere e Pensiero,
quello che Descartes inaugura e che chiama «cogito». Solo una volta che le vecchie parole sono rientrate nella patria della vecchia metafisica, allora le nuove possono sorgere, hanno la via libera da ostruzioni e impedimenti perché con loro e grazie a loro sorge una nuova metafisica. 

Sull’Estraneo

Il discorso poetico è quel capitolo della mia storia che è marcato da una barratura, da un bianco, abitato da un certo tipo di menzogna che si chiama «verità» della poesia nelle sue svariate versioni: poesia onesta, poesia orfica, poesia sperimentale, poesia degli oggetti, poesia della contraddizione, poesia del minimalismo, poesia del quotidiano etc.; è il capitolo censurato di quella Interrogazione che non deve apparire per nessuna ragione. Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’ inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.

È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta.

Un atto di suprema ingenuità oltre che di scortesia, perché egli è qui, dappertutto, e chi non se ne avvede è perché non ha occhi per avvedersene.
Tutto quello che possiamo fare è intrattenerci con Lui facendo finta di nulla, cincischiando e motteggiando, ma sapendo tuttavia che con Lui è in corso una micidiale partita a scacchi.

Onto Pound

Steven Grieco-Rathgeb

25 luglio 2017 alle 12:25

Complimenti per il post molto interessante! E da questa ennesima variazione sulla figura di Odisseo, vedo che essa gode di buonissima salute, anche se somiglia molto più all’Idra ormai, che non al barbuto guerriero nonché eminenza grigia degli Achei: ma un’Idra alla quale tutti gli Ercoli postumi non riescono a venire a capo!
Bello questo, e interessante. Gli avataar di Ulisse dunque continuano.
Tanto per aggiungere qualcosa ancora, riprendo (e un po’ aggiusto) questo mio commento fatto l’anno scorso su L’Ombra delle parole, in qualche modo anche echeggiando il commento di Guglielmo Peralta:

“…E a proposito di quel passo nell’Odissea (i.e., il canto delle sirene): come facciamo a sapere che Ulisse non avesse proprio in quel momento rifiutato un sapere più profondo, messo in guardia contro questo sapere dai conservatori della sua cultura, dai suoi riduttori? …Così anche per il passo che narra la vicenda di Calypso, falsamente (forse) rappresentata come seduttrice di uomini che soltanto promette una melensa immortalità… In realtà, sono gli stessi dei che infine decidono che ad Ulisse venga negato un sapere realmente cosmico (così mandano Ermes a “liberarlo”); che per lui ci sarà soltanto la saggezza (non da poco!) di un uomo che ha vissuto le mille esperienze della vita. Solo in questo modo Odisseo può, nel corso delle sue peregrinazioni, entrare come Uomo nel Tempo, diventando Primo della stirpe “occidentale”: deve tagliare il cordone ombelicale con l’Asia, smarrire la conoscenza di un cosmo più vasto, conoscenza che in Occidente aspetterà lunghissimi secoli, fino alla fisica e astrofisica degli ultimi 150 anni, per ritrovare il filo. ”
Rimane da dire che quasi tutta la tradizione occidentale vieta letture più profonde dell’Odissea e dell’Iliade, Eppure ci sono pochi grandi studiosi che sono andati cercando in questa direzione.

Onto Giuseppe Ungaretti

Giuseppe Ungaretti

giorgio linguaglossa

25 luglio 2017 alle 17:16

Odisseo inaugura il viaggio. A Noi, dopo 3000 anni ci resta il viaggio turistico.

Il problema che Odisseo apre è quello della libertà. La sua astuzia, propriamente umana, è il tentativo di ritagliarsi uno spazio di manovra tra l’Ananke decretata dagli dèi. Ma se c’è Ananke non c’è libertà. Odisseo pone questo problema, la sua è una figura intensamente drammatica, il suo nostos è la ricerca di uno spazio di manovra tutto umano tra gli editti contrapposti degli dèi.

Sorge il problema del logos e della libertà, dei loro rapporti e del loro carattere ontologicamente antinomico, paradossale, controvertibile…

Ecco come risponde il filosofo Massimo Donà in una intervista che lo invitata a pronunciarsi in proposito:

«la libertà non ha a che fare con ciò che si dimostra, è un’istanza che sfida ogni logos, infatti, se essa fosse oggetto di dimostrazione, sarebbe un oggetto di necessità.
La libertà è quel buco nero che il logos non riesce a dominare, perché ne è il cuore inassimilabile, quel nucleo profondo che contiene l’errore stesso dal quale vuole difendersi; ma è proprio in quell’errore che sta la sua radice. Qui la verità non può essere consapevole. Per come dice Severino, la verità continuerà sempre a percepire l’errore come fuori da sé, come altro da sé, ma in realtà agisce nel profondo della sua struttura, è il logos, è la verità stessa. La verità dunque, si delinea come questo fondo inassimilabile, ingiustificabile, indimostrabile, che mette in crisi il logos che vuole sempre dimostrazioni, che vuole λόγον διδόναι (logon didonai) cioè rendere ragione di tutto. Quindi è il fondamento stesso della verità ad essere ciò di cui non si può rendere ragione; d’altro canto, se il fondamento fosse fondabile non sarebbe fondamento. Il fondamento è palesemente infondato, e noi che vogliamo fondare tutto non ci rendiamo conto che il fondamento è il massimamente infondato.»*

http://www.ritirifilosofici.it/?p=4059

Onto Fernando Pessoa

Fernando Pessoa

Il responso di Andrea Emo:

«Il regno dell’Essere è alla fine. L’Essere non è più considerato una salvezza; l’essere è stato una funesta sopraffazione contro l’innocenza del nulla. … L’eternità dell’essere è stanca; l’essere vuole ritornare ad essere l’eternità del nulla, unico salvatore. Il nulla è il salvatore crocifisso dalla soperchieria dell’Essere
[…]
«nel paradosso è sempre e finalmente l’unica verità; ma nel paradosso, e perciò nella Verità, possiamo soltanto credere. Il linguaggio, il Verbo del Paradosso, è il mito; soltanto il mito sa esprimere il paradosso» […] «l’assoluto non ammette relazione altro che con il nulla. Dalla relazione iniziale (nozze abissali, infernali) tra il tutto e il nulla sono nati l’universo, gli esseri e le cose»*

* citato da Adalberto Coltelluccio in
https://mondodomani.org/dialegesthai/acol03.htm
Cfr. A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, a cura di Massimo Donà e Romano Gasparotti, Marsilio Editori, Venezia 1989.

onto Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi

26 luglio 2017 alle 7:08

Sulla poesia del nichilismo e l’ontologia tradizionale

Il termine “inconoscibile” è indicativo di un approccio solo mentale. Quando la “cosa” cade fuori dal mentale è inconoscibile. Il termine “cosa”, così come la parola “vuoto” sono indicativi di un limite nel sistema di apprendimento. Credere che ci sia un oltre o dell’altro presuppone, necessariamente, che si compia un atto di fede. E’ a questo punto che la filosofia, nello sforzo di superare se stessa, pur tenendo conto dei limiti del linguaggio, finisce col cedere qualcosa alla teologia. Oppure, questa sarebbe la mia opinione, avvicinandosi ai temi della spiritualità ne avverte il riverbero. Si tratta evidentemente di un tentativo di riappropriazione, un ratto di conoscenza operato nei confronti della spiritualità. Ma la conoscenza, così come l’intendiamo da sempre qui in occidente, verte solo su due fronti tra loro contrapposti: ragione e spiritualità. Il fatto che ci si trovi a dover fare i conti con il nulla e l’indicibile non mi meraviglia affatto. In oriente questo non sempre accade. Nello Zen ad esempio – Zen non è una religione e nemmeno una filosofia – si procede da secoli, scientificamente, utilizzando altri sistemi percettivi della conoscenza, dove si dà maggiore importanza alla fattività piuttosto che alla teorizzazione o al pensiero cartesiano. Va detto che per lo Zen, Dio non è mai esistito e questo semplifica notevolmente le cose.
Sono invece d’accordo con di Carlo Livia, quando scrive:
“Se è vero che la dissoluzione nichilista è ormai così avanzata da non poter essere superata o rimossa da una semplice ricostruzione dell’ontologia tradizionale, l’unica speranza risiede in un processo creativo che sappia indagarne l’essenza genetica, lasciandosi risucchiare dal vortice del nulla fino a scorgere il fondamento del suo accadere, facendo tesoro d’ogni luce che possa rischiare l’oscurità in cui ci muoviamo”.

giacomo-leopardi-volto

giorgio linguaglossa

26 luglio 2017 alle 12:17

Scrive Heidegger:

«L’atto del poetare è quindi ciò che istituisce la cultura. La Grundstimmung ovvero la tonalità emotiva fondante di un popolo, quindi la verità del suo esserci, è istituita dai poeti che, unitamente ai pensatori e agli statisti, creano opere di grande potenza generando nuove condizioni dell’esserci. E, riferendosi a Höderlin, il “poeta del poetare”, rivela:

« Es kann sein, dass wir dann eines Tages aus unserer Alltäglichkeit herausrücken und in die Macht der Dichtung einrücken müssen, dass wir nie mehr so in die Alltäglichkeit zurückkehren, wie wir sie verlassen haben. »
(IT)
« Può darsi che noi un giorno usciamo (herausrücken) dal nostro quotidiano, dovendo entrare nella potenza della poesia (Macht der Dichtung), e che non possiamo più tornare alla quotidianità così come l’abbiamo lasciata. »
(In GA 39 p.22)

La scelta di Hölderlin è da Heidegger ben meditata in quanto il poeta tedesco è «der Dichter des Dichters und der Dichtung» (“il poeta dei poeti e della poesia”), non solo, Hölderlin è anche il «der Dichter der Deutschen» (“il poeta dei tedeschi”), e siccome lui è tutto questo ma il suo poetare è “difficile” (Schwer) e “arcano” (Verborgene), la sua “potenza” non è divenuta “potenza” del popolo tedesco e “siccome non lo è, lo deve diventare” (Weil er das noch nicht ist, muß er es werden)[73].

Leopardi, al contrario di Hölderlin, non è mai diventato il poeta degli italiani moderni, non è mai diventato il poeta del popolo italiano, è stato miscompreso. Chiediamoci perché è avvenuto questo?, al punto che una poetessa in fama di visibilità e di allori lo ha inserito tra i minori.

Salvatore Martino in pensiero

Salvatore Martino

Salvatore Martino

26 luglio 2017 alle 12:57

Dimenticando tutto questo discettare sulle varie interpretazioni del nichiismo( mi sembra che ognuno abbia una sua ricetta universale) tornerei volentieri al mito di Odisseo e alla poesia..
Vi propongo qui un testo scritto nel settembre del 1968 da Ghiannis Ritsos. Fa parte di una raccolta intitolata Ripetizioni.
Credo che chiunque possa valutare cosa significhi la rivisitazione di un mito facendo grande poesia.

La disperazione di Penelope

“Non è che non lo riconobbe alla luce del focolare: non erano
gli stracci del mendicante, il travestimento, – segni evidenti
la cictarice sul ginocchio, il vigore, l’astuzia nello sguardo.
Spaventata,
la schiena appoggiata alla parete, cercava una giustificazione,
un rinvio, ancora un po’ di tempo, per non rispondere,
per non tradirsi. Per lui, dunque, aveva speso vent’anni,
vent’anni d’attesa e di sogni, per questo miserabile
lordo di sangue e dalla barba bianca? Si gettò senza voce su una sedia,
guardò lentamente i pretendenti uccisi al suolo , come guardasse
morti i suoi stessi desideri. E “Benvenuto” disse,
sentendo estranea, lontana la sua voce. Nell’angolo il suo telaio
proiettava ombre di sbarre sul soffitto, e tutti gli uccelli che aveva tessuto
con fili rossi brillanti tra il fogliame verde, a un tratto
in quella n notte del ritorno, diventarono grigi e neri
e volarono bassi nel cielo piatto della sua ultima pazienza.

Ecco a mio giudizio un modo di raccontare in poesia, in questo caso grande poesia, un evento mitico rivisitato rispetto alla sua origine.
Sintesi drammatica e drammaturgica, immagini che raccontano per folgorazione, visionarietà, descrizione perfetta dei personaggi, in pochissime parole, la cadenza musicale che resta persino nella traduzione (Nicola Crocetti) la feroce meditazione sul tempo e sulla inutilità dell’attesa, l’inutilità del grande gesto, l’essiccamento di ogni desiderio, la morte dei sogni, l’indifferenza totale verso un uomo amato e che ritorna e non è più lo stesso.E tante altre cose che ciascun lettore può incontrare.
Certo in una versificazione come questa pregna di pathos e di kommos forse gli esponenti della NOE troveranno tanto da ridire e da non condividere. Non siamo nell’arido svolgimento intellettualistico-razionale dell’azione, dove lo spirito è cancellato, nella proposizione matematica della parole, senza alcuna allusione, forse l’unico elemento che apprezzeranno la mancanza di un Io personale.
Concordo con molti degli appunti di Livia, di Borghi e stavolta persino di Tosi, anche se non ne posso più di Nichilismo( l’ho frequentato per anni e ancora lo frequento nella mia poesia, per cui noni mi va di parlarne tanto, filosoficamente, preferisco far parlare i miei versi). Anche le ossessive notazioni sulla NOE ormai quotidiane credo di averle digerite e quasi non le guardo più.
Mi piacerebbe vedere commentata su queste pagine la poesia di Ritsos, ci terrei in maniera particolare per chiarire anche a me stesso alcuni misteri.

onto duska

Duska Vrhovac

giorgio linguaglossa

26 luglio 2017 alle 16:21

caro Salvatore Martino,

la poesia da te postata di Ritsos è una grande poesia, interpreta un mito ma non fa mitologia, fa pensiero, pensiero sul destino umano, parla per tutti gli uomini, fa parlare il mito per tutti gli uomini a venire, ci parla del nostro destino, del destino di estraneità che colpisce noi tutti quando torniamo al nostro focolare dopo venti anni…

Ritsos fa parte di una civiltà letteraria che c’è stata nel passato, la NOE fa parte di una nuova in-civiltà letteraria, sono due approcci diversissimi alla poesia, non si possono comparare gli approcci… gli esiti sì, ma potranno farlo (forse) coloro che verranno fra cento anni (se bastano), oggi tutti i «poeti» sono in competizione tra di loro per poter emergere a danno di tutti gli altri, c’è una competizione asperrima senza esclusione di colpi. Uno spettacolo desolante. Mi chiedo: come fanno costoro a leggere una poesia di un altro autore? La verità è che Nessuno legge Nessuno, anzi, se tu hai delle qualità, fanno di tutto per oscurarti…

Il problema oggi in Italia è che manca un linguaggio critico. E manca da circa cinquanta anni. Quel linguaggio curiale che tutti usano per parlare di «poesia», quel linguaggio di derivazione semi accademica e conviviale, è esautorato di qualsiasi credibilità, non vorrai spero mettere in dubbio che le “recensioni” che si fanno dei libri di poesia sono delle schedine anodine anonime che puoi cambiarle e adattarle a tutti i libri senza che l’ordine degli addendi ne nuoccia.

Il problema è che manca un linguaggio critico perché mancano i poeti. Un «poeta» che mi legge sa benissimo cosa voglio dire e a cosa voglio alludere, non c’è bisogno di altre parole. In proposito, ripropongo quello che avevo scritto in un altro mio commento recente:

7 maggio 2017 alle 9:56

Ha cessato di esistere il linguaggio critico militante della poesia

Il problema della critica militante di poesia è un problema serio. Sono ormai 50 anni che non abbiamo più un linguaggio critico, l’ultimo rappresentante in poesia in possesso di un linguaggio critico è stato Franco Fortini scomparso nel 1995, dopo di lui c’è stato il vuoto. S’intende che continua a sopravvivere il linguaggio critico della critica accademica, ma quello è un’altra cosa, rispettabilissima cosa ma diversa; continua ad esistere il linguaggio delle pagine culturali e informative del Sole 24 ore e del Corriere, ma quello è un’altra cosa, è un linguaggio informativo che svolge un’altra funzione, una funzione appunto informativa.

È per questo che io ho dovuto forgiarmi, «quasi» da solo, un linguaggio critico “nuovo” prendendolo a prestito da altre discipline: la filosofia, la psicologia, la psicanalisi, la narrativa, il linguaggio giornalistico, la psicofilosofia… ho fatto un mix di tutti questi linguaggi, e ne è derivato il mio (personalissimo) linguaggio critico che qualcuno (molto ignorante) ha definito «inventato»; e in effetti è «inventato», perché un linguaggio lo si «inventa», proprio come si inventano tante altre cose, è il prodotto di una continua invenzione, non lo si trova già bell’è fatto.

In effetti, il linguaggio critico con cui commento le poesie su questa pagine è un linguaggio «inventato», non avrei potuto fare altrimenti.
E poi, un’ultima considerazione: quando una forma d’arte rimane senza pubblico (come è avvenuto alla poesia italiana degli ultimi 50 anni), è inevitabile che si perda anche la memoria storica di ciò che è stato il linguaggio critico: non si ha più un linguaggio critico; voglio dire che quel linguaggio critico che non ha più un riscontro di comprensibilità con un pubblico di persone colte e libere, quel linguaggio, dicevo, cessa semplicemente di esistere.

Vincenzo Petronelli voltoVincenzo Petronelli

27 luglio 2017 alle 19:51

Caro Giorgio, il tuo è probabilmente un linguaggio “inventato”, secondo i canoni della critica letteraria accademica (e da ex ricercatore mi sento di poter affermare, senza ombra di smentita, che il mondo accademico italiano ormai rappresenti solo sé stesso e probabilmente nel mondo letterario ancor più che nel limitrofo ambito storico-antropologico da cui provengo), ma si può decisamente sostenere che sia un’invenzione provvidenziale per chiunque – come credo la maggior parte dei convenuti nella NOE – cerchi una “nuova strada” alla poesia in Italia.Personalmente devo ribadire il concetto già altre vole espresso, che l’incontro con la NOE ha avuto per me la stessa forza ipnotica e rivelatrice che si prova quando si decide di varcare, dopo averli lambiti per anni, dei sentieri rurali prospicienti il centro abitato e che pertanto non suscitano apparentemente grande curiosità, ma che una volta imboccati svelano dei tesori nascosti e di inestimable malia paesaggistica.Il nocciolo della questione secondo me, si annida nel tuo passaggio all’interno di questa riflessione, in cui evidenzi come l’arte e principalmente la poesia, si qualifichi nel momento in cui sia capace di offrire un contributo decisivo al superamento del dato “sensibile” o non ha più ragion d’essere (o diciamo che perde buona parte della sua ragion d’essere); deve cioè mirare partendo dal nucleo iniziale “noumenico” base evidentemente del percorso cognitivo umano, al “ding an sich” per dirla Kantianamente. Tale percorso, probabilmente a causa del materialismo ed al suo addentellato scientista che hanno caratterizzato, in modo pervasivo, il pensiero occidentale del novecento, si è incagliato, facendo smarrire alla poesia tale significato a partire dagli anni settanta, quanto meno per quanto riguarda le sue espressioni prevalenti in quello che comunemente soliamo definire “mondo occidentale”: in particolare in una realtà come quella italiana, nella quale a tale deviazione antropologica, si affianca la pochezza provincialistica dei salotti e delle varie consorterie di potere annidatesi attorno alla letteratura.L’apertura della poesia ad un contesto olistico, riconducendola ad un dibattito culturale più ampio intersecantesi con le altre arti (in particolare le arti visive, come ben dimostra il nostro amico Lucio Mayoor Tosi), la filosofia e le altre scienze umane, certamente permette di chiarire e definire meglio la parabola che dovrebbe caratterizzare l’esperienza poetica stessa, in quanto la sveste dell’albagia di cui molti presunti poeti l’hanno ammantata, restituendola ad una dimensione universalistica aperta ai grandi interrogativi dell’umanità. In questo senso la mitologia è senz’altro uno dei terreni di confluenza più fertili verso cui poter indirizzare una poesia rinnovata, grazie alla sua immediatezza immaginifica capace di sintetizzare quasi istintivamente la condizione universale dell’uomo, ponendosi oltre il dato visibile, oltre la parola,l’orizzonte, l’effimero del dicibile, oltre il materico, approcciando direttamente il “mistero” (come l’hai più su definito), la trascendenza, il rapporto con l’eterno, cui l’uomo tende per sua natura e nel tentativo di raggiungere i quali l’esistenza individuale si coniuga in “epos”; ma oggi il pensiero occidentale fatica sempre più a confrontarsi con tali dimensioni, come dimostra (tanto per citare un tema che mi è particolarmente caro) ila sempre maggior conflittualità che contrassegna alle nostre latitudini il rapporto con la morte. Eppure la memoria della storia recente, come giustamente evidenziavi Giorgio, dovrebbe essere di monito in questo senso, perché tutto il complesso delle sovrastrutture, storicamente comprensibili forse, ma esistenzialmente spesso superflue, di cui l’uomo occidentale si è contornato con il materialismo novecentesco, hanno mostrato in realtà non solo la loro caducità ed evanescenza (con la frantumazione del relativo equilibrio posticcio che le nostre società hanno tentato di ricucire loro addosso) ma sono state esse stesse in molti casi alla base del male e della tendenza autodistruttiva che la nostra società ha spesso mostrato e che è ancora in agguato dietro l’angolo, come rapaci in volo sulla preda, come ben dimostra l’andazzo poco rassicurante dei nostri giorni. In questa cornice è difficile pensare alla realtà come una struttura ontologicamente data e mi fa particolarmente piacere che tu abbia citato un poeta a me particolarmente caro ed esemplare in tal senso come Celan. Grazie ancora a te Giorgio ed a tutti gli amici i cui interventi rendono sempre estremamente stimolante (nei momenti in cui il lavoro me lo consente) la lettura dell’ “Ombra”.

 

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ANTOLOGIA BREVE della Nuova Ontologia Estetica: Poesie di Raymond Carver, Francesca Dono, Steven Grieco-Rathgeb, Ubaldo de Robertis, Petr Král e collage di Commenti vari di Giorgio Linguaglossa – Siamo dentro la tematica del nulla. Siamo nel mezzo del nichilismo.

Raymond Carver: Tre poesie

Compagnia

Stamattina mi sono svegliato con la pioggia
che batteva sui vetri. E ho capito
che da molto tempo ormai,
posto davanti a un bivio,
ho scelto la via peggiore. Oppure,
semplicemente, la più facile.
Rispetto a quella virtuosa. O alla più ardua.
Questi pensieri mi vengono
quando sono giorni che sto da solo.
Come adesso. Ore passate
in compagnia del fesso che non sono altro.
Ore e ore
che somigliano tanto a una stanza angusta.
Con appena una striscia di moquette su cui camminare.
.
Attesa

Esci dalla statale a sinistra e
scendi giù dal colle. Arrivato
in fondo, gira ancora a sinistra.
Continua sempre a sinistra. La strada
arriva a un bivio. Ancora a sinistra.
C’è un torrente, sulla sinistra.
Prosegui. Poco prima
della fine della strada incroci
un’altra strada. Prendi quella
e nessun’altra. Altrimenti
ti rovinerai la vita
per sempre. C’è una casa di tronchi
con il tetto di tavole, a sinistra.
Non è quella che cerchi. E’ quella
appresso, subito dopo
una salita. La casa
dove gli alberi sono carichi
di frutta. Dove flox, forsizia e calendula
crescono rigogliose. E’ quella
la casa dove, in piedi sulla soglia,
c’è una donna
con il sole nei capelli. Quella
che è rimasta in attesa
fino ad ora.
La donna che ti ama.
L’unica che può dirti:
“Come mai ci hai messo tanto?”
.
La poesia che non ho scritto
Ecco la poesia che volevo scrivere
prima, ma non l’ho scritta
perché ti ho sentita muoverti.
Stavo ripensando
a quella prima mattina a Zurigo.
Quando ci siamo svegliati prima dell’alba.
Per un attimo disorientati. Ma poi siamo
usciti sul balcone che dominava
il fiume e la città vecchia.
E siamo rimasti lì senza parlare.
Nudi. A osservare il cielo schiarirsi.
Così felici ed emozionati. Come se
fossimo stati messi lì
proprio in quel momento.

giorgio linguaglossa

17 giugno 2017 alle 9:52

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/06/16/poesie-di-donatella-costantina-giancaspero-gino-rago-edith-dzieduszycka-letizia-leone-lucio-mayoor-tosi-mario-m-gabriele-anna-ventura-vari-stili-varie-scritture-poetiche-della-nuova-ontologi/comment-page-1/#comment-20937

cari amici,
in un articolo degli anni Dieci intitolato Sull’interlocutore, Mandel’stam, fa una notazione geniale, dice questo: che uno non si sognerebbe mai di accendere una sigaretta dalla fiamma della lampada ad olio in quanto, molto più semplicemente siamo abituati ad accendere la sigaretta dalla fiamma di un accendisigari. Questo Mandel’stam lo dice per far capire che noi nella vita di tutti i giorni seguiamo delle abitudini gestuali e linguistiche senza che ce ne avvediamo, che diamo per scontate, seguiamo in maniera inconscia certi gesti e usiamo certe frasi in maniera inconscia in base a «credenze» (Ortega y Gasset) e a quelle che Heidegger definisce «precomprensioni».

Analogamente, avviene in poesia. Noi scriviamo in base a delle «credenze» linguistiche e a delle «precomprensioni» di modi di scrivere che abbiamo già letto e digerito nella memoria; si tratta di atti memorizzati che compiamo «naturalmente».

Quando una poetessa come Elena Schwarz (1948-2010) scrive:

Secondo l’orario delle stelle lontane

(da Così vivevano i poeti, Thauma edizioni, 2013 trad Paolo Galvagni), ci avvediamo che qui noi abbiamo un esempio chiarissimo di come la poetessa russa mette in atto uno shifter, un cambio di abitudine linguistica, un cambio di abitudine iconica, mnemonica, passa da “secondo l’orario dei treni” a “secondo l’orario delle stelle”, aggiungendo il lemma “lontane”. Il risultato estetico è vivissimo, efficacissimo. Semplice, no? Anzi, semplicissimo. A volte è sufficiente uno scambio di abitudini mnemoniche e linguistiche per creare un verso efficacissimo.

Ora, ad esempio, tutta la poesia di Mario Gabriele è basata sulla puntualità e la ripetizione di questi «scambi», una miriade di «scambi» iconici che si susseguono a ritmi vertiginosi che creano una serie continua di effetti spaesanti e stranianti che raggiungono vertici di rarissima capacità iconica e mnemonica…

La NOE è anche questo, tratta una serie di espedienti retorici che già esistono da tempo nella poesia migliore del novecento europeo, espedienti che vengono utilizzati in modalità intensive. Tutto qui.

Quando Claudio Borghi e Salvatore Martino dichiarano di non riuscire a comprendere la poesia della nuova ontologia estetica, non si rendono conto che essa è nuova solo nella misura in cui impiega una serie di retorizzazioni e non altre, e le impiega in maniera intensiva. Si tratta di una intensificazione di alcune figure retoriche. È questo che fa la NOE.

Quando un poeta come Lucio Mayoor Tosi scrive:

Dalla stampa giapponese si alza un volo di pettirossi.
Ora stan li, affacciati alla finestra. Guardati dalla luna.

qui abbiamo l’impiego di un noto luogo retorico: il capovolgimento: è la luna che guarda i pettirossi che si sono alzati in volo da una «stampa giapponese». È sufficiente questo «capovolgimento» a creare l’effetto di un «mondo all’incontrario» (Bachtin), un effetto spaesante, di meraviglia…

Francesca Dono

Due poesie da Fondamenta per lo specchio (Progetto Cultura, 2017)

– estemporanea75 –

in cucina la mia camicia
dentro lo scalda latte di alluminio.
Il latte sotto la schiuma fredda
delle tue minuscole scarpe.
Ore 6,35. La penombra è prima del cielo.
Mescolo un cucchiaino nella tazza
di porcellana. Gabriella si ferma davanti
allo specchio. Un po’ di zucchero. Di là forse
la sera del 14 agosto. Un uomo e due biscotti
con tre briciole eburnee. Risalgono i gradi
dei circoli velati.
Lascio un albero alla finestra.
Poi mi ritraggo esattamente.

– la bicicletta –

la bicicletta sotto un sole basso.
Qualche soffio di vento.
Strati di polvere a
seconda dei giri. Strappi nel momento.
Scorro dentro quel telaio
quando si solleva o si appiattisce. È la pancia della strada.
Lavoro patetico
dell’unto e tra una gomma e l’altra.
Ore dodici. Un gatto s’infila
dietro le transenne del cantiere. Il miagolio della fame che non riposa.
C’è una curva.
La bicicletta barcolla col freno austero.
Poi l’ultimo fanale.

Steven Grieco Rathgeb 

Una poesia da Entrò in uno specchio (Mimesis Hebenon, 2016)

Sulla veranda: Meena e Beena Mathur

Due sorelle sulla veranda, in vestiti giallo-sera.
(Fuori, un giardino.)

Dopo il tramonto la loro quiete
si ritira dal cielo rosa pieno di aquiloni
mentre scende la notte –

e nell’incrocio-intreccio, intessersi di traiettorie
su vanno i triangoli e rombi di carta
mentre da ogni terrazzo gesticolano i festanti

Pensiero furtivo, sorvola la Jothwara Road, verso Gangori Bazaar
radioso di nude lampadine, stoffe, folle che si muovono, pigiano mescolano

perfino un albero morto in un terreno deserto si agghinda di colori

Il grido umano di questa terra troppo complessa, sale
nel cielo frenetico, strisciato di rosa

agli stormi di piccioni in volo

agli aquiloni che danzano più su

alle rondini nel più alto

Meena: «ho fatto un sogno della
nostra madre morta.
Da 25 anni, ormai.
la incontro in altri luoghi.»

*

La veranda incupita piange questa perdita di visibilità,
i prodigi che la nostra psiche non illumina.

«Ti sento cantare quando fai il bagno la mattina.»

Ma io dico che siamo già venuti qui
smemorati, disarmati – benché dicano, È, non È –
soltanto per affermare la vita (e vivere).

Nudo, il cuore percorre un gelido corridoio.

E così, a poco a poco, l’imbrunire ruba
i lineamenti dei loro visi – ma ancora invia

(un riflesso incantevole)

Jaipur, Makar Sakranti, gennaio 2006

Onto DeRobertis

Ubaldo de Robertis (un inedito)

Nella dimensione di Jung

Il rampollo del caos scorre in cerchio.
Una fanciulla si sporge in piedi sulla fontana.
Le lancette girano in circolo.
Nessuno si occupa più dell’orologio da almeno sette decenni.
Sulla torre si specchiano immagini suoni remoti
echi che tornano del lungo roteare
[si riflettono forse in un gioco di specchi].
Nessuno conosce la vera posizione.
Altalenante.
In funzione dell’apparente rotazione degli astri
intorno alla sfera rosso fuoco
talvolta troppo vicina
talvolta troppo distante.

Al morire della luce
la fanciulla sconosciuta spiega lo scialle di seta
nel luogo di cui nessuno ha voce per chiedersi:
dov’è?
[come risulterà chiaramente in seguito]

Da strani fiori a sette petali salgono essenze.
Presentimenti.
Congetture si fanno sul sognatore
nel dire che si è trattato di allucinazioni:
La torre
[dislocazione verticale- verso l’alto la seduzione degli astri].
L’orologio.
Gli specchi
[sul lato contrapposto al riflettente giace il sottile strato d’argento].
Il bel giardino dai fiori a sette petali.
Il corpo condiscendente di quella fanciulla.
Lo châle volteggiante al minimo estro di vento.

Costantina Donatella Giancaspero Teatro dell'Opera

Donatella Costantina Giancaspero

giorgio linguaglossa

17 giugno 2017 alle 15:51

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/06/16/poesie-di-donatella-costantina-giancaspero-gino-rago-edith-dzieduszycka-letizia-leone-lucio-mayoor-tosi-mario-m-gabriele-anna-ventura-vari-stili-varie-scritture-poetiche-della-nuova-ontologi/comment-page-1/#comment-20945

Per esempio, tanto per restare nella linea della nuova ontologia estetica, proviamo a leggere alcuni versi, prendiamo una poesia apparentemente innocua di Donatella Costantina Giancaspero. Sembra quasi una poesia lirica di stampo tradizionale, sembra di leggere una poesia di Cristina Campo o di Fernanda Romagnoli, e invece qui si ha qualcosa di molto diverso, di molto più avanzato:

Decisa, te ne vai già
da questa nostra estate. In fretta.
Tra il letto e l’appendiabiti.
Lungo il corridoio, le pareti fanno ala
a un ottuso serpeggiare.

Di che si tratta? Chi è la persona che se ne va? La poesia non lo dice. C’è una persona che se ne va. Da notare che l’andar via della persona è reso da due oggetti disposti ortogonalmente rispetto alla persona che se ne va: «il letto e l’appendiabiti», «lungo il corridoio». Dunque, siamo in un interno, tra «le pareti» che «fanno ala» alla azione di cui trattasi: «a un ottuso serpeggiare». Dunque, c’è un indietreggiamento di una persona o di una Cosa, diciamo che si ha una personificazione di una Cosa, che la Cosa ha preso la sembianza di una persona. Ma allora sorge l’interrogativo: Chi è la persona che se ne va? Qui abbiamo a che fare con il «fantasma», con quella «mancanza a», dice Lacan che contrassegna il «fantasma», il quale si dà e nell’atto del darsi produce un cedimento strutturale a livello ontologico dell’io, cedimento che produce la sostanza immaginaria del fantasma, il quale si dà solo e soltanto in presenza del venir meno dell’io come soggetto. Insomma, qui siamo nel pieno centro della nuova ontologia estetica, qui si tratta del venir meno della Cosa, del venir meno di un personaggio che si allontana e si assottiglia tra gli oggetti consueti e consunti di una abitazione, oggetti ben noti, dunque. Al contempo, il «fantasma» rappresenta il limite interno dell’ordine simbolico, è quel qualcosa senza il quale non si dà ordine simbolico, e quindi è un attrezzo necessario e indispensabile nell’officina della poesia che stiamo esaminando… per dar vita alla Cosa che si allontana e che tende a scomparire. Ma ciò che non può scomparire, pur se attecchito da un cedimento strutturale, è l’io il quale non può che continuare a macchinare il suo desiderio affinché vi sia una macchina desiderante che metta in moto questo complesso meccanismo qual è questa poesia che narra, come apparirà chiaro, un assottigliarsi, una mancanza della Cosa, del «fantasma», uno scomparire nel nulla. Ecco, siamo dentro la tematica del nulla. Siamo nel mezzo del nichilismo.

Inoltre, il pronome personale «io» che parla, è, vistosamente, un espediente retorico e nient’altro, è una custodia vuota. È un enunciato linguistico e nient’altro.

“L’enunciazione è l’istanza linguistica, logicamente presupposta dall’esistenza stessa dell’enunciato […] che promuove il passaggio tra la competenza e la performance linguistica […] l’enunciazione è chiamata ad attualizzare lo spazio globale delle virtualità semiotiche, cioè il luogo delle strutture semio narrative […] allo stesso tempo è l’istanza di instaurazione del soggetto (dell’enunciazione). Il luogo, che si può chiamare l’ «Ego, hic et nunc», è prima della sua articolazione semioticamente vuoto e semanticamente (in quanto deposito di senso) troppo pieno: è la proiezione (per mezzo delle procedure di débrayage) fuori da questa istanza degli attanti dell’enunciato e delle coordinate spazio temporali, a costituire il soggetto dell’enunciazione attraverso tutto ciò che esso non è”, A.J. Greimas, J. Courtes, Sémiotique. Dictionaire raisonné de la théorie du langage, Hachette, Paris 1979; a cura di Fabbri P., Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Mondadori, Milano 2007, pp. 125-126. – E. Benveniste Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris 1966; trad. it. Problemi di linguistica generale, Saggiatore Economici, 1994. Si veda in particolare il saggio dedicato alla funzione dei pronomi pp. 301-8.

Petr Král, con Jana Bokova

Petr Král, con Jana Bokova

Donatella Costantina Giancaspero
17 giugno 2017 alle 16:42

Al commento precedente vorrei aggiungere alcuni versi di Petr Král (tra i poeti che prediligo).

Caduta

E in ogni bottiglia vuota
c’è ancora una goccia. Col tuo pettine e il sapone

dalla valigia rovesciata cadono anche le spille nere
della forcina, che vedi per la prima volta. Da quale tasca
[persino
segreta

del cosmo deserto – L’esile forcina non toglie
o aggiunge nulla, appena un trattino di ferro tra il giorno e la
[notte,

tra la pelle morbida e la pelliccia minacciosa
del mondo. Senza di essa però qui manca

una virgola per la redenzione. Pace con lei e con te.
Tu e la forcina nella stessa giornata vuota.

(Petr Král, Tutto sul crepuscolo, ed. Mimesis
trad. di Antonio Parente)

giorgio linguaglossa

17 giugno 2017 alle 18:05 Modifica

Nella poesia di Petr Král, uno dei maggiori poeti europei viventi, è presente un sistema semi automaico di scambi sinestesici e metonimici, la poesia procede in una modalità quasi automatica mediante un sistema del tipo pilota automatico ma non in funzione della rappresentazione quanto della mera presentazione di eventi.

Noi sappiamo che il sistema Inc si differenzia per caratteristiche peculiari che lo pongono in una dimensione di assoluta estraneità tanto dal sistema
Prec che da quello percezione-coscienza: assenza di contraddizione e di negazione, intemporalità, mobilità degli investimenti, nonché una relativa indipendenza dalla realtà esterna, sono i tratti salienti dell’inconscio.
Il nucleo dell’Inc., scrive Freud, è costituito di rappresentanze pulsionali che aspirano a scaricare il proprio investimento, dunque da moti di desiderio. Questi moti pulsionali sono fra loro coordinati, esistono gli uni accanto agli altri senza influenzarsi, e non si pongono in contraddizione reciproca. […] In questo sistema non esiste la negazione, né il dubbio, né livelli diversi di certezza. Tutto ciò viene introdotto dal lavoro della censura fra Inc. e Prec.
.
L’Inc dunque non è un abisso. L’inconscio non è un flusso di energia cieco. Esso è piuttosto il luogo in cui qualcosa accade e in cui cadono, sotto la spinta della rimozione, le rappresentazioni di cose, rappresentanze pulsionali, che consistono “ nell’investimento, se non nelle dirette immagini mnestiche della cosa, almeno nelle tracce mnestiche più lontane che derivano da quelle immagini ” .

L’inconscio, ci suggerisce Freud, è un sistema di tracce (tracce mnestiche), e non impronte, si noti, da cui si originano rappresentazioni di cose. La differenza, adesso, tra rappresentazione inconscia e rappresentazione conscia consiste, ribadisce Freud, in due distinte trascrizioni di uno stesso contenuto. Ci troviamo di fronte a un punto nodale: la distinzione tra Sachevorstellung e Wortvorstellung serve per comprendere come sia possibile la comunicazione tra i vari apparati psichici. Seguiamo
Freud:

«La rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta. Il sistema Inc. contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto cose, ossia i primi e autentici investimenti oggettuali; il sistema Prec. nasce dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene sovrainvestita in seguito al suo nesso con rappresentazioni verbali».1]
.
In altre parole, ciò che consente al sistema inconscio di spingersi nella coscienza, di “farsi sentire ” nelle sue varie forme sintomatiche è un progresso nella rappresentazione, una concatenazione di rappresentazioni che tende ad associare alla Sachevorstellung una Wortvorstellung. Questa operazione svela la natura dell’apparato psichico e del suo funzionamento, in particolare il ruolo del linguaggio nella sua strutturazione.

Nella poesia di Král viene in piena luce questo processo psichico tipico di quello che noi abbiamo chiamato «nuova ontologia estetica», dal vivo, in diretta, apparentemente senza le mediazioni dell’«io», ma come in un universo metonimico in libera uscita pulsionale… Incredibile.

1] Sigmund Freud, Metapsicologia, § L’inconscio, in Gesammelte Werke; trad. it. a cura di Musatti. C., in Opere vol. 8. Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti (1915-1917), Bollati Boringhieri, Torino 1976 (2000), Metapsicologia (1915), pp. 49 e segg.

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Sabino Caronìa, La ferita del possibile, Rubettino, Soveria Mannelli, 2016 – Lettura di Emerico Giachery e un Appunto di Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa Aleph, Roma, 2017 Sabino Caronia

dx Sabino Caronia, Franco di Carlo, Donatella Costantina Giancaspero Giorgio Linguaglossa Roma,Aleph, 2017

 

 Sabino Caronia, critico letterario e scrittore, romano, ha pubblicato le raccolte di saggi novecenteschi: L’usignolo di Orfeo (Sciascia editore, 1990) e Il gelsomino d’Arabia (Bulzoni, 2000); ha curato tra l’altro i volumi Il lume dei due occhi. G.Dessì, biografia e letteratura (Edizioni Periferia, 1987) e Licy e il Gattopardo  (Edizioni Associate, 1995). Ha lavorato presso la cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Perugia e ha collaborato con l’Università di Tor Vergata, con cui ha pubblicato tra l’altro Gli specchi di Borges (Universitalia, 2000). Membro dell’Istituto di Studi Romani e del Centro Studi G. G. Belli, autore di numerosi profili di narratori italiani del Novecento per la Letteratura Italiana Contemporanea (Lucarini Editore), collabora ad autorevoli riviste, nonché ad alcuni giornali, tra cui «L’Osservatore Romano» e «Liberal». Suoi racconti e poesie sono apparsi in diverse riviste. Ha pubblicato i romanzi L’ultima estate di Moro (Schena Editore, 2008), Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi (Edilazio EdiLet, 2009), La cupa dell’acqua chiara (Edizioni Periferia, 2009) e la raccolta poetica Il secondo dono (Progetto Cultura, 2013). Del 2016 è La ferita del possibile (Rubbettino).

Laboratorio 30 marzo Sabino Caronia e Giorgio Linguaglossa

Sabino Caronia, Giorgio Linguaglossa Roma, Laboratorio di poesia 30.03. 2017

 

Lettura di Emerico Giachery

La ferita del possibile appare dopo un lungo e operoso cammino letterario  di critico-saggista e di narratore, in cui Caronìa esprime una personalità fervida e appassionata, non convenzionale, ricca di interessi e di orizzonti. Appassionata anche nell’incontro critico-saggistico con scrittori che diventano, come è giusto e  bello  che sia, compagni di strada: da Dessì a Santucci, da Borges a Tomasi di Lampedusa. Estranea a schemi vigenti è anche l’attività del narratore, spesso animata di pathos memoriale:  L’ultima estate di Moro, di cui esiste un’ottima trasposizione scenica curata da Ugo De Vita, che meriterebbe di essere rivisitata in teatro; Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi,  e infine La cupa dell’acqua chiara, forse il suo libro più suggestivo e lievitato da una memoria anche storica spesso intrisa di pietas, e in cui, tra l’altro, compare Kafka, così centrale nell’immaginario dello scrittore. Caronìa esordisce come poeta soltanto nel 2013, con una breve raccolta, Il secondo dono, ma s’intende facilmente che la poesia come “dono” esistenziale, come modalità di approccio al mondo, era stata sempre presente nell’esperienza umana e letteraria di Caronìa: compagna, sinora silente ma  segretamente operante, di tutta una vita. La prefazione di Loretto  Rafanelli a La ferita del possibile, densa e profonda, orienta utilmente il lettore : «è indubbio che si può scrivere d’amore, anzi è forse un dovere, come sempre è stato fatto, seppure si sappia che è il tema più arduo da trattare, tant’è che molti poeti ne stanno alla larga». Caronìa, invece, lo affronta con intrepido slancio, per un’esigenza incontenibile, maturata e lievitata negli anni.

E lo fa «con grande delicatezza, attingendo a un linguaggio poeticamente desueto, che pare derivare da antichi canoni, alla maniera di Guinizzelli o, più indietro, di Catullo», per «l’urgenza di tracciare un itinerario umano e affettivo, che spinge il poeta a derogare da codici  artefatti, se non addirittura a situarsi, con i dovuti ‘scarti’, in una struttura classica del verso che con le sue delicate scale è l’unica capace di rappresentare questa cavalcata poetica, che è intima, ma pure tiene un connotato ampio, che va al di là del gioco personale e autoreferenziale». Una   immediata ricezione del libro ce la offre la bella Rivista Internazionale online “L’Ombra delle Parole”. Vi si produce una suggestiva rete interpretativa: interessante operazione letteraria che fa  vivere il libro di una dimensione maieutica, analoga a  ciò che avviene nell’esperienza del Tao, secondo un maestro taoista: prima del cammino del Tao i monti sono monti, i fiumi sono fiumi; durante il cammino, tutto sembra entrare in crisi; ma alla fine i monti saranno ancora più monti e i fiumi ancora più fiumi. Così mi sembra possa avvenire anche al libro: più se stesso dopo una fruizione ermeneutica pertinente e plurima. Da questa bella esperienza di ricezione, che fa coro intorno alla ricordata prefazione di Rafanelli, segnalo qualche passo significativo, in particolare dal magistrale intervento di Giorgio Linguaglossa, che si può considerare un conciso saggio critico sulla poesia di Caronìa. «Caronìa riprende e riattualizza la tradizione primo novecentesca dei crepuscolari per rimetterla in piedi in pieno post-moderno, nella civiltà non più delle macchine ma in quella internettiana del nostro vuoto pneumatico. Caronìa fa una poesia del vuoto e dell’assenza, scrive un diario della assenza con un metro sillabico melodico di nobile ascendenza».

«Ci vuole una grande dose di coraggio o una grande ingenuità, dirà alcuno, per una tale operazione di trasbordo». Letizia Leone considera questa silloge «una personale lettera sull’umanesimo […] che opera per scarti minimi dai modelli novecenteschi». Salvatore Martino avverte nei versi «un cadenza serrata, una musica d’altri tempi». Secondo Ubaldo De Robertis, Caronìa  «riesce a disseminare, durante il proprio viaggio poetico, diverse perle preziose e rare». Pagine senza dubbio da non dimenticare. Continua a leggere

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DIBATTITO A PIÙ VOCI: NON LA POESIA È IN CRISI MA LA CRISI È IN POESIA – ALCUNE QUESTIONI DI ONTOLOGIA ESTETICA – LA QUESTIONE MONTALE-PASOLINI – ALLA RICERCA DI UNA LINGUA POETICA: TOMAS TRANSTRÖMER 

locandina antologia 3 JPEGGiorgio Linguaglossa

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/10/salvatore-martino-autoantologia-di-poesia-e-racconto-del-proprio-percorso-di-poesia-dagli-anni-sessanta-ad-oggi-poesie-scelte-relazione-tenuta-al-laboratorio-di-poesia-de-lombra-delle-parole-del/comment-page-1/#comment-19226

Due verità si avvicinano l’una all’altra. Una viene da dentro, una viene da fuori
e là dove si incontrano c’è una possibilità di vedere se stessi
*
Talvolta si spalanca un abisso tra il martedì e il mercoledì ma ventisei anni possono passare in un attimo: il tempo non è un segmento lineare quanto piuttosto un labirinto, e se ci si appoggia alla parete nel punto giusto si possono udire i passi frettolosi e le voci, si può udire se stessi passare di là dall’altro lato.
*
Che cosa sono io? Talvolta molto tempo fa
per qualche secondo mi sono veramente avvicinato
a quello che IO sono, quello che IO sono.
Ma non appena sono riuscito a vedere IO
IO è scomparso e si è aperto un varco
e io ci sono cascato dentro come Alice
*
Lasciare l’abito / dell’io su questa spiaggia, / dove l’onda batte e si ritira, batte // e si ritira.
*
Una fessura / attraverso la quale i morti / passano clandestinamente il confine
*
Ho fatto un giro attorno alla vita e sono ritornato al punto di partenza: una stanza vuota
*
… una mattina di giugno quando è troppo presto per svegliarsi e troppo tardi per riaddormentarsi…
*
… e dopo di ciò scrivo una lunga lettera ai morti
su una macchina che non ha nastro solo una linea
d’orizzonte
sicché la parole battono invano e non resta nulla
*
Io sono attraversato dalla luce
e uno scritto si fa visibile
dentro di me
parole con inchiostro invisibile
che appaiono
quando il foglio è tenuto sopra il fuoco!
*
Leggevo in libri di vetro…
*
Stanco di tutti quelli che si presentano con parole,
parole ma nessuna lingua
sono andato sull’isola coperta di neve
[…]
La natura non ha parole.
Le pagine non scritte si estendono in tutte le direzioni!
*
…la baia si è fatta strana – oggi per la prima volta da anni pullulano le meduse, avanzano respirando quiete e delicate… vanno alla deriva come fiori dopo un funerale sul mare, se le si tirano fuori dall’acqua scompare in loro ogni forma, come quando una verità indescrivibile viene fatta uscire dal silenzio e formulata in morta gelatina, sì sono intraducibili, devono restare nel loro elemento

Sono versi di Tranströmer… il problema è che il «vuoto» c’è, e chi non lo ha mai intravisto non lo metterà mai nella propria arte… il problema è percepirlo e saperlo mettere sulla pagina bianca. Il «vuoto» della civiltà moderna non lo ha inventato la NOE, c’era già prima della NOE.

Salvini Il governo che intendo guidare non farà sbarcare neanche un clandestino o richiedente asilo in Italia Dal primo all'ultimo, tornano da dove sono partiti

quando le parole vengono svuotate del loro significato

Giorgio Linguaglossa

SU ALCUNE QUESTIONI INTORNO ALL’ESSERE E AL NULLA, LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/05/gino-rago-arte-dello-scrivere-due-frammentisti-vociani-a-confronto-clemente-rebora-aldo-palazzeschi-e-pier-paolo-pasolini-un-contributo-alla-rilettura-del-novecento-poetico-italiano-e-un-c/comment-page-1/#comment-19052

Vorrei tornare ai miei spunti e appunti spersi su questa Rivista intorno alla questione del Nulla, del Vuoto e dell’Essere ai fini di una corretta impostazione metodologica della N.O.E. – Il tratto caratteristico e per me fondante, il tratto di distinguibilità io lo rinvengo nella percezione del Nulla, del concetto filosofico e scientifico che il termine Nulla ha. La N.O.E. recepisce questa gigantesca problematica di oggi, comune anche alla filosofia recentissima.

La questione del Nulla non è stata inventata dai redattori dell’Ombra, ma è da più di un secolo che la filosofia e la scienza pensano questa “Cosa”.

Si dice comunemente che «Il Nulla non è» e che «l’Essere è», ponendo il Nulla come originario e fondante l’essere; ebbene, questa impostazione ha il sapore di vecchia scolastica, oggi noi ipotizziamo l’indistinguibilità del Nulla e dell’Essere come dato di fatto filosoficamente inconcusso. Il Nulla significa e, in quanto positivamente significa è equiparabile alla significazione vuota del non-essere, il suo darsi è «vera e indeterminatissima negazione dell’essere»1] – È paradossale che la negatività assoluta, il Nulla, significhi anche qualcosa, proprio come l’Essere il quale significa anch’esso qualcosa. Ovvero, il positivo significare e il negativo significare sono su un piano di assoluta parità ontologica, nessuno dei due riveste un ruolo di priorità ontologica: «la positività del significato ‘albero’, non è assolutamente più originaria di quella predicabile dal nulla».2] Ovviamente, parlando di positività del nulla noi intendiamo la sua assoluta indeterminazione che non assume alcun ruolo prioritario nella individuazione di un qualunque essere dal punto di vista ontologico.

Questo «è» consiste nella SUA assoluta mancanza di determinazione e dunque costitutivamente connaturato con il Nulla. Così, Prima dell’Inizio, il nulla che è e l’essere che non è, si danno simultaneamente la mano.

Con le parole di Severino: «pensare “quando l’essere non è“, pensare cioè il tempo del suo non essere significa pensare il tempo in cui l’essere è il nulla, il tempo in cui si celebra la tresca notturna dell’essere e del nulla».3]

Lo stesso Severino afferma che il principium firmissimum riesce a strutturarsi «solo in relazione con il negativo, e l’incontrovertibilità può esser posta solo in quanto originariamente implicante una relazione con il nulla». Il Nulla di cui il filosofo italiano parla «non è il non-essere determinato ma il nulla in quanto «nihil absolutum», l’assolutamente altro dall’essere».

Ciò significa che anche l’Originario è auto contraddittorio, esso si dà quando non si dà, cioè quando non è Principio di alcunché: di qui la natura intimamente antinomica e paradossale dell’Originario. L’Originario non è un ente che si costituisce in ente ma è qualcosa connaturata al suo non-essere e, quindi alla sua stessa inconsistenza dal punto di vista dell’ente…

Da quanto precede, è ovvio che leggere la mia poesia Preghiera per un’ombra, presuppone il porsi nella dimensione esistenziale di accoglimento del Nulla e del non-essere (e quindi del tempo) sullo stesso piano ontologico di parità indistinta. La Nuova Ontologia Estetica non poteva sorgere che in questo nuovo orizzonte di pensiero filosofico. Questo mi sembra incontrovertibile.

Il problema in ambito estetico è percepire il nulla aleggiare nelle «cose» e intorno alle «cose», percepire il vibrare del nulla all’interno di una composizione poetica così piena di «cose» e di significati… per scoprire che tutte quelle «cose» e quei «significati» altro non erano che il riverbero del «nulla», il solido nulla del nostro nichilismo…

La positività del nulla è la sua stessa nullità, la sua nullificazione. Credo che questo sia chiaro a chi legga la poesia con la mente sgombra, facendo vuoto sul prima della poesia, leggerla come si respira o si guarda uno scricciolo che trilla, come un semplice accadimento che accade sull’orlo di qualcosa che noi non sappiamo… Ascoltare la progressiva nullificazione del vuoto che avanza e tutto sommerge nella sua progressiva forza nientificante. È questo appunto di cui tratta la Nuova Ontologia Estetica, prima ancora di parlare di metro, di parola e di musica… e quant’altro…

1]Massimo Donà, L’aporia del fondamento, Milano-Udine 2008 p. 183
2] Ivi, p.199
3] Emanuele Severino “Ritornare a Parmenide”, in Essenza del nichilismo, Milano 1982, p.22
4] Emanuele Severino, La struttura originaria, Milano 1981, pp.181-182 e p. 209

Mario Gabriele Maurizio Ferraris

Scrive Maurizio Ferraris:

«A livello ontologico, il quadridimensionalismo come iscrizione della traccia (perché questo, in ultima istanza, è il quadridimensionalismo: che insieme al lungo, al largo e al profondo ci sia anche il passato) assicura l’evoluzione, ossia lo sviluppo delle interazioni. in secondo luogo, a livello epistemologico, quello in cui la memoria ricorda, il quadridimensionalismo permette la historia, la ricostruzione dello sviluppo temporale degli individui. Se Proust ne avesse avuto il tempo, avrebbe potuto scrivere la storia dell’universo. Provo a spiegare questa affermazione magniloquente.

La domanda ontologica “che cosa c’è?” può allora venire articolata in due domande distinte: da una parte “che cosa c’è per noi, in quanto osservatori interni allo spazio tempo?”; dall’altra “che cosa ci sarebbe per un osservatore privilegiato, che osservasse lo spaziotempo dal di fuori?”.»

Cari amici Claudio Borghi e Mario Gabriele,

io sono profondamente convinto che la poesia che dobbiamo scrivere è quella che apre degli spiragli sulla quadri dimensionalità. Come farlo sta al talento di ciascun poeta, al proprio bagaglio di esperienze storiche, la NOE non pone alcuna recinzione a questo compito, tutte le strade sono possibili e percorribili, quello che a noi della NOE sembra indiscutibile è che in questo modo si aprono per la poesia possibilità ed esiti inattesi e potenzialmente ampi per l’espressione poetica. Io penso (ma è solo un mio pensiero) che per far questo sia indispensabile costruirsi un proprio metro, il cosiddetto «libero», che poi non è libero affatto, l’importante è abbandonare la visione monoculare della poesia pentagrammatica e fonetica che dà luogo ad un verso unilineare e temporalmente condizionato da una mimesi filosoficamente ingenua. In questo modo si mette in archivio la impostazione unilineare del tempo e dello spazio. Quel tipo di poesia lì si è fatta per secoli e per tutto il novecento, adesso è venuto il momento di cambiare registro.

Annamaria De Pietro Stefanie Golish

Claudio Borghi 

9 aprile 2017 alle 13:54 

Questo è il punto critico, Giorgio. Tu sostieni (coerentemente parli di un tuo libero pensiero, che non pretendi imporre) che “l’importante è abbandonare la visione monoculare della poesia pentagrammatica e fonetica che dà luogo ad un verso unilineare e temporalmente condizionato da una mimesi filosoficamente ingenua”, ecc. Ma in che senso la poesia novecentesca è monoculare? In quanto interpreta il tempo come unilineare e non lo sente appartenere a una struttura quadridimensionale? L’esperienza del tempo psicologico, in quanto prolunga la mente nella memoria, è per tutti quella di una quarta dimensione vissuta dall’interno: ritenere di fondare su questa consapevolezza una rivoluzione estetica è a mio avviso ingenuo, soprattutto laddove si ritiene di caratterizzarla sul verso libero, sul metro vario in antagonismo con la presunta statica “unilinearità” dell’endecasillabo. Il novecento è stato il secolo delle sperimentazioni linguistiche, il verso libero e la poesia in prosa sono, come sai, un portato ottocentesco, del simbolismo francese in particolare (Aloysius Bertrand, Baudelaire, Rimbaud…), ma il problema non è tanto questo. Tu ribadisci la necessità di andare oltre, lasciarsi indietro Bertolucci, Bacchini, ecc., come si trattasse di esponenti di una poesia che ha esaurito le sue potenzialità in quanto legata a una concezione ingenua del tempo lineare. In che senso il tempo interiore è non lineare? Forse che si ritiene psicologicamente di poter sperimentare il tempo come legato a una struttura quadridimensionale? Non è chiaro questo aspetto (lo stesso Ferraris in sostanza non ha risposto laddove la Giancaspero l’ha sollecitato su questo punto, ha fornito un’analisi impeccabilmente fenomenologica in quanto, credo, ha sentito il pericolo del possibile anomalo legame tra ontologia ed estetica, che dovrebbero restare sempre separate), sembra una volontà e una dichiarazione di intenti confusamente quanto suggestivamente legata alla scienza. La relatività è costruita su una varietà quadridimensionale, lo spaziotempo, ma il tempo relativistico nulla ha a che fare col tempo della coscienza o con la memoria. Dal mio punto di vista, e a questo è orientata la mia ricerca sia in fisica che in poesia, il problema è come avvicinare la scienza e l’arte o la scienza e la filosofia, dopo che le rivoluzioni della fisica teorica hanno stravolto la rappresentazione che del mondo gli uomini si sono fatta fino all’ottocento. E’ questo che, in particolare nelle sezioni in prosa di Dentro la sfera, ho cercato di fare, e mi sono sentito dire (incredibile, vista una realtà che a me pare piuttosto oggettiva) di essere legato all’unilinearità novecentesca, quindi, in un certo senso, a una percezione ingenua del reale. L’arte, Giorgio, è il portato di un’esperienza spirituale profonda: non si supera l’arte del novecento, in ispecie quella dei suoi esponenti più ricchi di forma immaginativa e di pensiero, sostenendo che hanno indagato il mondo alla luce di una “mimesi filosoficamente ingenua”, in quanto nessuna visione del mondo è ingenua se nasce da un’esperienza di vita spiritualmente autentica. Per far dialogare arte e scienza occorre conoscerle entrambe, non lasciarsi guidare da suggestioni teoretiche tentando esperimenti di quadridimensionalità di cui, almeno così a me pare, non è chiaro lo scopo, a parte l’intenzione esplicita di “cambiare registro”. Oltre allo spazio in cui nuotano i nostri sensi c’è il tempo in cui nuota la memoria e più in generale la mente, di cui la memoria è una componente necessaria. L’arte è grande se riesce a sondare questa profondità non spaziale, a innescare luce in un baratro scuro in cui l’io, cerino acceso, riesce a vedere ben poco con le sue povere forze, ma ugualmente tenta sintesi, cerca contatti, indaga forme, inventa armonie, elabora teorie.

Osip Mandel’stam Georg Trakl

Giuseppe Talìa

9 aprile 2017 alle 19:54 

Il maestro Hoyko riversò per terra un sacchetto pieno di monete d’oro e disse agli allievi: “prendetele e usatele”. E gli allievi, come scalmanati, si accapigliarono fra di loro per procurarsene il più gran numero.
Quando non rimase più alcuna moneta il maestro Hoyko disse: “C’è tra di esse una moneta falsa ma non la riconoscerete dal tinnire del metallo, né dal suono fesso, né dal modesto brillio, né dal peso in sé, né dalla grandezza della moneta, né dall’effige del re”.
“Oh, maestro” chiese il migliore tra gli allievi “come potremo allora noi discernere il grano dal loglio se non c’é differenza alcuna?”

G. Linguaglossa, La Filosofia del Tè, 2015

Steven Grieco Rathgeb Donatella Costantina Giancaspero

Donatella Costantina Giancaspero

 13 aprile 2017 alle 20:54

gentile Inchierchia,

le rispondo semplicemente trascrivendo due poesie di Transtromer che hanno tutti i requisiti di una nuova ontologia estetica (e non “estetica ontologica” come da lei erroneamente riportato). Come vede la nuova ontologia è abbastanza vecchia considerando che queste poesie sono state scritte diversi decenni or sono.

SULLA STORIA (PARTE V)

Fuori, sul terreno non lontano dall’abitato
giace da mesi un quotidiano dimenticato, pieno di avvenimenti.
Invecchia con i giorni e con le notti, con il sole e con la pioggia,
sta per farsi pianta, per farsi cavolo, sta per unirsi al suolo.
Come un ricordo lentamente si trasforma diventando te.

MOTIVO MEDIEVALE

Sotto le nostre espressioni stupefatte
c’è sempre il cranio, il volto impenetrabile. Mentre
il sole lento ruota nel cielo.
La partita a scacchi prosegue.
Un rumore di forbici da parrucchiere nei cespugli.
Il sole ruota lento nel cielo.
La partita a scacchi si interrompe sul pari.
Nel silenzio di un arcobaleno.

Cesare Pavese Gino Rago

Lucio Mayoor Tosi

13 aprile 2017 alle 21:31

A proposito di realtà percepita nella realtà stessa:
«Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: – Salve, ragazzi. Com’è l’acqua? – I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: – Che cavolo è l’acqua?».

Tratto da un articolo di Andrea Cortellessa.

Alfredo de Palchi W.H. Auden

Giorgio Linguaglossa

NON LA POESIA È IN CRISI MA LA CRISI È IN POESIA 

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/05/gino-rago-arte-dello-scrivere-due-frammentisti-vociani-a-confronto-clemente-rebora-aldo-palazzeschi-e-pier-paolo-pasolini-un-contributo-alla-rilettura-del-novecento-poetico-italiano-e-un-c/comment-page-1/#comment-19042

Non la poesia è in crisi ma la crisi è in poesia. Il mondo è andato in frantumi. È andato in frantumi il principio di identità, quella identità si è poi scoperto che era una contraddizione e il soggetto non può che percepire gli oggetti in frantumi come altamente contraddittori e conflittuali. Lo stesso Severino, il filosofo per eccellenza della identità, ha rilevato che porre A=A è ammettere che A sia diverso da A. che cioè l’identità implica in sé la diversità e la non-identità. Anche Derridà invocava a pensare l’orizzonte della rimozione come dell’accadere di un evento, secondo «una nuova logica del rimosso». L’epoca in cui la crisi è in crisi, richiede alla poesia risposte nuove, che si affranchino dalle risposte che sono già state date, pensare l’orizzonte della parola come un orizzonte del rimosso, una parola che anche quando la riusciamo a profferire, risulta in sé divisa in schisi, solcata dalla scissione…

Gli oggetti esterni sono percepiti frantumati, al pari degli oggetti interni. Anche il metro della poesia ne è uscito frantumato, il metro della nuova ontologia estetica, per eccellenza. Per il fatto di avere questa relazione doppia con se stesso, il soggetto è sempre intorno all’ombra errante del proprio «io», ci gira intorno dall’esterno, lo circumnaviga, sospettoso e distratto. Quello che nella nuova poesia ontologica si presenta è l’allestimento di una scena, di varie scene nelle quali il soggetto e l’oggetto sono irrimediabilmente separati da se stessi come in preda di una diplopia, figura essi stessi della loro schisi, della loro deiscenza all’interno del mondo – quell’oggetto che per essenza distrugge l’«io» del soggetto, che lo angoscia, che non può raggiungere, in cui non può trovare alcuna riconciliazione, alcuna aderenza al mondo, alcuna complementarità. Tra «oggetto» ed «io» si è instaurata una scissione, una Spaltung.

La poesia della Nuova ontologia estetica eredita tutta questa frantumazione del frammento, questa polverizzazione dell’«oggetto», e non potrebbe essere altrimenti. E questa è la sua forza, la forza percussiva delle sue icone semantiche ridotte ai minimi termini dell’azione semantica.

alcuni poeti della NOE

Donatella Costantina Giancaspero

5 aprile 2017 alle 20:36 

NON LA POESIA È IN CRISI MA LA CRISI È IN POESIA 

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/05/gino-rago-arte-dello-scrivere-due-frammentisti-vociani-a-confronto-clemente-rebora-aldo-palazzeschi-e-pier-paolo-pasolini-un-contributo-alla-rilettura-del-novecento-poetico-italiano-e-un-c/comment-page-1/#comment-19044

Grazie a Gino Rago per questo suo excursus critico sull”ars poetica” di autori che ritengo fortemente innovativi nel Novecento. L’accostamento che ne fa mi pare senz’altro appropriato: Clemente Rèbora, l’ “espressionista” Rèbora, annoverato tra i cosiddetti “vociani”, anche loro (come noi oggi) spinti verso la ricerca di un nuovo linguaggio (una Nuova Ontologia Estetica diremmo noi) dall’esigenza di abbandonare gli schemi tradizionali del secolo precedente; Aldo Palazzeschi, confluito nella rivista La Voce dopo l’esperienza futurista: uno scrittore e poeta controcorrente, nei cui versi Marinetti leggeva «un odio formidabile per tutti i sentieri battuti, e uno sforzo, talora riuscitissimo, per rivelare in un modo assolutamente nuovo un’anima indubbiamente nuova». Intellettuale fervido e lungimirante, mi pare giustamente accostabile a Pier Paolo Pasolini: «insoddisfatto del linguaggio e della forma-poesia del suo tempo – così analizza Gino Rago – già avvertiva in sé l’aspirazione di far muovere i suoi versi in un’area espressiva più vasta di quella fino ad allora esplorata e attraversata». Dopo di lui (e dopo il Montale di Satura), “la crisi nella poesia”, il “mondo in frantumi”, come scrive Giorgio Linguaglossa: quarto e ultimo autore citato, col quale Gino Rago ci conduce alla contemporaneità. La sua «febbrile ricerca poetica» lo pone senz’altro un passo in avanti, oltre la linea consunta di tanta poesia letta e riletta. È il passo in avanti richiesto dai tempi, dall’epoca in cui viviamo. Lo ripeto con le parole stesse di Giorgio Linguaglossa: «l’epoca in cui la crisi è in crisi, richiede dalla poesia risposte nuove, che si affranchino dalle risposte che sono già state date, pensare l’orizzonte della parola come un orizzonte del rimosso, una parola che anche quando la riusciamo a profferire, risulta in sé divisa in schisi, solcata dalla scissione…».
Per questo e per molto altro ancora, la nostra poesia deve procedere con i tempi verso una Nuova ontologia estetica: “Nuova” perché in grado di accogliere tutta la “frantumazione del frammento”, la “polverizzazione dell’«oggetto»”. Ancorché indebolirsi, di questo la poesia si fa forte: «questa è la sua forza, la forza percussiva delle sue icone semantiche ridotte ai minimi termini dell’azione semantica».

Helle Busaccca Roberto Bertoldo

giorgio linguaglossa

7 aprile 2017 alle 8:57 

NOI NON SIAMO SACERDOTI DELLA POESIA, SIAMO DEI POETI CHE VOGLIONO RICOMINCIARE A SCRIVERE POESIA. (LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA).

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/05/gino-rago-arte-dello-scrivere-due-frammentisti-vociani-a-confronto-clemente-rebora-aldo-palazzeschi-e-pier-paolo-pasolini-un-contributo-alla-rilettura-del-novecento-poetico-italiano-e-un-c/comment-page-1/#comment-19072

Quanto scrive Gabriella Cinti mi conforta e mi spinge ad andare avanti nella riflessione sulla Nuova poesia, giacché la poesia deve rinnovarsi altrimenti rimane prigioniera e subalterna di impostazioni concettuali che appartengono ad altre stagioni spirituali e stilistiche.

Quello che tento e tentiamo di fare è costruire una base (anche) filosofica per la nuova poesia, dimostrare che c’è già in atto una nuova filosofia. Citare i filosofi contemporanei, quelli che si occupano dei problemi di cui, su un altro versante, si occupano i poeti di oggi, significa esplicitare che qualcosa di essenziale è cambiata rispetto alle impostazioni di cento anni fa, quelle reboriane e anche quella di Pasolini, il quale non ha potuto portare a compimento il suo progetto di riforma radicale del linguaggio poetico per intervenuta cessazione della sua vita ad opera di assassini di cui ancora oggi sconosciamo nomi e identità. E mi sia consentito dire una cosa molto semplice, anche Montale, con la poesia “Lettera a Malvolio” si è reso corresponsabile del linciaggio di Pasolini. Diciamolo con schiettezza: Montale non avrebbe mai dovuto scadere così in basso e additare l’equazione Pasolini=Malvolio. Era vero il contrario: Montale=Malvolio.

Lo dico e lo ripeto ancora una volta: Montale con Satura (1971) e poi con il Quaderno dei quattro anni del 1971 e del 1972 (1973), mette la poesia italiana in discesa, apre il rubinetto della falsa poesia in discesa, apre alla demagogia di una forma-poesia che si adatta e si arrende alla nuova barbarie mediatica. Si trattava di una resa intellettuale, di una smobilitazione generale, di un rompete le righe e di un si salvi chi può. Quella poesia era una poesia in minore, una pseudo poesia. E questo sia sempre detto con la massima chiarezza e sia ripetuto per i più giovani. Era una falsa sirena ammaliatrice perché Montale metteva in circolo i virus della disintegrazione della poesia a fronte della civiltà mediatica. Montale chiudeva la poesia non in una nicchia ma nel passato remoto. E questo atto di resa intellettuale risulta ormai chiarissimo a circa 50 anni di distanza da Satura.

Mariella Colonna Edith Dzieduszycka

Montale pubblica il Diario del ’71 e del ’72 due anni dopo Satura, mentre le raccolte precedenti avevano visto passare tredici-quattordici anni di pausa tra l’una e l’altra. Nel febbraio del 1971 Montale aveva dichiarato: “Non si tratta di intervalli programmati […]. Non credo sia possibile che appaia un mio quinto libro. Ciò dovrebbe avvenire nel 1985. Non è augurabile né a me né agli altri”[1].

Quanto dichiarato in questa auto intervista, all’uscita di Satura, non è un depistaggio perché in effetti l’autore, che spesso aveva espresso dubbi sulla prolificità della propria ispirazione, compose il Diario, tranne otto poesie, a partire dalla primavera del ’71 e già a fine luglio la prima metà della raccolta (45 poesie), l’intero Diario del ’71, era pronta, tanto che Scheiwiller la pubblicò in occasione del Natale dello stesso anno. Anche il Diario del ’72 ha una genesi breve, divisa in due tempi: il primo da gennaio a marzo; il secondo, dopo una malattia, da settembre a fine ottobre.

Nel Diario del ’71 e del ’72, Montale si allontana dal tono polemico che aveva trovato posto già nelle prose degli anni ’50 e ’60 per poi mostrarsi a pieno in Satura. I temi di cui si compone l’opera spaziano da riflessioni dell’autore sulla poesia stessa (A Leone Traverso, L’arte povera, La mia musa, Il poeta, Per una nona strofa, Le Figure, Asor, A caccia), alla polemica contro l’opportunismo dei suoi tempi, espressa nel genere della lettera in versi (dalle Botta e risposta di Satura a, soprattutto, la Lettera a Malvolio, uno dei componimenti fondamentali dell’opera, polemicamente indirizzato a Pier Paolo Pasolini), i testi che Montale popola di piccoli eventi quotidiani osservati dalla finestra del suo appartamento milanese e quelli di argomento metafisico-teologico. Esistono anche precisi luoghi del Diario che richiamano Satura e la restante produzione del poeta, come dimostra chiaramente soprattutto Annetta, per esempio con la citazione, tra le altre, de La casa dei doganieri.

«La mia voce di un tempo – si può sempre paragonare la poesia a una voce – era una voce, per quanto nessuno l’abbia detto, un po’ ancora ore rotundo diciamo così; anzi dissero che era addirittura molto prosastica, ma non è vero, riletta ora credo che non risulti tale. La nuova invece si arricchisce molto di armoniche e le distribuisce nel corpo della composizione. Questo è stato fatto in gran parte inconsciamente; poi, quando ho avuto alcuni esempi, diciamo, di me stesso, allora può darsi che io abbia seguìto degli insegnamenti che io mi ero dato. Ma all’inizio no, è stata veramente una cosa spontanea»[1].

Nelle prime tre raccolte Montale aveva utilizzato un linguaggio a volte criptico, con molte allusioni. A partire da Satura, le sue poesie diventano più facilmente comprensibili anche per un lettore che non conosca l’evento biografico che sta dietro il testo poetico.

Angelo Jacomuzzi ha parlato di “elogio della balbuzie”[2], in riferimento alla fase della poesia montaliana iniziata con Satura. Da allora tutta la restante poesia italiana ha parlato il linguaggio della balbuzie. Dobbiamo dirlo con franchezza: tutta la poesia posteriore a Satura parlerà un linguaggio dimidiato, balbuziente, affetto da impotenza. Non credo che c’entri nulla la questione della perdita di fiducia di Montale nei confronti della poesia, forse nessuno come noialtri della Nuova Ontologia Estetica ha più s-fiducia di Montale, io personalmente non ho alcuna fiducia nella poesia, molto meno di quella di Montale, ma la sfiducia, come anche la fiducia, sono atti di fede e io non sono un credente: non devo fare nessun atto di fede verso nessuna deità, tanto meno verso la Musa. Montale è ancora un poeta legato ad una cultura che vedeva nella poesia un luogo «sacro» in cui inginocchiarsi e pregare, io e i miei compagni di strada pensiamo che il «sacro» della poesia non ha nulla a che fare né con i miei (NOSTRI) atti di fede né con la fede purchessia. Io (NOI) non faccio (FACCIAMO) poesia perché sono (SIAMO) dei sacerdoti della poesia. Dio ce ne scampi e liberi dai sacerdoti della poesia! Questo era ancora il concetto che aveva Montale della poesia. Che non è il nostro. Noi non abbiamo alcuna fiducia verso alcuna cosa, tanto meno verso quella cosa chiamata poesia. Non scriviamo poesia per un atto di fiducia o di s-fiducia ma per un disegno intellettuale preciso.

Gezim Hajdari  Kjelll Espmark

SIAMO DEI POETI CHE VOGLIONO RICOMINCIARE A SCRIVERE POESIA

Montale scrive: «Incespicare, incepparsi / è necessario / per destare la lingua / dal suo torpore. / Ma la balbuzie non basta / e se anche fa meno rumore / è guasta lei pure. Così / bisogna rassegnarsi / a un mezzo parlare»[3]

Montale scrive una «poesia del dormiveglia» come è stata battezzata ma con l’animus di chi ha perduto la fede nel suo dio:

La mia Musa è lontana: si direbbe
(è il pensiero dei più) che mai sia esistita.
Se pure una ne fu, indossa i panni dello spaventacchio
alzato a malapena su una scacchiera di viti.
Sventola come può; ha resistito a monsoni
restando ritta, solo un po’ ingobbita.
Se il vento cala sa agitarsi ancora
quasi a dirmi cammina non temere,
finché potrò vederti ti darò vita.
La mia Musa ha lasciato da tempo un ripostiglio
di sartoria teatrale; ed era d’alto bordo
chi di lei si vestiva. Un giorno fu riempita
di me e ne andò fiera. Ora ha ancora una manica
e con quella dirige un suo quartetto
di cannucce. È la sola musica che sopporto.[5]

Io (NOI) invece scrivo (SCRIVIAMO) una «Preghiera per un’ombra», nella quale, e voglio dirlo, con un «pieno parlare» rimetto (RIMETTIAMO) in piedi la poesia italiana del dopo SaturaLa Nuova Ontologia Estetica è questo: per chi non l’abbia ancora compreso: rimettere in piedi la poesia italiana, Noi non siamo i sacerdoti della sacra Musa, fare i sacerdoti non è il nostro mestiere,

E su questo punto sarei curioso di conoscere i punti di vista degli interlocutori della rivista (Mario Gabriele, Steven Grieco-Rathgeb, Giuseppe Talia, Lucio Mayoor Tosi, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago, Letizia Leone, etc.) e dei lettori tutti.
Grazie.

[1] Montale, Il secondo mestiere: arte, musica, società, p. 169.
[2] a b c Jacomuzzi, La poesia di Montale. Dagli “Ossi” ai “Diari”, pp. 146-73.
[3] a b c d e f Montale, Diario del ’71 e del ’72, p. 194.
[4]. Montale, Satura, 1962-1970.
[5] Montale, Diario del ’71 e del ’72, pp. 75-6.

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Salvatore Martino (1940) AUTOANTOLOGIA DI POESIA E RACCONTO DEL PROPRIO PERCORSO DI POESIA DAGLI ANNI SESSANTA AD OGGI – POESIE SCELTE – Relazione tenuta al Laboratorio di poesia de L’Ombra delle Parole del 30 marzo 2017

Laboratorio 30 marzo Platea_2

Laboratorio di poesia del 30 marzo 2017 Libreria L’Altracittà, Roma

 

Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel cuore più segreto della Sicilia, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra(1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). Ha ottenuto i premi Ragusa, Pisa, Città di Arsita, Gaetano Salveti, Città di Adelfia, il premio della Giuria al Città di Penne e all’Alfonso Gatto, i premi Montale e Sikania per la poesia inedita. Nel 1980 gli è stato conferito il Davide di Michelangelo, nel 2000 il premio internazionale Ultimo Novecento- Pisa nel Mondo per la sezione Teatro e Poesia, nel 2005 il Premio della Presidenza del Consiglio. Nel 2014 esce con Progetto Cultura di Roma, in un unico libro, la sua produzione poetica, Cinquantanni di poesia. È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010  con la direzione di Sergio Campailla , insieme a Fabio Pierangeli ha tenuto un laboratorio di scrittura  creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008, un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.

Testata politticoSalvatore Martino

Eros e il Mito, i viaggi i labirinti

Quando alcuni giorni fa Linguaglossa mi ha raggiunto telefonicamente invitandomi a parlare nel Laboratorio di poesia de l’Ombra delle Parole intorno alla mia poesia sono stato preso da una sorta di smarrimento.
In quasi sessanta anni di dedizione al discorso poetico mai mi sono trovato a parlare in prima persona del mio mondo raccontato in versi.
Ma non ho avuto scampo ed eccomi qua a camminare con voi questo lungo viadotto, intriso di scorie e trabocchetti, abissi e cancellazioni a volte persino di felicità.
Sono nato nel cuore più segreto della Sicilia, la terra degli avi di mio padre, a mezza strada tra Palermo e Agrigento. Adolescente ho vissuto in Toscana la terra degli avi di mia madre, e credo che queste coordinate abbiano contribuito a plasmare il mio carattere,a dare una dimensione alla mia creatività. Due avvenimenti hanno avuto una influenza decisiva nella costruzione dell’edificio dove sono andato ad abitare: lo studio della medicina all’Università per cinque anni, e il suo abbandono letteralmente rapito dal teatro.
Nel 1963 a Palermo per il servizio militare di leva. E qui un’altra svolta importante. Avevo già prodotto un certo numero di testi poetici, ma in questo lembo del mio sud compresi e per sempre che una cosa è scrivere versi, altra cosa essere poeta, voler essere poeta, vivere da poeta.

Adolescente sono stato un lettore disperatamente onnivoro, sotto la guida di Luciano Bianciardi allora direttore della Biblioteca Chelliana ubicata al piano terra del mio liceo classico a Grosseto.
Più che i poeti erano i romanzieri ad affascinarmi: i grandi russi, gli inglesi Conrad e Wilde su tutti, i francesi dell”800 e Proust, e naturalmente gli adorati Melville e Poe. Buzzati, Gadda, Berto e Pavese fra gli italiani. Quando la poesia mi invase totalmente i miei innamoramenti andarono ai poeti di lingua spagnola, anche perché potevo leggerli nel testo originale, come del resto i francesi.
Jimenez e Machado, Lorca, Guillen, Aleixandre, Darìo, e naturalmente Baudelaire e Rimbaud, per citare solo quelli più volte visitati. Degli italiani del novecento non molto, qualche cosa di Ungaretti, il primo Montale, Cattafi, Dino Campana. Naturalmente i maestri dei maestri Cavalcanti, Dante, Petrarca, Leopardi.
Sono di quel periodo Venti pezzi facili e Ricordi da Palermo dove tentavo di trasfigurare in musica esperienze di vita, il colloquio con la mia terra, l’eros che avrebbe accompagnato tutta la stesura del viaggio poetico.

Nei primi anni sessanta feci parte dell’Avanguardia storica romana che in teatro tentava di dare un nuovo indirizzo alle vicende del palcoscenico. Fu Giordano Falzoni che mi fece conoscere i poeti del Gruppo 63. Devo confessare che non mi interessarono affatto, solo Sanguineti in qualche modo, al quale riconoscevo una straordinaria intelligenza, e una ricchezza linguistica assoluta.
In quegli anni conobbi Bianca Garufi, da poco tempo psicanalista junghiana. Era stata la donna di Cesare Pavese col quale aveva scritto a quattro mani il romanzo Fuoco Grande. Con lei mi addentrai nello studio della psicologia analitica, cardine fondamentale per la mia scrittura, e conobbi il grande Bernard, che mi iniziò ai misteri del profondo.
Nel 1966 conobbi Corrado Cagli che mi introdusse nel pantheon della scena romana: Afro, Mirko, Guttuso, De Chirico, Vespignani, ma anche letterati come Emilio Villa e Pier Paolo Pasolini. Frequentazioni intense di amicizia che segnarono spiritualmente e intellellualmente la mia formazione. E poi due grandi personaggi Giorgio Amendola e Antonello Trombadori, che rafforzarono la mia fede nel comunismo, e mi introdussero alla vita pratica del partito. Sul palcoscenico ho dato più volte il mio contributo nelle Feste dell’Unità. 
A metà degli anni sessanta come in un prezioso ritrovamento altri due incontri decisivi: Ezra Pound e T.S.Eliot. Cambiò totalmente il mio modo di fare poesia. Si materializzarono due poemi: Attraverso l’Assiria e La fondazione di Ninive. Il primo nasceva di getto in un’estate di delirio, nella quale non facevo che ascoltare ossessivamente Tristan und Isolde. Ninive ebbe invece una lunghissima gestazione, undici ani, dilatandosi ed essiccandosi alternativamente. Sottoponevo molto spesso i miei risultati di revisione a Ruggero Jacobbi e a Libero de Libero, ricevendone stroncature o incoraggiamenti. Lo stesso Jacobbi nella introduzione al volume avrebbe scritto: …..Martino ha percorso questo itinerario rischioso, talora spaventoso, per giungere a un riscatto che egli stesso ha propiziato in anni e anni di adulta e coscientissima ricerca di linguaggio, in modi di verso e di prosa che non somigliano a niente di oggi……

Laboratorio 30 marzo Rago Sagredo Martino

Laboratorio di poesia del 30 marzo 2017 Libreria L’Altracittà, Roma da sx Salvatore Martino, Antonio Sagredo e Gino Rago

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Ispirazione e immaginazione sentimento e magma, filo rosso col mondo più sotterraneo, una scrittura talvolta quasi automatica alla aniera dei surrealisti, queste credo furono le vie che intrapresi. Al vers libre preferii la cadenza non ritmata. Cercavo sempre anche in un ipermetro una certa musica , che verificavo con la lettura ad alta voce. Devo ammettere che già allora non avevo interesse per la poesia che si andava materializzando in Italia. Leggevo, conoscevo, ma nella totale indifferenza. In questi due libri cominciarono a delinearsi le tematiche,che mi avrebbero accompagnato nell’arco di oltre cinquanta anni : il rapporto dell’Io con se stesso, la maschera (persona) , l’archetipo dello specchio, il colloquio con l’Altro, il viaggio reale e quello sognato, l’ambiguità dell’essere e delle parole, Eros nella sua duplice natura, principio di relazione proprio alla vita, o progenie della notte, fratello della morte, incapace di salvarci da essa, e i sogni (oneiroi), che sia Omero che la mitologia orfica collocano nel regno di Ade. Tutto sotto la freccia apollinea, l’ebbrezza dionisiaca, il fuoco della conoscenza, il freddo del bisturi nell’indagine razionale. 

E nel guscio più ripido il dissidio mai sanato di essere a un tempo viandante e cavaliere e contadino legato al mio segno di terra, dentro una sorta di misticismo non trascendente , che anela al superamento dell’effimero, della fragilità. Certamente mi hanno aiutato, forse condizionato le mie frequentazioni: Bianca garufi, Bernard, J. Hilmann, le letture appasionate di Jung e di Kerenji.
Ricordo una sera a casa di Bianca appunto…c’erano alcuni mebri dell’AIPA Aldo Carotenuto e Paola Donfrancesco tra gli altri, ospite d’eccezione James Hilmann. Si parlò ovviamente di anima, di sogni, di mito, ma soprattutto di arte e della sua importanza nella psicologia del profondo. A un certo punto Hilmann quasi concludendo apoditticamente : ma a che serve l’arte, la poesia se non dà emozione.

Fu a metà degli anni ’80 che incontrai più volte Ghiannis Ritsos nella sua casa al 39 di Michail Koraca ad Atene. Avevo portato sulla scena per la prima volta in Europa il suo Oreste, anni dopo avrei recitato all’Eliseo un testo da me composto sulle sue poesie: Uomini e paesaggi. Furono davvero incontri incancellabili, forse i più emozionanti della mia vita. Parlavamo di tutto, in francese, del suo confino e dei colonnelli, degli antichi eroi e filosofi, della sua poesia, che mai lo aveva abbandonato. Potrei restare qui a discorrere con voi in un tempo dilatato tanti erano gli avvenimenti, i pensieri che scorrevano nei lunghi pomeriggi e talvolta anche al mattino. Mi mostrò alcune foto che lo ritraevano a bordo di una automobile scoperta, mentre attraversava le strade di Atene in mezzo ad una folla entusiasta che cercava di toccarlo mentre passava: erano i festeggiamenti del suo settantacinquesimo compleanno.Nel nostro ultimo incontro salutandomi mi consegnò tre sassi levigati dal mare sopra ai quali egli stesso aveva disegnato con inchiostro di china facce di antichi dei ed eroi. Li ho conservati quasi religiose reliquie. Lasciandoci sull’uscio faticavo a trattenere le lacrime, e mi accorsi che anche lui piangeva, e ci trovammo stretti in un indimenticabile abbraccio.

Nel ventennio dall’80 alla fine del secolo scorso si delinea nella mia scrittura una pentalogia miticometafisica, come la definisce Donato di Stasi, la terza fase del mio cammino.

Commemorazione dei vivi- Avanzare di ritorno- La tredicesima fatica- Il guardiano dei cobra- Le città possedute dalla luna.
Qui il mito diventa decisamente più ctonio, infarcito di Ybris: Odisseo e i suoi viaggi nel mondo supero e in quello infero, Eracle e Deianira, Giobbe e ol suo confronto con Jahvé , Ermes e le sue molteplici facce, il Minotauro nel suo labirinto metropolitano, Edipo cieco ad Eleusi come nelle nostre città. Il reperto mitologico come modello del quotidiano , del dettato storico. A proposito della storia in questi cinque volumi compaiono personaggi che la storia stessa hanno segnato. E la vicenda personale tende, almeno nelle mie intenzioni, a divenire cammino anche per gli altri.
Così l’individuo mitico-metafisico sceglie il salto nel vuoto, il rischio esistenziale, il dèmone della poesia. Viaggi verso culture lontane alimentano non solo paesaggi sconvolgenti, ma anche il contatto con civiltà in apparenza lontane, chiamate a descrivere le loro mitologie, le loro vicende di lotta e di sopravvivenza.
Dopo i primi moduli espressionistici, dal delirio linguistico poundiano , iperletterario e
intellettualistico, dagli accenti epici e dagli erratici momenti in versi e in prosa, si entra nell’ultima fase del mio cammino poetico: la trilogia del Nichilismo Libro della cancellazione- Nella prigione azzurra del sonetto- La metamorfosi del buio. Non so quanto abbia influito la lettura di Nietzche, segnatamente Il crepuscolo degli idoli de Al di là del bene e del male.

In Libro della cancellazione l’incontro con Ade , colui che è presente ma non c’è perché polvere, diventa pressante. Fino ad allora avevo in qualche modo pensato che la memoria fosse il solo esercizio da seguire, qui invece diventa chiaro che l’unica operazione consentita è l’oblio.
Paradosssalmente, lo stile è sempre più scivolato verso la chiarezza, le azioni, le persone, i paesaggi, gli stessi sentimenti più limpidamente oscuri. C’è un ritorno più concreto verso l’autoritratto alla maniera dei pittori del quattro-cinquecento, e c’è a partire da questa stagione un coraggio abissale di guardare in faccia il Nulla con una violenta volontà iconoclastica, contro le strutture di una società, che mi appare estranea. La corporeità diventa protagonista in questi tre libri, volutamente narrativi, dove ho cercato di trasferire tutto il mio pathos, che in parte mi deriva dalla poiesis greca corale e monodica.

Avevo scritto alcuni sonetti alla fine del secolo scorso e successivamente in Cancellazione, e nei primi anni Duemila sono caduto in una folle impresa alla don Chisciotte, folle e apparentemente senza uscita. 122 sonetti rimati tutti alla stessa maniera ABBA ABBA CDE EDC. Declinavo all’inizio de La prigione azzurra i nomi dei maestri ai quali ero debitore : Cavalcanti e Petrarca, Shakespeare e Borges. Non so io stesso come mi sia avventurato in questo labirinto di perfetta geometria. Certo il labirinto è stata una costante nella mia scrittura, anche se spesso ho pensato che abbiamo smarrito filo e Arianna e vittime e spada, forse abbiamo smarrito il labirinto stesso. Lungo tutti gli anni di gestazione, soprattutto passeggiando col mio Totò nel locus amoenus dove ancora vivo, ho pensato, parlato a voce alta in endecasillabi rimati, come sorgessero già confezionati nel mio mondo infero, in un colloquio con quegli dei che conoscevo quasi che essi trasmettessero in forma non cifrata , messaggi al mio dàimon. Certo il labor limae poi era spietato, perché in una simile struttura chiusa si corre il rischio di usare terminologie desuete, o di cadere nel ciarpame passatistico. Fu come raccontare ad uno sconosciuto la mia vita in versi, ma anche una feroce scommessa contro tutto quello che viene prodotto in Italia, cercando di mostrare come si possa scrivere in una forma vecchia di sette secoli con parole di oggi, con tematiche di sempre, da una Meditatio mortis a una Meditatio erotiké.

Dopo la reclusione azzurra maturata nell’endecasillabo discesi ancora di più nell’abisso, condotto per mano dagli oscuri disegni delle malattie, che mi trascinarono lungo il filo che delimitava il baratro. Ma sono risalito anche da quelle voragini.
Forse il segno più vibrante de “ La metamorfosi del buio”si avvolge intorno alla solitudine, alla ricerca di custodirla e di sconfiggerla. Ma non volli risparmiare niente, tutti i movimenti tematici ritornano con una luce ancora più ctonia, perché la discesa agli inferi non è soltanto quella individuale, ma quella nell’inconsco collettivo. Ma forse dietro al suo scenario di solitudine, c’è qualcosa di più angosciante dell’angoscia stessa. Anche stilisticamente si passa da una forma liricheggiante, a quella epica, a quella narrativa, il viaggio e i viaggi hanno una connotazione più grigia, l’eros è soltanto ricordo ma non rimpianto, il pensiero filosofico si insinua nella disputa scacchistica tra il Nulla e il suo Doppio.

Ai Maestri , ai compagni di teatro, agli amici ho dedicato l’ultimo mio libro edito: Incontri Ricordi Confessioni. Voci, volti, corpi, pensieri incontrati sul mio cammino e che hanno profondamente inciso nella mia vita.
Dopo la pubblicazione di Cinquantanni di poesia (2014) pensavo di aver esaurito il mio compito, di non dover scrivere più: il dàimon è stato di avviso diverso e mi ha imposto di continuare la mia avventura poetica.
Come work in progress sta vivendo tra le mie mani Manoscritto trovato nella sabbia un viaggio sempre più nell’Ade, nascosto nella sua invisibile pienezza, con Eros e Thanatos, al mio fianco, sulla barca del fiume azzurro che avanza verso Anubi.

Salvatore Martino

Autoantologia

Da La fondazione di Ninive 1965-1976

Questa notte mi hanno visitato le formiche
Hanno preso le mani
imbavagliati i piedi
stretto d’assedio il letto
Che sia solo la stanza a respirare?
Il resto giace Inerte
tenuto insieme da robusti negri
il lago infame e la memoria
Estraneo alla vicenda
il viaggiatore ride
acquattato nell’angolo
E aspetta
Che tutto si cancelli?!
Divorato nel sangue
Una brezza invadente increspa l’aria
Ci sono stati morbidi passi nella scala
parole sussurrate incantamenti e riti
una musica dolce sulla soglia
Il viaggiatore infìdo arriva dritto dall’Ade
Ma non ci paralizza l’ignoto grido
o l’avvicinarsi del branco
né il richiamo ingannevole col nome
L’occhio dentro l’occhio
avvitato dalla morsa che sai e non conosci
e decifri il mandante l’involucro lo scopo
Mi hanno visitato questa notte
gente partita da lontano emersa in superficie
attraverso i rigori dell’inverno
e navigando cristalline montagne
prati innevati e case crocefissi e paludi
adesso è qui
Olio sopra la fronte l’orecchio e il labbro

Da Il guardiano dei Cobra 1986-1992

Mi trovavo nel sogno in una barca con il mio fratello
e Guardiano C’erano anche dei compagni e un marinaio
Doveva essere un braccio di mare grigio e calmissimo del
nord simile a un lago senza sponde Io chiedevo notizie
sulla rotta ai compagni e al giovane nocchiero e il motivo
della fuga perché di fuga si trattava Ma non ottenevo
risposta Erano tutti morti E non provavo angoscia né
dolore solo un acuto senso di vertigine e vergogna per
loro che non avevano avuto la disperazione di resistere
Il mare cominciava a farsi denso Al posto dell’acqua mi
sembrava ci fosse un liquido vischioso una specie di olio
In preda a una violenta eccitazione presi a scuotere il
Guardiano sdraiato al mio fianco perché temevo che
quest’altro incidente potesse rallentare il precario avanzare
della barca Una caligine lattescente era caduta senza
bussola sarebbe stato impossibile orientarsi Ma quello
non rispose girò mostruosamente sul fianco rotolandomi
addosso all’infinito La sua faccia penentrava la mia
le braccia le cosce il suo sorriso m’invadevano il corpo in
una indescrivibile euforia e incominciai a cantare a voce
altissima a ridere a sognare e non ci fu più fuga né barca
né compagni soltanto e sconfinata una distesa bianca

Da Le città possedute dalla luna 1992-1998

El mundo perdido La foresta le pietre
nell’orizzonte fermo di Tikál

I
La morte interamente ti possiede
incantata dalle tue parole
dal fiore bianchissimo dei corpi
Si sono rintanati nella selva i miei serpenti
indistinto brusio la loro voce
le scimmie urlatrici invocano la pioggia
a lavare la febbre i desideri
Nel perimetro verde
in dolce precipizio a primavera
nel dominio uniforme delle piante
e per timone una barra di velluto
un colloquio strisciante di formiche
per vela un sentiero diroccato
un possibile agguato
da te dagli altri teso
dai minuscoli eventi che c’illudono
e inseguire dovunque
l’introvabile volo del quetzάl
l’uccello incredibile di piume
promesse ai sacerdoti
e accetta la morte non la cattività

II
Orfani senza voce
messaggeri del verbo
che lacera la morte
indagatori traditi dell’Oscuro
sopra la piattaforma
del Gran Tempio Piramide
di nuvole forse diviniamo
del domestico rito
costruzione perfetta dell’inutile
Guidarono i Poeti questa terra
testimoniando gli inferi e la luce
la freccia scoccata nel delirio
verso l’addome e il cuore
centro del movimento verso il labbro
perché immortali fossero i responsi
iniziatico dono nella veglia
Verde ancora la selva
gli alberi spalancano le braccia
tessono fili di saliva dove gli insetti
annegano e i rettili possono tremare
Un sacro terrore
su queste grigie pietre si respira
tracce visibili
quegli uomini stamparono
un ispirato codice di astri
I poeti osservano la morte
ne contano i sussurri gli abbandoni
i rami incoerenti della vita
le vertebre corrose dal nemico
testardo passeggero
antico testimone di battaglie
che ci dorme accanto
vigilando nel cavo del torace
lo sgomento la pena
I corpi bruceranno
interamente i fiati nell’attesa
tutte le formiche della terra
diventeranno un vuoto agglomerato
l’equilibrio invocato
tra il Nonessere e il Tempo
coinvolgerà fuggitivi e soldati
saremo
tutti
sacerdoti votati allo sterminio
Avranno occhi perforati
il coyote e l’iguana
gli uccelli tutti e sono migratori
e invadono gli stagni
prima di soggiacere all’acqua
lasceranno un sospetto
del loro transitare?
Avremo occhi perforati
un ghigno per sorriso
costretti ad inseguire
come insonne Giaguaro la sua preda
scivolato Serpente tra le dita
lasceremo un sospetto
del nostro transitare?
Presagi ingannevoli
in questo autunno della vita
si concretizza limpido il bersaglio
fiore bianchissimo sul corpo
invocata carezza
interamente tutti ci possiede

Da Libro della cancellazione 1996-2004

Il giardino dei sentieri che si biforcano

Mi ritirai nel giardino
a scrivere poesia
per consegnare agli altri un labirinto
una mappa divorata dal tempo
che conducesse in un secondo altrove
Un giardino pensato all’italiana
un gioco di armonia
immagine speculare della vita
Mi ritirai a scrivere a poesia
ritornando bambino
in un sogno da un altro già sognato
Perché la fine del viaggio è ritornare
al punto esatto da dove sei partito
e saranno le rughe del tuo volto
la carta del disegno iniziale
a segnalare il punto dell’arrivo
la fanciulla che attende sulla porta

E tu sai come incidere la sabbia

Tornato da una riva
più desolata di un colloquio
che a nulla rassomiglia
non al sesso spietato
né all’amore
una felicità c’invade
dolente come il mare
quell’abissale liquido materno
dove tutti invochiamo di restare

La memoria e l’oblio

Aveva sempre pensato
che fosse la memoria
il solo esercizio da seguire
ma svegliandosi una mattina
quasi prima dell’alba
comprese
e per sempre
che l’unico esercizio consentito
era l’oblio

Inno a Hermes

Non si apriranno strade
non correremo verso la paura
non ci saranno vele per l’approdo
Incontreremo Hermes
aggrappato ad una finta stele
nella mano una coppa avvelenata
per transitare il fiume
Signore degli inganni
ladro al banchetto degli dei
fanciullo tessitore di astuti giochi
infantili nequizie
reggitore di fiaccole
che accendono il cammino
delle anime in fuga
spiana le rughe dalla fronte
scendi ad evocare
la gioia mai dimenticata
pronuncialo il nome
che non mi corrisponde
aiutami ad accettare la mia sorte
in attesa di averti come guida
nel viaggio che faremo
quello senza ritorno
ma non per questo freddo
ostile
forse più temuto

Le candele della notte si sono consumate

Sopra le balze di tufo
Machu Picchu domestico
che forse mi appartiene
il verde dilaga a primavera
il raffinato canto degli uccelli
Qui persino il vento
assume un andamento circolare
In questo paradiso ricercato
come un lontano appuntamento
dovrebbe sorridermi la vita
l’ansia distendersi sul volto
Incubi invece i miei pensieri
s’insinuano tra i muri
come morti giganti
Si fermano talvolta sulle soglie
sugli stipiti sbattono la fronte
agitando le chiavi
Dormono al mio fianco
affondano la testa sui cuscini
respirando a bocca spalancata
Usano il bagno schiuma
le mie saponette profumate
si radono la barba nello specchio
sussurrano parole
alitano vendette sulle spalle
s’infilano persino le mie scarpe
Attraccati alla sedia
guardano con sospetto
la macchina da scrivere
e questa d’improvviso
incomincia a battere da sola
Frugano la dispensa
negli armadi
senza testa né piedi
i vestiti passeggiano da soli
come svuotati di pensieri
Invece sono là questi nemici
spiaccicati negli angoli
aspettano pazienti
un passo falso
un alibi una resa
come tentacoli di seta
protendono le braccia
e la domanda accesa
dentro l’occhio cavo
mi arriva dentro l’occhio
sempre la stessa
e non avrà risposta
Sono divenuti familiari
complici di scalate nell’abisso
L’orologio commenta questo imbuto
dove qualche volta c’infiliamo
per addestrarci a non sentire
il rumore ostinato del silenzio
Li vedo sparire nella doccia
ma l’acqua non bagna i loro corpi
non raggiunge la bocca
non diviene fontana
sembra che trascini i loro piedi
come un fiume infernale senza uscita
simile a quelli nella piana di Olimpia
un’estate lontana
nel clamore di un’assurda vittoria
purificammo il corpo nell’Alfeo
prima di naufragare nel profondo

Libro della cancellazione

Mi chiedo a volte
quando dal fiume salgono i vapori
e il paesaggio assume
i colori tonali del risveglio
mi chiedo a volte
dove si disperde il sentiero fissato
se il carcere ossessivo
del piacere dell’armonia del bello
possa esorcizzare
quest’aggrumo di segni
quest’abitare dentro la ferita
Chi siamo mi domando?
Quale fato ci guida?
Diventano risposte le domande
senza mai esserlo
che importa?
Forse siamo quel fuoco immaginario
la montagna coperta di ghiacciai
la scala dimenticata contro l’albero
la tormenta e la luna
Siamo i depositari dell’assurdo
il viandante emerso dalle crete
il vuoto di un addio
la sabbia che purifica i peccati
il faro intravisto di lontano
Siamo l’acqua del fiume dei dannati
la cronaca infinita delle lotte
l’arbitrio e la dimenticanza
siamo l’isola ormai disabitata
siamo la strada alata
la cancellazione

Da Nella prigione azzurra del sonetto (2002-2009)

VI
Scivola inerte il piombo nella sera
sopra la carta incisa dalla voce
se la sentenza è solamente atroce
il colloquio di un uomo che dispera
se sfuggire non è che una chimera
la condanna diventa più feroce
l’inganno fu scoperta assai precoce
apparsa sullo schermo veritiera
Quest’inverno incantato che declina
e una scala sull’albero appoggiata
un tradimento intriso di carezze
vanamente una strada d’incertezze
è corenice dal tempo scardinata
nel mare di papaveri in rovina

LIV
Un gabbiano trovai sopra il suo mare
poche miglia distante dalla riva
un ferro l’incagliava e lui soffriva
a un pontile per farsi medicare
I marinai lo sentono tremare
dalla sua bocca il sangue fuoriusciva
nella febbre violenta che saliva
sulla pietra si lascia abbandonare
Ma tornò d’improvviso nel suo cielo
l’oceano era approdo senza fine
nell’illusione d’essere immortale
Non sa che niente al mondo può restare
soltano l’acqua è terra al suo confine
che tramontiamo liberi davvero

XCI
Il tempo che a noi due fu destinato
di viverla morendo una passione
è stato solamente una finzione
un attimo di pietra immortalato
Incontro al tuo delirio ho respirato
ricercando nel nome un’iscrizione
che fermasse un istante l’emozione
la musica fuggita dal tuo fiato
E’ stato così lieve il nostro andare
e così atroce la dimenticanza
la stagione crudele del ricordo
Nella musica suona un solo accordo
l’incanto ha demolito la speranza
nel letto che ha paura di tremare

Da La metamorfosi del buio 2006-2012

L’ospedale non chiude a mezzanotte

Se arrivo a dominare il mio pensiero
da questo letto di monitor e di tubi
mentre numeri verdi segnalano
la pressione arteriosa i battiti del cuore
Dal braccio e dalla mano
ti nutrono e dissanguano
il pentagramma delle medicine
normalizza il ritmo impazzito
fibrillazione atriale coronarie ostruite
Percorreva stanotte l’ambulanza
il Grande Raccordo che assedia la città
la sirena barattava la corsa per un arrivo
quasi era l’alba sopra l’ospedale
circondato dal vuoto
e dalla invincibile speranza
nel criminale giogo dell’attesa
Le macchine indagano
la tua sopravvivenza
stillano responsi
che non puoi contraddire
pronunciano sentenze
la rivincita dell’inorganico
e azzurra e accecante
non abbandona la stanza
persino nella notte
sorveglia il sonno che non viene
a trascinare il corpo dentro i sogni
Ti affascina il contagio col margine
da dove contemplare l’abisso
e ti vedi aggrappato
e dita e braccia e piedi e cervello
a chiodi e rampini fissati alle pareti
magari nel ghiaccio piuttosto che la pietra
È un descensus oppure una scalata?
E disperi sia un liquido
un vortice che affascina e sconvolge
Voce del mio dominio disegnami
nel famelico antro della porta
il casale in collina di querce e di roseti
e gli olmi che s’attardano di uccelli
e il giallo e il rosso il bianco
il violetto dei fiori
e da questo balcone circolare
l’occhio si contamina dei colori del bosco
e in cerchio descrive l’orizzonte
Voce del mio dominio lasciami
volver a mi perro a mi casa a mi jardin
al ragazzo di Tangeri che aspetta
quasi tu potessi più facilmente
decifrare la mia preghiera
nell’idioma spagnolo
che a volte più mi corrisponde

Notturno dell’inquietudine

Questa sera
che l’abbandono corrisponde al tempo
si consultano i segni di un cammino
bruciato tra sospetti e finzione
questa sera
disceso al ventre dell’inutile
nel giogo effimero della rinuncia
in questo sogno di nonesistenza
un’ambigua follia
affascina il giardino
intonano gli uccelli
un mistico richiamo
le creature del giorno
hanno ceduto al soffio della notte
agli artigli dell’oscurità
Perché non divulgare le tenebre
e cancellare dalla mente il sole?
………………………… e la vita?

Nella lucidità intollerabile dell’insonnia

Il grido inconsolabile di un uccello
lo riportò nel fango dell’irrealtà
era un’alba livida e sorridente
in quella sospensione che precede la luce
Comprese di essersi addormentato
in un cerchio senza rispondenze
un labirinto ottagonale
di sabbia e di parole
una metafora della coscienza
comprese e per la prima volta
che sarebbe stato uno dei tanti
segnalato da un numero
accecato dall’indifferenza
e il sogno non avrebbe avuto fine
Fu allora che in un accesso d’ansia
decise di porre fine a questo sogno
perché non ci fosse alcuno
che potesse sognarlo
perché non restasse traccia
d’ogni suo sguardo d’ogni sua paura
sicuro di essere non soltanto per gli altri
un simulacro
uno spietato ossimoro del nulla
Credo che tutto questo accadde
nella intollerabile lucidità dell’insonnia

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ALCUNE DOMANDE DI DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO A GIORGIO LINGUAGLOSSA SUL DISCORSO POETICO DELL’ESPLICITO E DELL’IMPLICITO NELLA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA

 

Testata violaTestata azzurraTestata azzurro intensoLucio Mayoor Tosi Composition

L’OMBRA DELLE PAROLE

 INVITO 

al LABORATORIO PUBBLICO GRATUITO di POESIA

Giovedì 30 Marzo 2017 – h 18:00

Presso la libreria L’Altracittà, Via Pavia, 106 – Roma

 La «Nuova Poesia» non può che essere il prodotto di un «Nuovo Progetto» o «Nuovo Modello», di un lavoro tra poeti che si fa insieme, nel quale ciascuno può portare un proprio contributo di idee: questa è la finalità del Laboratorio di Poesia che la Redazione della Rivista telematica L’Ombra delle Parole intende perseguire. L’Invito a partecipare è gratuito e rivolto a tutti. Sarà presente la Redazione. Vi aspettiamo.

Programma

  1. Giorgio Linguaglossa: Lettura e Commento di tre poesie di Gabriele Pepe – L’Evento come rottura della simmetria spazio – temporale.
  2. Chiara Catapano: Ο Μαϊστρος (Maestrale – di Steven Grieco-Rathgeb): lettura e commento dell’anima inconsapevole di un paesaggio.
  3. Steven Grieco Rathgeb: Lettura e commento di una Poesia di Mario Gabriele da L’erba di Stonehenge
  4. Gino Rago: da Aldo Palazzeschi a «Preghiera per un’ombra» di Giorgio Linguaglossa: verso lo “spazio espressivo integrale” passando per Rebora e Pasolini – 3 poesie brevi di Palazzeschi, Rebora, Pasolini sull’ars poetica come antefatti a «Preghiera per un’ombra».
  1. Donatella Costantina Giancaspero: Lettura e commento di una poesia di Petr Kral (da Poeti cechi, Mimesis Hebenon, 2013 traduzione di Antonio Parente).
  2. Franco Di Carlo: Dialogo con Giorgio Linguaglossa su Trasumanar e organizzar (1971) di P.P. Pasolini.
  3. Sabino Caronia: Kafka e il romanzo del Novecento.
  4. Ospite: Salvatore Martino che parlerà del proprio itinerario poetico.
Lucio Mayoor Tosi acrilico_1

Lucio Mayoor Tosi Acrilic

ALCUNE DOMANDE DI DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO A GIORGIO LINGUAGLOSSA SUL DISCORSO POETICO DELL’ESPLICITO E DELL’IMPLICITO NELLA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA

 Domanda: Tu hai scritto:

«Il linguaggio è fatto per interrogare e rispondere. Questa è la verità prima del Logos, il quale risponde solo se interrogato. Noi rispondiamo attraverso il linguaggio e domandiamo attraverso il linguaggio. Il nostro modo di essere si dà sempre e solo entro il linguaggio».

E fai un distinguo, affermi che il linguaggio poetico del minimalismo romano-lombardo si esprime mediante il linguaggio dell’esplicito, un linguaggio esplicitato (hai fatto più volte i nomi di Vivian Lamarque, Valerio Magrelli, Valentino Zeichen, etc.) tramite la forma-commento, la poesia intrattenimento, la chatpoetry, la forma che vuole comunicare delle «cose»: tipo fatti di cronaca, di politica, insomma, fatti che hanno avuto una eco e una risonanza mediatica. Puoi portare un esempio di poesia non appartenente a questi tipi di scrittura che oggi vanno molto di moda?

Risposta: Interrogando il logos il poeta ci dice che interrogare significa domandare. L’uso del linguaggio, implica l’interrogatività dello spirito, è atto di pensiero. Lo spirito abita l’interrogazione. Non era Nietzsche che diceva che «parlare è in fondo la domanda che pongo al mio simile per sapere se egli ha la mia stessa anima?». La questione del Logos poetico ci porta ad indagare il funzionamento interrogativo del linguaggio. Anche quando ci troviamo di fronte a sintagmi impliciti, il poeta risponde sempre, e risponde sempre ad una domanda posta, o quasi posta o a una domanda implicita. Nella risposta esplicativa il poeta introduce sempre uno smarcamento, una nuova istanza che solleva nuove domande-perifrasi alle quali non può rispondere se non attraverso un linguaggio-altro, un metalinguaggio.  

La traduzione problematologica diventa nella poesia di Steven Grieco-Rathgeb una traslazione stilistica. Il vecchio concetto di «simmetria» euclidea legata ad un concetto lineare del tempo, viene sostituito con quello di «supersimmetria», un concetto che rimanda alla esistenza di pluriversi, della «materia oscura», dell’«energia oscura» che presiede il nostro universo. Nella poesia della tradizione italiana del secondo Novecento cui siamo abituati, la traduzione problematologica corrisponde ad una certezza lineare unidirezionale del tempo metrico e sintattico, in quella di Grieco-Rathgeb invece assistiamo ad un universo metrico e sintattico «goniometrico», vale a dire, a spirale, involto, involuto, dove l’interno e l’esterno sono complementari e indistinguibili.

Noi abitiamo la domanda, ma essa non sempre si dà come  frase interrogativa, questo è già qualcosa di esplicito, non sempre le domande assumono una forma interrogativa, anzi, forse le grandi domande sono poste in forma assertoria e dialogica (come nei dialoghi platonici), ricercano un interlocutore. Analogamente, nella forma mentis comune per risposta si intende qualcosa di assertorio. Errato. In poesia le cose non sono mai così semplici e diritte. In poesia le due modalità si presentano sempre in commistione reciproca e in forma dialettica.

Domanda: Puoi fare un esempio?

Risposta: Nella poesia di Steven Grieco-Rathgeb è il punto lontano della domanda da cui prende l’abbrivio che costituisce un luogo goniometrico dal quale si dipana il discorso poetico spiraliforme. Qui è una geometria non-euclidea che è in questione. Il discorso si apre a continui rallentamenti ed accelerazioni del verso, essendo questo la traccia di una ricerca che si fa a ritroso, attraverso la via verso un luogo che un tempo fu abitabile. Utopia che la poesia ricerca senza tregua. Il punto lontano va alla ricerca del punto più vicino scegliendo una via goniometrica e spiraliforme piuttosto che quella retta, una via goniometrica, eccentrica;  in questo modo, la versificazione si irradia dalla periferia del punto lontano verso il centro di gravità della costellazione simbolica mediante le vie molteplici che hanno molteplici direzioni. Ogni direzione è un senso interrotto, un sentiero interrotto (un Holzwege), e più sensi interrotti costituiscono un senso plurimo, sempre non definito, non definitivo. La poesia si dà per formale smarcamento dell’implicito, e procede nella sua ricerca del vero allestendo una mappa, una carta geografica dell’evento linguistico. Si smarca dalla significazione dell’esplicito. La poesia di Steven Grieco-Rathgeb risponde sempre per totale smarcamento dell’implicito alla ricerca di ciò che non può essere detto con parole esplicite (dritte) o con un ragionamento «protocollare». In questa ricerca concentrica ed eccentrica, spiraliforme, la poesia narra se stessa e narrando la propria ricerca indica una traccia, delinea un non-spazio che si apre al tempo, anzi, un non-spazio fatto di temporalità, un tempo fatto di non-spazio, che chiude lo spazio entro la propria irreversibile molteplicità temporale. È la marca della temporalità quella che appare alla lettura, una temporalità inscindibilmente legata ad una molteplicità di accadimenti.

Per Steven Grieco, il discorso dell’esplicito è certo una risposta, ma una risposta tautologica perché vuole statuire attraverso la via più breve utilizzando lo spazio geometrico della significazione euclidea, mediante le vie rette del linguaggio neutrale della comunicazione. Il discorso poetico del nostro autore invece attraversa lo spazio multidimensionale del cosmo, oltrepassa il tempo, lo vuole «bucare», ciò che Maurizio Ferraris definisce nel suo recente libro, Emergenza (Einaudi, 2017)  la «quadridimensionalità». La poesia di Grieco-Rathgeb abita  un pluri-spazio, non è topologica, o meglio, è multi topologica, si rivela per omeomerie e per omeotropismi dove i rapporti di simiglianza e di dissimiglianza tracciano lo spazio interno di questo  universo in miniatura qual è la poesia, dove c’è corrispondenza tra il vuoto e il pieno, dove gli eventi «Sono apparsi in una sfera / staccata dal pneuma» e accadono in una «sfera», in «una perla», un universo in miniatura che riproduce il macro universo.

Il silenzio-lucertola scruta fisso.
Si muove. Risale verso l’immobilità. Si ferma, ingoia suono,
i suoi occhi gonfiano il vuoto.

Domanda: Allora, secondo il tuo giudizio, il discorso poetico si darebbe in forma di domanda-risposta e secondo il modo dialettico esplicito-implicito? Possono esservi anche domande tacite in quello che tu chiami discorso poetico?

Risposta: Le domande che occupano il locutore sono tacite, ciò che vi risponde prende la forma della metafora e dell’immagine. La metafora indica così il divario che si apre tra l’implicito e l’esplicito; l’immagine allude alla lontananza tra la periferia e il centro dello spazio poetico. L’immagine e la metafora smarcano il rotolare dell«’io» dal centro alla periferia, e viceversa. Se il Logos è fatto di domande e di risposte, a che cosa risponde il Logos? Il Logos risponde a ciò che siamo. Si dà linguaggio poetico nella misura in cui si mette in gioco ogni possibilità del dire della Lingua, in cui ci si mette in gioco. Nella poesia intitolata alla «icona di Andrey Rublyov», non c’è nulla che rimandi, per via implicita o esplicita, alla icona del pittore russo, il discorso poetico procede per le vie sue proprie in un universo supersimmetrico e superdistopico, non si dà come illustrazione o  commento, non sceglie la via diretta dell’esplicito, quanto invece allude e accenna ad un altro universo analogico e contiguo a quello della icona pur se superdissimile e superdistopico.

Domanda: puoi portare qualche testo a riprova di quello che dici?

Risposta: Senz’altro. Ecco alcune poesie di Steven Grieco Rathgeb tratte dal suo volume Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016) Continua a leggere

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Laboratorio Pubblico di poesia del 1 febbraio 2017 presso la Libreria L’Altracittà, Roma, via Pavia, 106 – Riassunto degli interventi di Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago e Salvatore Martino

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Intervento di Steven Grieco Rathgeb

Il poeta ha avuto un’idea per una poesia. Ha annotato delle immagini, ha formulato dei concetti. Insieme questi, chiamiamoli “segmenti”, allo stato iniziale racchiudono il grumo poetico primordiale, la ‘ispirazione’, che il poeta intende elaborare e far diventare una poesia, un’opera.

Secondo Andreij Tarkovskij, nel cinema l’inquadratura è un “segmento colmo di tempo”. E dice anche: “la consistenza del tempo che scorre nella inquadratura, si può chiamare pressione del tempo nell’inquadratura.”

Quando rifletto su queste parole, immagino di tenere in mano un recipiente pieno d’acqua. Bisogna fare attenzione che l’acqua non trabocchi. Ecco, pensiamo ad un’immagine nello stesso modo: come se  questa fosse una cosa reale, vivente. E diciamo che sull’acqua, dentro l’acqua, stanno succedendo cose: c’è movimento: qualcuno sta camminando, le fronde di un albero si muovono nel vento.  “Nel puro cerchio un’immagine ride.” (Perdonate la citazione montaliana).

Segmento di tempo, dunque: come nel cinema, così nella poesia. Le immagini di noi poeti sono virtuali, cerebrali, proprio per questo probabilmente le più universali e potenti! (E le più deboli.) E da lì, da quel punto di avvio dell’immagine, così semplice e originario, già inizia anche il senso che l’immagine può avere. E’ inutile “dare” il significato: L’immagine è già in sé significante. Infatti, l’uomo non può non dare un senso alle cose. L’opera poi diventa opera, la poesia diventa poesia, in quanto il poeta-artista segue un criterio di scelta dei segmenti-immagine e segmenti-concetto. Ciascuno con una propria vibrazione interna.

Per continuare la citazione di Tarkovskij: se l’inquadratura è ‘segmento colmo di tempo”,  “Ne consegue che il montaggio  è un metodo di collegamento dei pezzi tenendo conto della pressione di tempo all’interno di essi.”  In poesia, questa pressione vorrei forse chiamarla “densità d’immagine”.

E proprio per questo che il montaggio diventa operazione fondamentale. Per montaggio non intendo la costruzione di un sistema concettuale fatto a tavolino. Essa è l’opera di un esecutore quasi cieco, che svolge questo lavoro seguendo un solo criterio: la visione della poesia che lo ispirò all’inizio.

Montare, smontare, rimontare. Operazione imprescindibile – soprattutto per il poeta contemporaneo, che ha scordato l’antica tradizione orale, e deve “scrivere” la sua poesia. Be’, si dirà, questa operazione la fanno tutti i poeti, da sempre: che c’è di strano? Ma un conto è privilegiare il raggiungimento del  prodotto finito, un altro usare questa operazione di composizione-scomposizione-ricomposizione per far emergere la pregnanza di quel tempo interno cui allude il nostro regista. Quella densità poetica. Che poi è la viva, reale rappresentazione della visione iniziale del poeta. Che differenza c’è fra questi due modi di procedere?

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Dice Tarkovskij: “E dunque come avvertiamo il tempo nell’inquadratura? Questa sensazione particolare sorge laddove, al di là di quello che accade, viene avvertito qualcosa di particolarmente grande e importante, equivalente alla presenza della ‘verità’ nel film. Quando ti rendi conto in modo perfettamente chiaro, che quello che vedi nell’inquadratura non si esaurisce nella successione visuale, ma allude appena a qualcosa che si propaga oltre l’inquadratura, A QUALCOSA CHE CI PERMETTE DI FUORIUSCIRE DAL FILM PER ENTRARE NELLA VITA.”

Io questa la chiamo la visione del poeta. Che sia cineasta, pittore, musicista, è sempre poeta. In questo momento sono tutti poeti: nella loro mente trema la visione, s’increspa l’acqua nel recipiente, emerge il senso potente della verità artistica – solo artistica, nient’altro.

Facendo qualcosa di simile a tutto ciò anche in poesia, determiniamo un vero e proprio spostamento del baricentro interno della poesia. Uno spostamento, se posso dire, ontologico. Non è più questione, del connubio “senso-eufonia” come fine ultimo del poetare, ma cercare le radici del poetare, il punto incredibile che per un attimo collega interiorità interiorità ed esterno, microcosmo e macrocosmo, generando una rappresentazione del mondo.

Dunque, invito il poeta anche a vedere la materia grezza della sua poesia, e il suo stesso senso di autorialità, come una unica seppure molto complessa creatura vivente ( tra l’altro non interamente sua). La poesia in fase compositiva, e la poesia finita, non sono più, come dice un altro regista, Mani Kaul, uno “spazio sacro”, mentre tutto il resto è “spazio profano”. Ora la poesia è minuscolo spazio dicibile, il mondo intorno spazio indicibile. Ma anche: come organismo vivente, essa è un tutto insieme, dicibile e indicibile. LA POESIA È FUORIUSCITA NELLA VITA.

Questo processo segna la fine della lunga strada della decostruzione della poesia del XX secolo. E’ l’apertura dell’opera artistica al mondo. Si arriva, come la musica contemporanea 60 anni fa con Stockhausen, a dire che c’è una assoluta equivalenza tra suono e rumore.

E aggiungo un’altra cosa: la poesia che vuole darsi una valenza sociale, politica, religiosa, filosofica non convince più. La poesia trasmette una sua propria verità artistica, non un’altra. E lì la cosa deve rimanere. Il lettore, in seguito, darà il significato che vuole lui. Può sembrare gratuito, perché poi questi significati, queste suggestioni comunque affiorano nella poesia.

E’ vero. La poesia stessa si aprirà ad un ventaglio infinito di interpretazioni. Indubbiamente. Ma intanto il poeta deve pensare soltanto a rappresentare quella verità artistica, quella specifica persuasione.  In questo modo la poesia, e la disciplina necessaria per rappresentarla, trovando se stesse, si innalzano sopra tutto il resto, sopra tutto quello che nella fase compositiva “sporca” la visione del poeta: e ridonano pienamente la dignità all’opera, quella dignità che i poeti stessi hanno negato alla poesia in questi ultimi 50 anni.

In questo modo si spezza anche il laccio che lega il lettore ad una lettura obbligata della poesia. Il poeta ha trovato la sua piena libertà artistica, così la poesia rende al lettore la sua libertà, che poi non è nient’altro che il semplicissimo ma sfuggente senso dell’opera artistica compiuta. La poesia compiuta.

Completo con una mia poesia del 1976:

Senza Titolo

sorge il sole degli addormentati
inonda di rosso i visi

dalla botola di luce dilaga
un cielo basso incendiandosi

i visi sono serrati in solitudine
le fronti riflettono fiammate di luce
dietro, navigano in sogni illimitati

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Laboratorio, backstage

Letizia Leone

Lettura e interpretazione di una poesia di Gottfried Benn, REQUIEM, dal ciclo “Morgue”, 1912. Una bibliografia.

Requiem

Auf jedem Tisch zwei. Männer und Weiber
kreuzweis. Nah, nackt, und dennoch ohne Qual.
Den Schädel auf. Die Brust entzwei. Die Leiber
gebären nun ihr allerletztes Mal.

Jeder drei Näpfe voll: von Hirn bis Hoden.
Und Gottes Tempel und des Teufels Stall
nun Brust an Brust auf eines Kübels Boden
begrinsen Golgatha und Sündenfall.

Der Rest in Särge. Lauter Neugeburten:
Mannsbeine, Kinderbrust und Haar vom Weib.
Ich sah, von zweien, die dereinst sich hurten,
lag es da, wie aus einem Mutterleib.

*

Due su ogni tavolo. Di traverso tra loro uomini
e donne. Vicini, nudi, eppur senza strazio.
Il cranio aperto. Il petto squarciato. Ora
figliano i corpi un’ultima volta.

Tre catini ricolmi ciascuno: dal cervello ai testicoli.
E il tempio d’Iddio e la stalla del demonio
Ora petto a petto in fondo a un secchio
Ghignano a Golgota e peccato originale.

Il resto giù nelle bare. Tutte nuove nascite:
gambe di uomini, petto di fanciulli e capelli di donna.
Vidi, di due che fornicavano un tempo,
là se ne stava l’avanzo, come sortito da un utero. Continua a leggere

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Edith Dzieduszycka Brani dal romanzo INTRECCI   – Genesi Editrice, 2016 con uno stralcio della Prefazione di Eleonora Facco e una Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa

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Intrecci

Dalla prefazione di Eleonora Facco

 Olga, la donna da Oblomov amata ma perduta per la sua rovinosa apatia, ha sposato il suo più caro amico, Andrej Stolz, e vive felicemente con lui. Ed è talmente felice che, ad un certo punto del loro matrimonio, si intristisce ed è sopraffatta dall’angoscia. Andrej (figura maschile che non sembra uscita dall’immaginazione dell’autore, tanto è vicina all’ideale di uomo che ognuna segretamente costruisce dentro di sé) si preoccupa per lo stato in cui si trova l’adorata moglie e cerca di indagare parlando con lei. Olga è giovane, sana, innamorata e dalla vita sembra aver avuto tutto: non può nemmeno lamentarsi dell’uomo che ha accanto, “simply the best” come cantava Tina Turner. E allora? “Forse tu sei arrivata a quel momento, in cui la vita si ferma… non ci sono più enigmi, essa s’è rivelata tutta…” ipotizza Stolz. “La felicità trabocca, si ha tanta voglia di vivere… e ad un tratto vi si mescola questa tristezza ed amarezza”  ammette lei.  Suo marito, per confortarla, aggiunge poco dopo: E’ la tristezza dell’anima che domanda alla vita il suo segreto. Semplicemente il migliore, appunto. Anche perché Stolz/Goncharov può voler significare che la sensibilità delle donne è tale da far loro sentire il brivido dell’infinito, del mistero che va oltre l’esistenza. Allora tutto ciò che è terreno, e quindi finito, perde di importanza: persino la gioia non riesce a riempire quel senso di vuoto chiuso da sempre e per sempre in fondo al cuore.

Chiarito questo, possiamo affrontare serenamente le vicende di Valeria e Clara,  che vivono l’una con un compagno, Giuseppe, e l’altra con il marito Riccardo e tre figli. L’inizio della narrazione ci fa sentire subito vicino ai protagonisti in questo piccolo mondo quotidiano dove ritroviamo accadimenti, ragionamenti e conclusioni che conosciamo bene e che viviamo ogni giorno in prima persona. Soprattutto nei pensieri, perché la storia si sviluppa nei lunghi monologhi interiori di cui le donne sono tanto esperte; quelli cioè rimuginati nelle lunghe ore di solitudine, mentre gli uomini sono al lavoro e i bambini a scuola, mentre cucinano o stirano o caricano gli elettrodomestici. Gesti talmente di routine da favorire tormentose elucubrazioni mentali; e non importa se si ha la fortuna di avere un lavoro: le incombenze raddoppiano ma l’isolamento resta.  Nonostante ciò, quelle ore solitarie sono confortate dall’attesa del ritorno dei propri cari e dalla convinzione che ci si stia sì sacrificando, ma per loro e per il loro benessere, sentendosi pure in colpa se si trovano dei momenti da dedicare a se stesse.

All’aprirsi del sipario – mi sia concessa quest’espressione teatrale che focalizza così bene il punto della situazione – troviamo Valeria che si tormenta macerandosi in un flusso continuo di pensieri, per niente inconscio, quando è sola in casa davanti alla sua solitudine. E’ allora che  comincia a interrogarsi sui fatti del suo stare insieme con Giuseppe: troppi segnali, troppi sintomi stanno ad indicare che il loro rapporto è cambiato e non certo in maniera positiva. Ma la cosa che di più brucia a Valeria, peggio di uno schiaffo in faccia, è di venire aggredita dalla più subdola delle violenze: il silenzio. Perché cercare di avere un dialogo con il proprio uomo, fare proposte di viaggi nel tentativo di migliorare il rapporto, essere triste o allegra e ricevere in cambio un silenzio pesante più del piombo è, a tutti gli effetti, una violenza che fa sentire la donna che la subisce umiliata e disorientata. Peggio, impotente di fronte a qualcuno che volutamente  fa finta di non aver sentito i suoi richiami e nega in questo modo il suo stesso diritto ad essere considerata una persona,  dandole la sensazione non di chiedere, ma di mendicare un gesto di affetto, una parola amichevole.

Per fortuna, almeno per lei, c’è il lavoro fuori casa, la scuola – dove potersi sentire ancora utile a qualcuno – e le amiche, anch’esse alle prese con i propri fallimenti e con i tradimenti maschili, con le quali scambiarsi opinioni e confrontarsi sulla propria infelicità.

In ben altra circostanza si trova Clara, inchiodata a letto con una gamba ingessata: nel tentativo di riporre indumenti e oggetti in cantina, è scivolata per le scale ed è rimasta a lamentarsi nel buio finché il portiere non l’ha sentita. Il più stupido degli incidenti e lei la più stupida delle donne, si ripete con rabbia. L’inattività forzata le fa male più della frattura riportata, acuita dall’atteggiamento generale della sua famiglia – situazione che tutte conosciamo bene – dove l’eccessiva gentilezza e i continui “devi riposare, non preoccuparti” non riescono a mascherare il disagio e il disappunto per il fatto che la colonna portante della struttura domestica è fuori gioco, incapace di eseguire quell’enormità di cose che fa ogni giorno. Difficile ignorare che i suoi cari siano ansiosi che lei guarisca al più presto.

edith-intrecci-coverInvece, non c’è nulla da fare, solo aspettare che il tempo passi. Clara lo sa e si rammarica, perché guarire in un batter d’occhio non dipende, purtroppo, da lei. Così, all’improvviso, da lavoratrice moglie e madre superimpegnata, si ritrova a non fare  niente, se non ascoltare musica, guardare vecchie fotografie e inventarsi una fiaba da raccontare ai due bambini, Nico e Filippo. Ed è proprio la favola che la fa cadere nella trappola delle variazioni sul tema, dei pensieri vaganti in libertà, dei ricordi dimenticati tanto tempo prima. Dell’interrogare a fondo se stessa. Affiorano allora in superficie le domande che nessuna ha mai voglia di porsi e a cui ci si affretta a trovare risposte confortanti. E’ soddisfatta della sua vita, di suo marito in particolare?  Certo, sicuro. Ma intanto si affaccia alla sua mente il nome di un altro uomo, un affascinante divorziato, conosciuto a cena in casa di amici, e di cui ha taciuto l’esistenza al marito.

Con il procedere della fiaba nella sua fantasia, complice l’oppressione dell’ozio, i pensieri di Clara si fanno sempre più profondi e tormentati, fino a quando arriva a chiedersi se le frasi gentili del marito, dei figli e persino delle amiche che vengono a trovarla, non siano altro che maschere per nascondere noia, fastidio, disinteresse. Anzi, giunge a pensare che forse tutto non sia altro che finzione e che nessuno di noi, in realtà, sappia veramente che cosa passa nella testa di chi ha accanto, ma stia solo recitando una parte. Proprio come Erving Goffman, sociologo canadese, scrisse nel suo celebre libro del 1956 “La vita  quotidiana come rappresentazione”, in cui paragona la vita sociale ad un teatro quotidiano dove noi, gli attori, agiamo in uno spazio scenico che si divide tra la ribalta e il dietro le quinte e dove il risultato da raggiungere è il riuscire a presentarsi davanti agli altri nel migliore dei modi.

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Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa. È un romanzo psicologico

L’autrice ha iniziato a scrivere il romanzo trenta anni fa. Poi è rimasto in un cassetto. Durante questi trenta anni ogni tanto lo riprendeva e ci lavorava. È un romanzo psicologico, ognuno dei quattro personaggi (due coppie) viene indagato nei minimi recessi dei propri risvolti psicologici; tutto il romanzo è una indagine sui minimi, impercettibili movimenti della psiche, un progressivo lentissimo allontanamento dei protagonisti all’interno delle due coppie, e un improvviso repentino loro avvicinamento incrociato. È il tema trattato dal Goethe ne Le affinità elettive (1809). La formula delle due coppie non smette di produrre altra narrativa. Il romanzo psicologico è una forma-narrativa integrale che risponde a precise leggi di composizione, è un genere oggi poco frequentato in quanto i narratori preferiscono accomodarsi in generi, diciamo, d’azione, dai movimenti interni veloci, convulsi, per attirare l’attenzione sempre più debole del distratto lettore di oggi.

Non è da oggi che nella forma-poesia e nella forma-narrativa (che sono spazi espressivi integrali), le istanze saggistiche abbiano preso campo ed abbiano dis-locato le istanze “liriche”; così anche le istanze narrative, quelle proprie della narrazione romanzesca, hanno fatto storicamente ingresso nella forma-poesia producendone una implosione dall’interno. Fino al punto che oggi non si può più scrivere una poesia che sia soltanto afflato lirico, tanti sono gli elementi spuri che sono penetrati dentro la forma-poesia. Nel caso della Dzieduszycka dal nome impronunciabile, è chiaro che qui siamo in un genere romanzesco che narra e delimita un evento, narra un evento e, mentre che lo narra, ce lo mostra, ci gira intorno in modo vorticoso e ossessivo. In un certo senso, è vero che la Zdieduszycka si muove nell’orbita della forma narrativa, e spesso quest’ultima è applicata anche alla poesia; come dire, la poetessa romana si muove tra i due risvolti della narratività (quella propria della poesia e quella propria del romanzo), si muove sull’orlo di un bilico, oscilla tra le due forme senza mai perdere l’equilibrio e precipitare in una o nell’altra. E qui, credo, sta la vitalità della sua poesia.

Ho scritto in altra occasione: «Dissento sull’assunto di Salvatore Martino e Pasquale Balestriere, in particolare sulla loro tesi secondo cui la poesia della Dzieduszycka sarebbe una forma narrativa spezzettata con degli a-capo. È proprio qui il punto, la Dzieduszycka utilizza i rottami del parlato e non solo ma anche delle parafrasi del linguaggio pubblicitario (come ha notato acutamente Martino) con quel verso:

Faticoso è stato l’atterraggio ma ce l’abbiamo fatta

per operare delle tensioni interne alla forma-poesia resettandola sul piano della sequenza narrativa ma poi, con un colpo di direttore d’orchestra, paludarla nella forma-poesia come di ritorno dalla forma narrativa. Si tratta di uno spaesamento semantico tutto interno alla poesia che ha l’effetto di sensibilizzare il lettore acuto con delle reviviscenze di provenienza narrativa…

Certo che la poesia della Dzieduszycka può essere messa anche in linea, senza gli a-capo, e siccome è una versificazione di provenienza narrativa non ne avrebbe ripercussioni negative ma potrebbe esistere anche in quella condizione. Ma qui quello che è importante a mio avviso è che la Dzieduszycka opera come un minatore nel sottosuolo dei linguaggi narrativi per ribaltarne il valore semantico traducendo il dettato narrativo in una forma-poetica. Si tratta di una pratica post-moderna utilizzata non solo dalla Dzieduszycka, ma anche da un poeta molto diverso che ho postato stamane come Mario Gabriele.

Si consideri che il momento espressivo-metaforico del genere del romanzo psicologico è uno spazio espressivo integrale dove il momento espressivo coincide con il linguaggio pregresso proprio del genere di appartenenza, e anche con il linguaggio poetico della Dzieduszycka che ha questa caratteristica eminentemente narrativa.

Il problema di fondo (filosofico, e quindi estetico) della narrativa di oggidì è il non pensare che il problema di una «forma» non può essere disgiunto dal problema di uno «spazio» e quest’ultimo non può essere disgiunto dal problema del «tempo» (tempus regit actum, dicevano i giuristi romani). Ora, il digiuno di consapevolezza critica circa le differenze tra i generi narrativi ha determinato, in Italia, una narrativa scontatamente lineare, giornalistica… ne è derivata una narrativa superficiaria e unidimensionale.

In questa sede posso solo tracciare il punto di arrivo di questo lungo processo: il minimalismo e il post-minimalismo delle scritture romanzesche di tipo giornalistico.

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Brani tratti dal romanzo Intrecci

             Ora tocca a me dirigere il traffico…

            Valeria definiva in quel modo autoironico il breve soprassalto decisionista che la scuoteva ogni tanto. Le accadeva infatti di prendere con se stessa delle risoluzioni stile parabola, credendole o facendo finta di crederle aderenti alla realtà. Ad essere però appena un po’ obbiettiva, e riflettendoci sopra con un minimo di onestà, capiva benissimo di recitare in certe occasioni una parte piuttosto patetica. Ciò non impediva che a intervalli più o meno regolari, e senza molte illusioni, le refluisse dal profondo qualche rigurgito velleitario. Quasi sempre senza risultato apprezzabile, d’iniziativa o ribellione. Ma non demordeva. Perché senza quello non si muove foglia. E la vita diventa d’una noia mortale. Perfino per una piuttosto tranquilla come me.

            Capitolo 1, pagina 15    (Valeria)

             L’appartamento era polveroso, grigio, per niente accogliente, anzi piuttosto lugubre. Abbandonato senza cura né pulizie da tre o quattro mesi, e si vedeva. Quando era stata l’ultima volta che ci aveva passato una settimana in solitudine e con grande sollievo dopo la loro ultima lite, particolarmente sgradevole? Forse in giugno, luglio, comunque prima delle vacanze. Il motivo era stato semplice e banale: si trattava di decidere la data per una breve vacanza agostana, – il mese peggiore dell’anno, anche se bisogna pur viverlo in qualche modo! – Ma era stata soprattutto la destinazione a provocare frizioni tra di loro: mare? montagna? lago? campagna? con amici? senza? Valeria preferiva la campagna, eventualmente la montagna, da soli, in qualche alberghetto tipo pensione di famiglia che a Giuseppe faceva orrore.

            Capitolo 4, pagina 30    (Giuseppe)

            Almeno si trattasse d’impegni rilevanti o gratificanti – escludeva la scuola da quella lista –, del genere che un po’ cambiano il corso degli eventi. Macché! Non sarebbero stati mai di quel tipo. Ormai ne era sicura. Bisognava rassegnarsi. Ma più tentava di convincersene e più sentiva crescere in sé una frustrazione e una rabbia impotenti. Cercava di controllarle ma sicuramente un giorno o l’altro sarebbero per forza esplose, non essendo lei più capace di trattenerle. Colpa di Giuseppe se sono diventata quella frana abulica? Se così fosse mi avrebbe fatto un danno non da poco. Ma forse sono soltanto scuse che mi cerco per consolarmi. La realtà credo sia diversa. Purtroppo. E la verità è che sono io, probabilmente, io sola, colpa del mio male.

            Capitolo 8, pagina 58   (Valeria)

             Rievocando il passato e ripescando nella sua memoria alcuni episodi in cui Giuseppe somigliava di nuovo al Giuseppe originale, Valeria si sentiva dentro come un’ondata di calore che la percorreva tutta, e percepiva una piccola voce interiore che le sussurrava: Forse vale ancora la pena insistere. In fondo, qualcosa è rimasto. Qualcosa di prezioso, ricoperto dalla patina dei giorni. Forse se riuscissimo a parlarci. Una volta. In un momento propizio. In un luogo giusto.

            Capitolo 12, pagina 80    (Valeria)

            

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Invece appena si ritrovava completamente sola, e soltanto allora, le cose mutavano. La casa cambiava anima. Diventava raccolta, avvinghiata intorno a lei, ancora più silenziosa; e la sua camera simile a una tana protettrice e calda, un po’ buia in quelle giornate sporche d’autunno avanzato; ma per niente triste; soltanto complice, confidente.

            In quei momenti non esistevano più i rumori della vita fuori, né gli accordi della musica, né l’armonia blu della sua stanza, e neanche il tanfo dei fiori ormai quasi marci. Non importava più l’arnese di gesso che l’impalava come un insetto ferito, come un grosso ragno in agguato nel cuore della sua tela.

            Capitolo 15, pagina 93   (Clara)

Malgrado tutti i suoi sforzi Riccardo si sentiva sempre più impaziente e nervoso per quella situazione che minacciava di durare ancora parecchio tempo. Nell’immediato non c’era niente da fare se non aspettare. Aspettare che l’osso si consolidasse, che la ferita dell’intervento guarisse, che si possa presto ritirare il gesso e far venire in casa un fisioterapista. Che tutti i pezzi del mosaico si rimettessero al loro posto, nel posto in cui stavano prima. E aspettare non era mai stata la sua caratteristica principale.

            Sempre da un cantiere all’altro, sempre affannato e stanco, si rendeva conto che si vedevano poco, che le loro vite correvano su binari paralleli, con pochi punti di contatto agli scambi automatici.

Ora poi, i contatti, almeno quelli ai quali penso, non ci sono proprio più. E dire che sono una bella valvola di sfogo, che finora ha sempre funzionato tra di noi. Spero finisca presto quel periodo maledetto.

            Capitolo 19, pagina 117    (Riccardo)

            Ma che posso fare? Ormai sono legato al carro. Non mi ci vedo abbandonare tutto e andare a vivere in campagna per piantare cavoli e allevare pecore. Questo si può fare a venti anni, a trenta, se non si vede alternativa, quando ci sono le forze e le illusioni per poterlo tentare. Io sono troppo vecchio ormai per ricominciare una nuova vita. Non ho l’animo bucolico.

            Mi rendo conto d’esser stato contaminato, ricoperto da una patina di cinismo, scetticismo, liberismo, consumismo, tutte quelle belle parole in “ismo”, di cui per fortuna ci siamo in piccola parte sbarazzati. Somiglia alla polvere sul mobile di mia madre. Si depone, piano piano. Uno non se ne accorge nemmeno. E se non ne prende coscienza in tempo, si ritrova completamente sommerso. Quello strato si solidifica e si trasforma in una specie di lenzuolo che ti avvolge prima del tempo. Sei già pronto per la bara, anche se ti sembra di aver indossato un bellissimo abito di gala, presto rosicchiato dai topi o mangiato dai vermi.

            Capitolo 23, pagina 152    (Giuseppe)

            Ora lo guardo, seduto a tavola di fronte a me, con i suoi dieci anni di più la faccia solcata da precoci rughe, la fronte più alta, un abbozzo di barba già sale e pepe, un inizio di pancetta. E mi chiedo: cos’è rimasto del nostro sogno anzi della nostra ferrea volontà di diventare una coppia speciale, che niente potrà mai scalfire; che resisterà agli assalti del tempo, gran

divoratore di entusiasmi, risoluzioni, promesse, in una parola, amore. Parola, quella, logora, consumata, senza più senso.

            Non saprei veramente dire, ora come ora, se qualcosa si risveglierà ancora in me nei suoi confronti. Per essere più precisa, ho ancora voglia di scopare con lui? Mi fa ancora sentire in fondo a me quelle  sensazioni difficili da descrivere con delle parole che mi trasformavano in una lupa affamata?

            Capitolo 26, pagina 162     (Valeria)

         

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   Per la prima volta da molto tempo ho sentito che un uomo mi guardava, intensamente, non in quanto femmina da scopare, né insegnante dei figli, né persona incrociata per caso. No. Mi guardava. Non saprei dire esattamente in quale modo. Ma dentro quel suo sguardo mi sentivo cambiare, piano piano. Diventare qualcun altro. Sentivo che ero di nuovo qualcuno per un uomo. Una donna. Apprezzata, forse ammirata? Posso dire desiderata? Non lo so, perché la cosa era talmente impalpabile, leggera, discreta, che non avrei potuto qualificarla;però non si poteva ignorarla o negarla. Non un’idea inventata, chi sa perché No. Era un fatto reale e concreto. Lui mi vedeva. Ma soprattutto mi guardava:  gli occhi, la bocca, un breve sguardo poi alle gambe incrociate e alla mano sinistra senza fede. Neanche lui l’aveva. Ma ormai sono pochi gli uomini che la portano. E questa piccola assenza procura loro un grande senso di libertà di cui sono sempre affamati.

            Capitolo 28, pagina 170    (Valeria)

            Si sentiva come una gestante colpevole, gravida per le premure di qualche mostro non identificabile, qualche idra piena di teste: orgoglio sempre presente anche se negato, noia, narcisismo, desideri inconfessabili, traumi lontani non completamente seppelliti, che la luce del giorno e il minimo soffio d’aria riducono a poltiglia, vecchi scheletri scoperti per caso dentro grotte profonde.

            Richiedevano invece una lente decompressione, una prudente opera di maturazione e riesumazione che esigeva le cure le più sapienti e premurose. E questa necessità contrastava col suo carattere impaziente, di solito attirato da scoperte immediate e positive, da vicende concrete, con uno sviluppo e un esito ben visibili.

            In fondo a lei tremavano mille piccole luci, deboli, saltellanti, lampi appena percettibili, leggeri fuochi fatui che temeva di vedere spengersi. Diventava morbosamente gelosa dei propri pensieri.

            Li rimuginava, li analizzava, li scaldava con la tenerezza e le precauzioni di una chiocciola. Ci si aggrappava con tutte le sue forze, tremando sempre di dimenticarli o di perderli come la chiave arrugginita di qualche cassetta dal contenuto sconosciuto ma prezioso. Si accorgeva di percepire con un’attenzione e un’acutezza mai provate finora, le più deboli sfumature, le reazioni e gli atteggiamenti delle persone intorno a lei, i minimi eventi della sua piccola vita quotidiana e risicata.

            Capitolo 31, pagina 184    (Clara)

Adesso lo so.

Forse l’ho sempre saputo. Bisognerà imparare piano piano a coabitare con quel bruco che mi mangia la testa. A condividere con quell’insetto ributtante le mie gioie e dolori, vedendoli rovinare e saccheggiare le cose belle, assistendo impotente allo scempio.

A farlo ingrassare, trionfante e sghignazzante, con le mie rabbie derisorie e inutili.

Bisognerà rassegnarmi a sentirlo strisciare dentro di me, sempre più immondo e prepotente col tempo che passa e la sua certezza di vincere, bestia schifosa che lecca le ferite e si nutre dei nostri umori sotterranei e ripugnanti, tutti quegli umori che battono e premono alle porte del nostro corpo. Aspettando che si rompano le dighe della compostezza imparata, dell’equilibrio finto, delle abitudini distillate o solamente della vita che scorre. Di tutte quelle cose che ci fanno reggere o recitare, per fluire e defluire con una violenza sorniona e inarrestabile, spazzando via qualunque ostacolo, orgoglio, amore, disprezzo, interesse, vergogna, paura, soprattutto paura.

Adesso so quale è la fine della favola crudele. Non diventerò farfalla. La metamorfosi non avrà luogo. Ma anche se avvenisse sarei sparita prima di averlo saputo. Il verme sta in fondo a me, calmo e beato. Perché dovrebbe abbandonarmi? Ormai facciamo una carne sola. Si ramificherà sempre di più nel mio corpo squartato, penetrerà come una piovra viscida e molle dai mille tentacoli lungo le mie membra inerte, scaverà gallerie nel mio sguardo assente, e nessuno mi vedrà più. Mi trafiggerà in un letto scuro e accogliente, silenzioso e deserto dove potrò finalmente dormire.

Forse non subito. Di me galleggerà ancora per un po’ una piccolissima crosta bianca, dura, fredda come la superficie di un iceberg solitario. Essa rifletterà le luci che mi girandolano intorno, come un caleidoscopio impazzito ingoia e ritrasmette una realtà trasfigurata, difforme e illusoria, l’illuminazione psichedelica di un night di quarta categoria.

Invece nel fondo, succederà di tutto. Nel fondo e nel buio, un po’ prima del buio, si grida, si chiama aiuto, si rantola, si affoga, e nessuno se ne accorge. Nessuno sospetta nulla, e la bocca si riempie di sabbia, perché bisogna tacere, e non dar fastidio a quelli che ballano, a quelli che fanno l’amore, a quelli che fanno la guerra, a quelli che accanto a me, ormai nel silenzio anche loro, affogano e non possono più gridare.

Solo una strana musica, lontana, dolce, un po’ irreale, spanderà la sua armonia triste sopra la voragine rinchiusa.

Capitolo 34, pagina 197    (Clara)

edith dzieduszycka 1D’origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa. Nel 1966 ottiene il Secondo Premio per una raccolta di poesie intitolata Ombres (Prix des Poètes de l’Est, organizzato dalla Società dei Poeti e Artisti di Francia con pubblicazione su una antologia ad esso dedicata). In quegli anni alcune sue poesie vengono pubblicate sulla rivista Art et Poésie diretta da Henry Meillant, mentre contemporaneamente disegna, dipinge e realizza collage. La prima mostra e lettura dei suoi testi vengono effettuate al Consiglio d’Europa durante una manifestazione del “Club des Arts” organizzato da lei e alcuni colleghi di quell’organizzazione.

Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate, poi Roma dove vive attualmente. Oltre alla scrittura, negli anni ’80 riprende la sua ricerca artistica, disegno, collage e fotografia (incoraggiata in quell’ultima attività da Mario Giacomelli, André Verdet e Federico Zeri), con mostre personali e collettive in Italia e all’estero.                       Comincia a scrivere direttamente in italiano.

Ha pubblicato: La Sicilia negli occhi, fotografia, prefazione di Giampiero Mughini, Editori Riuniti, 2004.  Diario di un addio, poesia, Passigli Ed., 2007, prefazione di Vittorio Sermonti.  Tu capiresti, fotografia e poesia, Ed. Il Bisonte, 2007.  L’oltre andare, poesia, Manni Ed., 2008, prefazione di Ugo Ronfani.  Nella notte un treno, poesia bilingue, Ed. Il Salice, 2009, prefazione di Salvatore Malizia.  Nodi sul filo, racconti, Manni Ed., 2011.  Lo specchio, romanzo, Felici Ed., 2012.  Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013.  Lingue e linguacce, poesia, Ginevra Bentivoglio Ed., 2013, prefazione di Alessandra Mattei, illustrazioni di Paola Mazzetti.  A pennello, poesia, La Vita Felice, 2013, postfazione di Mario Lunetta.  Cellule, poesia bilingue, Passigli Ed., 2014, prefazioni di Stefano Gallo e François Sauteron, 2014.  Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi Ed., 2014, prefazione di Sandro Gros-Pietro.  Incontri e scontri, poesia, Fermenti Ed., 2015, postfazione di Anton Pasterius.  Trivella, Genesi, 2015, prefazione di Sandro Gros-Pietro.  Come se niente fosse, Fermenti Ed., 2016, prefazione di Paolo Brogi.  La parola alle parole, poesia e prosa, Progetto Cultura Ed., 2016, prefazione di Giorgio Linguaglossa.  Intrecci, romanzo, prefazione di Eleonora Facco, Genesi Ed., 2016.   Dieci sue poesie sono presenti nella antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura Ed., 2016.

Ha curato: Pagine sparse di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007, prefazioni di Pasquale Chessa, Umberto Giovine e Mario Pirani.  La maison des souffrances, de Geneviève de Hody, Ed. du Roure, 2011, préface de François-Georges Dreyfus. Le sol dérobé, souvenirs d’un Lorrain, 1885-1965, Ed. des Paraiges, préface de Jean-Noël Grandhomme, 2016.

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Giuseppe Talìa:  Omaggio per L’Ombra delle Parole: Poesie per Alfredo de Palchi (Giove), Antonio Sagredo (Marte), Giorgio Linguaglossa (Urano), Salvatore Martino (Saturno), Ubaldo de Robertis, Flavio Almerighi, Anna Ventura, Annamaria De Pietro, Antonella Zagaroli, Letizia Leone, Sabino Caronia, Giuseppina Di Leo, Donatella Costantina Giancaspero, Ambra Simeone

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L’ALMA e il GESTO

Appunto di Giuseppe Talìa

L’alterazione paradossale che sottolinea la realtà attraverso la simulazione, l’interrogazione, per mezzo di un procedimento speculativo nei sistemi estetici, come quello di K.W. Solger, viene solitamente considerata costitutiva dell’arte. L’antifrasi e l’eufemismo significano ribaltare, per sopravvivenza fisica e mentale, l’ironia in autoironia, distaccarsi dall’estetismo per una dimensione più etica.  Ecco, questo è uno dei tanti profili che mi rappresentano.

Ma qual è stata la molla di questi frizzanti schizzi a Voi dedicati, care amiche e amici dell’Ombra delle Parole? Un cadeaux, una semplice come complessa traslitterazione di fatti analitici, psicoanalitici, qualche volta una semplice foto o l’impressione di un verso letto e che è rimasto nel substrato inconscio della comunità poetante di cui mi sento parte.

E come un artigiano che si rispetti ho dispiegato gli arnesi giusti su un piano geometrico adeguato e tessuto l’ordito: per ognuno di Voi, amiche e amici, sei versi, forme chiuse e forme variabili, citazioni, carattere, un qualche segno indelebile impresso nell’anima, una tradizione e un simbolo cosmologico abbinato che penso vi rappresenti nell’almagesto dell’unicità.

Questo gioco semi-serio, in cui si possono rilevare tracce di Palazzeschi, Stecher, Szymborska come di altri, l’ho iniziato con l’intento di omaggiare i Poeti costituenti del momento, Alfredo de Palchi (Giove), Antonio Sagredo (Marte), Giorgio Linguaglossa (Urano), Salvatore Martino (Saturno), per continuare con gli amici con cui tengo una corrispondenza, Ubaldo de Robertis, Flavio Almerighi e con le Poete e Poeti che stimo, Anna Ventura (nodo ascendente), Annamaria De Pietro, Antonella Zagaroli, Letizia Leone, Ambra Simeone, Sabino Caronia, Giuseppina Di Leo, Donatella Costantina Giancaspero (nodo discendente), anche se non sempre i miei commenti a riguardo, lasciati sul blog dell’Ombra delle Parole, sono stati gratificanti: ubi maior minor cessat.

Sono quattordici costellazioni più una, misteriosa, che in ogni gioco che si rispetti tocca al partecipante indovinare a chi è dedicata e perché.

Con i miei migliori Auguri per un poetico e sempre più comunitario 2017. Evviva (è viva) la Poesia.

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A Alfredo de Palchi

Cielo d’agosto e Zefiro che lucida l’occhio concavo
Lo sputo delle stelle per un’ora d’aria nel periplo della pena
Le unghie spezzate nel quadrilatero dell’Ades*
Tra sessioni scorpioni e paradigmi la gatta Gigì incatena
Una Storia più grande degli anni e della stessa presenza
Che pone l’Essere nella forma di una galassia antenna

*Adige, e non solo

A Anna Ventura

Nella costellazione di Eridano vi è una corposa nebulosa
La testa di una Strega ascendente nella selva circumpolare
E allatta Coefore massicce con l’alamaro quando uno zio
Coniglio (sorta di ricordo fotoevaporante o stella brillante)
Con Torquemada Tauri icastico e mostrino lavora di fino
E al je m’en moque dell’aguzzino oppone un tu quoque (?)

A Antonio Sagredo

Bayer ti diede il nome o forse solo il suo cognome
Figlio di una costellazione inconsueta come
La Nave di Argo nel coelum dei frangiflutti
Con una Nereide dissipata in un soprannome
Spoliazione della Colchide e dei suoi frutti
Smembrata senza rotta e con i remi asciutti

A Letizia Leone

Summa creata e sola virtute della cometa nera
Tra un debole Cancro e una vasta Venere eclittica
Chi dona speranza dona vita alle stelle bambine
Della costellazione madre di tutte le galassie
Con poche mandorle per confetti d’un matrimonio
Nei primordi mai consumati del Tutto in un granello

A Giorgio Linguaglossa

I frantumi dei giganti gassosi del Tempo e del Padre
Bande magnetiche di stelline soffiate dalle Parche
Graie con stami fusi e cesoie gli ombelichi mortali
Corpi minori negli editoriali di una qualche cometa
E rari ammassi di luce nelle effemeridi siderali
I transaturniani evoluti imprevedibili e rivoluzionari

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A Antonella Zagaroli

Fortilfragile volpina nell’eterno presente sei Cassiopea
Della via Lattea e Anfitrite ti tagliò i lunghi capelli biondi
Da allora come ora riesci dal tempo e ti ritrovi Gilania
Una Venere minima a cui il dono del silenzio è condanna
O forse manna di Psiche il respiro che serra a ventaglio
L’Abito immaginario per il corpo nudo pieno d’anima

.
A Salvatore Martino

Nella tua prigione, o stella blu, i bracci delle galassie
Trovano ammassi aperti di giganti nel disco galattico
D’una vita dedicata alla gravitazione di pregiate malvasie
Da cinquant’anni e oltre l’almagesto nell’atto catartico
Dal locus amoenus del Capricorno a est del Sagittario
Tu, cancellazione, sfera ideale, nutri il marmo erbario

.

A Annamaria De Pietro

Con te non è certo facile solleticare il carapace
Si dice rimario abbecedario binario come glossario
Certo Annamaria di miracoli ne fai stella arancione Tauro
o Aries che infila le perline e di parole ne fa Pietra
Conservazione tālis-qualis dell’ordine del multiverso
Una cera persa nello stampino del creato creatore

A Ubaldo De Robertis

Chi pensa sia semplice tracciare il moto delle Pleiadi
Non sa che ammassi di leggende l’astro occulta
Nella crepa segaligna della parti d’un discorso
Poetico l’anfora sussulta nelle spore gravitazionali
Delle Naiadi con le geramiadi e lo spartito sferico
Del re minore incompiuto o del minotauro che ausculta

A Giuseppina Di Leo

Quanta bellezza e quanta gioventù lontano nel sole
Una stella ancora nell’infanzia prima del monossido
Quando solo ghiaccio e rocce e una firma spettroscopica
Segnavano il passaggio d’una cometa dialogante a più voci
Una lunga notte la più lunga che si ricordi in un inedito
Una parola impronunciata rimbalzata sul muro invisibile

A Flavio Almerighi

Due ombre si uniscono nel silenzio fragoroso della luce
Una ballata d’anime solitarie nell’emisfero terrestre
Di Borea Pyxis il talent scout dell’ascensione retta
Dal bulino del vandalo della nebbia mareale magra
Come un gambo un sorvolo ravvicinato un albatros
L’albedo urbanizzato in un deserto di storie a margine

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A Ambra Simeone

Nel far di pace come nel far di pece come nel far di specie
Litio è una batteria di superficie una post-colonia di Jackie
Ma non basta l’occaso arrabbiato né la tangenziale affollata
Spazio alle stelle emergenti del Sud, Antiliae l’isola opposta
Di lingue cattive che poi a far naso t’accorgi che il contemporaneo
Non ha nessuna lingua semmai ammassi qualche volta sassi

A Sabino Caronia

Tolomeo s’era perso nell’Acquario tra stelle variabili
Ad eclissi controllata quando Copernico scoperchiava
Sfere omocentriche nell’accelerazione degli specchi di Borges
E l’amore che ne veniva sopperiva lo Stato gassoso dei Blazar
Nei minuscoli idilli di astroparticelle delle galassie ospitanti
Con l’apparenza del Zommo Pontescife pe’ castiga’ li bbuggiaroni

A Donatella Costantina Giancaspero

Da un presagio d’ali la casa di latte nella costellazione familiare
Di Stern stempera la tempera verbale esigua del Circinus
Nella periferia dell’universo con Iperoni e Neutrini a far
Piastrelle per il selciato domestico del sole pomeridiano
A Torre Spaccata nell’atonale pungiglione di luce
Con la Lira e il contrappasso per una musica di carta e di cielo

A ?

Lingua di lotta e lingua di luna la luna
Che non parla che non possiede che l’umano
Occhio il sovrumano splendore d’albume
Battente con un cuore di colibrì e chicchirichì
Mite chiarore aneliti brevi falce calante
Sterili economie allunate di messi mancanti

Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta), nasce in Calabria, nel 1964, risiede a Firenze. Pubblica le raccolte di poesie: Le Vocali Vissute, Ibiskos Editrice, Empoli, 1999; Thalìa, Lepisma, Roma, 2008; Salumida, Paideia, Firenze, 2010. Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano: Florilegio, Lepisma, Roma 2008; L’Impoetico Mafioso, CFR Edizioni, Piateda 2011; I sentieri del Tempo Ostinato (Dieci poeti italiani in Polonia), Ed. Lepisma, Roma, 2011; L’Amore ai Tempi della Collera, Lietocolle 2014. Ha pubblicato i seguenti libri sulla formazione del personale scolastico:Integrazione e la Valorizzazione delle Differenze, M.I.U.R., marzo 2011;Progettazione di Unità di Competenza per il Curricolo Verticale: esperienze di autoformazione in rete, Edizioni La Medicea Firenze, 2013. È presente con dieci poesie nella Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2016.

 

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Dialogo a più voci sui concetti di Paradigma, Nuova poesia, Tempo interno, Tempo esterno, Frammento, Ispirazione, Musica di Giacinto Scelsi: Commenti di Claudio Borghi, Lucio Mayoor Tosi, Antonio Sagredo, Salvatore Martino, Mario M. Gabriele, Giorgio Linguaglossa

  1. pittura-caos-e-frammenti

    Opera di Lucio Mayoor Tosi

    Claudio Borghi

18 novembre 2016 alle 15:27 Modifica

Le riflessioni di Scelsi, come quelle di Feldman o Cage, mi fanno pensare a una ricerca di estrema profondità e suggestione, di cui colgo le forti vibrazioni e in cui affondano le radici della loro creatività e ispirazione. Si ha la sensazione di toccare quasi concretamente un sentire contemplativo, un’esperienza di natura ascetica, orientata nella direzione di un’Unità metafisica, di un centro del suono o, per parafrasare il titolo di una composizione di Scelsi, della Nascita del Verbo. Mi chiedo: questa ricerca in termini di poetica del suono, che trovo per certi aspetti simile a quella sulla parola poetica che si vorrebbe vibrante di tempo interno e capace di esprimere, attraverso la molteplicità rifrangente del frammento, la complessità del reale fenomenico, a cosa tende? Si direbbe a un oblio del creato, a una fuga metafisica e solitaria verso la purezza trascendente del suono, sia esso la nota musicale o la parola di cui si sostanzia il verso. Scelsi parla di sfericità come pienezza della nota, che contiene in sé contratta la varietà nella potenza di una sintesi suprema. Immergendosi nelle sue riflessioni, e nelle rarefazioni dei suoni che paiono perdere sempre più contatto con la sostanza del tempo interno in quanto vissuto in corpo, mente e cuore, si percepisce ossessiva la ricerca di una purezza matematica e mistica, di una porta che si apra sulla scintillazione dell’Assoluto nell’anima. Assoluto, quindi scisso dal mondo, isolato in una contemplazione disumana che rischia di essere pienezza solo per chi a tali stordenti altezze o profondità è salito o si è immerso. Sento, in una tale arte e in un tale pensiero, un’esperienza troppo estrema e radicale, a cui è connessa la possibilità di restare incagliati in una contraddizione senza vie d’uscita, su cui spero si possa aprire una discussione.

Secondo Giorgio Linguaglossa, la musica e la poesia devono testimoniare e accogliere in sé il presunto progresso del pensiero scientifico, che a ben vedere sempre più sta allontanando la mente umana dalla varietà del creato e delle creature in direzione di un’asettica contemplazione intellettuale di idee matematiche (vedi l’analisi dettagliata che ho proposto nel mio intervento su Feldman, con relativa discussione critica del pensiero di Carlo Rovelli). Mi chiedo: come pensiamo di arricchire la creatività musicale o poetica laddove le chiudiamo in spazi in cui lasciamo vibrare solo la mente o, come dice, Scelsi, quel che resta dei sentimenti, del corpo e dell’intelletto, quindi una sorta di coscienza impersonale?

Una poesia dalla struttura aperta, a cui fa coerentemente riferimento Steven Grieco, dovrebbe trattenere le vibrazioni e la ricchezza inesauribile inquietante del divenire. In una tale poesia il verso dovrebbe pulsare di visioni che rilucono di smerigliata impermanenza e il poeta riflettere le sfumature infinite del reale e arricchirsene, pur nella consapevolezza dell’inconsistenza di ogni esperienza e del dolore che procura l’assenza di verità in cui la vita scorre. Se la poesia si fa portatrice di emozionata disperata ricchezza, come può esprimere la varietà molteplice inesauribile di suoni e immagini e musica poetica laddove immerge, come nella musica di Scelsi o Feldman o Cage, una coscienza impersonale nel cuore dell’impermanenza, traducendo la precarietà in suoni e frammenti che trattengono algide briciole di realtà metafisica?

Se l’arte cerca di emulare la fisica teorica, che sempre più si isola nella contemplazione astratta di un Tutto di cui non riesce ad afferrare logicamente la sostanza, cosa resta alla musica o alla poesia laddove si liberano del cuore e della mente, che del suono e della musica sono l’alimento necessario? Non è forse evidente che ogni allontanamento dal mondo, anche in direzione di alte sintesi filosofiche o religiose verso il centro divino, in quanto allontanamento dalle forme create significa smarrimento nel deserto di un cielo, per quanto pieno del cuore ultimo ed essenziale, solo umano? Come pensiamo di nutrirci e nutrire musica e poesia di un vuoto in cui risuona, emozionata, solo la nostra astratta coscienza? Come pensiamo di risorgere dalla rarefazione di un simile deserto, così irrimediabilmente lontano dalle altre creature?

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18 novembre 2016 alle 21:34 Modifica

E’ bene che le creature lo sappiano. E poi non si tratta di verità distanti e separate dall’uomo; anzi, è vero proprio il contrario: è un sentire dentro di sé ciò dentro cui siamo immersi. Ma per non scivolare sulla spiritualità, approfitterei della presenza di Claudio Borghi per parlare di quel che succede quando un bicchiere si schianta sul pavimento: il rumore che produce può durare meno di un secondo. Se dopo averlo registrato lo prolungassi per un lungo periodo di tempo, le vibrazioni disarmoniche scaturite dal vetro che si frantuma, questo rumore potrebbe trasformarsi in suono. Dunque in ogni rumore si nasconderebbe del suono; più o meno quello che pensava anche Cage. Ma se tirassimo suoni e rumori allo spasimo, non ne verrebbe un solo suono, una sola nota? Ma in questo caso Scelsi avrebbe anche comporre una sola sinfonia: questo sarebbe l’assoluto di cui parla lei, Borghi. Ma non è così, forse perché l’assoluto non è così immobile come si tende a credere.
Alcuni fortunati riescono a sentire il suono dentro il rumore. Alcuni poeti riescono a fermare il tempo – o a modificare certi aspetti della propria percezione – in modo tale che gli eventi finiscono col separarsi. Escono così da piano della rappresentazione, dal tempo esterno, per entrare nel tempo delle cose, degli oggetti, ma anche dei sentimenti e delle loro vicende.

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  1. claudio-borghi-2009-a
  2. Claudio Borghi

19 novembre 2016 alle 7:31 Modifica

Io non ho parlato di assoluto immobile, né di unica sinfonia, ho scritto di un assoluto scisso dal mondo, isolato in una contemplazione disumana, quale sembra essere quella dei mistici, che rischiano di diventare dei sistemi chiusi nella loro solitaria ricerca della verità. E ho scritto che in fisica teorica la ricerca della teoria del tutto (in particolare penso a Hawking) va proprio in questa direzione, essendo orientata, certo ingenuamente, verso l’equazione che risolve il mistero e, in quanto tale, ci liberi dall’ossessione del tempo. Rovelli, nel suo libro “La realtà non è come ci appare”, fa notare che le teorie fondamentali della fisica, in particolare la relatività generale e la gravità quantistica, tendono a una progressiva rarefazione delle formule, a una semplificazione estrema, come volessero asceticamente raggiungere una sempre migliore approssimazione della verità ultima, in modo da rendere trascurabile lo spazio per il dubbio. Ora, io credo che la ricerca dell’essere nel divenire sia destinata a non avere fine, in quanto l’essere ci è dato nella forma del divenire, non della quiete della beatitudine, scientifica o musicale o poetica, in cui il tormento del vivere possa spegnersi. L’esperienza del vuoto, quale ci insegnano le filosofie orientali, di cui ho profondo rispetto, ha come scopo esplicito far tacere l’io, l’identità che percepiamo come una boa nella corrente, per lasciarci inondare dal flusso, sentirci interamente nel flusso, fino a coincidere con esso. Conquistare una tale coincidenza significa respirare il nulla, la consapevolezza che l’essere non ci sarà mai dato, perlomeno finché saremo creature, come visione pacificata, ma come perenne movimento e trasformazione. Un’esperienza del genere implica dimenticare il sé per sentire il tutto come divenire, quindi la vertigine del nulla individuale: da Meister Eckhart a Heidegger, in questo senso, c’è un passo. Questo oblio significa uscire dal piano della rappresentazione, dal tempo esterno, per entrare nel tempo interno? Probabilmente sì. E’ quello che intende, credo, Steven Grieco quando parla di poesia come sistema aperto. Il fatto a prima vista paradossale è che la conquista di un oltre dell’esperienza esistenziale debba passare attraverso lo spegnimento del sé, che il tempo interno si possa conquistare solo tramite l’oblio del proprio essere qualcosa di definito e circoscritto, che la parola più profonda sfiori o coincida col silenzio, la musica sia qualcosa che da sé scorre nelle vene di una trama universale, per cui non ha senso sentircene compositori, essendo la coscienza un semplice filtro di una meraviglia che mai potremo possedere come persone individuali, di cui dobbiamo accontentarci di trattenere dei frammenti di luce.

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19 novembre 2016 alle 8:16 Modifica

Altri commenteranno. L’argomento è assai interessante, come anche le sue perplessità. Mi limito a osservare che “lo spegnimento dell’io” è una sua conclusione, del tutto legittima ma che non corrisponde a verità. In discussione c’è quel che s’intente normalmente per “io”, se sia identificazione e ego, oppure libera presenza, testimonianza di eventi…

Rispondi

  1. Claudio Borghi

19 novembre 2016 alle 8:57 Modifica

Non è una conclusione, è un tema di discussione che sto cercando di proporre e stimolare, né credo sia possibile dire se un’interpretazione corrisponda o meno alla verità, concetto che, francamente, non so nemmeno bene cosa significhi. Non ho proposto mie verità, che non possiedo, ma perplessità, disorientamenti, dubbi, come sempre dovrebbe essere quando la materia in oggetto non è circoscrivibile in un recinto breve. Ma lasciamo ad altri intervenire, ben venga, come diceva Grieco, “un dialogo reciproco e molteplice”.

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  1. Salvatore Martino in pensiero

    Salvatore Martino

    Salvatore Martino

19 novembre 2016 alle 12:12 Modifica

Ormai ogni volta che apro le pagine di codesta Rivista mi pare di leggere i primi capitoli de “Prolegomeni ad ogni metafisica futura che si presenti come scienza ” di Immanuel Kant… discussioni filosofiche, scientifiche certamente molto interessanti, ma forse gocce di veleno che si insinuano nella mente e nell’anima dei poeti. Tutto questo straordinario rovello dubbioso che naviga tra le righe del discorso di Claudio Borghi, questi suoi preziosi interrogativi, in apparenza senza risposte, dove ci fanno approdare noi semplici, sprovveduti poeti ? Crediamo nella ormai desueta , dimenticata ispirazione, nel colloquio col mondo e con noi stessi, nelle nostre esperienze che metastizzate possono raggiungere gli altri, nel metodico lavoro artigianale, nel rapporto con l’umano e il sovraumano, nel gioco di rispondenze con la Natura,nel tentativo di scavo del proprio mondo infero, nella folgorazione delle immagini, nel pensiero che non nasce unicamente da un circuito cerebrale. L’interrogativo di Borghi se” l’arte debba emulare la fisica teorica che sempre più si isola nella contemplazione di un Tutto astratto” mi getta nel terrore , come un viaggio verso l’annullamento non solo dell’io e del sè ,ma persino dell’Uomo come fino ad oggi lo abbiamo pensato. Anch’io credo non ci siano verità assolute da conquistare, ma lasciatemi navigare nel mistero della poesia, che forse non ha bisogno di tutti questi condizionamenti teorici. Non è una scienza e non è filosofia anche se talvolta colloquia con le due.
D’altra parte la “musica” o meglio il suono di Scelsi mi può affascinare per qualche minuto, un Divertimento di Mozart mi invade tutto.un pomeriggio.

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  1. Salvatore Martino

19 novembre 2016 alle 17:17 Modifica

Ad una lettura più approfondita gli interventi di Claudio Borghi mi appaiono preziosi nelle loro esternazione del dubbio, nell’accettazione di una verità non posseduta, ma comunque sempre ricercata, nel suo distinguo in ultima analisi tra scienza e poesia.e mi sembra anche un avvertimento per il “pericolo” che corre il poeta nell’accostarsi a questo “abisso”:

“Il fatto a prima vista paradossale è che la conquista di un oltre dell’esperienza esistenziale debba passare attraverso lo spegnimento del sé, che il tempo interno si possa conquistare solo tramite l’oblio del proprio essere qualcosa di definito e circoscritto, che la parola più profonda sfiori o coincida col silenzio, la musica sia qualcosa che da sé scorre nelle vene di una trama universale, per cui non ha senso sentircene compositori, essendo la coscienza un semplice filtro di una meraviglia che mai potremo possedere come persone individuali, di cui dobbiamo accontentarci di trattenere dei frammenti di luce”

Dove possa condurre un simile complesso atteggiamento nei confronti di se stesso e del mondo non mi è dato presagire….mi si manifesta come una via impervia e lontana dalla mia visione del cosmo, anche se teoricamente affascinante e densa di significati filosofici. Ma poi in me subentra la prassi, il poiein con le sue infinite lacerazioni, le sue patologie, il suo meraviglioso eros, la vitalità dialettica della morte. Purtroppo non abitiamo il Tibet, i nostri mantra sono di altra natura, anche se il fascino di Lhasa può arrivare ad ognuno di noi, e sentire la “vertigine individuale del Nulla”, dove si arriva , per quanto ne so, anche per altra strada.

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  1. Lucio Mayoor Tosi

    Lucio Mayoor Tosi

    Lucio Mayoor Tosi

19 novembre 2016 alle 17:38 Modifica

Qui ci si sta confondendo con le etichette. Se ci si riferisce alla musica di Scelsi, che è certo di sofisticata intellettualità e non si può dare per scontato che possa arrivare al sentimento e al gusto di tutti, è un conto. Se però il problema sta solo nel timore per vuote astrazioni – perché giudicate tali, mentre invece potrebbe trattarsi, come è stato detto su questa rivista, di un nuovo paradigma, allora servirebbe un salto. Se ci pensate è così anche in politica, nei matrimoni, dentro le profumerie. Questo sé abbandonato e solo nell’universo non riesco a vederlo. Nei guai sì, ma questo è un altro discorso.

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8. antonio-sagredo-e-majakovskij

antonio sagredo
19 novembre 2016 alle 19:33 Modifica
Come è mio costume rispondo coi versi
as
———————————————————-
da Imeropa
E io mi so più tenera che viva
nel battito del tasto e nella frode
asettica… e so come nessun dio
fermare il mio futuro sulla soglia.
Spio il silenzio della particella
viva e il mio corpo vinto dai capricci
e dall’orecchio, che al panico non presta
sibili e promesse. O ponti, una volta
arcobaleni! Ora ho nelle mani solo
il disegno di un gesto – non le muovo!
E nego alla nota il suono che mi deve.
Alla gola nego la bianca fusione,
lo spettro che dalla torre in giù
è lo zero assoluto nel verso dell’evento.
La pietra lima i passi, e io svanisco!
1990
————————————————–
Dal legno che sfascia il suono in una armonia risentita
non una gola si chiude al primo accenno di una nota,
l’origine del coro non sa il punto, il numero che ritarda
l’atto e il suo negarsi al volo… e sono sospeso nel suo frullare.
2008
————————————-
Il suono del Verbo si ritrasse a malincuore dalla Via del Non-Ritorno,
e un gesto, se mai c’era stato, svuotato celebrava a ritroso il non-senso
di una stazione… e di nuovo un partire, e un sognare di meno non m’era dato,
né una preghiera e una mano, o uno sguardo solo per finzione – incolori!
Vermicino, 11 maggio 2010
——————————————————–
Tu, verso, inventa che io penso agli strumenti dell’armonia,
al verme che è digiuno di immortalità e di grida serpentine
e non gradisce del mio canto il suono che non sa la nota!
Poesia, ti tradirò altrove dove la ragione dal gallo è esiliata
per la sua banderuola che impazza ai cardini per divorare Leuco!
2011
—————————————–
E scivolava dagli altari verso quella notte il malumore
che solo negli oracoli leggeva la propria inconsistenza,
e cancellava il segno e il suono di ogni limite del nulla
e nel ricordo della luce e del sangue versava il suo pensiero.
2012
————————–
Prologo ?
Siamo chiari.
L’universo io non l’ho mai visto –
L’ho sentito,
Più della luce è il suono che mi manca,
Non l’occhio conta, ma l’orecchio –
Per questo Dio è incompatibile
Con la nostra realtà,
2014
———————
Tavolette d’argilla: umiliazione e vergogna del canto
E la parola cedette al disegno il suono… così finì la gola e il coro!
E fra le navate non una supplica s’elevò al numero per sollevare
La ragione dal fondo di uno ignoto cominciamento…
La volta che non era… il balenìo dell’arco sfatto dalle pozze!
2015

  1. giorgio-linguaglossa-27-sett-2016-1
  2. giorgio linguaglossa

20 novembre 2016 alle 9:00 Modifica

IL «TEMPO INTERNO» DELLE PAROLE NELLA POESIA DI MARIO M. GABRIELE
https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/11/18/giacinto-scelsi-1905-1989-il-suono-e-sferico-e-rotondo-bisogna-arrivare-al-cuore-del-suono-il-suono-e-dotato-di-misteriose-profondita-spaziali-il-centro-e-prima-di-tutto-lorigin/comment-page-1/#comment-16170
«La musica non può esistere senza il suono. Il suono esiste di per sé senza la musica. È il suono ciò che conta», «Non opacizzarsi né lasciarsi opacizzare», scriveva Giacinto Scelsi nel 1953.

Potrei riscrivere l’assioma di Scelsi così:

«La parola non può esistere senza il suono. Il suono esiste di per sé senza la parola. È il suono ciò che conta»,

È ovvio che qui è la «parola» ad essere al centro della nostra attenzione, se non altro perché il poeta è colui che ha a che fare con le parole. Ma la «parola» in quanto vista sotto il concetto di «suono». Ma non il suono sotto il concetto del significante come accadeva nello sperimentalismo del tardo Novecento, ma il suono sotto il concetto di «centro» della «parola», il che è una cosa alquanto diversa.

Andare al «centro» della «parola» non lo considero un atto mistico o estatico, ma è un preciso atto di poetica. Cioè, io posiziono la poesia secondo ciò che io considero essere il «centro» della «parola». È il centro della parola che mi suggerirà come costruire una frase poetica e non, ad esempio, la struttura frastica dell’endecasillabo. In questo modo cambia tutto. Cambia la poesia, cambia il concetto di poesia.
Facciamo un esempio. Prendo un verso e mezzo di Mario Gabriele tratto da Ritratto di Signora (Nuova Letteratura, 2014):

Gelido, così come è venuto, anche l’inverno se ne andrà
lasciando cicatrici. (p.38)

In un’altra poesia c’è il sintagma-verso:

La luna è sulle scale.

Nella poesia n. 18 c’è l’incipit:

È venuto in silenzio il tempo degli specchi…

Dunque, la «luna» e gli «specchi», che legame c’è tra le due cose? Oserei dire che c’è il legame del «centro» tra le due «cose». Sono i due «centri» che si attraggono (o si respingono) e determinano la struttura significativa della poesia. Nella poesia di Mario Gabriele, come in quella di qualche altro poeta contemporaneo di valore, ci sono degli stacchi, come li vogliamo definire? Dei frammenti, che prendono posto là dove il centro delle unità frastiche decide. La poesia di Gabriele si forma in questo modo.
In questo tipo di procedura, non c’è niente di mistico o di estatico ma un lucido ragionamento sulla natura del frammento come «centro», «cuore» della parola e della immagine.
La poesia diventa una struttura dinamica significativa e temporale, cioè che si muove nel tempo, che crea in proprio tempo interno e lo sviluppa secondo le esigenze interne delle parole.
Ecco il finale della poesia a pag. 38:

Gelido, così come è venuto, anche l’inverno se ne andrà
lasciando cicatrici.

Chiudi la finestra Jenny!
Smettila di vedere se c’è qualcuno che somigli a Willy!
I morti, da sempre, sono insieme a noi,
come a dicembre
i campanelli di Santa Claus.

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  • Mario Gabriele volto 1
  • Mario M. Gabriele

20 novembre 2016 alle 11:12 Modifica

Caro Giorgio, ti ringrazio del tuo commento, che con profonda analisi comparativa tra musica e parole, ha messo ordine sul modo di concepire il “tempo interno”, già discusso precedentemente in questo Blog. E il ringraziamento va anche avendo preso in esame la mia poesia. Giacinto Scelsi porta a sintesi il concetto che “la musica non può esistere senza il suono. “Il suono esiste di per sé senza la musica. E’ il suono ciò che conta”.Affermazioni queste che vengono da un musicista non alle prime armi, ma che sono la sintesi probatoria di una verità non confutabile da parte di alcuni commentatori,chiusi nel loro egocentrismo culturale. Ed è altrettanto significativo il tuo intervento quando poni all’attenzione del lettore, la questione relativa al “centro della parola” in cui il “suono” è visto come “concetto di centro” della parola e non del significante a cui spesso si dà il massimo della rappresentatività. Nella poesia, come giustamente affermi, è la “parola” che crea il “centro”, ossia un proprio “tempo interno” , che non può essere considerato diversamente, così come viene interpretato il concetto di “frammento” , che finisce con l’essere il vero centro erogatore di parole e immagini; una “spezzettatura” non gradita da chi la ritiene un’offesa al lirismo e alla fluviale narrazione di fatti ed eventi, con grave rischio di esporre una pseudoverità come gli interlocutori davanti a Socrate, che credevano di sapere tutto, ma “che in effetti nulla sapevano”.

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  1. Claudio Borghi

20 novembre 2016 alle 10:06 Modifica

Stiamo avvicinandoci al cuore della questione, perlomeno io sto cominciando a capire meglio in cosa consiste la poetica del tempo interno-frammento, che viene considerata un nuovo paradigma poetico. Le parole di Linguaglossa sono in tal senso illuminanti:

“Andare al «centro» della «parola» non lo considero un atto mistico o estatico, ma è un preciso atto di poetica. Cioè, io posiziono la poesia secondo ciò che io considero essere il «centro» della «parola». È il centro della parola che mi suggerirà come costruire una frase poetica e non, ad esempio, la struttura frastica dell’endecasillabo. In questo modo cambia tutto. Cambia la poesia, cambia il concetto di poesia”.

Mi chiedo: si tratta di andare dentro la parola nel senso della “realtà non è come appare” di Rovelli, di tentare un viaggio all’interno dell’apparenza fenomenica, per cercarne la quintessenza, in ultima analisi, per restare in ambito di fisica teorica, immergersi nella danza del suono originario, come nella danza delle particelle di cui il mondo reale è sostanziato? Posto in questi termini, il problema si configura nella forma che prefiguravo: la poesia, secondo il paradigma del tempo interno, deve staccarsi dall’apparenza dei fenomeni e cercare il suo luogo generativo in un centro profondo. Non è forse un atto mistico o estatico, come scrive Giorgio, ma un atto dell’intelletto che costruisce o cerca un oltremondo all’interno del mondo, quale ci è dato in forma di armonia della creazione. Dalla ricerca dell’armonia, esplicito obiettivo della musica, dalle origini o, se vogliamo, da Bach ai romantici (in cui comunque già si sentono potenti lacerazioni interiori), si è giunti, attraverso un processo di disgregazione che ha percorso l’intero novecento, da Mahler a Stravinskij fino a Cage Feldman Stockhausen Scelsi, ecc, alla rinuncia definitiva a poterla attingere, per cui dobbiamo prendere atto di poter operare in una dimensione creativa in cui ci sono concesse solo rovine e frammenti di luce. Mi chiedo: non ha quindi più senso cercare la musica nel verso e dobbiamo tendere a una poesia il cui centro sia il suono della parola, che “suggerirà come costruire una frase poetica”? Non è un tentativo già sperimentato dai simbolisti, ad esempio da Mallarmé, per non parlare delle molteplici ricerche dei surrealisti, a partire dai protosurrealisti come Apollinnaire e Reverdy? Confesso il mio disorientamento, perché sento l’operazione potenzialmente intellettualistica e non colgo la novità del paradigma che si vorrebbe rivoluzionario. La musica di Scelsi, come quella di Feldman o Cage, sono concepite all’interno di una ricerca filosofica legata profondamente alle filosofie orientali, in cui il centro del suono ha un significato mistico, generativo e rigenerativo. Concepire una poesia che trovi il suo rinnovamento in questa dimensione di immersione nella profondità e nella purezza del suono, percepito come centro che contiene in potenza la varietà del molteplice, mi suggestiona non poco, come ho scritto nel mio primo intervento, ma ci sento il rischio di un allontanamento dal mondo, della creazione di sistemi chiusi di riverberi e rimandi interni che al lettore sfuggono e, in definitiva, una potenziale contraddizione con il concetto di poesia come sistema aperto che Grieco ha efficacemente formulato in relazione al suo mondo creativo e al suo mondo di vivere e sentire la realtà impermanente dei fenomeni. Sarebbe interessante, a questo proposito, un confronto tra Grieco e Gabriele.

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  1. giorgio linguaglossa

20 novembre 2016 alle 12:51 Modifica

caro Claudio Borghi,
comprendo le tue perplessità in ordine a un certo simbolismo che in Europa all’inizio del Novecento faceva riferimento alla «parola» quale veicolo del numinoso. Ma qui noi stiamo facendo e dicendo una cosa molto diversa. Il «tempo interno» della «parola» è un qualcosa che va scoperto da ciascun poeta, non può essere imposto con sentenza edittale, ci mancherebbe. Inoltre, Né io né Mario Gabriele né, credo, Sten Grieco-Rathgeb propugniamo un nuovo simbolismo ma cerchiamo di attirare l’attenzione della nuova poesia verso il problema del «tempo interno». I precedenti ci sono, basti pensare alla musica di Giacinto Scelsi o alla pittura di Giorgio Morandi, alle sue bottiglie che, come rilevò Lacan in uno dei suoi seminari, mi pare il VII, indicava una via privilegiata verso la «Cosa» (das Ding). Le bottiglie di Morandi sono una unica bottiglia, indicano una «Cosa» non un «oggetto». Ricordiamo la frase di Tsung Ping: «Lo Spirito non ha alcuna forma, prende le forme dalle cose». È importante ricordare che la poesia ha a che fare con le «Cose», non con gli «oggetti», la distinzione è di fondamentale importanza…
La nostra posizione vuole essere una reazione forte allo sperimentalismo e al contro sperimentalismo delle poetiche neo-orfiche del tardo Novecento rimettendo al centro della nostra strategia la posizione di un «centro» forte che sta all’interno della «parola» (e non fuori, come teorizzava e praticava lo sperimentalismo).
Come acutamente ha scritto più volte Steven Grieco-Rathgeb, in Italia è mancato un «ricambio generazionale», per cui adesso sono i poeti sessantenni o giù di lì che si pongono il problema di quel ricambio generazionale che nella poesia italiana non ha avuto luogo.

Ad esempio, in Russia Il ricambio generazionale portò con sé il ricambio organico della concezione del mondo e del fare poesia. Al centro del simbolismo v’era la convinzione di uno sdoppiamento del mondo tra il regno ctonio, notturno, dionisiaco e quello diurno e apollineo: l’allusione e il simbolo costituivano gli strumenti con i quali il poeta simbolista tentava la conciliazione, per suggestione magica, che in poesia si traduceva in suggestione eufonica, in allusione semantica e simbolica. Il mondo delle «corrispondenze» era il vero mondo. L’essenza sensibile si volatilizzava nell’essenza soprasensibile. Vjaceslav Ivanov fu il precursore degli acmeisti, il primo poeta che prese coscienza di questo svuotamento del sensibile nell’essenza, di questo affievolimento del regno dei fenomeni in quello del noumeno. Rimarrà celebre la sua formula della poetica del simbolismo: «a realibus ad realiora».

Nel 1910 Vjaceslav Ivanov tiene una conferenza che fu seguita da un numeroso pubblico; tra i presenti c’è anche Blok, che annota sul suo taccuino: «Sta iniziando un periodo di crisi e di Giudizio Universale. O la parola diventerà bella e senz’anima (…) o diventerà viva e pratica. Il quesito fondamentale è se il simbolismo come scuola poetica esiste ancora oppure no. Il punto di vista di Vjaceslav Ivanov è che può e deve esistere sotto forma di un nuovo simbolismo sintetico». La disgregazione del simbolismo è ormai manifesta.
I giovani poeti si riunirono a casa di Sergej Gorodeckij il 20 ottobre 1911, nasceva così la Gilda. La riappropriazione del termine usato nel Medioevo dalle associazioni degli artigiani, doveva intenzionalmente mettere in risalto l’aspetto artigianale della tecnica artistica. Gorodeckij e Gumilëv furono eletti capi, con l’antico titolo di «sindaci» e l’Achmatova segretaria. Erano presenti Georgij Adamovic, Vasilij Gippius, Michail Zenkevic, Georgij Ivanov, Vasilij Komarovskij, Elizaveta Kuz’mina-Karavaeva, Michail Lozinskij, Osip Mandel’štam, Vladimir Narbut e pochi altri. Una riunione goliardica si rivelò essere qualcosa di estremamente serio e foriero di straordinari sviluppi. Anna Achmatova più tardi scriverà: «Il simbolismo era indubbiamente un fenomeno del XIX secolo. La nostra rivolta contro il simbolismo era assolutamente legittima, perché noi ci sentivamo uomini del XX secolo e non volevamo restare nel passato».

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  1. Claudio Borghi

20 novembre 2016 alle 13:43 Modifica

Le mie domande e perplessità, caro Giorgio, non hanno l’intenzione di mettere in dubbio l’autenticità di una ricerca che ho più volte riconosciuto nei miei interventi. Il fascino delle riflessioni di Scelsi o Feldman non mi lascia indifferente, mi coinvolge ahimé di meno la loro musica, perché la sento scissa dall’armonia del creato quale percepiamo a livello sensibile, persa dentro un labirinto concettuale che mi sa di equilibrismo matematico più che di illuminazione poetica. Mi si può obiettare che si tratta di gusti, si può dire il Novecento ha costruito arte somma sulle rovine del classicismo e del romanticismo: il riferimento obbligato è a Eliot e alla Waste Land (“Con questi frammenti io ho puntellato le mie rovine”), ma si può parlare a ragione anche del simbolismo russo di inizio novecento, o del simbolismo francese del secondo ottocento, o del surrealismo, ecc. Il problema fondamentale, però, è che non si costruisce poesia con i principi di poetica, ma con l’ispirazione.

Mario Gabriele parla di verità e pseudoverità. Mi chiedo: chi ha la pseudoverità e chi la verità? Chi ne è giudice? Ti invito a riflettere sul concetto scientifico di paradigma, visto che più volte su questa rivista si parla, circa il frammento e il tempo interno, emulando la scienza, di un nuovo paradigma poetico. I paradigmi scientifici sono teorie che si appellano al criterio della verifica sperimentale, interrogando, cioè, la Natura come giudice, per discriminare circa le diverse interpretazioni teoriche. Un nuovo paradigma poetico è a mio avviso un malinteso concettuale, in quanto non esiste nessun criterio di verificabilità o di falsificabilità, non ha senso di esistere se non come condivisione di un comune sentire di autori anche molto diversi tra loro, come nella fattispecie possono essere Sagredo, Grieco o Gabriele.

Ci sono questioni in discussione, domande precise che ho formulato nel mio primo intervento, su cui sarebbe interessante dibattere, ma vedo che si arriva sempre al punto di pensare che c’è chi si sente portatore del nuovo e chi da questo nuovo viene percepito fuori. La poesia non c’entra con la verità, ma con l’ispirazione, alla quale non si può sostituire l’intelletto, se non con l’effetto di produrre opere cerebrali, in cui l’intenzione premeditata inevitabilmente condiziona l’atto creativo. Su questo si dovrebbe discutere, lasciando da parte le contrapposizioni e le esperienze poetiche del passato che, lo sai bene, possono essere interpretate in modo anche radicalmente diverso.

Poco importa, io credo, se la poesia si esprime in forma di frammento o narrazione epica o lirica, se è rivolta al passato o al futuro: non credo occorra a tutti i costi essere o voler essere, come scriveva Rimbaud, assolutamente moderni. La potenza dell’invenzione trascende la forma in cui occasionalmente può tradursi. Trascende, in definitiva, ogni principio di poetica.

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  • foto-video-vuoto

    Il Vuoto

    Mario M. Gabriele

20 novembre 2016 alle 15:51 Modifica

Caro Claudio Borghi,
non è mio costume interloquire con commentatori dai pensieri opposti al mio. Non si viene mai ad un accordo reciproco. Quindi evito ogni contestazione, se non nei limiti della confutabilità. Per non far apparire tedioso questa mia intromissione, e a monte di tutte le sue riflessioni, mi piace citare una sua frase, questa:”La poesia non c’entra con la verità ma con l’ispirazione”. Cosa che a me fa sorgere dei dubbi atroci, perché ritengo l’ispirazione il secondo “movimento” generato dalla mente, altrimenti non so come giustificarla. Il mondo interno è un mondo fisico fatto di introspezioni personali,ideologiche, psicosoggettive e quant’altro. Se vogliamo fermarci ad una serena riflessione, dobbiamo dimostrare come il suo e il mio modo di considerare la poesia siano diversi. La prima cosa da valutare è se essa rientri nell’origine del tutto, o se è un modo direi soltanto filosofico di fornire una interpretazione allegorica o metaforica, dell’Universo e di ciò che ci circonda nel Bene e nel Male. Quindi decriptare questa funzione è comprendere se la poesia è un fotone del Cosmo o un semplice divertissement tra tradizione, rinnovamento e trasgressione. La poesia è solo un mezzo per far cadere (se ci riesce) il velo di Maya. Cosa fattibile se restituiamo alla mente la priorità assoluta sull’ispirazione. O dobbiamo assegnare alla neuroscienza il compito della definizione della poesia, quale quadrante interno ed inesplorato di noi stessi?. Per farla breve, anche ricordando la figura di Umberto Veronesi, mi piace riportare alcune sue considerazioni sulla funzione del cervello quando ebbe ad affermare :”Siamo largamente imperfetti, con le nostre debolezze e le nostre difficoltà, con un cervello che ha un emisfero cognitivo, razionale, logico e matematico, e l’altro che elabora sentimenti, emozioni, fantasia”, ossia il non self control della mente,concetto ripreso anche da Edoardo Boncinelli. Sta qui tutta la turbativa intorno a due referenti opposti: ossia il passato, con tutto ciò che lo rende immutabile, e il presente che ha il compito di immaginare una nuova formulazione della parola-verso, altrimenti si consegnano al secondo emisfero cerebrale le risonanze sentimentali che hanno mandato in tilt la poesia del Secondo Novecento.

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  • Claudio Borghi

20 novembre 2016 alle 17:29 Modifica

Se ho colto il senso complessivo della sua replica, gentile Mario Gabriele, mi sta dicendo che tra i due emisferi non c’è dialettica ma contrapposizione, e il male di tanta poesia del Novecento è dovuto alla prevalenza di un emisfero sull’altro, laddove il danno, in breve sintesi, è stato generato dall’oscuramento dell’esattezza asettica della ragione da parte della nebulosità fantastica (?!) del sentimento. Non crede che, essendo i due emisferi parti di una stessa sfera, debbano e possano dialogare e che l’armonia di un’opera nasca da un equilibrio, una sintesi armonica tra le diverse “sostanze” di cui siamo composti? Lei parla di poesia come mezzo (intellettuale, visto che parla di restituire alla mente la priorità sull’ispirazione) per sollevare il velo di Maya, come parlasse di fisica teorica per scoprire, come amaramente scrivevo ne La trama vivente, “la formula che chiude in sé il mondo”, o di un capitolo di neuroscienza, che infine ci dirà di cosa siamo fatti, e l’ispirazione non sarà che un retaggio del passato, di quando, oltre che generare astratti pensieri, li sentivamo anche impastati di emozioni. Lei vive nella certezza di una scienza che potrà essere onnisciente, beato lei. E scrive di non essere abituato a interloquire con commentatori dai pensieri opposti al suo, ecc. Di dialogo io credo debba alimentarsi la ricerca, in letteratura come nella scienza, non di fughe solitarie né di paradigmi inconfutabili, e questo post poteva essere un luogo non per contrapporre reciproche verità, ma per renderci conto di quanto, povere creature, tutti siamo alla ricerca di qualcosa che mai potremo afferrare né possedere.

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  1. Salvatore Martino

20 novembre 2016 alle 14:08 Modifica

Dopo questa dissertazione così autorevole di Borghi non posso che aggiungere la mia totale condivisione. Poi ogni poeta continuerà a seguire la propria strada, sperando di non essere demonizzato, o colpito da anatema per aver rifiutato il verbo che conduce alla renovatio imperii.

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  1. Lucio Mayoor Tosi

20 novembre 2016 alle 14:41 Modifica

Le poesie degli autori portati ad esempio sono molto diverse tra loro. L’agile frammento di Mario Gabriele è ben diverso da quello adottato da Steven Grieco, che è arioso, poco segnato da punti. E così il frammento nelle poesie di Giorgio Linguaglossa: spoglio di lirismo al punto che, a tratti, sembra darsi a un passo marziale; diverso dal frammento tutto metafore di Antonio Sagredo. E si potrebbe continuare, magari qui e là sfogliando l’antologia “Come è finita la guerra di Troia non ricordo”.
Il metodo non crea uniformità e la poetica di ciascuno prosegue lungo le strade che gli sono proprie…

37 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, poesia italiana contemporanea

LO STATO AMMINISTRA LA CRISI DEPOTENZIANDO L’ARTE – LA NORMALIZZAZIONE DELL’ARTE ATTRAVERSO LA CRISI – DAL 2008 il fatturato di Sotheby’s è aumentato del 538% – L’IMPOSTURA DELL’ARTE CONTEMPORANEA – L’arte è diventata ciò che il Mercato ha deciso che essa debba essere. Trialogo tra Costantina Donatella Giancaspero, Giorgio Linguaglossa e Salvatore Martino

1. Donatella Costantina Giancaspero
1 settembre 2016 alle 15:54

Cito da Paul Valéry, «L’arte nell’economia universale è più ottusa e meno libera»

Riferendomi alla citazione di Paul Valéry, direi che oggi lo Stato ha ben altro ruolo nei confronti dell’Arte, rispetto a quello individuato dal poeta alla sua epoca, gli anni Trenta del secolo scorso. Oggi, lo Stato… altro che “amministrare le arti”! Se ne disinteressa proprio: le abbandona. I tagli di risorse pubbliche ne sono la dimostrazione evidente, con la conseguente gestione incongrua dei beni culturali: i monumenti lasciati nell’incuria, la precarietà dei musei, costretti perfino a chiudere, rappresentano solo un paio di molti scandalosi esempi. I nostri politici addebitano tale situazione, in modo assai generico, alla crisi economica; ma, di fatto, è per nascondere le proprie responsabilità.

Anzi, io credo che approfittino della crisi per mantenere uno status quo di inefficienza e degrado, in cui restino salvi e saldi i privilegi della “casta”. La crisi, così gestita, genera altra crisi, ovvero quella della cultura, in generale, dell’arte, nello specifico: crisi di contenuti e di linguaggio. Anche negli anni Trenta del Novecento c’era la crisi: e che crisi! Ma, diversamente da oggi, tutta l’Arte, l’intera società di allora miravano a risollevarsi, a valorizzarsi, proiettate verso un’autentica rinascita. Oggi, no, purtroppo. Il panorama artistico non ci offre nulla di simile a quello che proponeva allora, in Europa e in America. Viviamo, nella contemporaneità, un’epoca di stagnazione, in cui la cultura e ogni evento ad essa collegato, tiene in piedi un sistema economico che giova a chi lo governa.
Il punto di vista di Paul Valéry, infine, mi pare troppo critico verso la sua epoca. I sacrifici del Novecento produssero grandi e positivi cambiamenti, in ogni campo della società e della cultura, con l’affermazione delle più importanti correnti artistiche entrate nella Storia.

E, allora, che giudizio avrebbe espresso Valéry sulla situazione dell’Arte, oggi, se di quella del suo tempo diceva ch’era “più ottusa e meno libera”? Se si mostrava tanto critico allora, quanto lo sarebbe stato adesso? Forse, anche lui avrebbe riconosciuto l’urgenza di un’Arte nuova, coraggiosa, rispondente ai mutamenti sociali; un’Arte in grado di rappresentare la crisi, per superare la crisi. Anche Valéry avrebbe parlato di un progetto per rifondare l’Arte? Un progetto, sì, un Grande Progetto.

2. giorgio linguaglossa
1 settembre 2016 alle 16:25

Gentile Costantina Donatella Giancaspero,

hai messo il dito sulla piaga. È vero quanto dici. Lo Stato oggi si disinteressa dell’Arte, anzi, più precisamente, lascia che l’Arte sia abbandonata alle oscillazioni del Mercato. E il Mercato fa nient’altro che il suo mestiere: dà un prezzo all’arte in base al suo fatturato e alla qualità di forza lavoro che è costata la produzione di un’opera d’arte, ma al ribasso per via della legge del profitto e del super profitto.

«La ‘nouveauté’ è in estetica il risultato di un processo, è l’etichetta dei beni di consumo della quale l’arte si è appropriata e mediante cui essi si distinguono da un’offerta sempre uguale, offrono stimoli docili al bisogno di valorizzazione del capitale…[…] L’opera d’arte assoluta incontra la merce assoluta». 1)

Sì, credo anch’io che la sentenza di Valéry oggi suoni romantica e anche ottimistica: non solo l’arte è diventata “più ottusa e meno libera” ma, a giudicare da ciò che il Mercato ci propina e pubblica nei cataloghi di Einaudi e di Mondadori, essa è diventata sinonimo di ottusità e di dabbenaggine. L’arte è diventata ciò che il Mercato ha deciso che essa debba essere. L’arte viene abbandonata nel bel mezzo della CRISI, e così la CRISI liquida l’arte ritenendola un soprappiù (un fatturato inutile). Avviene così che la CRISI amministra l’arte depotenziandola di ogni carica antagonistica e sovvertitrice e ne fa una ancella dello status quo, una alleata insperata al fine di normalizzare la vita parassitaria delle masse e condurle alla normalizzazione ideologica dell’unica ideologia dominante: quella del prezzo delle merci, del profitto e del Mercato Universale.

Ecco uno stralcio dello scritto di Domenico Maria Papa a proposito di un articolo dello scrittore Vargas Llosa in seguito ad una visita alla Tate Gallery di Londra il 30 luglio scorso intitolata “L’impostura dell’arte contemporanea”:

Roberto Gramiccia rileva che a partire dal 2008, dall’inizio cioè della crisi economica, a fronte del calo di ricchezza in molti settori produttivi, il fatturato di Sotheby’s è aumentato del 538%

«Vargas Llosa sostiene che un’arte genuina sia fatta di artigianato, abilità, inventiva, originalità, audacia, idee, intuizioni, bellezza, mentre Fumaroli salva Kiefer e Freud, quest’ultimo però dice, ha dovuto attendere molto tempo per essere riconosciuto. C’è, dunque un vero volto dell’arte dietro la maschera deformante dell’impostura?
Il fatto è che in arte, come in finanza, non c’è nessuna verità da svelare. Se accettiamo l’unica definizione dell’arte che sembra aver funzionato finora, ossia che è arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte, dovremo abituarci alla Grande Impostura. Del resto, non è l’essenza stessa dell’arte la menzogna? Arte non condivide, forse, l’etimo con artificio, artificiale, artefatto?

Ritenere che una realtà prima sia raggiungibile attraverso il ritorno a un originario, operando un’azione di smascheramento vuol dire continuare a utilizzare ancora l’attrezzatura concettuale della modernità. Nietzsche, Freud, Marx, come sappiamo, sono i testimoni di una filosofia dello svelamento anch’essa figlia dell’idealismo ottocentesco, il cui punto limite, in estetica, potrebbe essere proprio nell’identificare il valore dell’opera in un dato assoluto e semplice, in un’essenza metafisica che non ha bisogno d’altra giustificazione: il prezzo. Non è solo un problema dell’arte: l’economia, con le sue leggi opache e imperscrutabili, è diventata oggi la metafisica dell’esistente.
C’è una speranza di salvezza, allora? No. Senza mezzi termini. L’arte è un’avventura che nasce con la modernità. E se qualcosa nasce, di solito, finisce. Se chiedete a un abitante dell’antica Atene che cosa significa il termine arte o cercate un libro sull’argomento nella fornitissima biblioteca di Alessandria d’Egitto al tempo dei Tolomei, rimarrete delusi. Qualcosa che si avvicini al nostro concetto di arte è nel termine greco téchne, ma indica l’abilità a realizzare qualcosa. Riguarda più l’anonimo artigiano che il genio acclamato sulle riviste di moda.

Converrà allora, piuttosto che invocare una vera arte originaria, maturare la consapevolezza che, come accadde con la téchne greca, quel che chiamiamo arte ha cambiato natura. Nulla ci vieta di continuare a dedicarsi ad essa con passione e profitto, come si fa nella coltivazione di un vitigno autoctono, nell’esercizio del canto gregoriano o in una pratica zen. Riconoscere un limite, facendone un motivo di crescita culturale, è già un’azione di grande significato etico che vale la pena compiere. Per tutto il resto che sta nei nuovi grandi musei contemporanei e nelle gallerie di tendenza, per il manico di scopa contemplato dal Varhas Llosa, insieme a stracci ammucchiati, bidoni squassati, escrementi inscatolati, scarti industriali etichettati, resti di animali imbalsamati, per tutti i prodotti battuti per milioni di dollari, nelle aste internazionali, possiamo trovare termini nuovi. Non ci fa difetto la fantasia. Che so possiamo usare bond d’arte, per esempio, o derivati estetici. »

1) Adorno, Teoria estetica trad. it. p.32

Salvatore Martino
1 settembre 2016 alle 19:51

Leggendo queste dottissime lezioni sulla crisi della poesia post Satura e Trasumanar in Italia sono tentato di non scrivere più un rigo e gettare nel fuoco i “Cinquantanni” di poesia che fino ad oggi hanno riempito la mia avventura nella vita… tanto sentimento devastante dell’inutilità. E pensare che Rilke appartiene alla schiera dei miei grandi amori. Sono troppo vecchio per approdare al Grande Progetto?

DONATELLA GIANCASPERO MATRIMONIO, 1994

Costantina Giancaspero

Donatella Costantina Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, Edizioni d’arte Il Bulino (Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Nel 2013, terza classificata al Premio Astrolabio (Pisa). Di recente pubblicazione è la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015). 

Salvatore Martino in pensiero

Salvatore Martino

Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel cuore più segreto della Sicilia, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra (1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). È del 2015 il volume di più di mille pagine,  Cinquantanni di poesia (1962-2013) (Progetto Cultura, Roma).  Ha ottenuto i premi Ragusa, Pisa, Città di Arsita, Gaetano Salveti, Città di Adelfia, il premio della Giuria al Città di Penne e all’Alfonso Gatto, i premi Montale e Sikania per la poesia inedita. Nel 1980 gli è stato conferito il Davide di Michelangelo , nel 2000 il premio internazionale Ultimo Novecento- Pisa nel Mondo per la sezione Teatro e Poesia, nel 2005 il Premio della Presidenza del Consiglio. È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010  con la direzione di Sergio Campailla  e insieme a Fabio Pierangeli ha tenuto un laboratorio di scrittura  creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008, un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.

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Caffè Notegen, Roma, via del Babuino 159 – Caffè Notegen…«Cronaca di una morte annunciata». La società letteraria di fine Novecento. La civiltà degli incontri letterari e delle riviste a cura di Gino Rago – Con poesie degli anni Novanta di Gino Rago, Giorgia Stecher, Giuseppe Pedota, Salvatore Martino e Giorgio Linguaglossa

caffè NotegenUn giorno dell’anno 1875 Giovanni (Jon) Notegen,  «il droghiere di Tschilin », un villaggio svizzero dell’Engadina, mette la strada sotto i piedi e giunge a Roma. Qui, in via Capo Le Case, a breve distanza dalla  Via Sistina e dalla Scalinata a Trinità dei Monti,  Jon Notegen apre una drogheria. Ma pochi anni dopo, nel 1880 per l’esattezza storica, il «droghiere Jon» si sposta a via del Babuino, al civico 159. Rinnova il locale e contemporaneamente ne fa  un Bar-Caffetteria, una torrefazione del caffè, una drogheria e una piccola fabbrica di marmellate speciali le quali, per la vicinanza dell’Albergo di Russia, oggi « Hôtel de Russie», subito si diffusero anche all’estero per i numerosi turisti stranieri che l’Albergo ospitava.

Tra le due Guerre Mondiali, la drogheria e il Bar-Caffetteria diventano un tipico punto d’incontro e di ritrovo dei più noti e celebrati artisti e intellettuali dell’epoca. Negli anni ’50 il Caffè Notegen è ormai un’istituzione e la sera, dopo lo spettacolo,  vi si fa ritorno. Non è difficile incontrarvi Carlo Levi ed Ennio Flaiano, Alfonso Gatto e Corrado Cagli, con  i più assidui frequentatori  “di casa” al  Notegen   Piero Ciampi,  Monachesi, Guttuso, Zavattini, Bertolucci, Adriano Olivetti, Corrado Alvaro, Linuccia Saba, Maria Luisa Spaziani, Milena Milani, Eva Fischer, Iosif Brodskij. Ma la crisi del Centro storico è alle porte. Teresa Mangione, a tutti nota come Teresa Notegen perché moglie di Leto, uno dei fratelli Notegen e accolto

da tutti come «amico degli Artisti», con tutta la gente della cultura, dello spettacolo, dell’arte, della poesia e con tutti gli “artigiani” gravitanti nella «vecchia Roma», ne avverte i rischi e sensibilizza appassionatamente Sovrintendenza ai Beni Culturali e Consiglio comunale capitolino per la salvaguardia del Notegen dal rischio chiusura.

piazza_ di-spagna2Nel 1988 il Caffè viene restaurato e la «saletta delle marmellate» finalmente recuperata viene destinata a colazioni, pranzi di lavoro, riunioni conviviali, incontri culturali. Sempre vivi nella memoria, non soltanto degli addetti ai lavori, i “martedì di poesia”.  Ricordo che negli anni Novanta si sono tenute qui tutte le presentazioni dello storico quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che contava nella sua redazione Giorgio Linguaglossa, Laura Canciani, Giorgia Stecher, Giulia Perroni, Giuseppe Pedota e molti altri poeti «esterni», tra i quali lo scrivente che allora viaggiava tra Trebisacce e Roma. E come non ricordare Salvatore Martino e Luigi Celi. Forse, l’ultimo bagliore di quella antica civiltà dei caffè letterari. Poi, intorno alla fine del primo decennio di questi anni 2000, il Notegen chiude definitivamente…  Nel locale al 159 di Via del Babuino, a pochi passi da Sant’Attanasio, da Piazza di Spagna e da Piazza del Popolo, di quella vitalità oggi è rimasta forse appena un’ombra sul muro.

Indeterminazione, relatività, equazioni di Maxwell, verso libero e non libertà nel verso, metafora tridimensionale, modernismo e postmodernismo, rapporto tra  «io »poetico e «oggetto», differenza fra «oggetto» e «cosa», tempo e poesia: grandi, inquietanti questioni dibattute nella sala delle marmellate dai poeti che circolavano attorno a “Poiesis”. Forse, uno storico del passato recente potrà «ricostruire» lo stato di salute della poesia di quegli anni e dei poeti, soprattutto operanti in Roma, attraverso le vicende del Caffè Notegen…«Cronaca di una morte annunciata», realmente avvenuta nella indifferenza generale e nella inerzia dell’amministrazione dei sindaci Rutelli e Veltroni.

Gino Rago

caffè Notegen. 1jpgDue poesie di Gino Rago dal Caffè Notegen (1999)

Locandina Caffè Notegen
Via del Babuino, 159 Roma*

Noccioline americane
Ostriche australiane
The inglese
Salmone canadese
Cous-cous marocchino
Dolce tunisino
Burro danese
Whiskey irlandese
Palmito cubano
Caffè brasiliano
Colonia francese
Vongola cinese
Caviale russo
Profumi di lusso
Odori di cucina
Petrolio e benzina
Sapone e acetone
Con qualche gettone
Panini e cornetti
Riso e spaghetti
Formaggi e surgelati
Telefoni occupati
Juke-box a tutto spiano
Flipper alla mano
Tommaso sorridente
Teresa accogliente
Sempre tanta gente
Di giorno e di notte(gen)
Tra sussurri e grida
Mosul, Avati e Guida.

* N.B. La locandina è nata in una serata conviviale al Notegen su un tavolino con Giorgio Linguaglossa, Vito Riviello e Gino Rago, dopo la presentazione di due libri di poesia, nella «saletta delle marmellate». Lo scherzo piacque a Teresa e ne ricavò la «Locandina del Caffè Notegen». Era il maggio del 1999.

.

Un bergamotto sul fiato della morte
(in ricordo del Caffè Notegen)

Se il poeta sceglie da quale parte stare
il mondo trova sempre il suo tono,
il suo timbro, il suo colore. Lessico
d’alghe. Sintassi di conchiglie.
Al centocinquantanove di Via del Babuino
la sirena invita l’uomo stanco
all’ultimo sentiero di lumache.
Sotto il passo incerto di frontiera
Teresa spalma un giallo
profumato di limoni.
“Die Klage. Das Ruhmen”.
Il lamento. L’elogio. Euridice. Orfeo.
Un bergamotto sul fiato della morte.
Da quell’altana d’aria a Trinità dei Monti
chi ricorda il viola di Scilla, il tormento
della figlia eletta di Zurigo, l’enigma sul mare
a Chianalea. Chi sussurra l’estasi
d’una spadara, l’incanto della musica
sull’acqua, la sorte d’una piuma
in quel vento sul dorso della mano. (Al Caffè Notegen
di Via del Babuino bussava indarno il male
alle vetrine, né mai trovò ricetto la malinconia.
Sostava sui selci neri l’orma verde bile dell’intrigo).
Al galoppo sul niente d’una soglia nessuno tema
il viaggio al centro della notte.
Forme. Visi. Voci. Specchi. Eventi. Lontani
anche i vapori sugli attriti della carne.
Di quei palpiti vitali, di tanta joie de vivre
sì e no un’ombra oggi resta sul muro.
Ma se il viandante tace, se allenta la corsa,
se a Sant’Attanasio asseconda l’occaso
al Notegen di Via del Babuino daccapo i poeti
clessidrano il tempo, fermano in sé il respiro
degli alberi, risgabellano vantandosi
d’essere schegge dell’eternità. Torna sugli scalini
a prillare aprile. Il sangue riscorre più in fretta
del canto… E le azalee sanno fare il resto.

Giorgia Stecher volto

Due poesie di Giorgia Stecher da Altre foto per album (1996)

Il bisnonno

(dopo il terremoto del 1908)

Accorso al molo tu
chiamavi le barche: Teresa
Carmelina dove siete?
Sornione il mare ti lambiva
i piedi come mostro placato
dopo il pasto tra i resti
del banchetto e tu
a strapparti i capelli disperato.
Di te questa l’immagine
che m’hanno consegnato e a nulla
vale guardare il mezzobusto
che ti immortala grave ma quietato
sopra l’emblema inutile dell’àncora.

.
L’Altra Nonna

Di te ricordo i capelli
suddivisi in due bande da una riga
e la trappola per topi che inventasti
servendoti di un ditale e di una pentola.
Dicevano di te ch’eri una gran signora
che avevi il mestolo d’oro e molto argento,
prima della sterzata della stella.
Mi è rimasto il tuo nome soltanto
ed un ventaglio che col vento
che tira qui da noi, è superfluo
agitare, per soffiarsi.

.
Foto di Parente Sconosciuta

En souvenir de ta soeur c’è scritto giù
nell’angolo data due maggio novecentotredici
e tu stupenda contro una finestra un profilo
perfetto da cammeo, le braccia abbandonate
perfettissime, collo vestito perle
acconciatura talmente belli da sembrare
finti. Eppure sei esistita, col tuo francese
spedito ineccepibile e gli squisiti modi
da gran dama, lo diceva la Gina che sapeva
tutte le vecchie storie di famiglia.

 

Giuseppe Pedota foto anni Settanta

Giuseppe Pedota foto anni Settanta

Poesie di Giuseppe Pedota da Equazione dell’infinito (1996)

I campi dello splendore

I

De profundis o madre l’inesausta
chiara tristezza e queste lunghe lune
ti chiamano e le stanze luminose
ancora mi posseggono all’incanto
delle verdi stagioni della luce

sono tornato dall’illimite
per la felicità di nascermi da un sogno
tuo acerbo di granoverdemaggio

Lucania lucis l’eden tra la torre
normanna di Tricarico e le selve
di lupi che odoravano di neve

e falchi neri le ali di rugiada
inseminati da sapienza i venti
grand’inventori di storie e di sciarade
sulle flotte ulissiache dei sogni

e l’avida di spazi
Genzano emersa da abissali
valloni ebbri d’aglianico e di risa
scenografia arrogante per attori
cattivi contro il cielo come solo
sanno esserlo per genìe segrete
le progenie di Orazio e di Pitagora

matematica e mistica lubrica e libertà
crudele sole nostre ospiti

II

e ancora andiamo per queste strade di vento
con un frullo di stelle tra le ciglia

Lucania lucis come allora andiamo
quando ancora sottile nel tuo ventre
sentivo raggrumarsi i vaticini
delle imminenti apocalissi e glorie

ma è sublime vertigine del tempo
il grande gioco
di frantumarci nell’oblio di ciò che fummo
e che saremo

e fu storia mai sazia
di coincidenti epifanie
nascere l’anno della croce uncina
che provava i suoi artigli d’acefalia deforme
devastando i colori ed il cuore di Klee

e per quali segnali d’elezione
egli mi rese la sua scienza
di render l’invisibile visibile?

.
III

quali segni esaltanti e disperanti
protessero da intrighi
la mia stupefazione a menti aliene

perché annulla i dies irae della storia
il sonno d’un bambino

perché si aprivano le vene
di dèmoni e sibille e di profeti
tra le dita
di Michelagnolo che urlava
al suo papa i crediti mancati
dei lapislazzuli sistini

per quali segni
a pretesto di fame si compose
Amadeus il suo Requiem

e può un blu-viola distico
disperare all’abiura d’un amore?
Lucania

questo paese è lontano da ogni senso
e dagli dèi
forse
ci corre dentro nelle vene un segno
un turgore di luce
di silenzi
appartenute a un sogno di remote
civiltà stellari

la circonferenza s’è aperta
nel punto delle mie fughe
nel punto dei miei ritorni
come teorema d’amore

la mia Lucania è un’Itaca
di tutte le ombre
che mi crearono la luce
di spazi che mi allevarono
con la storia dei venti
e i lutti delle donne nero eterno
come utero di vergini

neri occhi hanno scavato ombre più vere
di chi le rifletteva

un’esca per i flutti
di giovinezze ambigue

i passi delle mie lune nere
vengono dove si attendono
che il viaggio della luce
svegli i bradi cavalli di ombre
per criniere di vento

 

Giorgio Linguaglossa al Mangiaparole 2013

Giorgio Linguaglossa al Mangiaparole, Roma 2013

Poesie di Giorgio Linguaglossa (da Paradiso, 2000)

Enigma

Per il lugubre occhio di Kore
per il funebre drappeggio dell’angelo
dal trono dove regna Proserpina
osserviamo gli uccelli cantare
dove era il laurociliegio
rumoroso di tuoni.

Benché il suo occhio sia frigido
rigide rondini tornano al sole
dal nostro nero mare all’azzurro
palazzo del re dei re, sapremo
dimenticare il sole perché
incontrarsi era desiderio.

.
L’imperatrice Teodora e la sua corte*

La melancholia dell’imperatrice Teodora
e del seguito imperiale recita
il trionfo fittizio, nomenclatura
monumentale museificata nel vetro.
L’ampia corona deposta sul capo
immobile assottiglia lo strepito
dei passi del corteo che collima
con il corteggio di tenebre.
Gli occhi di Teodora ci osservano
dalla rigidità della decorazione musiva
laddove non esiste il tendaggio
dell’inquietudine.

* Mosaico della chiesa di “San Vitale” a Ravenna

*

Vidi l’Angelo dai quattro volti
che guardava in quattro specchi il mio
sembiante riflesso, il quadruplice
barbaglio della luce incidente il profilo
araldico. L’abbaglio di otto occhi
celesti assorti nel nulla dell’oscurità.
tetagrafico, tetacriptico profilo.

Salvatore Martino da “”La fondazione di Ninive” 1977

A una distanza pari dalla giungla seguendo il filo di un
airone basso nelle correnti dell’aria Disposti a seguitare
malgrado l’oroscopo straniero verso l’alto del piano dove
spirali si rincorrono e la schiera alata dei pesci Intorno
il sentiero mostrava tracce d’un’altra carovana passata
chissà in un giorno di aprile Si avanzava per gradi
lo sguardo fisso al perimetro del dolore

but if you think of a periscopal motion
of thinghs and animals

L’arsenico nel vino i segnali del passo Dalla bocca del
capanno un grido di fucili Stormi inquieti di volatili e
il rosso cremisi delle piume alla vista dei cani
Ci spingemmo avanti senza l’appiglio delle streghe
Poi avrai notizie dagli agenti del cielo Orbite e sonde
le riprese di luna e mille crateri illuminati dalla
fiamma silicea Come sciogli il granito?
A una distanza pari dalla giungla l’anima si riduce ad una
massa che invade le finestre entra nelle cantine squarcia
i vetri e le porte precipita negli alambicchi Piombo
***
Doppiata la collina si piega il tempo per cogliere il
tracciato che scende in un azzurro paese dove laghi
s’incontrano il verde meridiano e oltre la fossa il cielo
Tradito dai sicari
Ci siamo tinte le mani con bianchissima calce
coperto i sopraccigli col sudario una flora batterica
per coltivare agavi o la demenza di chi spera
al mattino un oroscopo astuto delle carte
Non c’è comparazione col metallo quello duro e temprato!
La fossa spaventosa degli inganni precipita intatte
carovane l’oro disciolto nei crogioli l’interminabile spirale
conquista il punto Ricomincia l’ascesa a gironi più fondi
Nel Maelström attorcigliati Cibele e il corpo di Attis
ritrovato una piatta famiglia di lombrichi Sirene
calamitate a riva da un canto più del loro sinistro
Siede il giovane Orfeo la lira stanca lungo il braccio
sul cavalcante Egeo stanco dell’Ade stanco dell’Olimpo
tradito dagli amici le mani di bianchissima calce e un
vuoto contro la mezzaluce balenata in pieno dormiveglia
dalla camera accanto
Dovremmo salire E gonfiare nell’azoto
Una centuria volatile
***
Se ancora disperi di vedermi e i passi si cancellano
nella veglia a mezz’aria tra desiderio e fatica
E un’ora dopo ai piedi di una lunga valle
ti prendessero per mano quasi dicendo una preghiera
Mercoledì 8 gennaio in una valle
E ti conducessero per cerchi e rottami senza una
cruda stanchezza ch’è poi attesa di non attendere
E ti prendessero quando singhiozzano i merli con una
storia da decifrare portandoti attraverso canali di metallo
Se ancora i passi si cancellano
***

Gino Rago  nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Ind.le presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Progetto Cultura, Roma, 2016). Altre poesie compaiono nella Antologia Poeti del Sud (EdiLet, Roma, 2015) sempre a cura di Giorgio Linguaglossa.

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Dario Zumkeller POESIE SCELTE da “La calce di Ulkrum” (2016) Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa “La Poesia ha perso il Centro. Bene, e allora facciamo di questo punto di «debolezza» il nostro punto di «forza»; la Poesia è andata verso la «periferia»”

 

Dario Zumkeller LA CALCE DI ULKRUM

Dario Zumkeller in azione

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Riprendo un mio commento del 22 aprile perché in definitiva si parla, anche se in modo indiretto, della poesia di Dario Zumkeller, un giovane che viene dopo il diluvio della mediatizzazione del linguaggio poetico operato dalla civiltà mediatica. Apriamo questo spazio ai giovani. Vediamo dove stanno andando.

1. giorgio linguaglossa
22 aprile 2016 alle 17:38 Modifica

caro Salvatore Martino,

[sto parlando della mia poesia “Chiatta sullo Stige”] s’intende che la stesura definitiva di questa mia poesia sia quella che io le ho dato, essa è fissata così, e per sempre (un sempre umano ovviamente), ma non è affatto escluso che io la modifichi nel prossimo futuro. L’esperimento di decostruzione compositiva e di riassemblaggio che ha fatto De Robertis della mia poesia è, appunto, un esperimento che è utile per liquidare, una volta per tutte, il pensiero teologico della Santità della poesia, e quindi della sua immodificabilità. E, invece, la poesia è modificabile, scomponibile, ricomponibile come ogni altra cosa nel mondo dell’iper-moderno. Soltanto il pensiero teologico può pensare ad una poesia come ad una entità immodificabile. La Poesia ha perso il Centro. Bene, e allora facciamo di questo punto di «debolezza» il nostro punto di «forza»; la Poesia è andata verso la «periferia» delle scritture dell’io e delle scritture tele mediatiche. Bene, accettiamo la sfida per dire che è possibile fare una poesia della «perdita del Centro» per riposizionarla al Centro di un universo eccentrico.
In tal senso, anche la scrittura più destrutturata e decostruita del Novecento, Laborintus (1956) di Sanguineti, è ancora una scrittura che si poneva nel solco di un pensiero teologico, si poneva come “opera aperta” ma pur sempre come posta al «centro», magari di un «nuovo centro» di una nuova istituzione letteraria. Era, in definitiva, una destrutturazione che operava all’interno della letteratura intesa come «struttura». Noi invece pensiamo che la letteratura debba uscire fuori dalla Letteratura (anzi, che la letteratura sta già da tempo fuori della vita), che i generi artistici debbano (si trovano ad) essere dis-locati al di fuori dei loro confini; insomma, pensiamo di dare uno scossone a tutti i residui di pensiero teologico e logocentrico, e di porre la poesia stabilmente in un «luogo» che è dato dalla mancanza di un «centro» ove tutto è instabile e probabilistico, e di fare di questa mancanza di un «centro» la nostra forza. Certo, non pensiamo di aver inventato alcunché, già Eraclito, forse il pensatore più possente dell’Occidente insieme a Parmenide (ma tra di essi mi sembra ci sia una poderosa contrapposizione), aveva pensato il «frammento». Quello che l’Ombra sta vivendo è qualcosa che attiene all’essenza profonda della nostra epoca che vive di rivoluzioni (scientifiche) continue della percezione del mondo. Viviamo in un momento di grandi rivoluzioni scientifiche. Il CERN di Ginevra ha detto che entro due anni sapremo con certezza che cosa c’era prima del Big Bang. Ebbene, questa per me è una novità sconvolgente, una novità che ci coinvolge tutti. Un’altra teoria scientifica recentissima recita che non c’è mai stato un Big Bang, ma un continuo divenire degli universi da altri universi. Insomma, un riversarsi di universi in altri universi.
In fin dei conti, anche la poesia recentissima, nelle versioni più intelligenti e consapevoli, sembra rispondere a queste nuovissime cognizioni del Multiverso: un continuo riversarsi di frammenti in altri frammenti…

*

foto ipermoderno Luois Vuitton Dress them up or dress them down

ipermoderno Luois Vuitton Dress them up or dress them down

È chiaro che non possiamo pretendere da un giovane autore un universo stilistico maturo, tutto quello che possiamo intravvedere è un universo linguistico instabile  ad alto gradiente isotopico, un universo in rapida trasformazione. Ed è il parametro dei linguaggi mediatici quello che sta di fronte ai nuovi autori delle nuove generazioni. Ma i linguaggi mediatici vanno trattati, lavorati. Non è cosa semplice. Quello che si può fare è fare delle narrazioni utilizzando i linguaggi mediatici e paragiornalistici. In poesia tutto diventa più complicato per via delle categorie che vigilano sulla forma-poesia. Ma di questo i giovani autori sembrano non esserne consapevoli. Quello che resta è  una «distopia» della forma e delle relazioni linguistiche.

*

PREPARAZIONE DELLA CALCE

La viscida madre sperpera succhi gastrici vitali in abbondanza
conati di farfaro I change my mind
diluvi goffi di stopposi algoritmi.
Annegata è la remissiva amoxicillina sui saperi schiavi
per l’ingresso negli smeraldi.

Oh arpia santa Terezinha dagli occhi vitrei.
*
Fanciulli perversi sfregiano le mani
sono catapulte di rosoni di vetro
e raccolgono pezzi di terra distrofica sulla strada radioattiva.

Siete maledetti perché sono sospeso su una colonna di ghisa
dove le beccacce non cinguettano lodi
e non raggiungono il mokṣa accecati dalle risposte degli orgasmi oggettuali

lerci

come il vuoto delle vostre mani nude e sfregiate.
*
A ritmo “perso”
scendono dalle penta-scale le piccole semibiscrome di anatemi. Un viso appagato e un imbuto cieco circondano i fulmini sbarcati in fiume d’orchestra.

A ritmo “perso” x_x
nei passi del gambero
in un’ipnosi regressiva
avvinghiato in un continuo hang over
e bruciare come l’erba che espiri da un bong
e sentirti ancora perso come un fumo esausto
a caccia di vecchi oggetti, vecchi posti
vedere tuo fratello che felice mangia un’arancia
o quella margherita gialla
donata in un sole terso di terzo giugno

ed ora, cosa sono nella foresta di mangrovie
con le mani dentro ad un pozzo?

A ritmo “perso” nei secondi che corrono, x_x
e come vorrei, tra i fulmini profughi
che la clessidra si rompesse in tredici secondi e tredici frammenti di gioie.
*
Chi è bravo a nuotare in questa melma?
Qualcuno ci insegni.
Osservati dagli angeli senza volto seduti sugli spalti,
impegnati a fare il tifo goliardico per i pesci e vermi
che si avvicinano all’odore degli oggetti.

Confusione
         Anomia
                    Scuffiato

Mille flussi eiaculatio tremolanti
si sfiorano al respiro metronomico della sorte.
Escatologica minzione at-not-stop
pesci e vermi, tripennatosetta, all’assalto!
33 euro per una lezione di nuoto
(ce ne vogliono 49 ma io “lavolale poco poco, pagale poco poco”)

La riva è lontana.
Le catene sudicie ai polsi e alle ginocchia non sono in permuta con la vita.

Solo pesci
Solo vermi

 

Dario Zumkeller foto2

Dario Zumkeller

Stringo forte l’appiglio.
Stringo forte il guaito pestato,
come la torsione di una chiave a croce,
lo squarcio lento della dissolvenza in crescendo. >_<

Abbrunatevi occhi tossici disumanizzati,
scotomizzati dalle sovrastrutture.

Ascoltate il canto della candida operaia che recita inesorabile il dies irae.

Dario Zumkeller LA CALCE DI ULKRUM

Voglio il suo corpo sovrapposto sul mio
che mi dona come un vestito
che mi schiaccia il ventre
una chioccia-segretaria dalle follie di corvo
un episperma che spinge il suo habitus sulle mie ossa rotte e rinsecchite
una giada che sfrega le mie cartilagini artritiche
che gioca a cricket con i versi arresi delle foreste
diboscate dalla dissonanza cognitiva degli stronzi culi rotti.

*
Osservo le piaghe
le cicatrici
le piattole
i denti che cadono e dondolano
e mi vien da ridere. ^_^

Ma sì! Perchè dovrei piangere?

*

Lepre
divora le viscere della compagna
e copri gli sgarri con il tuo ossesso-ossesso compulsivo rigeneratore.

Lepre
asporta l’utero della compagna
offrilo in sacrificio ai piagnis-dei dei cani bimbi
che implorano la salvezza dei loro capillari essudati.

Portali nella macchia grigio-celeste del Dark Island: il profumo materno
che appaga il loro totem assetato di estetica eversiva.

E’poi tutto sarà up and down
La saliva copiosa up and down
Le mani up and down
La testa up and down
Ed infine una frana di massi sul versante a franapoggio
inghiottiti dalle caverne visibili da un fluoroscopio.

“I don’t make mess
I give my best
I never rest”

Continua lepre
rovistando nei corpi aperti
scivolando verso le pianure di gabardine mutilate
bagnate dalla saliva gocciolante dal becco di un’aquila
quelle noie macchiate dai sapori mielosi (acquacheta cà nun s’mov)
piangendo l’errore dell’ermeneutica
ciò che non fu e ciò che non sarà.

*

Con il tuo stanco occhio puoi scrutare un uomo allegro in vetrina
che sazia le file e le vendite in cortina
che guarda le tette delle commesse in arringa
che indossa i feretri ai piedi di altissimo marchio
senza pensar degli interni dolenti
e che non alza mai occhi all’insù
quando le scie gei comi lo consumano senza misùr
e le bendate dee dai cieli sporcati
a salvàr il suo cadetto inetto di un etto prepuzio
verranno do-mai oppure mai più (bontà loro).

*

pietrificanti nell’infierire di un pugnale antiquario e discontinuo,
È l’acqua dei temporali che passa sotto la finestra, gli infissi consumati,
la sedia come fermo-finestra per il vento picchiatore.
È la messa a fuoco dei poveri dipinti su tela impolverati nella stanza,
ciarpame per rigattieri,
venditori di melanomi brillanti d’oro alla luce del giorno.
L’ultimo fotogramma è acidula.
Il volto duro con un’anima da intonaco friabile e bucherellato.

ç_______ç

Usciremo da qui, lentamente,
per entrare nei cieli grezzi di Ulkrum,
afferrando il polso della buriana prestigiatrice Tennessee Tomista,
come un filo di nylon
per non dimenticarci mai tra il frastuono delle cornamuse,
su un video che mai si spegnerà,
[play] su un loop infinito.

*

IL PARADIGMA DELLA DISTOPIA

.
Perché siamo dannati nel fecaloma
dove anche i gabbiani di notte non dormono più.
Ma io non sono muto ai loro versi
per dire all’accusatore
che di noi, residui clastici, sia fatta la calce del carceriere.

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Salvatore Martino (1940) UNDICI POESIE da “La fondazione di Ninive” (1977), Cinquantanni di Poesia 1962-2013 (Roma, Progetto Cultura, 2015 pp.  1000 € 25), con un Appunto dell’Autore e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

salvatore martino copertina la fondazione di ninivo
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Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel cuore più segreto della Sicilia, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra(1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). Ha ottenuto i premi Ragusa, Pisa, Città di Arsita, Gaetano Salveti, Città di Adelfia, il premio della Giuria al Città di Penne e all’Alfonso Gatto, i premi Montale e Sikania per la poesia inedita. Nel 1980 gli à stato conferito il Davide di Michelangelo , nel 2000 il premio internazionale Ultimo Novecento- Pisa nel Mondo per la sezione Teatro e Poesia, nel 2005 il Premio della Presidenza del Consiglio. È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010  con la direzione di Sergio Campailla  e insieme a Fabio Pierangeli ha tenuto un laboratorio di scrittura  creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008, un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.
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Salvatore Martino in pensiero

Salvatore Martino

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Appunto di Salvatore Martino
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Intorno alla città mitica e reale, mai distrutta nella memoria
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Cominciai a scrivere “La fondazione di Ninive” nel 1965, in seguito alla folgorazione, quasi una via di Damasco incontrando T.S.Eliot e il suo maggior fabbro Ezra Pound. The Wast land e i Four Quartets, i Pisan Cantos abitarono la mia casa come in seguito ad uno sconvolgimento tellurico, incrociando il mio specchio, la mia anima, la mia razionalità.
Molte cose avevano preceduto questo evento, la scrittura volgeva allora verso i grandi spagnoli del ‘98 Jimenez e Machado, e a quelli della generazione del ‘27 segnatamente Lorca e Guillen.  Fogli,  lettere,  alfabeti, frammenti, tentativi lunghi e brevi, dispersi e ritrovati, abbandonati sui tavoli, e mai distrutti, ferocemente segnati, custoditi comunque in un codice della memoria. Adesso finalmente costituiscono il corpo iniziale del mio werk, “Cinquantanni di poesia”.
Cominciai a intravedere “Ninive” come ho già detto nel 1965, avendo in qualche modo chiaro il disegno di un poema in tre parti. In realtà codesta divisione era l’unica finestra in un magma materico da evocare dal letto dove dormiva da chissà quanto tempo. Sapevo soltanto che sarebbe stato un viaggio, la ricerca di una identità perduta, forse un lontano gennaio,di un anno che non possiede numeri, la resa dei conti con l’Altro. Del resto attore per vocazione di alchimista, ma anche di viandante, in ultima analisi di randagio, ho sempre viaggiato, maledicendo sempre la partenza, sperando la sosta ad ogni stazione di treni, ad ogni angolo di aeroporti, in un ciclo costante di ritorni, ma non è stata mai una fuga, solo la condizione ineluttabile dell’essere mio e dell’Altro.
E “Ninive” descrive appunto questa lunga parabola nelle tre sezioni, in cui il poema si divide: il viaggio/ la casa/ steep darkness. Un cammino che cerca un approdo, il richiamo definitivo nella speranza che la tua dimora ti  avvolga e ti possieda, ma l’itinerario scivola inesorabilmente nella ripida oscurità. Tutto ho messo di me in gioco in queste pagine, l’eros e l’assassinio, la maschera, il teatro, l’abbandono degli studi di medicina e della normalità, il disprezzo per le cose banali, la condanna politica, il senso ambiguo della storia, l’erotismo del corpo e della mente, il silenzio di Dio, le navi e l’oceano, gli eroi del mito, lo specchio che rimanda la tua immagine che a volte non sai decifrare, lo sguardo tuffato dentro il cosmo, la precarietà degli affetti, gli inganni e l’amicizia, e tante altre cose.

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Ninive mi ha perseguitato con rabbia a volte, spesso con dolcezza, con disperazione nell’arco di undici lunghissimi anni, dilatandosi ed essiccandosi alternativamente quasi in maniera autonoma, al di là, altra da me. Dal 1976 cammina finalmente la sua strada, con fatica, ma libera, non mi appartiene più.
Mi rendo conto che i testi riprodotti in questa sede non possono minimamente raccontare tutto il poema, tra l’altro sono fra i più brevi, ma certo Linguaglossa avrà avuto le sue ragioni per sceglierli.
Voglio riportare, e mi scuso se approfitto dello spazio rubandolo, almeno la chiusa del saggio introduttivo che il grande Ruggero Jacobbi regalò al mio “La fondazione di Ninive”.
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Martino ha percorso questo iter rischioso, talora spaventoso, per giungere a un riscatto che egli stesso ha propiziato, in modi di verso e prosa, che non somigliano a niente d’oggi, che sono soltanto suoi e meritano dalla critica, un’attenzione senza pregiudizi, capace di illuminare la vera sostanza di questo dramma di questo romanzo di questa elegia.
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Salvatore martino cinquantanni-di-poesia-1962-2013
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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
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La fondazione di Ninive riunisce poesie scritte dalla metà degli anni Sessanta fino all’anno precedente l’assassinio di Moro, il 1977, ma del gusto degli anni Sessanta-Settanta questi testi di Salvatore Martino non recano traccia alcuna; è una scrittura che soffre di aperta discronia stilistica e spirituale rispetto alla poesia del suo tempo. Questo è un dato di fatto dal quale io partirei per avvicinarmi alla poesia di Martino. Che la sua poesia non fosse in linea di consonanza con il suo tempo credo che fosse chiaro anche all’autore all’epoca della stesura delle poesie. Ma il problema è che quando un’opera manca l’appuntamento con il lettore, o meglio, con l’uditorio maggioritario, ne deriva che la sua collocazione viene a non essere riconosciuta per mancanza di simultaneità e di scambio reciproco tra l’autore e il lettore, tra cerchie letterarie e l’opera. È quello che è accaduto al secondo libro di Salvatore Martino, che si situava in un suo spazio proprio, anche linguisticamente, isolato e isolazionista, se pensiamo al taglio squisitamente retorico (di alta retorica) del lessico e della sintassi Martiniane, per quel suo desiderio di rendersi non riconoscibile, di ritrarsi in un mondo oscuro e nella penombra di una parola che era e sembrava elusiva ed allusiva, enigmatica, magmatica e che puntava molto su tali quintessenze. Questi aspetti  finivano per accentuare il fatto che il testo sembrava essere il lettore di se stesso. Un testo che rischiava di apparire «squisito», «effabile» e, quindi, «elitario» in un momento in cui la parola d’ordine l’avevano pronunciata Giovanni Giudici con La vita in versi del 1965 e Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965), per una poesia di taglio colloquiale, civile, con tematiche industriali e urbane, dove la chiarezza denominativa e l’abbassamento dei registri stilistici erano ritenuti elementi assolutamente prioritari. Insomma, Martino privilegiava la via della oscurità del tragitto esistenziale, l’esperienza erotica e dionisiaca e l’accentuazione di certo orfismo, quando i tempi invece si orientavano verso la chiarezza del nesso referenziale, l’abbassamento del lessico, l’ambientazione e i temi urbani. Martino punta ancora sulla analogia e sulla simbolizzazione, in una parola, sulla connotazione, in un periodo nel quale invece l’uditorio letterario preferiva la denotazione e la letteralizzazione. A rileggerlo oggi quel libro ci appare fuori delle aspettative dell’epoca, fuori del suo orizzonte degli eventi, e, direi, più inaspettato rispetto a quello di Giovanni Giudici. Oggi, paradossalmente, La fondazione di Ninive, ci appare più in sintonia con le esigenze della ricerca poetica odierna, e pensare che sono trascorsi cinquanta anni dalla stesura di quei testi, ma il fatto è spiegabile perché, in poesia, ciò che si pone come contemporaneo invecchia presto, mentre spesso ciò che si sottrae al contemporaneo, alla lunga, si rivela essere più moderno delle opere un tempo considerate di punta. Con il suo secondo libro il giovane Martino coglieva nel segno di un’opera nata sotto l’egida di uno smaccato anacronismo e di uno scandaloso elitarismo della soggettività. E venne subito archiviato. Forse, oggi si può cogliere con maggiore distacco e serenità la sensuosità di certi passaggi-paesaggi della poesia martiniana, forse di gusto un po’ floreale e appassionato, ma proprio per questo oggi vicini alla sensibilità del lettore moderno. Scrive Donato Di Stasi nella Introduzione al volume Cinquantanni di Poesia 1962-2013 (Roma, Progetto Cultura, 2015 pp.  1000 € 25): «Opera viscerale e cerebrale, La Fondazione di Ninive espone il grumo a cui la coscienza è stata ridotta nella postmodernità… concentra nei suoi risvolti stilistici una formidabile lotta fra il linguaggio e mondo, una partita luttuosa fra l’eros sempre in fuga dalle catene della stabilità e il nostos, sinonimo di necessità e di ritorno a un porto sicuro di significati». (Ibidem p. 135)
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Salvatore Martino in tralice

Salvatore Martino

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da Cinquantanni di Poesia 1962-2013 (Roma, Progetto Cultura, 2015 pp.  1000 € 25)

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A una distanza pari dalla giungla seguendo il filo di un
airone basso nelle correnti dell’aria Disposti a seguitare
malgrado l’oroscopo straniero verso l’alto del piano dove
spirali si rincorrono e la schiera alata dei pesci Intorno
il sentiero mostrava tracce d’un’altra carovana passata
chissà in un giorno di aprile Si avanzava per gradi
lo sguardo fisso al perimetro del dolore

but if you think of a periscopal motion
of thinghs and animals

L’arsenico nel vino i segnali del passo Dalla bocca del
capanno un grido di fucili Stormi inquieti di volatili e
il rosso cremisi delle piume alla vista dei cani
Ci spingemmo avanti senza l’appiglio delle streghe
Poi avrai notizie dagli agenti del cielo Orbite e sonde
le riprese di luna e mille crateri illuminati dalla
fiamma silicea Come sciogli il granito?

A una distanza pari dalla giungla l’anima si riduce ad una
massa che invade le finestre entra nelle cantine squarcia
i vetri e le porte precipita negli alambicchi Piombo
***
Doppiata la collina si piega il tempo per cogliere il
tracciato che scende in un azzurro paese dove laghi
s’incontrano il verde meridiano e oltre la fossa il cielo

Tradito dai sicari

Ci siamo tinte le mani con bianchissima calce
coperto i sopraccigli col sudario una flora batterica
per coltivare agavi o la demenza di chi spera
al mattino un oroscopo astuto delle carte

Non c’è comparazione col metallo quello duro e temprato!
La fossa spaventosa degli inganni precipita intatte
carovane l’oro disciolto nei crogioli l’interminabile spirale
conquista il punto Ricomincia l’ascesa a gironi più fondi
Nel Maelström attorcigliati Cibele e il corpo di Attis
ritrovato una piatta famiglia di lombrichi Sirene
calamitate a riva da un canto più del loro sinistro

Siede il giovane Orfeo la lira stanca lungo il braccio
sul cavalcante Egeo stanco dell’Ade stanco dell’Olimpo
tradito dagli amici le mani di bianchissima calce e un
vuoto contro la mezzaluce balenata in pieno dormiveglia
dalla camera accanto

Dovremmo salire E gonfiare nell’azoto

Una centuria volatile

***

Se ancora disperi di vedermi e i passi si cancellano
nella veglia a mezz’aria tra desiderio e fatica

E un’ora dopo ai piedi di una lunga valle
ti prendessero per mano quasi dicendo una preghiera

Mercoledì 8 gennaio in una valle

E ti conducessero per cerchi e rottami senza una
cruda stanchezza ch’è poi attesa di non attendere

E ti prendessero quando singhiozzano i merli con una
storia da decifrare portandoti attraverso canali di metallo

Se ancora i passi si cancellano
***

A sera la camicia sporca O luna O luna come non sei!
Che il nodo sale e l’anima si spezza Che faremo a gennaio?
Darker and on other time siamo invasi di calma ora
che il tempo è entrato a far parte di noi e l’attimo
blocca le scale O luna O luna per coprirci la mano

***

Esistono giorni che vorresti partire ma per restare e
partire domani o non partire più che hai perso la
logica del partire e ogni logica di transito ch’è poi la
logica di tutto che passi la meditazione della giornata
sopra una mosca e il vento ostinato di grecale contro
l’azzurro del sole Esistono giorni che potrebbero finire
giorni come esistiamo noi senza numeri e segni