Archivi tag: Asor Rosa

PAOLO RUFFILLI, MONTALE UNO E DUE? – La crisi della civiltà borghese occidentale

eugenio montale 2

Eugenio Montale e La crisi della civiltà borghese occidentale

Fu all’uscita di Satura, nel 1971, nonostante ci fossero state già alcune sparse anticipazioni, che da più parti della critica si levò l’interrogativo nei confronti delle “novità” dell’ultima poesia di Eugenio Montale. E non mancarono, a caldo, le dichiarazioni di involuzione, di tramonto di una vocazione, di inconsapevole slittamento verso l’impasse delle forme prosastiche della poesia contemporanea. Non pochi tra i critici militanti si trovarono nell’impaccio di dover dare sistemazione a una produzione di cui non si aspettavano questi “altri” esiti e molti elusero il compito ripiegando sull’elogio retrodatato del poeta ormai codificato e definitivamente catalogato sotto l’etichetta delle sue precedenti tre raccolte di versi.

Da Ossi di seppia (1925 e 1928) a Le occasioni (1939) a La bufera e altro (1956, comprendente i testi della raccolta Finisterre del 1943) si disegna il campo poetico montaliano del “male di vivere”, dell’incomprensione del mondo e di ogni suo senso possibile, dei “fantasmi” che nonostante tutto ci salvano dal vuoto riconciliandoci sentimentalmente con la vita, e si decide definitivamente la catalogazione critica dell’esperienza di Montale nei termini di un “realismo dell’oggetto” da cui con perplessità gli addetti ai lavori hanno guardato alle prove successive del poeta. Lo stesso Contini, che meglio di tutti aveva individuato la chiave della poesia montaliana fino alla Bufera nella potenzialità infinita innescata dalla somma degli oggetti inventariati dal reale, non si era sentito di chiudere il cerchio dell’interpretazione, firmando il risvolto di copertina di Diario del ’71 e del ’72, preso nel viluppo non ancora dipanato del Montale vecchio/nuovo, primo/secondo, uno/due.

Altri critici, nel rispetto di quella etichetta ermetica-postermetica, avevano imboccato la strada della “diversità”, della “seconda stagione”. Ma la convinzione di un presunto rinnovamento radicale della poesia di Montale, a partire da Satura, ha inquinato la valutazione che della produzione successiva la critica ha dato, chiudendola in equivoci di salti e ribaltamenti.

Tra gli addetti ai lavori delle nuove generazioni, presso i quali Montale non aveva mai riscosso grandi simpatie (divisi com’erano, anche se di formazione ermetica e specificamente montaliana, tra l’impegno di un risorto canto civile e l’esperimento linguistico delle prove di avanguardia e, comunque, contro la scelta del poeta, legati più o meno direttamente alla concezione dell’intellettuale “professionale”) Satura suscitò allora più che perplessità, diffidenza e sospetto, per i territori apparentemente più avanzati nei quali l’autore sembrava avventurarsi persistendo sulla pista di un’assoluta e limpidissima tradizione.

Ricordo, per avervi partecipato polemicamente, alcuni seminari presso la facoltà di lettere dell’università di Bologna e della Statale di Milano nel 1972, dedicati alla poesia. Il Montale di Satura era uno dei bersagli ricorrenti. Da parte di molti, nella deviante prospettiva di quei momenti della “globalità” del politico, gli veniva l’accusa, in sé ingenua e addirittura assurda, di “riformismo letterario”, di “tattica dell’aggiornamento”. E del resto, a fare lo spoglio della bibliografia critica di allora, si possono rintracciare le stesse prese di posizione da parte dei recensori, giovani e meno giovani, della pubblicistica di sinistra.
Quanto poi ai fedeli lettori di Montale (tra i lettori di poesia, nel 1971, gli appassionati montaliani avevano superato tutti i quarant’anni d’età), Satura fu per loro, pur nell’adesione immediata, incertezza di valutazione complessiva e sospensione del giudizio.

Eppure c’era da aspettarsi che, insieme con le successive prove di Montale dal Diario del ’71 e del ’72 del 1973 a Quaderno di quattro anni del 1977, arrivasse l’aggiustamento di tiro da parte della critica: l’attenuazione delle pretese “novità” e il riconoscimento dei molti legami, anzi dell’assoluta corrispondenza con la precedente produzione. Si sarebbe dovuto chiarire, all’esame dei testi, che non si trattava di un “secondo” Montale, nella frettolosa definizione del momento, ma che Montale era sempre quello e che la sua stagione poetica non era ancora tramontata, solo aveva avuto naturale evoluzione e si era compiuta in modi e tempi più distesi. Invece la critica militante perseverò, nella maggioranza dei casi, nella contrapposizione di un “prima” e di un “dopo”, giungendo a consolidare una divaricazione di cui si mise a cercare le motivazioni profonde con le tecniche più raffinate e sofisticate.

La verità era un’altra. Valeva ancora una volta la constatazione che lo scrittore di qualità, varianti comprese, riscrive sempre lo stesso libro. E il “libro” di Montale si ispirava alla stessa idea di poesia, continuava ad essere il vagheggiamento di una “poesia pura”, e basterebbe leggere a questo proposito il discorso “È ancora possibile la poesia” tenuto da Montale all’Accademia di Svezia il 12 dicembre 1975, in occasione del conferimento del Premio Nobel. Una “poesia pura”, perseguita per vie più traverse e indirette (a causa del complicarsi stesso, sempre più confuso, della vita) e recuperata dall’incontro, dalla lettera, dalla notizia di giornale, da ogni occasione minima e più oscura in cui riconoscere (o tentare di riconoscere) se stessi e il proprio passato. Continua a leggere

24 commenti

Archiviato in critica della poesia, poesia italiana del novecento, Senza categoria

Andrea Cortellessa intervistato da Nanni Delbecchi “Spengono i poeti perché sfuggono alla melassa”, “il poeticidio”, “Che fare?”, ed un Estratto da un articolo di Andrea Cortellessa

il poeticidio dei libri di poesia

il poeticidio dei libri di poesia

Faccio copia e incolla da LPLC di un post di Andrea Cortellessa del 23 luglio 2015 che riguarda il nostro discorso sulla presunta chiusura della collana di poesia Lo Specchio della Mondadori:

[…] Venendo agli altri interventi, devo dire che rappresenta un’occasione mancata, soprattutto, quello di Alfonso Berardinelli. Fra quelli in attività è lui il maggior critico di poesia: quello cioè che avrebbe, ancora oggi forse, i maggiori strumenti per rispondere alle domande che in questi giorni si vanno facendo. Ed è oltretutto anche – co-autore nel ’75 con Franco Cordelli di un’antologia, Il pubblico della poesia, che per prima antivide il mondo in cui si andava trasformando quello, cioè il nostro – pienamente e personalmente parte in causa. Col suo pezzo s’è invece iscritto al partito dei tantopeggiotantomeglisti (rappresentato allo stato puro da un intelligente poeta e saggista di destra, Davide Brullo, guarda un po’ sul Giornale: che è fra parentesi la più tipica malattia infantile dell’estrema sinistra culturale del nostro paese. (Aveva davvero ragione, allora, un poeta assai irritato con lui quando lo definiva «Adorno di Monteverde»?)

Dice, il tantopeggiotantomeglista: era così scarsa (qualitativamente), la proposta recente dello «Specchio», che tanto vale che questo chiuda una buona volta i battenti. A parte che, all’atto pratico, se (come è dato oggi prevedere) questa collana semplicemente ridurrà gradualmente le uscite sino all’ineffettualità, il risultato sarà che potrà pubblicare solo le fetecchie di stretta ordinanza (senza potersi permettere i libri “veri”, di Antonella Anedda, Mario Benedetti o Mark Strand), questa obiezione pecca d’essere schiacciata sul presente, sui giudizi che oggi siamo in grado di dare. Se è vero che, concede micragnoso Berardinelli, «di poeti pubblicabili, cioè leggibili (anche se poco vendibili) in Italia ce ne sono circa una dozzina, magari anche venti, o se proprio si vuole si arriva a trenta», semplicemente non è vero – non è quantitativamente vero, intanto – che «non c’è quindi sufficiente materia per alimentare e tenere in vita» le collane di poesia. Se sono venti, o addirittura trenta, questi poeti, essi produrranno mediamente dieci-venti libri all’anno; e le collane “storiche”, fino ad oggi appunto, erano due. Ma il punto non è quantitativo; non così banalmente, almeno. Lo dimostra Paolo Febbraro, con la sua utile “verticale del 1961”: se oggi possiamo concludere che lo «Specchio» di allora (gestito da un certo Vittorio Sereni) «aveva fatto per intero il proprio dovere», lo poté fare perché aveva la possibilità di sbagliare. Cioè di sperimentare, piaccia o meno questo termine; di pubblicare cose che nel presente possono apparire, a questo o quel lettore o critico, illeggibili o «inutili» (per usare l’interessante termine di Berardinelli) ma che ad altri, già oggi, appaiono invece perfettamente leggibili, e magari pure utili; e che magari tanto più appariranno tali ai lettori a venire: quelli che oggi leggono con la massima utilità Auden, sì, ma anche Celan. Scommettere sul futuro è stata una prerogativa profonda dei moderni, e se oggi l’abbiamo persa – non solo ovviamente in ambito editoriale – le conseguenze, a livello economico politico umano, sono sotto gli occhi di tutti.

Andrea Cortellessa

Dice infine, ma che problema c’è se la poesia non verrà più pubblicata su carta? C’è la Rete, bellezza. Un altro amico intelligente, Daniele Giglioli, suole dire che il verso famoso di Hölderlin, «là dove è il pericolo, lì è la salvezza», altro non è che l’ultima risorsa dei disperati. Capovolgiamo i termini: se – come a me pare assai evidente – la rete per la poesia è oggi una specie di pozzo senza fondo, dove si trova tutto e il contrario di tutto (cioè, appunto, il nulla), si potrebbe dire che, là dove parrebbe esserci la salvezza, proprio lì è il pericolo. A sessant’anni di distanza da quando è stato pubblicato il saggio di Calvino con quel titolo famoso, è oggi che navighiamo, frastornati e senza uno straccio d’indirizzo, nel mare dell’oggettività. Dove però, in realtà, regnano indisturbate le soggettività – intemperanti e risentite – degli autopubblicatori e autopromotori social-seriali. (Fu non a caso uno dei protagonisti della generazione del Pubblico della poesia, Dario Bellezza, a usare per primo il titolo Il mare della soggettività.)

Si ripete allora sconsolati: Che fare? Un grosso lavoro è quello che ci attende, e che spetta principalmente a quella generazione di esseri «ibridi», come li ha definiti Mazzoni nel suo I destini generali: quelli che, come lui e come me, si sono formati nel mondo vecchio ma hanno avuto in sorte di vivere la maggior parte della loro esistenza in quello nuovo. Nella rete, e con la rete, occorre ri-costruire dei luoghi non dove non ci sia l’inferno (quello, con buona pace di Calvino, ce lo portiamo dentro), ma dove almeno resti acceso un buon impianto d’aria condizionata. Dove cioè si possa contribuire a ri-costruire dei valori condivisi: non perché calati dall’alto da una nuova classe di mandarini (che, lo sappiamo, non ci sono le condizioni storiche perché si ri-formi); bensì perché discussi insieme, a tutti i livelli, da tutti quelli che “ci stanno”, nei molti sensi di questa espressione (per questo aggiungo con la rete: volendo dire, in forma di rete). Un tentativo fu, nel 2010-2013, quello delle Classifiche di qualità “Stephen Dedalus”, ideate e gestite (fra mille improperi e contumelie) da Alberto Casadei insieme appunto a Mazzoni e al sottoscritto, in collaborazione con Pordenonelegge (vale la pena segnalare, perché non lo si è fatto a sufficienza, che l’attuale attività che porta questo stesso nome non ha alcuna continuità con quella che conducemmo allora). Un altro, in ambito specificamente poetico, è la rubrica Campioni che sto provando a portare avanti su doppiozero, cioè uno di quei luoghi illuminati della rete che vanno moltiplicati (non all’infinito, pena l’effetto-caciara di cui sopra) e messi in grado di funzionare (cfr., in particolare, questa giustificazione non petita), come quello dove ci troviamo ora.

Andrea Cortellessa

Questo infatti lo stiamo già facendo, stiamo già provando a farlo. Ma c’è un’altra cosa che non possiamo fare, invece, col mero volontariato dei singoli. Ed è porre le condizioni perché venga finalmente affrontato quello che, per la cultura editoriale italiana, è stato finora un tabù (rinvio alle risposte desolanti date al questionario sottoposto agli editori italiani dal numero monografico del «verri» sulla Bibliodiversità, il 35 del 2007): l’accesso a finanziamenti pubblici come quelli da decenni riservati, all’editoria di qualità (non necessariamente cartacea), da diversi Stati europei. Per esempio in Norvegia, come segnalava il compianto André Schiffrin in uno dei suoi imprescindibili pamphlet su queste questioni (Il denaro e le parole, a cura di Valentina Parlato, Voland 2010): dove – con un mercato ancora più ristretto, molto più ristretto, di quello italiano – s’è realizzato un circolo virtuoso che fa leva sul circuito delle biblioteche: quei luoghi, cioè, in cui si tocca con mano che il libro – con buona pace di Franco Tatò e delle sue legioni di, dichiarati o meno, imitatori contemporanei – non è, appunto, una merce come tutte le altre. Facile rispondere alla domanda circa il vero motivo per il quale gli editori italiani si sono sempre sottratti a questa discussione. Facile, se si guarda ai risultati impresentabili (a differenza di quelli ottenuti da altri Stati) coi quali la Repubblica Italiana ha sinora provveduto a sovvenzionare le traduzioni all’estero dei nostri libri: quella cioè che è pressoché l’unica forma di effettivo aiuto pubblico sinora introdotta nel comparto.

alfonso berardinelli

alfonso berardinelli

Ma è una risposta sbagliata, esattamente come quella dei tantopeggiotantomeglisti editoriali. Se le collane “storiche” – che per decenni hanno svolto in Italia, né più né meno, una funzione istituzionale – sono venute meno al loro compito, non è questo un buon motivo per chiuderle. Se degli aiuti pubblici all’editoria si è fatto sino a questo momento un uso clientelar-provinciale, non è questo un buon motivo per demonizzarli. Esattamente allo stesso modo in cui la risposta al cattivo funzionamento dei trasporti pubblici non può essere la loro abolizione (se si vuole un esempio meno paradossale, pensiamo alle scuole pubbliche). La collettività siamo noi, anche se sempre più spesso ce ne dimentichiamo. A nessun altro che a noi, dunque, spetta salvaguardare e migliorare i servizi pubblici: all’atto stesso di usufruirne.

Andrea Cortellessa intervistato da Nanni Delbecchi “Spengono i poeti perché sfuggono alla melassa”, ” il poeticidio”

 [«Il Fatto Quotidiano», 9 luglio 2015].

Scoprire la società di massa nel 2015 è come chiudere la stalla quando è scappato l’ultimo dei buoi, e la nostra editoria si appresta a compiere il più efferato dei delitti letterari: il poeticidio. Non ha dubbi Andrea Cortellessa, che in queste denunce è impegnato con il puntiglio inattuale del critico militante:

«Siamo fuori tempo massimo anche dal punto di vista storiografico. E quanto si legge nelle ultime pagine è un esempio di quell’occultamento dei veri valori denunciato da Scrittori e massa. Troppi dei narratori “salvati” da Asor Rosa sono autori Einaudi, cioè della sua casa editrice, che sempre lui provvede a recensire su Repubblica».

Poteva fare un capitolo anche su se stesso?

Volendo sì, visto che ha provato a fare anche il romanziere.

Secondo Asor Rosa l’unico genere immune a questo meccanismo è la poesia.

«Su questo sono d’accordo: la poesia resta fuori dalla melassa mediatica, in quanto priva di un tornaconto commerciale. Questo la rende il genere più vitale della nostra letteratura, ma è anche la sua parte maledetta, nel bene e nel male».

Foto Kolář JiříIl declino della società letteraria si vede anche da qui?

«Certamente. Negli anni Sessanta e Settanta ai poeti era riconosciuta una grande autorevolezza, scrivevano in prima pagina».

E oggi?

Anche oggi i nostri maggiori poeti avrebbero molto da dire sulla società contemporanea, ma non hanno accesso ai media. Nel 2010 Valerio Magrelli ha scritto la poesia intitolata Le ceneri di Mike, in cui ricordava i funerali di Stato per Mike Bongiorno ma non a Edoardo Sanguineti. Ecco un segno dei tempi.

Un altro segno potrebbe essere la chiusura da parte di Mondadori della collana di poesia «Lo specchio», ultima superstite insieme a quella di Einaudi, di cui si rumoreggia.

In teoria le collane storiche di poesia sono tre. Ci sarebbe anche quella di Garzanti, mai ufficialmente chiusa anche se è come se lo fosse, visto che pubblica un libro ogni tre anni. Credo che la Mondadori voglia fare la stessa cosa; non chiudere ufficialmente lo «Specchio» per evitare clamori, ma ridurla sempre di più, lasciarla morire di consunzione. Un poeticidio contrario alla storia e alla vocazione di una casa editrice che fin dagli anni Trenta aveva creduto nella poesia italiana.

books 5

Oggi i poeti non rendono più.     

Ma i poeti non devono rendere! Non bisogna sapere se la poesia rende oppure no. Non ha nessuna importanza; anzi, se vende tanto, probabilmente è cattiva poesia.

Anche la critica non si sente tanto bene.

Altra bella scoperta. Dieci anni fa, in Eutanasia della critica Lavagetto scriveva che i media non hanno più interesse a consultare i critici proprio perché sono critici, alieni da una macchina da profitto che non sopporta obiezioni, come teorizzò nel ’95 Franco Tatò. Nel libro-intervista A scopo di lucro sosteneva che il libro doveva diventare una merce come tutte le altre; a un ventennio di distanza, questa logica ha vinto definitivamente.

Al di là della poesia, come può resistere la buona letteratura?

Visto il disinteresse dei grandi, l’editoria indipendente è sempre di più il canale in cui passa la letteratura di ricerca, o meglio, la letteratura senza aggettivi, che non è certo quella degli opinionisti del Corriere della Sera. Per reagire allo strapotere delle concentrazioni si è dotata di strumenti propri come l’Osservatorio degli editori indipendenti, o di fiere come il recente BookPride. Inoltre proprio oggi viene presentato a Roma il Premio Sinbad, il premio dei piccoli editori che svolgerà i suoi lavori attraverso una serie di discussioni pubbliche.

Una specie di antiStrega?

Non sta a me dirlo, visto che quest’anno sono tra i giurati. Di sicuro al Premio Sinbad non ci saranno le stanze segrete, le cordate preconfezionate, le truppe cammellate dello Strega. Sarà un premio piccolo ma trasparente, espressione della resistenza al sistema. Perché è così: da una parte ci sono i grandi gruppi con i loro best-seller annunciati, dall’altra la riserva indiana. Un’editoria a doppia velocità, come l’Europa.

 È già qualcosa.

Un’editoria a due velocità è un male minore. Ma pur sempre un male.

(LPLC  23 luglio 2015)

27 commenti

Archiviato in poesia italiana

  Alfonso Berardinelli “AVVISO AL FATTO: SE LA COLLANA DI POESIE MONDADORI CHIUDE È PERCHÉ NON CI SONO PIÙ POETI PUBBLICABILI”  “Se Lo Specchio chiude, insomma, qualche ragione c’è” – con un Commento di Giorgio Linguaglossa: “siamo arrivati allo stadio zero della poesia”;

la Poesia è nuda

la Poesia è nuda

da Il Foglio 15 luglio 2015

Che succede? Il Fatto quotidiano è un giornale a cui piace mettere lo stile cinico al servizio dell’etica pubblica. Quando parla di poesia, però, si intenerisce. In un articolo di Pietrangelo Buttafuoco (9 luglio 2015), che ne riprendeva uno di Alessandro Zaccuri uscito in precedenza su Avvenire, si parla di licenziamento (scandaloso?) del dirigente Antonio Riccardi dalla Mondadori, nonché della paventata chiusura della più famosa collana italiana di poesia, denominata Lo Specchio. Sì, proprio quella in cui noi liceali di mezzo secolo fa leggevamo Ungaretti, Montale, i lirici greci e Catullo tradotto da Quasimodo, e più tardi Auden e Paul Celan, Zanzotto, Giudici, Ted Hughes, Denise Levertov, Iosif Brodskij…

 Che Lo Specchio abbia avuto grandi meriti lo si sa, lo si dovrebbe sapere. Ma è anche abbastanza risaputo che da venti o trent’anni le sue scelte poetiche italiane sono molto o troppo discutibili, fino a privare la collana del suo antico prestigio.
Il titolo dato all’articolo di Buttafuoco invece che allarmare fa un po’ ridere: “Che Mondadori è se rinuncia alla poesia?”. Non è che la Mondadori rinunci ora alla poesia, ci aveva già rinunciato da tempo, infilando nella sua collana una crescente zavorra di poeti “cosiddetti”…

 No, mi sto sbagliando. Di poeti da pubblicare in Italia non ce ne sono poi molti. O meglio, ce n’è un tale mostruoso e informe numero che il difetto, ormai, non può essere imputato a questa o quella collana (anche se…!). Il difetto è nel fatto che si creino collane di poesia, dedicate, intendo, esclusivamente alla poesia. Meglio sarebbe mescolare poesia e prosa. Una volta aperta una collana di poesia bisogna poi riempirla. Con che cosa? Con quello che c’è.

 Di poeti pubblicabili, cioè leggibili (anche se poco vendibili) in Italia ce ne sono circa una dozzina, magari anche venti, o se proprio si vuole si arriva a trenta. Non c’è quindi sufficiente materia per alimentare e tenere in vita le grandi, medie e minime collane che esistono. E’ ovvio, è inevitabile che si pubblichi semplicemente quello che c’è, procedendo secondo ben noti opportunismi (tanto la critica di poesia beve tutto oppure tace): prima viene l’amico, poi l’amico dell’amico, poi quello che si mette al tuo servizio, prima ancora quello che ha potere, o quello che insiste e non demorde, quello che se non lo pubblichi si inalbera, quello che poi te la farà pagare, quello che minaccia il suicidio…

alfonso berardinelli

alfonso berardinelli

 Che la poesia non abbia mercato (se non eccezionalmente) dovrebbe essere un dato acquisito da ogni editore che conosca l’abc del suo mestiere. E’ così vero che mezzo secolo fa un poeta non ingenuo come il tedesco Enzensberger, in uno dei suoi fondamentali saggi, teorizzò la poesia come “antimerce”. Una tale teoria non era nata allora e non doveva essere presa troppo alla leggera: perché messa in mani stupide, diventa una teoria stupida. Quando Enzensberger parlò di poesia come antimerce erano anni in cui il mercato veniva visto come una bestia nera da ogni scrittore che si rispettasse e che volesse essere accolto negli esclusivi circoli di élite.

 Negli anni Sessanta ormai quella teoria aveva cominciato però a invecchiare: invece che come un fatto editoriale, la non facile vendibilità della poesia fu intesa come un programma letterario e diventò illeggibilità: poesia scritta per non essere letta, un vuoto riempito di parole. Solo che fra invendibilità e illeggibilità c’è una differenza. E’ la differenza che la neoavanguardia, per esistere come eterna provocazione, doveva fare finta di non capire. Il poeta tedesco aveva parlato di antimerce per mettere le mani avanti, ma scrisse le sue opere poetiche distinguendo bene fra il loro “valore d’uso” (possibilità di leggerle) e “valore di scambio” (vendibilità). Enzensberger in effetti è uno dei poeti europei più leggibili di fine Novecento.

Qui sorge un problema. Cosa vuol dire essere leggibili? Rimbaud e Mallarmé non è facile leggerli, ma non sono certo illeggibili. Richiedono un’intensificazione, una focalizzazione dell’atto di leggere. Chiedono di essere riletti. Invece leggere o rileggere molta poesia delle neoavanguardie è impossibile perché è inutile. Leggi e non sai che cosa c’è da leggere. Rileggi e non fai nessun passo avanti. Se nella rilettura non succede niente di nuovo e di fruttuoso, questa esperienza diventa retroattiva: dimostra che anche leggere è stato inutile.

 Accanto all’articolo di Buttafuoco, il Fatto pubblica un’intervista ad Andrea Cortellessa, il quale si occupa anche della evidente impreparazione del professor Asor Rosa in materia di letteratura attuale (vedi il suo “Scrittori e popolo / Scrittori e massa”). Questa impreparazione (oltre a moventi di cortigianeria editoriale) porta Asor Rosa a occuparsi quasi esclusivamente di autori Einaudi, casa editrice alla quale lo vediamo aggrappato da decenni con tutte le sue forze. Ma Cortellessa condivide con il professore un’idea che a me pare bizzarra, o che più precisamente è una fede: la poesia, poiché non ha mercato, sarebbe secondo loro migliore e più onesta della narrativa. Macché, non è così. E’ mediamente peggio della narrativa, proprio perché non ha mercato, non ha lettori. E un’arte senza pubblico (come la pittura) marcisce su se stessa, si autodistrugge immaginandosi libera e incontaminata. Per scrivere un romanzo o anche un mediocre romanzetto ci vuole un minimo di tecnica artigianale. Per scrivere il novanta per cento delle poesie italiane che circolano oggi, perfino antologizzate e commentate dai nuovi accademici, non ci vuole nessuna qualità, se non forse un po’ di specifica astuzia, dato che risultano essere niente e non si capisce, letteralmente non si capisce, come abbiano trovato qualcuno disposto a scriverle.

 Se Lo Specchio Mondadori chiude, insomma, qualche ragione c’è.

giorgio linguaglossa

giorgio linguaglossa, 2010

Commento di Giorgio Linguaglossa

È ovvio che condivido in pieno il giudizio di Alfonso Berardinelli, mi sembra ineccepibile. Mi sembra ineccepibile la valutazione di Berardinelli secondo il quale negli ultimi 30 anni le scelte editoriali dello Specchio siano state «quantomeno discutibili», e lo sono state, a mio avviso, perché non si è fatta più ricerca dei testi migliori, si è preferito rinunciare a ricerche lunghe e laboriose per preferire la scorciatoia della pubblicazione degli “amici” e dei sodali. Di questo passo, l’appiattimento qualitativo ha finito per deteriorare tutto il comparto della «poesia» e i lettori (intendo per lettori quei coraggiosi che acquistavano libri di poesia) si sono assottigliati fino a scomparire del tutto.

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa, 2008

Non voglio fare una facile polemica, anzi il mio cordoglio è vero e sincero, per una collana (lo Specchio) che probabilmente chiuderà per assenza di utenti, ma è pur vero che quando un manager fallisce lo si cambia, questo almeno è il metodo adottato nei sistemi a economia capitalistica, può darsi che un altro manager-poeta riesca dove il precedente aveva fallito, e quindi è naturale che la proprietà editoriale cambi strategia e uomini. E non avrei nulla da eccepire neanche se la proprietà editoriale decidesse di sopprimere la collana un tempo prestigiosa de Lo Specchio se considerasse ormai il comparto in perdita irrimediabile. Una azienda in perdita e un prodotto privo di utenti, sono una contraddizione in termini.

VERSO UN NUOVO PARADIGMA POETICO

Cambiamento di paradigma (dizione con cui si indica un cambiamento rivoluzionario di visione nell’ambito della scienza), è l’espressione coniata da Thomas S. Kuhn nella sua importante opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) per descrivere un cambiamento nelle assunzioni basilari all’interno di una teoria scientifica dominante.

L’espressione cambiamento di paradigma, intesa come un cambiamento nella modellizzazione fondamentale degli eventi, è stata da allora applicata a molti altri campi dell’esperienza umana, per quanto lo stesso Kuhn abbia ristretto il suo uso alle scienze esatte. Secondo Kuhn «un paradigma è ciò che i membri della comunità scientifica, e soltanto loro, condividono” (La tensione essenziale, 1977). A differenza degli scienziati normali, sostiene Kuhn, «lo studioso umanista ha sempre davanti una quantità di soluzioni incommensurabili e in competizione fra di loro, soluzioni che in ultima istanza deve esaminare da sé” (La struttura delle rivoluzioni scientifiche). Quando il cambio di paradigma è completo, uno scienziato non può, ad esempio, postulare che il miasma causi le malattie o che l’etere porti la luce. Invece, un critico letterario deve scegliere fra un vasto assortimento di posizioni (es. critica marxista, decostruzionismo, critica in stile ottocentesco) più o meno di moda in un dato periodo, ma sempre riconosciute come legittime. Sessioni con l’analista (1967) di Alfredo de Palchi, invece, invitava a cambiare il modo con cui si considerava il modo di impiego della poesia, ma i tempi non erano maturi, De Palchi era arrivato fuori tempo, in anticipo o in ritardo, ma comunque fuori tempo, e fu rimosso dalla poesia italiana. Fu ignorato in quanto fu equivocato.

Dagli anni ’60 l’espressione è stata ritenuta utile dai pensatori di numerosi contesti non scientifici nei paragoni con le forme strutturate di Zeitgeist. Dice Kuhn citando Max Planck: «Una nuova verità scientifica non trionfa quando convince e illumina i suoi avversari, ma piuttosto quando essi muoiono e arriva una nuova generazione, familiare con essa.”

Quando una disciplina completa il suo mutamento di paradigma, si definisce l’evento, nella terminologia di Kuhn, rivoluzione scientifica o cambiamento di paradigma. Nell’uso colloquiale, l’espressione cambiamento di paradigma intende la conclusione di un lungo processo che porta a un cambiamento (spesso radicale) nella visione del mondo, senza fare riferimento alle specificità dell’argomento storico di Kuhn.

Secondo Kuhn, quando un numero sufficiente di anomalie si è accumulato contro un paradigma corrente, la disciplina scientifica si trova in uno stato di crisi. Durante queste crisi nuove idee, a volte scartate in precedenza, sono messe alla prova. Infine si forma un nuovo paradigma, che conquista un suo seguito, e una battaglia intellettuale ha luogo tra i seguaci del nuovo paradigma e quelli del vecchio. Ancora a proposito della fisica del primo ‘900, la transizione tra la visione di James Clerk Maxwell dell’elettromagnetismo e le teorie relativistiche di Albert Einstein non fu istantanea e serena, ma comportò una lunga serie di attacchi da entrambi i lati. Gli attacchi erano basati su dati empirici e argomenti retorici o filosofici, e la teoria einsteiniana vinse solo nel lungo termine. Il peso delle prove e l’importanza dei nuovi dati dovette infatti passare dal setaccio della mente umana: alcuni scienziati trovarono molto convincente la semplicità delle equazioni di Einstein, mentre altri le ritennero più complicate della nozione di etere di Maxwell. Alcuni ritennero convincenti le fotografie della piegature della luce attorno al sole realizzate da Arthur Eddington, altri ne contestarono accuratezza e significato.

94 commenti

Archiviato in Crisi della poesia