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POESIE di Guillaume Apollinaire (1880-1918) Molto allegro con improvvise tristezze Poesie e calligrammi nella traduzione di Mario Fresa stralcio di un  Commento di Renzo Paris

Guillaume Apollinaire, pseudonimo di Wilhelm Albert Włodzimierz Apollinaris de Wąż-Kostrowicky nasce a Roma il 25 agosto del 1880 e muore a Parigi nel 1918, figlio naturale di Francesco Flugi d’Aspermont, un ufficiale svizzero che non lo riconobbe mai, e di Angelika de Wąż-Kostrowicky, una nobildonna polacca. Si trasferisce con la madre in Francia giovanissimo. Ha una adolescenza instabile e disordinata, trascorsa tra vaste letture e numerosi viaggi e studi non regolari. Conosce e frequenta artisti d’avanguardia a Parigi, tra i quali anche i poeti Ungaretti e Max Jakob e il pittore Pablo Picasso. Partecipa alle discussioni sul cubismo in gestazione e, nel 1913, scrive un saggio su questa scuola artistica. Allo scoppio della prima guerra mondiale, sceglie di arruolarsi come volontario, definisce la guerra “un grand spectacle“. Nel 1916 viene ferito a una tempia e subisce un difficile intervento chirurgico. Diventa famoso come critico militante dei movimenti d’avanguardia di quegli anni: il futurismo e la pittura metafisica di De Chirico. Dato il suo carattere estroso ed irrequieto fu sospettato di essere l’autore del furto del dipinto della Gioconda avvenuto il 20 agosto del 1911 al Louvre; in seguito a tali sospetti (di cui fu gravato anche Picasso), viene arrestato ed incarcerato, salvo poi risultare del tutto estraneo ai fatti ed in seguito rilasciato. Del furto risultò poi essere autore un dipendente del Louvre, tale Vincenzo Peruggia. Inaugura nel 1910 la vita letteraria con i sedici racconti fantastici intitolati L’eresiarca & C., mentre nel 1911  pubblica le poesie di Bestiario o corteggio di Orfeo e nel 1913  Alcools, raccolta delle migliori poesie composte fra il 1898 e il 1912, considerata il capolavoro di Apollinaire insieme con Calligrammes (1918),  veri e propri componimenti scritti appositamente per formare un disegno che rappresenta il soggetto della poesia stessa.   

Apollinaire ritratto di Maurice de Vlaminck

Apollinaire ritratto di Maurice de Vlaminck

Commento di Renzo Paris

…Per dar carne alla biblioteca erotica detta dei Curiosi, che curava per uno spregiudicato editore, Apollinaire si tuffa nella letteratura italiana e ne trae pingue bottino. Riscopre, per esempio, lo scrittore Giambattista Casti (1724-1803), viaggiatore irrequieto e amico di letterati e regnanti di tutta Europa, quello stesso che Parini giudicava “prete brutto, vecchio e puzzolente” e che invece Stendhal e Goethe stimavano.

Piacque ad Apollinaire per le sue doti di poeta libertino ed irreligioso Giorgio Baffo che, insieme a scrittori come Francesco Gritti e Anton Maria Lamberti, Giovanni Pozzobon e Marcantonio Zorzi, dava vita all’ambiente che permise la nascita della lingua goldoniana. Ammirò Boccaccio, innanzitutto. Stampò Sade. Ma a proposito del Casti c’è ben altro da dire. Il Casti infatti è autore degli Animali parlanti. E che cos’è Bestiaire, la prima raccolta di poesie d’Apollinaire, se non una serie soprattutto di quartine in cui il poeta fa ‘parlare’ gli animali?

O forse è troppo azzardata l’ipotesi di una intuizione settecentesca di un bestiario illustrato alla maniera medioevale ancora viva nell’epoca rinascimentale? Bestiaire è del 1911. Definito dallo stesso autore “un divertimento poetico” è una serie di licenziosi auguri e scongiuri. Auguri al poeta che si appresta a circuire e a conquistare madama poesia, e d’altra arte, scongiuri contro i pericoli e gli ostacoli di cui è lastricata la strada della bellezza. Più che un ‘dizionario dei motivi poetici dell’autore’ sembra essere un manuale di istruzioni per la creazione poetica, per un poeta da spartire con il profeta di dantesca e rimbaudiana memoria né con il misterioso di Mallarmé. Proprio in Bestiaire, nella quartina ‘L’éléphant’, si dice:

Comme un éléphant son ivoire,
J’ai en bouche un ben precieux.
pourpre mort!… J’achète ma gloire
Au prix des mots mélodieux.

Nella quartina ‘La chenille’ invece leggiamo:

Le travail mène à la richesse.
Pauvres poètes, travaillons!
La chenille en peinant sans cesse
Devient le riche papillon.

A prezzo del “lavoro poetico” il poeta può diventare ricco. Se le parole sono ancora melodiose, ma già tese e frenetiche, alla gloria si arriva attraverso una “compera”. Anche qui Apollinaire finisce col criticare il gusto simbolista dall’interno stesso della sua melodia. A proposito della “purpurea morte” de “L’éléphant” il critico francese Poupon ricorda Mallarmé e la sua particolare espressione “morire purpureo” riferita alla ruota di un carro, simbolo della poesia.

(tratto da Apollinaire Poesie Newton Compton Italiana, Introduzione di Renzo Paris, Roma, 1971)  

Nota del traduttore Mario Fresa

Un traduttore di poesia deve lavorare siccome un interprete musicale. È questo il senso del gioco di queste mie traduzioni-imitazioni confluite nel quaderno “In viaggio con Apollinaire”: ai testi ho voluto applicare minime inversioni sintattiche, dilatazioni o contrazioni metriche, sovrapposizioni, puntature, cadenzine. L’elemento di maggiore fascino nella traduzione poetica è d’altronde costituito, secondo me, soprattutto dalla forma e dalle modalità del processo di trasformazione del testo da cui deriva la traduzione stessa; un processo che non è un ʿcontrafactumʾ o un travestimento, ma una forma di scrittura trasversale che assume il valore di un omaggio-variazione, in cui si accolgono e si uniscono sia l’eco imitativa, sia la rielaborazione, fiorita e ampliata, del modello di partenza.

Da Il Bestiario o Corteggio di Orfeo

La Souris

Belles journées, souris du temps,
Vous rongez peu à peu ma vie.
Dieu ! Je vais avoir vingt-huit ans,
Et mal vécus, à mon envie.

Topino

O belle, mie belle, terribili, belle giornate!
Topini del tempo che la mia vita divorate!
Trent’anni, miodio, trent’anni li compirò tra un mese!
Che tempo perduto! Che ore malissimo spese!

L’Écrevisse

Incertitude, ô mes délices
Vous et moi nous nous en allons
Comme s’en vont les écrevisses,
À reculons, à reculons.

Gambero

O dubbio, dolcissimo mio. La dolce mia altalena.
Ah ridatemi la strada. Non la vedo. Non la vedi.
Tu mi sventoli all’indietro: come un gambero procedi
Che sgambetta, si ripara, che alla fuga già s’allena.

Da Alcools

Les cloches

Mon beau tzigane mon amant
Écoute les cloches qui sonnent
Nous nous aimions éperdument
Croyant n’être vus de personne

Mais nous étions bien mal cachés
Toutes les cloches à la ronde
Nous ont vu du haut des clochers
Et le disent à tout le monde

Demain Cyprien et Henri
Marie Ursule et Catherine
La boulangère et son mari
Et puis Gertrude ma cousine

Souriront quand je passerai
Je ne saurai plus où me mettre
Tu seras loin je pleurerai
J’en mourrai peut-être

Campane

Oh il mio caro zingarello: oh l’amante mio bello:
senti che razza, senti che razza di scampanìo!
Quanto ci siamo amati, vedi un po’, tesoro mio
(e volevamo non esser mai visti, amore bello…)

Il nostro nascondino, noi l’abbiamo scelto male!
Le campane delle chiese fanno un chiasso infernale
a destra, a manca: e dall’alto dei campanili ognuna
già si mette a bisbigliare, pettegola importuna…

e così, già domani, prima Enrico e poi Ursula Maria
e in aggiunta Cipriano e Caterina
e anche i coniugi fornai, lì, nella panetteria

ah come sorrideranno quando, mettiamo, io passerò di là
e dove, ohimé, dove poi m’asconderò?
Ah, ne potrei morire! Morire io ne potrei, chissà!

Signe

Je suis soumis au Chef du Signe de l’Automne
Partant j’aime les fruits je déteste les fleurs
Je regrette chacun des baisers que je donne
Tel un noyer gaulé dit au vent ses douleurs

Mon Automne éternelle ô ma saison mentale
Les mains des amantes d’antan jonchent ton sol
Une épouse me suit c’est mon ombre fatale
Les colombes ce soir prennent leur dernier vol

Costellazione

Sono nato sotto il segno dell’Autunno
Per questo mi piacciono i frutti perciò mi disgustano i fiori
I baci che ho donato io li rimpiango tutti
Come un noce bacchiato sussurra i suoi dolori al vento

Oh mio Autunno perenne oh stagione della mia mente
Mani di antiche amanti cospargono il tuo suolo
Una sposa mi segue ed è l’ombra mia fatale
Le colombe stasera spiccano il loro ultimo volo

Hötels

La chambre est veuve
Chacun pour soi
Présence neuve
On paye au mois

Le patron doute
Payera-t-on
Je tourne en route
Comme un toton

Le bruit des fiacres
Mon voisin laid
Qui fume un âcre
Tabac anglais

Ô La Vallière
Qui boite et rit
De mes prières
Table de nuit

Et tous ensemble
Dans cet hôtel
Savons la langue
Comme à Babel

Fermons nos portes
À double tour
Chacun apporte
Son seul amour

Alberghi

La camera è vuota
Ciascuno per sé
C’è un ospite nuovo
Si paga tra un po’

Ma dice il padrone:
Qui si salderà?
Io trottolo e vago
Per la mia città

Vetture chiassose
Che ceffo ha il vicino!
Si fuma un tabacco
Inglese, un po’acre

C’è la Favorita
Che zoppica e ride
Di queste preghiere
Sul mio comodino

E adesso in albergo
Noi qui tutti insieme
Parliamo le lingue
Di un’altra Babele

Chiudiamo le porte
Ben forte, ben forte
Ciascuno il suo amore
Si serbi per sé.

Cors de Chasse

Notre histoire est noble et tragique
Comme le masque d’un tyran
Nul drame hasardeux ou magique
Aucun détail indifférent
Ne rend notre amour pathétique

Et Thomas de Quincey buvant
L’opium poison doux et chaste
À sa pauvre Anne allait rêvant
Passons passons puisque tout passe
Je me retournerai souvent

Les souvenirs sont cors de chasse
Dont meurt le bruit parmi le vent

Corni da caccia

Nobile e tragica è la nostra storia
Come la maschera di un gran tiranno
Nessun rischio drammatico, nessun sortilegio,
Nessuna minuzia indifferente
Ha reso romantico il nostro amore

E de Quincey mentre beveva
L’oppio venefico dolcissimo e puro
Sognava la sua Annina
Passiamo trapassiamo, perché tutto passa, perché tutto va!
Ahi, spesso, ma sconsolato, volgerommi indietro!

I ricordi sono corni da caccia
E il loro suono si disperde nella bocca del vento

La Blanche Neige

Les anges les anges dans le ciel
L’un est vêtu en officier
L’un est vêtu en cuisinier
Et les autres chantent

Bel officier couleur du ciel
Le doux printemps longtemps après Noël
Te médaillera d’un beau soleil
D’un beau soleil

Le cuisinier plume les oies
Ah  ! tombe neige
Tombe et que n’ai-je
Ma bien-aimée entre mes bras

La bianca neve

Ah, gli angeli in cielo, là in alto, là fuori!
Uno è vestito da brigadiere
L’altro è vestito da cuciniere
E gli altri, quel gruppo, son tutti tenori

O bell’ufficiale, color dell’azzurro!
La primavera, adesso, dopo quel lungo inverno
Sai che bella medaglia di sole ti assegnerà
Ma sì, te la darà

Il cuciniere spiuma le oche
E che neve che cade: e cade, la neve,
Ricade: né v’è
La mia bella, qui adesso, con me!

Mes amis m’ont enfin avoué leur mépris

Mes amis m’ont enfin avoué leur mépris
Je buvais à pleins verres les étoiles
Un ange a exterminé pendant que je dormais
Les agneaux les pasteurs des tristes bergeries
De faux centurions emportaient le vinaigre
Et les gueux mal blessés par l’épurge dansaient
Étoiles de l’éveil je n’en connais aucune
Les becs de gaz pissaient leur flamme au clair de lune
Des croque-morts avec des bocks tintaient des glas
A la clarté des bougies tombaient vaille que vaille
Des faux cols sur des flots de jupes mal brossées
Des accouchées masquées fêtaient leurs relevailles
La ville cette nuit semblait un archipel
Des femmes demandaient l’amour et la dulie
Et sombre sombre fleuve je me rappelle
Les ombres qui passaient n’étaient jamais jolies

I miei amici alla fine…

I miei amici alla fine mi hanno tutti confessato che mi disprezzano
A grandi sorsate mi ubriacavo di stelle
Mentre dormivo un angelo ha sterminato
gli agnelli i pastori nei tristi ovili
Certi finti centurioni asportavano l’aceto
Gli straccioni ballavano ridotti male assai dal ricino
Stelle del risveglio io non ne conosco nemmeno una
I becchi del gas pisciavano le fiamme al chiar di luna
Becchini sonavano a morto coi boccali di birra
Ricadevano alla luce delle candele ricadevano e dunque sia come dev’essere
Colli di camicia su fiotti di gonne impolverate
Puerpere in maschera festeggiavano la loro purificazione
Un arcipelago sembrava quella notte la città
Le donne chiedevano l’amore e la dulìa
Oh fiume scuro scuro io sì me lo ricordo bene
Nelle ombre che passavano non c’era mai bellezza

Nuit rhénane

Mon verre est plein d’un vin trembleur comme une flamme
Écoutez la chanson lente d’un batelier
Qui raconte avoir vu sous la lune sept femmes
Tordre leurs cheveux verts et longs jusqu’à leurs pieds

Debout chantez plus haut en dansant une ronde
Que je n’entende plus le chant du batelier
Et mettez près de moi toutes les filles blondes
Au regard immobile aux nattes repliées

Le Rhin le Rhin est ivre où les vignes se mirent
Tout l’or des nuits tombe en tremblant s’y refléter
La voix chante toujours à en râle-mourir
Ces fées aux cheveux verts qui incantent l’été

Mon verre s’est brisé comme un éclat de rire

Notte renana

Questo bicchiere è colmo della fiamma di un vino che già trema
Sentite la canzone lentissima lentissima del battelliere
Che racconta di aver visto sotto la luna sette donne
Che torcevano i loro capelli verdi e lunghi fino ai piedi

Su sorgete e cantate più forte e ballate un girotondo
Perché non possa più sentire la canzone del battelliere
Mettetemi vicino tutte quante le ragazze bionde
Dallo sguardo immobile e dalle trecce ripiegate

Il reno è ubriaco il reno dove si specchiano le vigne
Tutto l’oro notturno vi scivola tremando per rispecchiarsi
La voce canta sempre come un rantolo morente
Quelle fatine dai verdi capelli che incantano l’estate

Il mio bicchiere si è infranto come lo scoppio d’una risata

Da Calligrammi

Il pleut

Il pleut des voix de femmes comme si elles étaient mortes même dans le souvenir

C’est vous aussi qu’il pleut merveilleuses rencontres de ma vie ô gouttelettes

Et ces nuages cabrés se prennent à hennir tout un univers de villes auriculaires

Écoute s’il pleut tandis que le regret et le dédain pleurent une ancienne musique

Ecoute tomber les liens qui te retiennent en haut et en bas.

Piove

Piovono voci di donne come se fossero morte perfino nel ricordo

Piovete anche voi meravigliosi incontri della mia vita, o goccioline!

E quelle nuvole impennate già iniziano a nitrire un universo intero di città auricolari

Senti se piove mentre il rimpianto e lo sdegno piangono insieme una musica antica

Ascolta cadere i legami che ti tengono su, che ti tengono giù

Mutation

Une femme qui pleurait
Eh! Oh! Ha!
Des soldats qui passaient
Eh! Oh! Ha!
Un éclusier qui pêchait
Eh! Oh! Ha!
Les tranchées qui blanchissaient
Eh! Oh! Ha!
Des obus qui pétaient
Eh! Oh! Ha!
Des allumettes qui ne prenaient pas
Et tout
A tant changé
En moi
Tout
Sauf mon amour
Eh! Oh! Ha!

Metamorfosi

Una donna che singhiozzava
Eh! Uh! Ah!
I soldati che passavano
Eh! Uh! Ah!
Un custode di chiusa che pescava
Eh! Uh! Ah!
Le trincee che biancheggiavano
Eh! Uh! Ah!
Granate che scoreggiavano
Eh! Uh! Ah!
Fiammiferi che non si accendevano
E tutto
È così tanto cambiato
In me
Tutto
Salvo il mio amore
Eh! Uh! Ah!

SCÈNE NOCTURNE DU 22 AVRIL 1915

Gui chante pour Lou

Mon ptit Lou adoré Je voudrais mourir un jour que tu m’aimes
Je voudrais être beau pour que tu m’aimes
Je voudrais être fort pour que tu m’aimes
Je voudrais être jeune jeune pour que tu m’aimes
Je voudrais que la guerre recommençât pour que tu m’aimes
Je voudrais te prendre pour que tu m’aimes
Je voudrais te fesser pour que tu m’aimes
Je voudrais te faire mal pour que tu m’aimes
Je voudrais que nous soyons seuls dans une chambre d’hôtel à Grasse pour que tu m’aimes
Je voudrais que nous soyons seuls dans mon petit bureau près de la terrasse couchés sur le lit
de fumerie pour que tu m’aimes
Je voudrais que tu sois ma sœur pour t’aimer incestueusement
Je voudrais que tu eusses été ma cousine pour qu’on se soit aimés très jeunes
Je voudrais que tu sois mon cheval pour te chevaucher longtemps longtemps
Je voudrais que tu sois mon cœur pour te sentir toujours en moi
Je voudrais que tu sois le paradis ou l’enfer selon le lieu où j’aille
Je voudrais que tu sois un petit garçon pour être ton précepteur
Je voudrais que tu sois la nuit pour nous aimer dans les ténèbres
Je voudrais que tu sois ma vie pour être par toi seule
Je voudrais que tu sois un obus boche pour me tuer d’un soudain amour

SCENA NOTTURNA DEL 22 APRILE 1915

Gui canta per Lou

Mio piccolo Lou vorrei morire un giorno che tu mi amassi
Vorrei essere bello perché tu mi amassi
Vorrei esser forte perché tu mi amassi
Vorrei essere giovane giovane perché tu mi amassi
Vorrei che la guerra ricominciasse daccapo perché tu mi amassi
Vorrei afferrarti perché tu mi amassi
Vorrei sculacciarti perché tu mi amassi
Vorrei farti male perché tu mi amassi
Vorrei che ci trovassimo noi due soli in una stanza d’albergo a Grasse perché tu mi amassi
Vorrei che fossimo soli nel mio piccolo ufficio proprio vicino alla terrazza
sdraiàti così sul letto da fumeria perché tu mi amassi
Vorrei che tu fossi la mia sorellina per amarti incestuosamente
Vorrei che tu fossi stata mia cugina perché ci fossimo amati giovanissimi
Vorrei che tu fossi il mio cavallo per cavalcarti a lungo a lungo a lungo
Vorrei che tu fossi il mio cuore per sentirti sempre in me
Vorrei che tu fossi il Paradiso o l’Inferno secondo il luogo di destinazione
Vorrei che tu fossi un ragazzino per essere il tuo precettore
Vorrei che tu fossi la notte per poterci amare al buio
Vorrei che tu fossi la mia vita per essere tutto tuo
Vorrei che tu fossi un proiettile crucco per uccidermi di un amore fulminante

Da Lettere a Lou

Il y a

Il y a des petits ponts épatants
Il y a mon cœur qui bat pour toi
Il y a une femme triste sur la route
Il y a un beau petit cottage dans un jardin
Il y a six soldats qui s’amusent comme des fous
Il y a mes yeux qui cherchent ton image
Il y a un petit bois charmant sur la colline
Et un vieux territorial pisse quand nous passons
Il y a un poète qui rêve au ptit Lou
Il y a une batterie dans une forêt
Il y a un berger qui paît ses moutons
Il y a ma vie qui t’appartient
Il y a mon porte-plume réservoir qui court qui court
Il y a un rideau de peupliers délicat délicat
Il y a toute ma vie passée qui est bien passée
Il y a des rues étroites à Menton où nous nous sommes aimés
Il y a une petite fille de Sospel qui fouette ses camarades
Il y a mon fouet de conducteur dans mon sac à avoine
Il y a des wagons belges sur la voie
Il y a mon amour
Il y a toute la vie
Je t’adore

C’è

C’è una fila di piccoli ponti meravigliosi
C’è il mio cuore che batte per te
C’è una ragazza triste sulla via
C’è un piccolo delizioso cottage in giardino
C’è un gruppo di sei soldati e tutti dico tutti si divertono da matti
C’è il mio occhio che va in cerca della tua immagine
C’è un boschetto grazioso sulla collina
E un vecchio soldato della milizia che piscia mentre passiamo noi
C’è un poeta che pensa al suo piccolo Lou
C’è un piccolo Lou delizioso in quella Parigi grande grande
C’è una batteria nella foresta
C’è un pastore che pascola le pecorelle
C’è la mia vita che appartiene a te
C’è il mio astuccio portapenne che corre che corre
C’è un filare di pioppi tenero tenero
C’è tutta la mia vita passata che è proprio tutta passata
C’è un dedalo di stradine a Menton dove ci siamo amati
C’è una ragazzina di Sospel che frusta i suoi compagni
C’è la mia frusta d’ordinanza nel mio sacco d’avena
C’è una torma di bagasce belghe sopra la strada
C’è il mio amore
C’è tutta l’esistenza
E ti adoro

Mario Fresa, nato nel 1973, ha esordito nel 1999 sulle pagine di «Specchio della Stampa», presentato da Maurizio Cucchi. Altri suoi testi in poesia e in prosa sono stati pubblicati sulle principali riviste culturali italiane, da «Caffè Michelangiolo» a «Paragone» a «Nuovi Argomenti», e in varie antologie, tra le quali Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004). Anticipazioni del suo nuovo libro di prose-poesie sono uscite su «Smerilliana» (2014), con un saggio di Valeria Di Felice, e su «Quadernario» (2015), a cura di M. Cucchi. Tra le sue ultime raccolte di poesia: Alluminio (introduzione critica di Mario Santagostini, 2008), Costellazione urbana (Mondadori, «Almanacco dello Specchio», 2008), Uno stupore quieto (prefazione di Maurizio Cucchi, La collana, Stampa, 2012; menzione speciale al premio Internazionale di Letteratura Città di Como), Teoria della seduzione (Accademia di Belle Arti di Urbino, con disegni di Mattia Caruso, 2015). Ha curato l’edizione critica del poema Il Tempo, ovvero Dio e l’Uomo di Gabriele Rossetti (Carabba, collana “I Classici”, 2012), e la traduzione del De cura rei familiaris di Bernardo di Chiaravalle (Società Editrice Dante Alighieri, 2012). Firma la rubrica Sguardi sulla rivista «Gradiva. International Journal of Italian Poetry», di cui è redattore.

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Un omaggio a Elio Pecora – Happy new year – 15 poesie per 15 poeti. Poesie di Antonella Anedda, Pier Luigi Bacchini, Maria Clelia Cardona, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Roberto Deidier, Umberto Fiori, Biancamaria Frabotta, Mariangela Gualtieri, Jolanda Insana, Vivian Lamarque, Valerio Magrelli, Renzo Paris, Antonio Riccardi, Valentino Zeichen

 In occasione del conferimento della Laurea ad honorem in Scienze della Comunicazione a Elio Pecora, le edizioni San Marco dei Giustiniani hanno pubblicato un volume collettaneo contenente  poesie di altri poeti italiani per festeggiare l’evento. Riproponiamo in questa sede una scelta delle poesie e degli autori che hanno contribuito alla realizzazione del libro Geografie primaverili. Poesie per Elio Pecora a cura di Roberto Deidier, 2006.

È anche l’occasione per mostrare gli scritti di un ampio ventaglio di poeti contemporanei. Il loro omaggio al poeta Elio Pecora è anche un omaggio alla Musa. Sarebbe un buon segno se tali esempi si moltiplicassero e più di frequente i poeti concedessero le proprie poesie per festeggiare una personalità poetica, o salutare  qualcosa che si allontana da noi, o si avvicina…

È questo il modo, dell’Ombra delle Parole, di salutare un poeta rappresentativo di Roma, città di adozione del poeta napoletano, e della intima vocazione dell’Urbe da sempre città cosmopolitica, aperta a tutte le suggestioni culturali e a tutti i poeti provenienti da qualsiasi latitudine e longitudine.

E questa latitudinalità e longitudinalità di Roma è sempre stata una caratteristica della città eterna che ha accolto e allevato poeti, scrittori e artisti di varia nazionalità e provenienza in accordo con la sua vocazione millenaria e la sua storia cosmopolitica.

 

Elio Pecora è nato a Sant’Arsenio, in provincia di Salerno, nel 1936. Ha trascorso a Napoli una lunga adolescenza, dal 1966 abita a Roma dove risiede a via Paolo Barison 14 ( tel.349/4439444; email:e.pecora@tiscali.it). Ha come titoli di studio una maturità classica e una laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione dell’Università di Palermo. Non ha ricoperto incarichi pubblici. Ha pubblicato libri di poesie, racconti, romanzi, saggi critici, testi per il teatro. Ha collaborato per la  critica letteraria a quotidiani, settimanali e riviste (La Voce Repubblicana, Mondo Operaio, La Voce Repubblicana, Il Mattino, La Stampa-Tuttolibri, L’Espresso, il Tempo Illustrato, Wimbledon, Nuovi Argomenti, Ulisse,  Saggi critici ) e ai programmi di Radio Uno e Radio Tre. Dirige da un decennio la rivista internazionale “Poeti e Poesia”.

I suoi libri di poesia: La chiave di vetro  (Bologna, Cappelli 1970); Motivetto(Roma, Spada 1978); L’occhio corto (Roma, Studio S. 1985; Interludio (Roma, Empiria 1987 e 1990; Dediche e bagatelle  (Roma, Rossi & Spera 1990); Poesie 1975-1995 ( Roma, Empiria 1997 e 1998; Per altre misure   (Genova, San Marco dei Giustiniani 2001); Favole dal giardino (Roma, Empiria 2004 e 2013); Nulla in questo restare (Trieste, Il ramo d’oro 2004); L’albergo delle fiabe e altri versi(Roma, L’orecchio acerbo, 2007); Simmetrie ( Milano, Mondadori Lo Specchio, 2007 ); La perdita e la salute, I Quaderni di Orfeo 2008; Tutto da ridere?, Empiria 2010; Nel tempo della madre, La Vita Felice 2011; In margine e altro, Oedipus 2011; Dodici poesie d’amore  (con acquerelli di Giorgio Griffa), Frullini edizioni 2012.

I suoi libri di poesia per i bambini: L’albergo delle fiabe e altri versi, (con disegni di Luci Gutierrez), ed. Orecchio Acerbo, Roma 2007; Un cane in viaggio (Illustrato da Beppe Giacobbe), ed. Orecchio Acerbo, Roma 2011; di prossima pubblicazione per le stesse edizioni Firmino e altre poesie.

I suoi libri di prosa: Estate, ed. Bompiani 1981; Sandro Penna:una biografia, ed. Frassinelli 1984,1990, 2006; I triambuli, ed.Pellicano 1985; La ragazza col vestito di legno e altre fiabe italiane, ed. Frassinelli 1992; L’occhio corto, ed. Il Girasole 1995; Queste voci, queste stanze, (conversazioni con  Paolo Di Paolo), Empiria, Roma 2008; La scrittura immaginata, Guida, Napoli 2009; La scrittura e la vita, ed. Aragno 2012.

I testi per il teatro rappresentati: Alcesti, 1984 Roma Teatro SpazioUno, regia di Enrico Job; Pitagora, (edito nei Quaderni del Comune, Crotone 1987), Crotone, regia di Luisa Mariani;  Prima di cena, (Premio IDI 1987, in “Sipario”,474, gennaio-febbraio 1988),Roma Teatro Belli, regia di Lorenzo Salveti; Nell’altra stanza,1989 (in “Ridotto” 7-8,agosto-settembre 1989), Roma Teatro Due, regia di Marco Lucchesi; Il cappello con la peonia, 1990, Roma Teatro Due, regia di Marco Lucchesi; A metà della notte, Todi Festival 1992, regia di Maria Assunta Calvisi, edito da l’Obliquo, Brescia 1990; Trittico, Roma Teatro Due, regia di Marco Lucchesi, 1995. Le radiocommedie trasmesse: Il giardino, RadioTre il 21 luglio 1996; Il segreto di Lucio,  RadioTre il 19 ottobre 1997.

Quattro dei testi teatrali sono stati pubblicati nel 2009 dall’editore Bulzoni nel volume Teatro. Un ultimo lavoro teatrale Sandro Penna: una cheta follia, per l’interpretazione e la regia di Massimo Verdastro, è in corso di rappresentazione in diverse città italiane.

Nel 2006 l’Università di Palermo, Facoltà di Scienze della Formazione, lo ha insignito della Laurea ad honorem in Scienze della Comunicazione. Per conto della stessa Facoltà le edizioni San Marco dei Giustiniani , Genova 2008), hanno pubblicato il volume L’avventura di restare (le scritture di Elio Pecora) a cura di Roberto Deidier con contributi di vari critici fra i quali Daniela Marcheschi, Biancamaria Frabotta, Giorgio Nisini.

Sue poesie sono apparse tradotte, fra altre lingue, in  francese, inglese, rumeno, iugoslavo, arabo. Sue raccolte di poesia sono state edite in volume in portoghese, in olandese, in inglese ( Poemas Escolhidos, Quasi 2008; Liefdesomheining, Serena Libri, Amsterdam 2011; Selected poems, Gradiva Publications 2014.)

Ha curato:  Sandro Penna, Confuso sogno ed. Garzanti 1980; Antologia della poesia del Novecento, ed. Newton Compton 1990; Sandro Penna poeta a Roma, ed. Electa 1997; Diapason di voci (quarantadue poeti per Sandro Penna) ed.IL Girasole 1997; Ci sono ancora le lucciole (poesie di sessantadue poeti italiani) Milano, Crocetti 2003; La strada delle parole ( poesie del Novecento scelte per i bambini e i ragazzi delle scuole elementari ) Milano, Mondadori, 2003, 2013; I poeti e l’amore nel Novecento italiano, Roma, Pagine 2005; Il cammino della poesia, antologia poetica, ed. Pagine 2013.

Antonella Anedda

Oggi la vita è fulgida. Ho visto un corvo abbassarsi
su uno dei gradini della scala:
è stato un miracolo di nerità lucente
un lungo inchiostro sul bianco della pietra. L’intera discesa
– la mia e del corvo – sapeva di betulla e miele. I nostri corpi
– del corvo e mio – erano svelti e vecchi.
Guardandolo muoversi mi accorsi
di quanto il nero fosse offuscato
di qualche macchia e di come l’andatura fosse
incerta. Anche le mie gambe, qua e là macchiate dall’età e dal sole
erano un segno come per lui quel cieco saltellare.
eppure entrambi in amore
amavamo: lui le poche lucide piume, io un residuo di grazia:
l’affusolarsi delle gambe fino ai piedi e i piedi leggermente contratti
fragili (come i suoi) con artigli cremisi.
Ora voliamo lui verso il cielo e io verso la terra
laggiù sotto la scala che mi aspetta:
un lembo ancora senza colore, ma con muschio e pietre
un continente inesplorato.

È un bene che vacilla.

Il cielo chiude il corvo.
La pietra mi scricchiola sui passi un’orchestra di ghiaia.
inghiotte parti di me. Rode i talloni.

Pier Luigi Bacchini

Mappa dei voli

Quando gli astronomici migratori atterrano –

e intersecano i transiti
sulle geografie primaverili

e le scheletriche cicogne trovano posto
sulle pagine dei tetti
tra i fastidiosi battiti dei loro stecchi,
come femori di gru
con scricchiolii vocali,
allora anche i vocianti cigni s’adunano
con disperazione di urli
e di versi inconcludenti
e pieni di echi:
desolazioni, –
e resta un pianeta disabitato, con specchianti
solitudini di fiumi
e foreste estreme. Nell’attesa

del necessario compimento:
di chi mirabilmente se ne renda conto.
Ma tutto poi è stato depredato.
scavato, dal dispositivo degli istinti,
dall’alluminio degli uffici.
E hanno affumicato le nubi –
e imprigionate nelle stie
tutte le cangianti squadriglie delle oche

– e lo svasso dell’Oregon
in coppia
come ballerine stilizzate –
coercite
dalle linee primordiali.

Come la sterna costretta
nella piccola patria astrale, e quella pescatrice, la sula

che è sempre come un sasso
verticalmente scagliato nel mare.

.
Maria Clelia Cardona

A Elio

Non parlerò di poesia in questo biglietto augurale,
Elio, talvolta coperto di nubi, però mai piovoso,
mai autunnale, piuttosto custode di una luce primaria
che irradia calore, parole che nutrono germogli, luci
accese sulle acque terrestri, musica che vibra nell’aria.

A distanza i sensori captano tempeste magnetiche,
ombre, zone di solitaria, raccolta cura.

Non parlerò di poesia nel mandarti un augurio
che pure la sottintende e la include –
per le tante condivise passioni, per l’eloquenza
del tacere, per il parlare quanto tutti tacciono,
per un gelido divertito notturno aspettando l’Aci,
per il prossimo libro di cui vorrai
farci dono.

.
Maurizio Cucchi

Il marinaio scende nella botola
con uno straccio, fischiettando,
e dal fondo si alza subito un rumore
assordante di macchina. Poi ricompare,
si aggiusta il berretto sulla fronte
e guarda l’orizzonte, indifferente.
Sa già che presto si rivedrà il paese.
gif-women-colored

Milo De Angelis

Un’assoluta
gioia ci ha mancati
per un soffio
e ora precipita
tra due pareti, attimo
separato dal suo nucleo
e foglia moribonda, annuncio
di una volta sola: così
siamo stati vicini
al grido, nel cuore
buio dell’estate,
così ci lasciamo.

.
Roberto Deidier

Quindici giorni soltanto ed eravamo
Ancora sotto il cielo del raccolto –
Su assi di legno rozzo non marciva
L’allegria della mezza estate
Protetta dall’ala scura della notte.

Si sono addensate le stelle
Di Agosto, un lampo ha squarciato
L’illusione di quel tetto sicuro,
L’aria ha ceduto il suo spessore
Ai limpidi contorni di settembre.

Adesso la pioggia è rada e insiste,
L’ombra della montagna scende rapida
Ed io so a quest’ora
Cosa muove i passanti verso casa,
Cosa ti bisbiglia il bosco.

.
Umberto Fiori

Tre poesie dalla serie «Voi»

È quasi vuoto lo spiazzo
sotto i piloni del cavalcavia.
L’ultimo camper mette in moto,
si accoda alla carovana: via, via.

Via, lontano. Che fretta. Non vi bastava
l’aria, la luce, la compagnia?
Sarà più bella, Forlì?
Sarà più allegra, Pavia?

Andate, senza voltarvi.

E io, qui.

*

Come vorrei obbedirvi,
zorri e fatine.
Fare onore alle zeppole, ai coriandoli.
Lasciarvi, lasciarmi correre.

Ma è troppo pieno
il bicchiere di spuma.

Laggiù, nello specchio, è
troppo nudo
quel muso di scimpanzè,
è troppo grande il costume
da moschettiere.

*

Vi ho salutato.

Ve ne siete accorti,
pezzi di merda?
E allora: rispondete.

Non ce la fate più
nemmeno a fare così con la testa,
nemmeno a sollevare – che ne so –
un braccio, un dito? Siete
malati, siete morti? No?

e allora alzatevi, su, venite.

Spacchiamoci la faccia. Niente più facce.
Chiudiamo i conti, stiamoci di fronte
l’ultima volta.
Poi, però,
che sia veramente finita.

(gennaio, 2006)
gif-marilynBiancamaria Frabotta

Sosti sulla riva senza svestirti
temendo il dio che porta il tuo nome.
Indovinarti bisogna sotto la camicia
abbigliato dentro l’ombra di stanze
che davvero non sanno come riempire
le ombre, incerte nelle pose della vita
per compagnia rimaste accanto a loro
o sospese ariette
sparse all’orizzonte
o nuvole pericolanti a rincorrersi
intere, gran parte di quel tempo
che occorre al sole per oscurarsi.

.
Mariangela Gualtieri

Ti ricordi quando abbiamo disceso il fiume camminando sui sassi? Quando ti ero alle spalle, dove il fiume era largo, io ti ho visto volare. I nostri passi più belli sono stati in quel punto. È solamente dopo che ci siamo bagnati le scarpe.

.
Jolanda Insana

ricominciare da zero?
incespica il porcospino e io galleggio
e il cargo delle illusioni d’è rovesciato
sul suo pennone nero
non voglio acqua non voglio aceto
non voglio verde non voglio cielo
il geco è andato in letargo.

.
Vivian Lamarque

Una lettera da Pennino nella casella?
Proprio da Pennino Sandro Penna? Allora
si scrive anche là? Nell’aldilà? Si raccomanda
di festeggiare Pecora per bene, gli ho scritto
tranquillo ci sta pensando Deidier,
mi ha scritto la festa dov’è? Gli ho scritto
ancora non lo so, mi ha scritto forse
verrò, gli ho scritto magari Pennino! Poiché,
in terra non c’è più nessuno lo sai?
come te.

.
Valerio Magrelli

Musica, musica,
che vuoi da me?
Quale perfido Claudio
mi versò nell’orecchio il tuo giusquiamo?
Sovrano spodestato e posseduto,
preda di questa febbre auricolare,
sento il veleno pulsare e mi chiedo:
«Musica, musica,
che vuoi da me?»

.

Renzo Paris

Maggio 1974. Nella libreria
di piazza di Spagna c’era
un commesso poeta. Parlava

sottovoce, si lagnava della
poca attenzione dei lettori
ai romanzi d’autore. Diventammo

subito amici, ridanciani,
duellanti, con Dario che voleva
scoronarci, noi amanti

della poesia antica: tu penniano
io corbieriano. Suonavi la
chitarra, cantavi canzoni

napoletane. Ti esibisti anche tu
al Beat 72 quando i poeti
della nostra generazione
attirarono l’attenzione dei
nottambuli romani. in sordina,
sobrio, letterato fino al midollo,

ci guardavi come garzoncelli
scherzosi. È cattolico chi
segue qualcuno, Elio e la

Bellezza se con conduce a Dio,
è opera del Demonio? Sono domande
insorte in coda a questi versi per i tuoi

settant’anni. Chi siamo diventati
in una goccia di tempo? Ci attendono,
quando la vita sembra ancora

tutta da vivere, terra e cenere. Vale
Elio, vale.

.
Antonio Riccardi

Acquarama

1.
Lo sai che il mondo intero, e dentro
ogni atomo per sé, contiene troppe cose:
più di tutto il siero e la viltà.

Sono troppo bella per perdere così,
per aspettare qualcosa da te…
hai detto baciandomi lentamente
nel chiaroscuro dei bambù.

2.
Lo vedi ho una vita friabile
sento i grani della polvere e dell’amore
vicino alla radice.
Lo so che vorresti restare
la ragazza che s’incanta
e che non perdo, per sempre
mai più…

Poco più in alto
trascinando stelle e paglia, il sole
portava nell’aria più dolce
nutrimenti e farfalle.

3.
Il nostro eroe era francese, o milanese,
sentiva il profumo della felicità
nelle stesse strade di Milano
dove adesso nevica la lana dei pioppi.

Sempre dopo la furia, ingrati
l’uno dell’altra, ti sento
vibrare di delusione
e sento il mio privilegio franare
la mia bella vita ossidarsi e finire.

4.
Guardiamoli nel filmino
i giorni lucenti del nostro avvenire
– l’idea che avevi dell’uomo perfetto,
di una bella casa, di una cucina moderna
di una vacanza sull’Isola dei gabbiani.

Lo sai, nei nostri piccoli affari
tu sei sempre la più severa…

.
Valentino Zeichen

1.
Elio mantiene le distanze
dall’oscuro mondo interiore
quanto dall’intimismo deteriore.
Elio è un poeta filosofo
incline all’innesto interiore
d’un globo della filosofia
per schiarire le identità
dall’oscura profondità.
Lui canta cose mondane
le cui metafore hanno
parentele nell’aldilà,
delle quali si parla
senza mai nominarle.
Certi poeti si calano
nella caverna platonica,
altri rimangono all’aperto
e vi proiettano dentro
le ombre delle forme.
Elio è un proiezionista,
appartiene alla stirpe
dei poeti flemmatici
che scherzano filosoficamente
passando avanti e indietro
davanti alla caverna platonica.

2.
Quale sintetico scultore fonde
i sentimenti sfuggenti nella forma,
i suoi versi intonati hanno
un ritmo congeniale al cuore.
Il suo calco linguistico
imprime la mondanità
e il suo estro bizzarro insegue
il carro dei poeti latini;
contende loro il metro
nell’eterna fuggitività
dello spazio/tempo.
Suo è il neoclassicismo vivo
marmo che incarna il verso
e non diviene mai stucco.
Elio è infine poeta di poeti;
con garbo ci prende in giro
e per noi non è cosa da poco
essere privilegiati soggetti
dei suoi sfrecciati cammei.

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MARCO AMENDOLARA  (1968-2008)  POESIE SCELTE – La salvezza infinita delle parole – Scrittura e destino nell’opera poetica di Marco Amendolara  con un Commento di Mario Fresa

città in bianco e nero

città di sera

 Marco Amendolara nasce a Salerno il 17 ottobre 1968. Poeta, critico letterario e d’arte, traduttore di poesia latina. Laureato in Filosofia e in Lettere moderne, ha svolto un’intensa attività pubblicistica, collaborando a vari periodici e quotidiani, tra i quali Il Mattino, Il Giornale d’Italia, Caffè Michelangiolo e L’area di Broca. Tra i suoi libri di poesia: Rimmel, Extravagantes, Ravello 1986 (queste prime due opere come Omar Dalmjrò); Misteri di Seymour, Altri Termini, Napoli 1989; Fogli selvatici, con Ugo Marano, La Fabbrica Felice 1993; Stelle e devianze, La Fabbrica Felice 1993; Epigrammi, Nuova Frontiera, Salerno 2006; La passione prima del gelo (auto-antologia di poesie e traduzioni, Ripostes e Marocchino blu 2007); L’amore alle porte, Plectica & Bishop, Salerno-Giffoni Sei Casali 2007; La bevanda di Mitridate, Marocchino Blu 2008. Muore di sua volontà, a Salerno, il 16 luglio 2008.

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Commento di Mario Fresa

Marco Amendolara ha vissuto come uno straordinario viandante della parola: poeta tragico e adamantino, saggista di rara e luminosa intelligenza, frequentò la scrittura con un’anarchica e selvaggia inquietudine, impaziente e poliedrica, remota le mille miglia da ogni accademismo cattedratico. Poeta, innanzi tutto, abbiamo detto: silenzioso e lontanissimo, certo, dai luoghi delle vetrine dei reading e dei festival e, in generale, dalle cabale dei poeti laureati; studioso puntuale e brillante, fu più volte rifiutato dall’ambiente universitario, le cui arroganti e mafiose combriccole gli negarono l’accesso come docente, preferendogli patentati somari, immersi in un’ignoranza e in un cretinismo inenarrabili. Marco si offriva agli altri col dono di una tenerezza senza pari: sembrava, nella sua chiara trasparenza di uomo indifeso e generoso, una magica creatura precipitata suo malgrado, e per isbaglio, in una terra estranea, sorda e inospitale. La sua disarmante impreparazione alla pesantezza della vita comune lo aveva spinto sempre di più a rifugiarsi nelle fantasime dolci della scrittura.

Persisteva, certo, in lui, un’amarezza profondissima, ogni volta che registrava la meschina disattenzione che la sua città (dico le sue istituzioni “culturali”: in primis l’ateneo, e poi le varie fondazioncine, le case e casupole della poesia, le gazzette locali, eccetera eccetera) sprezzantemente gli mostrava; disattenzione che oggi si è tramutata, com’era prevedibile, in tardiva e ipocrita glorificazione. Dopo l’esordio poetico assai precoce, Amendolara pubblica pochi versi; ma legge molta, moltissima poesia, soprattutto novecentesca, e la analizza con un acume critico eccezionale.

Marco-Amendolara-visto-da-Anna-De-Rosa 2004

Marco-Amendolara-visto-da-Anna-De-Rosa 2004

Nel 2005 stampa – quasi timidamente, presso un editore semiclandestino – un volumetto di testi intelligentemente concisi e affilati, dal titolo Epigrammi. C’è una durezza acuminata e ferma che si esprime nella forza implosiva di questi versi; da essi emerge, incontrastabile, la visione della ostinata crudeltà di un mondo che, insensibile e inerte, non vuole e non sa rispondere al disperato richiamo di ascolto del poeta. Il tempo e la sua vanitas, il suo discendere nell’abisso interminabile della nullificazione, e il folle desiderio di essere, una volta per tutte, fuori dalla ragna imprigionante del tempo stesso, costituiscono i temi e i motivi costanti della breve e intensissima silloge: «lo specchio diventa vecchio, / riflettendo una gioventù enigmatica, / mentre gli altri / si affannano a contare / le tue primavere»; ma vi è pure ritratta, con una impagabile ironia, la patetica schiera dei piccoli finti intellettuali, indefessi carrieristi e galoppini, affatto privi di ritegno, che Amendolara ben conosceva e derideva. Altri versi, invece, tolta la maschera dolce e amara del sarcasmo e dell’ ironia, si aprono sulla pagina come improvvise esplosioni di un’estenuata dolenza: e suonano come un’acuta condanna, irredimibile e totale: «quando vedrai il corpo / da una parte e la mente dall’altra, / il sangue sarà uscito assolutamente, / rimarrà solo uno spettro, / saprai che non c’entravi niente, / che la questione era tutta interiore, / e mi perdonerai.»  

In questi Epigrammi sono incise parole violentissime, che nella quotidiana gratuità del comune linguaggio accomodante noi spesso dimentichiamo e non vogliamo pronunciare: e cioè «sangue, «svanire», «scomparire», «nulla», «freddo», «crudeltà». Leggerle, intenderle, viverle profondamente significa disperare, schiantarsi, rovinare. La mattina di mercoledì 16 luglio del 2008, Marco continua a chiedere a se stesso dove andare, e in nome di quale amore sia giusto continuare a illudersi della felicità dell’esistenza. In un attimo si abbandona, con una dolce violenza, e apprende a essere nomade e nessuno, per sempre.Sceglie la morte e cancella, in un istante, le larve speciose dei suoi sogni.Lascia inedita una raccolta, Il corpo e l’orto, che i familiari danno alle stampe nel 2014 presso La Vita Felice (la pubblicazione è inficiata, però, da una brutta postfazione di Renzo Paris, assai modesta sul piano critico e scioccamente autoreferenziale). In questo nuovo libro estremo, il soggetto retrocede e si annulla, offrendosi in sacrificio alla crudele rilevanza di una realtà impenetrabile e bruta, e ingaggia un’insostenibile lotta a corpo a corpo con la propria identità e con il mondo che lo circonda e che lo assedia. Amendolara registra: «Coincidi veramente con il tuo corpo, / o sei altro, sei in altro, / e non lo sai?». È la scrittura stessa a diventare immagine di un’alterità che scompone e sconvolge l’identità e il soggetto. La natura immensa precipita nell’infinitesimale spazio del singolo io. Il corpo diventa l’orto che l’ospita, che senza sosta alcuna concima se stesso, e che infine lo consuma.

È un io ch’è pronto ad accogliere, fin dalla nascita, il gelo finale di un desiderato inabissamento, di un freddo eterno e inconsumabile che insidia già «tessuti, giunture, l’intera presenza / umana» e che poi consegna il corpo, misero specchio di crudeli lusinghe, alla pace del «sonno» o dell’«ascensione», facendogli assumere «una dignità oggettiva, /intoccabile, quasi un esempio / di body-art, senza piacere di finzioni». L’esercizio della graduale destituzione di sé, vera meta della scrittura poetica, appare dunque, ora, compiuto. Quando il poeta s’identifica con il suo corpo, smarrendosi in esso, giunge a coincidere, e a confondersi, con il nulla: istante miracoloso, questo, nel quale si discioglie, fino a sparire, l’«ombra delittuosa» che da sempre, con dolore, lo insegue e l’imprigiona.

Bello Giacomo Costa città immaginaria

Giacomo Costa, città immaginaria

Poesie scelte di Marco Amendolara

Un’orrenda pioggia di isotopi
Colpisce violenta i giardini
e gli orti.
Nell’ombra avvengono mutazioni:
la natura si apre come
un fiore velenoso,
colori venèfici si spargono
in ogni dove; noi stessi,
ormai entità prenatali,
ridotti a oggetti mostruosi,
perduta anche la paura…
*

Il pozzo, un antispecchio
che non vuole conoscere
il tuo volto.
Almeno, non quei lineamenti
che tu aspetti riflessi.
Come quando la terra
viene scavata, mai guardare
dentro, troppo tardi
uno si ritrae.

*

Quando non hai corpo ti conosci meglio,
scorre e dice l’acqua
mentre si specchia in te;
quando non sei corpo
susciti ogni meraviglia
e, meravigliato, sei sbigottito
della conquista.
La natura ti annulla, è niente,
e tu sei natura.

*

Dietro il giardino, lì
Non ci vedono.
Mi fai mancare il respiro;
non è una colpa,
vorrei che accadesse anche a te, ma dolcemente,
non come un’asma che spaventa.
E intravedi, dalle pozzanghere,
un’immagine accesa
che appartiene a chi ti parla.
Prima il volto era bruno o grigio;
adesso tu hai colorato di rosso
gentile, innocente,
le vie del corpo
e sento cambiare di me le tinte.
Con lui, con altri lui,
compivi una simile magia?
(Allontana ogni voce,
con tenerezza impedisci la bocca…)

*

Vorresti abbandonare il corpo
rimanendo in vita, adesso che fiamme
maestose, misteriose insidiano
ogni capillare, ganglio, fibra
e consumato il senso della gioventù
avanza inequivocabile, odiata e necessaria,
la maturità.

*

Tutto questo freddo da quando
sei nato; forse è la fine
che viene a liberarti, si spera
nel segno della salvezza.
Per il resto, conviene fingere
ogni smargiassata, adottare
comportamenti da gaglioffo,
per illudersi che questa misera
presenza non scompaia del tutto.

Marco Amendolara

Marco Amendolara

Il gatto, astratto nel paesaggio lunare;
solo, un uomo, lungo un sentiero
dove ogni cosa sembra straniata,
lui per intero, anzi immerso
così completamente nel paesaggio,
da essere unito a quello e indistinto.
Guazza, orti, batraci, giardini,
cavolaie che si attardano sulle verdure;
e tu, dissolto, cenere,
tu stesso orto.

*

Il corpo diventò rosso, febbrile,
e ogni pensiero svanì nel delirio.
L’ossessione era sopravvivere,
con l’inferno che bussava,
orribile come si dipinge.

*

Fu quella sola volta,
seduto al tavolo,
che avesti la sensazione
di vivere sempre,
finché il vino rimase
nel bicchiere.
Dopo, un sapore di ferro
e di sangue invase la bocca,
ti assediò,
e i fantasmi continuarono
una losca frequentazione.

*

I pronomi si rimpiattano in un vortice d’ombra,
in abisso,
e non sai più con chi parli,
se parli,
anche se uno specchio
conforta e ammonisce.
orribile come si dipinge.

(Rimmel, 1986)

I

Lentamente
scrivo sulla sabbia lievemente
con dita poco appuntite, dolcemente,
(par délicatesse) forse, scrivo
parole di cenere per farmi intendere
con più certezza di morire

XX

Le mie poesie si compongono di odii
uccidendomi stratagemmi di delirio,
cripta che vede in pezzi un’eleganza rara
una fine di stelle

XXII

Alla settima coppa
Babilonia si apre di lilla,
e grandi effluvi sprigiona;
(macabra fine, dipinta di
bianchi veli)
con i miei occhiali da sole
varco le mura…

(Seymour, 1989)

Dopo un incendio di parole
Bisogna che le stelle
Invitino il poeta a riposarsi.
Nella cenere del sonno
Le palpebre si socchiudono,
Il sogno prende ali di rosa
Diviene fiore e sigillo
Del giorno venuto e venente.
Nella Venere del cielo
Gli occhi riconoscono
La propria struttura acquea,
E si chiudono nel bianco
Di nuove ipotesi
(I guanti rosa di Baudelaire
Sono un’altra meraviglia del mondo).

*

Il non detto è la prigione della lingua
E le superfici róse, le apparenze
Che non ingannano, si fanno
Come niente specchi del destino.
Nell’enigma degli occhi il poeta
Diviene esteta, profeta degli dei
Fedifraghi del proprio essere.
Nello schianto delle tempie,
Emozione che il cielo non contiene,
Celato il filo d’oro si dipana,
Crea nella mente nuovi magmi.
E’ nostro augurio
Che il vestibolo sia questo.

*

Fine e perversione
Di alcool o follia
E’ scheletro
Di questo libretto: canto, allegoria,
Reliquario di muse alchemiche,
Delirium tremens, magico scontro
Di machinae angelo rum.
Malgrado il pensiero decadente,
La vanità gola di vita e di lussuria,
Tutti gli angioletti di questo mondo,
I micini, le pantere e le ragazze
Sanno
Che la rarefazione dei cieli
Non scompare
Né finirà
Grazie a bestemmie o a radiazioni.

(Stelle e devianze, 1993)

foto casa in disordine

Fantasmi (1)

Chiamare amico se amore non è aprire
perché una parola è tutto e tu sei
maestro di gesti, un lungo fuoco orientale
a notte, portatore di fiori,
non avrai altro corpo che quello
e basterà per sempre,
nessuno troverà il nome.

Fantasmi (3)

Quello che scrive, per quanto si sa,
potrebbe essere anche lì a bere birra
o a leggere l’ennesimo poeta francese.
O un servo, un attore col sigaro acceso.
Insomma un cadavere quanto altri
pronto all’incendio alla forza pregante
in cerca di messaggi senza parole
tutto consumato nel buio dell’indecenza.

Fantasmi (4)

Fra le docce non ogni scherzo
è permesso perché l’energia
va sempre conservata per disegni
migliori dice l’acqua che scende
su un corpo di bagnoschiuma,
mentre l’ombelico parla una nuova
lingua, verticale quest’altra,
ascensiva, come un viaggio
di bicicletta fra prati
quando la stagione invita al grido
e alla licenza.

A Barbara

Ma i giorni si sono rinnovati nella ricerca,
e più vicini agli angeli perché più umili
i corpi sembrano contenti di vivere
e di bere, ameranno scardinare porte,
chiedere un po’ di celeste sui soffitti;
poi, senza fare baccano in lettura,
suggerire a chi più gli piace i versi
di uno che dice:
“E quanta voglia ho di lasciarmi andare,
di fare un po’ di chiacchiere, di dire la verità,
di mandare lo spleen alla nebbia, al diavolo, alla forca,
di prendere qualcuno per mano e: Sii gentile,
dirgli, visto che andiamo per la stessa strada…”

A Guido

In incendio dal centro un corpo
è chiamato alla lotta, fra veglia
e veglia, fra sosta e sosta,
sotto la pioggia, in gara,
accanto alla forza delle parole,
nel vino, nel vivo, fra rosso e gelo,
fra amici nel grido o nel buio
una voce giusta chiamata in silenzio
lo sguardo.

*

Esodo

Non è come voce scrittura è più santa
e puttana è di chi legge o riscrive
è di chi in parola e in sguardo vive
le indecenze e le stelle, le forze
che il centro di me hanno aperto
alla fuga.

(1993)

Mario Fresa per L'Ombra

Mario Fresa

Mario Fresa è nato nel 1973. Ha compiuto gli studi classici e musicali e si è laureato in Letteratura italiana. Oltre a indagini sulla cultura della traduzione letteraria, si è dedicato alla poesia italiana e francese dell’Otto-Novecento. Come poeta esordisce nel 1999, presentato su «Specchio della Stampa» da Maurizio Cucchi. Altri suoi testi appaiono nell’antologia Nuovissima poesia italiana(Mondadori 2004) e su varie riviste, tra le quali «Caffè Michelangiolo» (n. 3, 2003), «Paragone» (n. 60-61-62, 2005), «Nuovi Argomenti» (vol. 45, Mondadori 2009). È del 2002 la raccolta prefata da Maurizio Cucchi Liaison, cui fanno seguitoCostellazione urbana («Almanacco dello Specchio» di Mondadori, n. 4, 2008), il poemetto Alluminio, con la prefazione di Mario Santagostini (2008) e Uno stupore quieto, introduzione di Maurizio Cucchi (La collana, Stampa, 2012). Un’anticipazione della sua nuova raccolta poetica è apparsa sul n. 16 di «Smerilliana» (2014), con un saggio di Valeria Di Felice. Collabora a riviste e a quotidiani e cura la rubrica Sguardi sul periodico «Gradiva. International Journal of Italian Poetry», di cui è redattore.

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POESIE di Carlo Bordini “Poema a Trotzky” da I costruttori di vulcani – Tutte le poesie 1975-2010, Luca Sossella, 2010 pp. 490 € 20 e “Formaggius” (inedito) con un Commento di Giorgio Linguaglossa

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Carlo Bordini è nato a Roma, dove vive, nel 1938. Ha insegnato storia moderna presso l’università di Roma “La Sapienza”. Ha pubblicato diversi libri di poesie. Tutte le sue poesie fino al 2010 sono state raccolte nel volume: I costruttori di vulcani – Tutte le poesie 1975-2010, Luca Sossella editore. Può essere acquistato su Amazon (cliccando Amazon Carlo Bordini) o chiedendolo all’editore. (cliccando Sossella Bordini). Ha pubblicato in inglese l’e-book di poesie Gestures, e in tedesco l’e-book Gedichte. Due volumi in francese sono stati pubblicati dall’editore Alidades, e altre poesie sono presenti sul sito Dormirajamais di Olivier Favier. Recentemente, per Kindle edizion, è apparso l’e-book Epidemia.

In rete, tra l’altro, un’antologia in e-book gratuito,http://www.poesia2punto0.com/2011/09/11/carlo-bordini-quaderni/   una versione alternativa del poemetto Polvere, http://issuu.com/poesia2.0/docs/quaderni_-_bordini_polvere

alcune poesie inedite, https://moltinpoesia.wordpress.com/2013/05/22/gli-altri-ulisse-n-16-sulle-nuove-metriche/, https://moltinpoesia.wordpress.com/2013/05/22/gli-altri-ulisse-n-16-sulle-nuove-metriche/, http://www.leparoleelecose.it/?p=16059, http://www.nuoviargomenti.net/poesie/arti-marziali/

È di prossima uscita un volume di poesie in spagnolo, Polvo, che uscirà a Lima per l’editore Lustra. Ha pubblicato, in prosa: Pezzi di ricambio, Empirìa (racconti e frammenti). Manuale di autodistruzione, Fazi. Gustavo – una malattia mentale (romanzo), Avagliano. Ha curato, con altri, Dal fondo, la poesia dei marginali, Savelli, ristampato da Avagliano; e Renault 4 – Scrittori a Roma prima della morte di Moro, Avagliano. Uscirà tra breve, con Luca Sossella, il romanzo Memorie di un rivoluzionario timidowww.carlobordini.com/

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Il tratto caratterizzante della forma artistica del Moderno va individuato, secondo Foucault in quell’opera fondamentale che è Les Mot et les choses, nel concetto di Rappresentazione (Darstellung) attraverso la diagnosi di Las Meninas di Velazquez. Il problema sta in questi termini, nel fatto della rappresentazione dello stesso atto della rappresentazione: «pittore, tavolozza, grande superficie scura della tela rovesciata, quadri appesi al muro, spettatori che guardano; da ultimo, nel centro, nel cuore della rappresentazione, vicinissimo a ciò che è essenziale, lo specchio, il quale mostra ciò che è rappresentato, ma come un riflesso così lontano, così immerso in uno spazio irreale, così estraneo a tutti gli sguardi volti altrove, da non essere che la duplicazione più gracile della rappresentazione».
Tutte le linee del quadro convergono verso un punto assente: vale a dire, verso ciò che è, a un tempo, oggetto e soggetto della rappresentazione. Ma questa assenza non è propriamente una mancanza, è piuttosto quella figura che “nessuna” teoria della rappresentazione è in grado di contemplare come proprio momento interno. La caratteristica della rappresentazione alle origini del Moderno sta dunque nel fatto che il soggetto della rappresentazione, il produttivo “fuoco” che la sorregge, le sue coordinate, si colloca al di fuori della rappresentazione stessa.
L’absentia segnala dunque in Foucault la chiusura di ogni representatio. Nessuna teoria della rappresentazione è, in quanto tale, in grado di includere nel suo circolo il Soggetto-sostegno della rappresentazione. L’osservatore, per cui la rappresentazione è allestita, non può osservare se stesso, ma solo il suo simulacro, o, come in Las Meninas, la sua immagine riflessa nello specchio.
La forma-poesia dell’età moderna rientra in questo schema epistemologico: il soggetto viene ad eclissarsi, viene detronizzato della sua presunta centralità e la sua visione diventa strabica, eccentrica, parziale, s-focata, fuori fuoco, fuori gioco, insomma, non è più centrale, ha perduto la sua centralità… ma questa intrinseca debolezza del soggetto, della centralità del soggetto, invece di rivelarsi una debolezza ontologica può, paradossalmente, riabilitarsi in una nuova volontà di potenza, in una nuova messa a fuoco del problema della rappresentazione e del soggetto che sta al di fuori di essa. In una parola, in una continua de-angolazione prospettica tipica delle moderne (o meglio post-moderne) forma-romanzo e forma-poesia.

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È proprio il concetto di de-angolazione prospettica quello che vorrei mettere a fuoco nella poesia di Carlo Bordini. La de-angolazione prospettica è quella strategia di messa in opera di un testo letterario che ha un inizio ma non una fine, non solo, ma che all’interno dello sviluppo del racconto non si dà un filo conduttore stabile ma un susseguirsi di punti di vista, di angolazioni prospettiche che confluiscono in un sistema di scrittura, appunto, caratterizzata dalla de-angolazione prospettica; particolarità costruttiva che investe sia la forma-poesia che la forma-narrativa odierne.  Caratteristica della poesia di Bordini è il suo procedere per «tagli» del soggetto e della «materia» (e successivo montaggio dei «tagli»), per dis-locamento dell’io parlante, per «lapsus» dell’io, per «sviamenti» e «deviazioni» dall’ordito principale del discorso; c’è insomma, un clinamen che va a zig zag, di qua e di là, che porta il discorso poetico attraverso continui deragliamenti di senso e di direzioni, quasi che il senso, se senso c’è del discorso dell’io, fosse possibile afferrarlo soltanto tramite una serie continua di deviazioni e di smarcamenti dal filo del discorso, mediante illogicismi, inserzioni di onirismo, di surrealtà, di abnorme, di cronaca, di lacerti del quotidiano, di relitti linguistici che galleggiano in un mare di prosasticità. Ecco spiegata la ragione profonda del prosasticismo dello stile di Carlo Bordini (oltre ad essere l’opzione prosastica una difesa contro ogni di sospetto di inautenticità del discorso): da un lato il desiderio di forgiare un discorso poetico che sia anche politico perfettamente intelligibile e diretto che raggiunga il lettore nel più breve tragitto possibile, dall’altro, dalla esigenza di smarcarsi da una lettura prosastica attraverso una continua serie di s-marcamenti e di fuori-questione, di tematismi apparentemente estranei all’ordine del discorso. Ciò che fa questione in un testo di Carlo Bordini è il fuori-questione, è il suo modo peculiare di attingere l’indicibile del discorso ma con una strategia materialistica ottimamente mirata, aliena dalle suggestioni di figurativismi impropri e inopportuni. L’ironia di Bordini non è mai esterna al dettato ma è interna, intrinsecamente agganciata agli enunciati delle tematizzazioni poetico-politiche, una ironia che investe il quid di inautenticità della «materia» trattata. Di qui una poesia militante, caratterizzata dalla attenzione al referente, e comunque apparentemente distante dalla figuratività e dall’impiego di retorismi. Tuttavia, a ben leggere, si tratta di una scrittura sorvegliatissima, attenta alla efficacia dei parametri retorici che pur utilizza ma come in sordina, senza darlo a vedere, quasi sottogamba e in modo incidentale.

Trotsky

Trotsky

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Carlo Bordini è nato a Roma nel 1938, fa parte di quella generazione di poeti romani o romanizzati come Valentino Zeichen, Patrizia Cavalli, Renzo Paris, Dario Bellezza, Luigi Manzi nati rispettivamente, il primo a Fiume nel 1938, la seconda a Todi nel 1947, il terzo a Celano nel 1944, il quarto a Roma nel 1944; il primo esordisce con Area di rigore (1974), la seconda con Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974), il terzo con Frecce avvelenate (1974), il quarto con Invettive e licenze (1971), il quinto poeta, Luigi Manzi nasce a Morlupo e pubblica su Nuovi Argomenti nel 1969 e in volume nel 1986 La luna suburbana. Si tratta di poeti caratterizzati (tranne Luigi Manzi) da uno scetticismo nei confronti della poesia, che si avvalgono di un «riduttore» stilistico e mitopoietico, che demarcano un nuovo tipo di poesia che fa proprio il prosasticismo, il ritorno al privato, al domestico, all’ironia, ad una oggettistica desublimata e corriva, ad ambientazioni urbane e familiari, tutte tematizzazioni fortemente distaccate e scettiche rispetto alle problematiche fortemente impegnate nella letteratura tipiche delle precedenti generazioni: Zanzotto, Ripellino, Pasolini, Bigongiari,  Libero De Libero etc. Paradossalmente, il più anziano tra questi poeti è proprio Carlo Bordini, e si può dire che è grazie a questa sua anteriorità che egli è rimasto libero di sottrarsi alla sproblematizzazione tematica e stilistica della generazione che immediatamente lo segue mantenendo un tono fortemente critico nei confronti dei processi politici di modernizzazione del paese e nei confronti delle modernizzazioni stilistiche che la generazione a venire metterà in atto. Inoltre, Bordini vive in pieno la contestazione del ’68, fa proprie le istanze di opposizione radicale associandosi per dieci ad un gruppo trozkista. Durante questo periodo Bordini non si occupa né di poesia né di letteratura, rigetta in toto la scrittura letteraria. Quando la riprende sono ormai trascorsi dieci anni, il paese è cambiato, siamo agli esordi della restaurazione craxiana degli anni Ottanta in pieno mito di crescita economica e della società dell’affluenza. Si può spiegare così, in grandi linee, la sua relativa «solitudine» e la strada tutta in salita che Bordini si è trovato a dover affrontare per via della sostanziale difficoltà di ricezione della sua poesia in un quadro di sensibilità che prediligeva storicamente un tono diminutivo, blasé, scettico, ironico e aniconico, che optava insomma per un riduttore stilistico. E siamo arrivati alle propaggini iniziali di quello che sarà il minimalismo della poesia romana che egemonizzerà il modo di intendere la poesia nella capitale negli anni seguenti fino ai giorni nostri.

Ricorda il prefatore del volume I costruttori di vulcani Tutte le poesie 1975-2010 di Carlo Bordini, Francesco Pontorno, che «il primo ad accorgersi di Bordini fu Enzo Siciliano. Il critico, in un articolo del 1975, discorreva della nuova generazione di poeti, credendo che Bordini fosse molto giovane. Ma Siciliano era nato nel ’34 e Bordini è nato nel ’38». L’equivoco fu favorito dalla lettura giovanilistica dei versi di Bordini, quando invece era chiaro che si trattava di un autore letteratissimo che consapevolmente abbassava il piano del lessico a livello della prosa e lo stile ad un gradiente minimo di tonalità enfatica.

La poesia che presentiamo, «Poema a Trotsky» è tipica del modo di procedere di Bordini. Trotsky viene presentato in parallelo alla storia dell’Autore, entrambi perdenti ed entrambi passati alla storia per motivi diversi ma uniti, appunto, in quanto perdenti. Perdente Trotsky al pari del campione di scacchi Aleckin, campione del mondo degli scacchi ma perdente in vita. Appunto come l’Autore. Le storie di Bordini, sono storie a perdere, i suoi personaggi, sono tutti personaggi a perdere, che hanno perso, e che perderanno, sono personaggi che non sanno far altro che perdere. E questa è la loro vittoria.

 

Trotsky

Trotsky

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da Carlo Bordini I costruttori di vulcani – Tutte le poesie 1975-2010, Luca Sossella, 2010 pp. 490 € 20

Poema a Trotsky

E cosa avrai mai pensato
ucciso dai tuoi stessi fratelli
braccato dai mitra proletari
un sapore di dolce e d’amaro
un sapore di sangue in bocca
che cosa mai avrai pensato degli uomini
se pure hai pensato Leone Trotsky

Nel 1918 Trotsky era a capo
dell’esercito rosso. Aveva dovuto organizzare,
come è noto, un esercito dal nulla.
Aveva organizzato una cavalleria fatta da
operai,
utilizzato lo spirito patriottico di molti ufficiali
zaristi,
organizzato l’azione di bande che agivano isolatamente,
ecc. Aveva dovuto
essere furbo, astuto, spietato, e
lungimirante.
Seppe che Aleckin, campione del mondo di scacchi,
e uno dei più grandi genii, del mondo degli scacchi,
grande maestro internazionale,
era in prigione a Mosca.
L’andò a trovare e lo sfidò
a una partita.
Aleckin, timoroso, cominciò
a giocar male.
Trotsky gli disse: se perdi,
ti faccio fucilare.
Fu l’arroganza di satrapo
o l’esaltazione della lotta
a suggerirgli questa frase indubbiamente ironica?
Aleckin voleva perdere?
Trotsky voleva forse perdere?
Entrambi volevano forse perdere?
Mi ha sempre colpito questo incontro
tra lo stratega e lo scacchista
come la partita a scacchi tra il cavaliere
e la morte
(c’è un bellissima fotografia di Tito
che gioca a scacchi).
Trotsky voleva perdere?
La sua anima ebrea concepiva già
il terribile esodo?
Aleckin vinse. Poco più tardi
fu liberato ed emigrò a Parigi.
Fu campione del mondo
dal 1927 fino a poco prima
della morte. Si suicidò nel
’46, accusato
di collaborazionismo coi tedeschi.

Carlo Bordini

Carlo Bordini

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Nella mia gioventù sono stato
trotskista per molti anni. (gli anni migliori). Soggiacqui
al fascino di Trotsky,
uomo sconfitto.
Soggiacqui a questa angoscia della sconfitta
a questo fascino dell’angoscia della sconfitta,
quest’uomo sconfitto,
doppiamente sconfitto,
Io studente soggiacqui.
Quest’uomo nobile e dolente,
e insieme forte,
io che ho avuto un padre
generale, e fascista, e non molto affascinante,
Soggiacqui.
Ora ti rivisito
e vedo me stesso.
La tua ferocia purificata dalla morte,
Fosti un padre
pulito,
un esempio,
una figura nobile,
Un guerriero
che sa morire.
Io che non sapevo assolutamente che fare della mia vita,
scelsi la tua morte
permeata di intelligenza.
Tu, intellettuale ebreo radicale,
pedante,
cristallizzato e andato in briciole,
padre dolente
nuovo Gesù e Cristo.
Il fascino del martirio
m’ipnotizzò studente.
Mi affascinò l’uomo tagliente,
quasi pirandelliano,
capace di esprimersi
in frasi lapidarie,
“Né pace né guerra”
“Proletari a cavallo”.
Come tanti anche tu morivi per gli altri
nobile cavaliere
anch’io ho mangiato un pezzetto di te.
Troppo velenoso è il tuo nutrimento.
Uomo dall’equilibrio
sempre spostato in avanti
in moto incessante
forse volevi cadere (in avanti).
E il bello era che avevi ragione
o almeno avevi in gran parte ragione.
Mi rannicchiai nella tua ragione, perché avevi ragione,
ma tanto, era ormai una ragione sconfitta, e così,
vivevo nella parte di dietro della storia, e stavo comodo.
Nessuno poteva disturbarmi. Tanto ormai tu eri morto.
Io avrei dovuto aspettare ancora qualche diecina d’anni per morire
e intanto mi tenevo la ragione. Studente, decisi così.
Eppure la tua razionalità radicale era eroica
comodo vivere dell’eroismo altrui. Così morii vivendo.
Poi rinacqui. (Non potevo rinascere se prima non morivo). dalla tua morte
cosa rinasce? Nulla. Una sola frase, una sola
parola,
“O socialismo o barbarie”. La ragione sconfitta ha la sua rivincita.
[Rivincita orribile, tragica rivincita, tragica consapevolezza, ] annichilante
profezia. Vissi grondante di morte, sapendo quello che sarebbe
venuto, ed ora che la barbarie
dilaga, e il tuo ottimismo cade,
non cade la tua intelligenza. Intelligenza sterile. È vero: o socialismo
o barbarie. La barbarie dilaga,
o socialismo o barbarie. Io lo sapevo e fingendo
ottimismo rivoluzionario
contemplavo la catastrofe della Storia.
Forse volevo perdere anch’io, come la storia che ho raccontato,
che non so se è vera,
ma mi ha affascinato
Trotsky, capo dell’esercito rosso, sfida il
campione del mondo di scacchi, entrambi
vogliono perdere, entrambi perdono, finiscono
tragicamente, ma che bello,
che bello scegliere la parte perdente, morire per procura
attraverso
gli altri,
suicidarsi in effige
(in quel periodo avevo pensato al suicidio come possibile
strategia
del mio senso di inutilità)
e poi incontrai l’articolo di giornale che parlava di questa
partita a scacchi
e ne fui
affascinato
adesso sono molto diverso da quando ho cominciato questa
poesia
so molte cose
e tante altre poi che non sono scritte qui
in quel periodo c’era anche una ragazza bionda un amore sfortunato
ho giocato troppo coi sentimenti degli altri
Non è vero: vissi una situazione di millenarismo,
per questo vi rimasi tanto tempo.
in questo mondo che scade verso la barbarie

.
Formaggius

Finita è l’illusione dell’amore:
ci ritroviamo, Egidio, con le nostre miserie
di tutti i giorni,
compagne care nostre, familiari
ai nostri lunghi pomeriggi vuoti.
In frotta ci vengono incontro, le riconosco tutte:
hanno il sapore dei ricordi, sono
noi stessi.
Siamo tornati a casa, apriamo le finestre:
su, riconosci, guarda, la poltrona, il tavolino,
e gira per le stanze ancor deserte, spalanca
le finestre: siamo a casa!
Guarda lo studio, guarda
la camera da letto, ancora intatta come la lasciasti, guarda
tutta in disordine, con la chitarra sopra il letto,
che strano, guarda
il libro che leggevi quando partisti,
sul tavolino ancora…
Siamo sinceri con noi stessi:
questa è la nostra vita.
Ora si cena, poi si gioca a carte,
e poi stasera penseremo forse
alla villeggiatura ormai lontana.
– Strano, soltanto ieri… –
Alla villeggiatura bella e artificiosa che si chiama amore.

(Inedito)

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POESIE di Guillaume Apollinaire (1880-1918) da “Bestiario o il corteggio d’Orfeo” (1911) a cura di Giorgio Linguaglossa Commento di Renzo Paris

apollinaire par marie laurencin

apollinaire par marie laurencin

 Guillaume Apollinaire, pseudonimo di Wilhelm Albert Włodzimierz Apollinaris de Wąż-Kostrowicky nasce a Roma il 25 agosto del 1880 e muore a Parigi nel 1918, figlio naturale di Francesco Flugi d’Aspermont, un ufficiale svizzero che non lo riconobbe mai, e di Angelika de Wąż-Kostrowicky, una nobildonna polacca. Si trasferisce con la madre in Francia giovanissimo. Ha una adolescenza instabile e disordinata, trascorsa tra vaste letture e numerosi viaggi e studi non regolari. Conosce e frequenta artisti d’avanguardia a Parigi, tra i quali anche i poeti Ungaretti e Max Jakob e il pittore Pablo Picasso. Partecipa alle discussioni sul cubismo in gestazione e, nel 1913, scrive un saggio su questa scuola artistica. Allo scoppio della prima guerra mondiale, sceglie di arruolarsi come volontario, definisce la guerra “un grand spectacle“. Nel 1916 viene ferito a una tempia e subisce un difficile intervento chirurgico. Diventa famoso come critico militante dei movimenti d’avanguardia di quegli anni: il futurismo e la pittura metafisica diDe Chirico.

Apollinaire ritratto di Maurice de Vlaminck

Apollinaire ritratto di Maurice de Vlaminck

Dato il suo carattere estroso ed irrequieto fu sospettato di essere l’autore del furto del dipinto della Gioconda avvenuto il 20 agosto del 1911 al Louvre; in seguito a tali sospetti (di cui fu gravato anche Picasso), viene arrestato ed incarcerato, salvo poi risultare del tutto estraneo ai fatti ed in seguito rilasciato. Del furto risultò poi essere autore un dipendente del Louvre, tale Vincenzo Peruggia. Inaugura nel 1910 la vita letteraria con i sedici racconti fantastici intitolati L’eresiarca & C., mentre nel 1911  pubblica le poesie di Bestiario o corteggio di Orfeo e nel 1913  Alcools, raccolta delle migliori poesie composte fra il 1898 e il 1912, considerata il capolavoro di Apollinaire insieme con Calligrammes (1918),  veri e propri componimenti scritti appositamente per formare un disegno che rappresenta il soggetto della poesia stessa.

Apollinaire

Apollinaire

Commento di Renzo Paris

…Per dar carne alla biblioteca erotica detta dei Curiosi, che curava per uno spregiudicato editore, Apollinaire si tuffa nella letteratura italiana e ne trae pingue bottino. Riscopre, per esempio, lo scrittore Giambattista Casti (1724-1803), viaggiatore irrequieto e amico di letterati e regnanti di tutta Europa, quello stesso che Parini giudicava “prete brutto, vecchio e puzzolente” e che invece Stendhal e Goethe stimavano.

Piacque ad Apollinaire per le sue doti di poeta libertino ed irreligioso Giorgio Baffo che, insieme a scrittori come Francesco Gritti e Anton Maria Lamberti, Giovanni Pozzobon e Marcantonio Zorzi, dava vita all’ambiente che permise la nascita della lingua goldoniana. Ammirò Boccaccio, innanzitutto. Stampò Sade. Ma a proposito del Casti c’è ben altro da dire. Il Casti infatti è autore degli Animali parlanti. E che cos’è Bestiaire, la prima raccolta di poesie d’Apollinaire, se non una serie soprattutto di quartine in cui il poeta fa ‘parlare’ gli animali?

O forse è troppo azzardata l’ipotesi di una intuizione settecentesca di un bestiario illustrato alla maniera medioevale ancora viva nell’epoca rinascimentale? Bestiaire è del 1911. Definito dallo stesso autore “un divertimento poetico” è una serie di licenziosi auguri e scongiuri. Auguri al poeta che si appresta a circuire e a conquistare madama poesia, e d’altra arte, scongiuri contro i pericoli e gli ostacoli di cui è lastricata la strada della bellezza. Più che un ‘dizionario dei motivi poetici dell’autore’ sembra essere un manuale di istruzioni per la creazione poetica, per un poeta da spartire con il profeta di dantesca e rimbaudiana memoria né con il misterioso di Mallarmé. Proprio in Bestiaire, nella quartina ‘L’éléphant’, si dice:

Apollinaire La cravate

Apollinaire La cravate

Comme un éléphant son ivoire,
J’ai en bouche un ben precieux.
pourpre mort!… J’achète ma gloire
Au prix des mots mélodieux.

Nella quartina ‘La chenille’ invece leggiamo:

Le travail mène à la richesse.
Pauvres poètes, travaillons!
La chenille en peinant sans cesse
Devient le riche papillon.

A prezzo del “lavoro poetico” il poeta può diventare ricco. Se le parole sono ancora melodiose, ma già tese e frenetiche, alla gloria si arriva attraverso una “compera”. Anche qui Apollinaire finisce col criticare il gusto simbolista dall’interno stesso della sua melodia. A proposito della “purpurea morte” de “L’éléphant” il critico francese Poupon ricorda Mallarmé e la sua particolare espressione “morire purpureo” riferita alla ruota di un carro, simbolo della poesia.

(tratto da Apollinaire Poesie Newton Compton Italiana, Introduzione di Renzo Paris, Roma, 1971)

Apollinaire le undicimila verghe

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le morpion

Imitons la ténacité
De cet insect qu’on méprise.
Dames, messieurs qui vous grattez,
Il ne lachera jamais prise.

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La piattola

Imitiamo la tenacia
Di questo insetto spregiato.
Signori che vi grattate, dame,
Lui non lascerà mai la presa.

 

Le hibou

Mon pauvre coeur est un hibou
Qu’on cloue, qu’on décloue, qu’on recloue.
De sang, d’ardeur, il est à bout.
Tous ceux qui m’aiment, je les loue.

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Il gufo

Il mio povere cuore è un gufo
Che s’inchioda, si schioda, si rinchioda.
Sangue ed ardore non ha quasi più.
Tutti quelli che mi amano, li lodo.

Apollinaire Il pleut

Apollinaire Il pleut

La méduse

Méduse, malheureuses tetês
Aux chevelures violettes
Vous vous plaisez dans le tempetês,
et je m’y plais comme vous faites.

 

La medusa

Meduse, sciagurate teste
Dalle capigliature violette,
vi dilettate nelle tempeste:
e anch’io come voi ci godo.

 

La sauterelle

Voici la fine sauterelle,
la nourriture de saint Jean.
Puissent mes vers être comme elle,
le régal des meilleurs gens.

 

La cavalletta

Ecco la delicata cavalletta,
Cibo di san Giovanni.
Possano i miei versi essere come lei
Il festino delle anime elette.

Apollinaire calligramme

Apollinaire calligramme

La mouche

Nos mouches savent des chansons
Que leur apprirent en Norvège
Les mouches ganiques qui sont
Les divinités de la neige.

La mosca

Le nostre mosche sanno canzoni
Che hanno appreso in Norvegia
Dalle mosche ganiche
Che sono le divinità della neve.

 

La carpe

Dans vos viviers, dans vos étangs,
carpes, que vous vivez longtemps!
Est-ce que la mort vous oublie,
poissons de la mélancolie.

La carpa

Là nei vostri vivai, nei vostri stagni,
carpe, come a lungo vivete!
Forse la morte v’oblia,
pesci della malinconia.

Apollinaire copertinaLe poulpe

Jetant son encre vers les cieux,
suçant le sang de ce qu’il aime
et le trouvant délicieux,
ce monstre inhumain, c’est moi-même.

Il polipo

Gettando il suo inchiostro verso il cielo,
succhiando il sangue di ciò che ama
e trovandolo delizioso,
questo mostro inumano, sono io.
La chèvre du Thibet

Les poils de cette chèvre et même
Ceux d’or pour qui prit tant de peine
Jason, ne valent rien au prix
Des cheveux dont je suis épris

La capra del Tibet

Il vello di questa capra e perfino
Quello d’oro per cui ha tanto penato
Giasone non valgono nulla al confronto
Dei capelli che m’hanno innamorato.

Apollinaire Calligramme

Apollinaire Calligramme

 

 

 

 

 

 

Le chat

Je souhaite dans ma maison:
une femme ayant sa raison,
un chat passant parmi les livres,
des amis en toute saison
sans lesquels je ne peux pas vivre.

Il gatto

In casa mia desidero
Una donna fornita di ragione,
un gatto che passi tra i libri,
amici in ogni stagione
senza i quali non posso vivere.

Apollinaire Calligramme

Apollinaire Calligramme

 

 

 

 

 

 

 

 

La chenille

Le travail mène à la richesse.
Pauvres poètes, travaillons!
La chenille en peinant sans cesse
Devient le riche papillon.

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Il bruco

Il lavoro conduce alla ricchezza.
Poveri poeti, lavoriamo!
Il bruco faticando senza fretta
Diventa la ricca farfalla.

Apollinaire 1

 

 

 

 

 

 

 

La souris

Belles journées, souris du temps,
vous rongez peu à peu ma vie.
Dieu! Je vais avoir vingt-huit ans,
et mal vécus, à mon envie.

Il sorcio

Bei giorni, sorci del tempo,
voi mi rodete a poco a poco la vita.
Dio! Avrò presto ventottanni,
E mal vissuti, a mio capriccio.

Apollinaire Poema calligrafico

Apollinaire Poema calligrafico

Le serpent

Tu t’acharnes sur la beauté
Et quelles femmes ont été
Victimes de ta cruauté!
Eve, Eurydice, Cleopatre;
J’en connais encor trois ou quatre.

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Il serpente

Tu t’accanisci contro la beltà.
E quelle donne che sono state
Vittime della tua crudeltà!
Eva, Euridice, Cleopatra:
io ne conosco ancora tre o quattro.

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Renzo Paris IL FUMO BIANCO Poesie (1990-2012) letto da Giorgio Linguaglossa

Renzo Paris IL FUMO BIANCO Poesie (1990-2012) Elliot, 2013, pp. 136 € 17,50

copertina renzo paris il fumo bianco

Lettura di Giorgio Linguaglossa

Poesie da «diario», «diario di viaggio» lungo più di quattro lustri che si snoda nel racconto di vicende né illustri né esemplari né paradigmatiche, ma intime, private, vissute e inventate. Un «diario» di vicende private aperte al pubblico, anzi, offerte alla pubblica curiosità, come una laica offerta votiva, un’ara di piccoli e perdonabili vizi privati e nessunissima pubblica virtù. Piccoli amori, piccole passioni per giovinette rumene e italiche, per signore della buona media borghesia, poesie in memoria della mamma, cadenza pascoliana, lessico post-moderno desublimato (di una realtà già in sé desublimata), vestito con un abito largo e comodo: la terzina pascoliana (non rimata ma ritmata) ripresa da Pasolini de Le ceneri di Gramsci (1956) dismessa cento volte e cento volte reindossata da epigoni (non della terzina ma del Pascoli) letterati illustri e meno. Un teatro della Roma «bene» o «quasi bene» situato tra piazza di Spagna e villa Borghese, tra quartieri piccolo borghesi e meno borghesi, lì dove un tempo c’era la buona borghesia romana che adesso non c’è più, la piccola borghesia che adesso non c’è più, una inflessione elegiaca di un’elegia che oggi non c’è più perché non è più possibile, perché dismessa, abbandonata dal nuovo Ceto Medio telematico ed informatico che va di moda dichiarare «liquido» ma che liquido non è affatto, tanto bada agli affari propri e alle credenziali dei titoli di borsa sui quali specula e ingrassa. Dunque, si diceva della buona borghesia, quella romana, quella del finto golpe Borghese finito in operetta, quella delle stragi di Stato, quella della buona vecchia Democrazia cristiana (l’ossimoro di una democrazia fondata sul fatto di essere cristiani!) e del PCI, quella della cultura tra Pascoli e Gozzano, magari corretta con una infiltrazione di aminoacidi del Moderno, così tanto per desublimarne la connotazione ormai non più presentabile («amavo la dittatura del proletariato… mia moglie è una femminista brizzolata / che sputava su Hegel, a suo dire superato»).

Quell’assetto delle classi sociali sul cui equilibrio si era costruito lo stile pascoliano gozzaniano, saltato il periodo del cosiddetto infortunio del ventennio fascista, si ripresenta, oggi, in termini di disequilibrio e dismetrie reddituali, opportunamente desublimato e disarcionato, in queste terzine (irregolari e dissestate come dal tempo, dalle intemperie e dagli anni trascorsi) che tentano di ripristinare in auge la malinconia di un mondo decaduto e derubricato in anticaglie per numismatici.

C’è come un assetto dello stile che mima e cita un altro stile scomparso, e questo è il segreto della continuità dello stile, quello stigma che un poeta intelligente non può evitare ma dovrebbe però almeno tentare di saltare a piè pari. Renzo Paris non si rifiuta allo stile, non si adopera per un riformismo moderato dello stile come è poi accaduto alla poesia italiana degli anni settanta in poi, ma riposiziona lo stile di Totò Merumeni nell’italietta desublimata e decotta della crisi interminabile di questi ultimi decenni di storia repubblicana. La poesia di questo «diario di viaggio» ci racconta appunto la «crisi» dal punto di vista di un intellettuale turista (ex ’68) di Roma, questa città eterna che durerà e sopravvivrà alla crisi, come è sopravvissuta al sacco ad opera dei Goti di Alarico nel 410 e a quello dei Lanzichenecchi del 1530.  (Giorgio Linguaglossa)

renzo paris volto

Un Amleto formato mignon

Sono un Amleto formato mignon
non c’è tragedia nella mia vita.
Mio padre è morto senza essere

vendicato. L’ho avvisato, è inutile
che la tua ombra mi attraversi, troppo
tardi. Ofelia comunque non si è

uccisa per puro miracolo e non è vero
che io non l’ho amata. Solo che lei è
sempre stata una masturbatrice

accanita. Mia madre vive con la badante
ucraina giovane giovane e come s’imbelletta
prima di uscire con lei, neanche dovesse

correre al ballo delle debuttanti, invitata
a una festa lungo il viale. Sono un Amleto
invecchiato, sfigurato. Che diranno di me

i vermi nella tomba se sono dimagrito fino
all’osso, se voglio diventare trasparente,
se la mia anima risplenderà come un’ostia

d’oro. Sono un Amleto formato mignon,
non c’è tragedia nella mia vita ma neanche
posso dire di aver conosciuto la felicità.

Ho fatto tutto in ritardo e se una donna
consola la mia senilità quella non è certo
il ricordo di Ofelia, quando lei chiedeva

scarmigliata l’elemosina alle porte di
Amsterdam, incrostata di insetti,
innamorata del suo cane con un piercing

sulla sua lingua biforcuta. Sono a mio agio
nei fallimenti. Non sono niente, al dunque,
niente.

renzo paris in bianco e nero

Non sono né giovane né vecchio

Non sono né giovane né vecchio
ed è come se sognassi, in un meriggio
di sbronze, entrambe le età. Eppure

sono vecchio. In una nicchia dorata
l’autunno cede il passo all’inverno,
coperto di tenebre e sonno.

La parola perdono che senso ha
per me, inetto, senza alcun progetto?
Il sesso, il potere, mi fanno difetto.

Eppure sono giovane, mi batte il petto.
Mille voci mi rimescolano il sangue.
Al mattino mi alzo sempre più presto.

Non sono né giovane né vecchio, sogno
come un demente, queste due età infinite,
immerso nel secchio dl vino delle aurore,

in un tempo bambino. Sono vecchio, sono
vecchio, eccomi pronto per le sterminate
eternità Continua a leggere

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