
la scrittura poetica non può essere ridotta a «episodio»
Scrive Pier Aldo Rovatti:
«La scrittura e la sua scena non possono essere ridotte a episodio. La ripresa del problema filosofia/letteratura ha senso se ci aiuta in una “chiarificazione”, per dir così, del linguaggio e della scrittura in rapporto alla pratica filosofica. Considerazioni sul tempo interno della scrittura (l’interruzione, la pausa, il silenzio ecc.) rientrano in questo ambito problematico, in cui è importante che avvenga uno scambio di informazioni e di esperienza tra chi scrive di filosofia e chi opera nel campo del discorso letterario. Non mancano, per altro, esempi recenti e recentissimi di tale scambio, e per tutti potrebbe valere l’importanza che ha avuto Maurice Blanchot nell’ambito della più significativa comunità filosofica del dibattito francese contemporaneo.
Prendiamo alcune affermazioni da Deleuze: “È attraverso le parole, in mezzo alle parole, che si vede e si ascolta”, “Lo scrittore, come dice Proust, inventa nella lingua una nuova lingua, in qualche modo straniera. Scopre nuove potenzialità, grammaticali o sintattiche”.1] Il filosofo è uno scrittore? Sì se consideriamo che la sua pratica è una pratica di scrittura, e se poi siamo disposti a riconoscere che la scrittura, in ogni caso, (quindi anche nel caso del filosofo) non è un semplice uso del linguaggio, ma un “intervento” nella lingua e quindi un’attività di spostamento e trasformazione. Un lavoro di scoperta e di invenzione: più precisamente – e mi riferisco alla metafora deleuziana della lingua straniera – un lavoro di spaesamento; la produzione, nella scrittura stessa, di un effetto freudiano di perturbamento (o di Unheimlich). Che lo sappia o no – sembrerebbe di poter dire -, chi scrive di filosofia è impegnato a dar luogo a variazioni linguistiche che tolgono una presunta chiarezza, familiarità e prossimità alle parole. Il suo compito, nello scrivere, sembrerebbe piuttosto quello di produrre una distanza; ma “produrre” non è poi la parola giusta, e forse sarebbe meglio dire, rendendo la parola un po’ più straniera, abitare una distanza. Deleuze parla anche di “delirio” (sempre sul punto di diventare una malattia), e ricorda Beckett, che a sua volta diceva che bisogna fare dei buchi nel linguaggio perché solo con quest’opera di trivellazioni il linguaggio manda fuori quel che sta annidato, imboscato in esso. Ma se il filosofo crede (ed è opportuno che lo creda) di dover e poter scrivere il pensiero, cosa possono allora significare questa distanza e questi buchi? e che ne è allora del pensiero nella scrittura?»1]
Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
È che anche la scrittura poetica non può essere ridotta a «episodio», pur se dell’«episodio» ne conserva tutte le caratteristiche, anzi, che si presenta come rappresentazione di un «episodio», senza esserlo, senza volerlo in alcun modo rappresentare o legittimare, perché non è compito della poesia volerlo. È che la migliore poesia che si fa oggi è priva di scrittura critica, non c’è più un linguaggio critico che può sostenerla e condurla verso il tragitto della lettura, perché anche quel linguaggio è stato esautorato e defenestrato dagli «idiomi di accompagnamento» che sembrano così ben scritti e accuditi da fare invidia ad un critico intonso. Non sappiamo neanche quale linguaggio impiegare per questo tipo di «poesia», che non appare né troppo «in» né troppo «post», è una scrittura che sta a mezzo, né di qua né di là, una scrittura impigrita da uno strascico di antica nobiltà denominativa. Ma è proprio quella sovrana pigrizia, quella paresse e grazie ad essa che la scrittura poetica di Rifrazioni può brillare nella sua aura di sobria caducità, perché accetta senza rancore di essere parola della caducità, parola dell’indebolimento del senso, parola dell’indebolimento dell’essere. L’indebolimento delle parole si rivela chiaro in quell’aggettivo posto a ridosso della parola «dio», intendo «frecciuto», con quel quasi vezzeggiativo che è già un diminutivo che va a collimare con un altro aggettivo «indebolito», quello «sfiacchito», poco più giù, addebitato al «corpo». Forse una certa manutenzione negligente del verso la può fare soltanto chi ha il verso nel proprio registro di classe, quasi una nobile pigrizia dello stile:
Non v’è un tempo per l’amore. Il dio frecciuto
può presentarsi non chiamato all’uomo vecchio
e nel corpo sfiacchito fortemente accenderlo.
Ma se l’impenitente non soggioga poi
l’oggetto amato, una pena senza scampo
fa strenua e balbettante la resa.
Leggiamo un’altra poesia:
Non si tratta più di accordare lo strumento
ma lasciarlo vibrare, ora solo sfiorandolo,
ora percuotendolo in una furia irriflessa.
un poco appressarsi a quel che mancava.
… Come andare dietro un’ombra senza chiedersi
di dove provenga. in quella toccarsi.
È ovvio che qui «lo strumento» non è più la lingua, «non si tratta più di accordare lo strumento», intendo la negligenza della distanza dalle parole… perché il linguaggio non accetta di essere «accordato», manipolato, manomesso, il linguaggio va accettato per quello che è, con i suoi rumori, le sue zone franche, le sue zone di silenzio, con i suoi gorghi semantici; soltanto «sfiorandolo» quello «strumento» potrà offrire i suoi significati, e «percuotendolo» «in una furia irriflessa». Il simulacro, la deità che presiede a questo rito è Dioniso. Ascoltiamolo:
Di quale Dioniso parla se da questo stambugio
si promette un desiderio sconfinato.
Quel dio di doppiezze pianse anche lui
e da quel pianto germogliò l’uva che inebria.

si promette un desiderio sconfinato
Dioniso è il dio dell’ebbrezza, del «desiderio» che muove tutte le cose, quel «desiderio» che viene evocato dalle parole e attraverso le parole, che viene portato dalla superficie e che conduce nella dimensione dell’ascolto profondo, nella dimensione della «distanza». Abitare il «desiderio» è già stare dentro una stanza, dentro una distanza, un girare intorno al «desiderio», viverlo dall’esterno e dall’interno al contempo. Dioniso è anche il dio che scuote dall’interno la fredda scrittura di Apollo, che è la scrittura della ricomposizione delle tensioni introdotte dal «desiderio». Un’altra parola chiave del libro, oltre a «desiderio» è «inquietudine», inquietudine e «rifrazioni» sono tre parole, l’una presuppone le altre, e tutte e tre contribuiscono a stabilire la Grundstimmung, la tonalità dominante del libro, perché la poesia, come dice Steven Grieco Rathgeb «è un luogo non una strada», ma noi non sappiamo mai se la strada condurrà in un luogo; è questa l’aporia massima: imboccare una strada sapendo che essa raramente ci porterà in un luogo. Una fredda scrittura apollinea vivificata dalla inquietudine della facoltà desiderante. È il desiderio che muove la poesia che è quella cosa che si scrive nelle intertemporalità, in quegli attimi di sospensione dal giogo del quotidiano, negli «interludi», e questo è forse il modo migliore per carpire il segreto del quotidiano. Il desiderio tende l’arco dello stile. Balugina la consapevolezza di «un altro tempo [che] corre in questo tempo», che la poesia la si fa e la si trova negli interstizi tra le temporalità. Leggiamo una poesia significativa:
Un altro tempo corre in questo tempo
che contiamo a minuti:
è l’ansa dove il sogno della mente
non conosce durata,
la parola che tenta se stessa
esatta, svelata.
*
Precipita lì ora, pure è la sola eternità
nella quale attestarsi.
Dove non è tanto importante la rima in «ata» del terzultimo con l’ultimo verso, quanto la apparente negligenza di infilare la rima proprio nel finale di stanza, quasi con noncuranza, quasi con stupore, come qualcosa di cui potremmo anche fare a meno: la rima che non sai più dove metterla, e che allora la metto in ultimo come per trarmi d’impaccio. In fin dei conti, la rima ha oggimai perduto la sua antica nobiltà denominativa, la sua gioia di vivere, la gioia del suono, quello che resta è quasi un impaccio, un incespicare, appunto, su una rima non necessaria, non voluta, non cercata. E in questo trattare le cose importanti con la massima noncuranza, proprio qui risiede un elemento di distinguibilità della scrittura poetica di Pecora. È qui la sua classe di scrittura, che sa di antico, come in certi verbi («adduce») che invece nel contesto della sua poesia diventa un verbo nuovissimo, o in certo lessico usurato che viene ripescato e riutilizzato, ma senza alcun riguardo per la scrittura ricercata, anche a costo di poterlo sembrare. Anche certe frasi assiomatiche sembrano dei logaritmi assiologici, e invece sono semplicemente dichiarazioni di indugio, di negligenza, di non belligeranza. Questo stile logaritmico mixato con una negligenza figlia dello stile colloquiale è il marchio peculiare della scrittura di Pecora: il poeta dice cose importanti come tra le righe di un discorso mezzo cancellato, di un discorso interrotto e ripreso e, infine, abbandonato per la via.
V’è un’ora della notte quando il sonno, che fino allora
ha retto il suo oscuro governo, d’improvviso si squarcia
nella veglia. Subito, uno dietro l’altro, come torme
di cani affamati si presentano i pensieri più cupi,
le minacce più funeste. E ogni ardire si sfalda.
Del passato non resta nemmeno una stilla di bene,
non v’è rimedio al peggio che spinge da ogni parte:
cova in ogni parola, si nasconde dietro ogni faccia. E solo
se riesci a trovare la forza di accendere la lampada,
di tornare alla pagina del libro lasciato prima
che il sonno t’avvolgesse, solo allora arriverai
a risillabare la speranza. (Trapela dalle imposte
socchiuse la prima luce dell’alba, livida, incerta.)
Forse la poesia è questo frangersi e rifrangersi di «rifrazioni», questo incrociarsi di raggi rettilinei che, attraversando i corpi, si propagano in altri raggi distorti. Elio Pecora prende a prestito dalle leggi dell’ottica questo singolare fenomeno che noi tutti abbiamo sotto gli occhi in ogni momento del dì.2]
C’è in questa scrittura poetica quasi una reticenza psicologica, un «dolore frammentario», una incertezza, una frammentazione del dolore, un voler pensare in pensieri e un non volere pensarli, una oscillazione tra pensieri diversi che albeggiano e si spengono, quasi un indebolimento dei pensieri. C’è un ingombro di oggetti e di pensieri che pensano gli oggetti di cui «la nostra giornata si riempie»; c’è questo mistero delle cose che sembrano allontanarsi o rintanarsi «nel buio odoroso di un armadio, fra mucchi di vecchie carte,/ nella tasca interna di una giacca da portare in lavanderia». Il discorso sugli «oggetti» diventa scivoloso. Il discorso sugli oggetti è un discorso sulla alterità, e allora il discorso slitta, oscilla, imbocca percorsi litoranei, laterali, obliqui attraverso i quali si può giungere alla meta di essi senza eludere l’aporia che li abita e che abita in noi, perché se il discorso poetico non costruisse questi cunicoli, queste vie indirette e oblique allora non ne verrebbe mai a capo, di quelle aporie, intendo, che giacciono al fondo del nostro rapporto con gli oggetti e con le cose. L’unico modo che il discorso poetico ha è quello di attraversare la vita degli oggetti, nella certezza che disporsi al raggiungimento della meta sarebbe un proposito illusorio e fuorviante. Continua a leggere