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Anniversario, di Fernando Pessoa (1988-1935), Lettura e video di Diego De Nadai, Un Appunto di Giorgio Linguaglossa, Non si capisce nulla della poesia di Pessoa se non si tiene bene aperto davanti agli occhi il registro del nichilismo, quel morbo invisibile che attecchì le menti degli abitanti dell’Europa di allora. Non si capisce niente del mondo di oggi se non teniamo bene aperto il quaderno del nichilismo di oggi: la crisi delle democrazie parlamentari dell’Unione Europea e dei suoi cittadini, spaesati, impoveriti e impauriti.

Diego De Nadai è nato a Cagliari il 20 luglio 1955 laurea in Lettere moderne. La carriera di voce recitante: Doppiatore , attore (maker creatore di video poesie ) nasce dopo il 1999 dopo una formazione di 5 anni con la docente di dizione e espressività vocale Ludumilla Martinucci.
Vincitore di vari concorsi nazionali a tema unico dell’accademia d’arte drammatica sezione A.D.I. “Associazione Doppiatori Italiani.”
1° classificato Napoli 2017 –Firenze e Torino 2018 – Milano 2019,
1° premio della fondazione Fernando Pessoa di Lisboa 2010 quale miglior interprete delle poesie di Fernando Pessoa in lingua italiana.
Film come attore. Io Bullo – Santa – Quando i papaveri erano rossi.
Lettore di poesia religiosa : Rai 3 per il Programma “Uomini e profeti “
Docente a Roma al “ Polmone pulsate- salita del Grillo “ di una scuola di interpretazione vocale con corsi specifici e individuali di (dizione, fonetica e espressività vocale ) con l’applicazione del metodo Stanislavskij. Ha anche organizzato concorsi di poesia.

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«La voce di Diego De Nadai è in sé una nobile arte frutto di scavo psicologico e lavoro sui testi. Arte che è un fare per veicolare messaggi, viaggio nel valore semantico delle parole, insieme al suono, al ritmo, alla modellizzazione secondaria. Non la voce è importante, ma “ciò che è nella voce” dice Aristotele. La fonogènica voce di Diego De Nadai, pregnante di pathos, racchiude in sé alcune qualità della musica e riesce a darci la Befindlichkeit, lo stato in luogo della voce; convogliare emozioni e stati d’animo in maniera più semanticamente più ricca di quanto talora faccia la musica stessa. La poesia come Dire originario diventa comunicazione quando si legge o si ascolta la poesia stessa arricchita dall’apporto emotivo di una particolarissima Befindlichkeit. La voce di De Nadai sinesteticamente convoglia nella sensibilità soggettiva dell’ascoltatore la sensiblerie della voce recitante. La voce recitante con il suo apporto emotivo incide sull’alone del significato della parola e sul suo valore semantico, contribuendo a fornire una maggiore e più profonda comprensione del testo poetico.»
(Giorgio Linguaglossa)

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Appunto di Giorgio Linguaglossa

Ci tenevo a postare questa poesia di Fernando Pessoa interpretata da Diego De Nadai. Personaggio di poeta così complesso e sfaccettato che non è possibile racchiudere in una formula. Uno dei principali poeti del novecento, uno dei massimi del modernismo europeo. Oggi mi chiedo chi siano in Italia gli eredi del modernismo europeo, se c’è stato in Italia un modernismo europeo o un movimento poetico ragguagliabile al modernismo in accezione specifica e perché e per quali ragioni in Italia non c’è stato un movimento poetico modernista. Che cosa significa oggi fare in Italia una poesia in qualche modo erede della tradizione del modernismo in un momento storico come quello attuale di fine del postmoderno e quindi di fine del modernismo. Impresa non facile e ricca di sfaccettature che richiede qualche riflessione. La nuova ontologia estetica o fenomenologia del poetico è una cosa che è in rapporto in qualche modo e misura con quella lacuna, con quella mancanza, è come se nella tradizione poetica italiana mancasse un anello, un tassello di congiunzione all’Europa, con il modernismo portoghese ed europeo, è questo il senso profondo di riproporre oggi la lettura di un poeta come Pessoa che impersona la grande crisi della cultura europea degli anni venti e trenta. Anche oggi, come allora, viviamo in un momento di grande crisi della cultura europea. Non è un caso che il poeta più influente degli anni trenta che abbiamo avuto in Italia è stato Vincenzo Cardarelli mentre in Portogallo c’era un certo Fernando Pessoa, la differenza dice tutto. La nuova ontologia estetica invece con la sua ultima produzione: la poetry kitchen assume: «La poesia non è figlia della memoria» perché la storia si è mutata in storialità. L’oblio della memoria (da cui i celebri versi di Brodskij: «La guerra di Troia è finita / chi l’ha vinta non ricordo»), segna l’inizio di una nuova poesia, di una nuova narrativa e di una nuova arte: una poiesis incentrata sulla dimenticanza della memoria e sull’oblio della tradizione.
Qui, in nuce, c’è il punto nevralgico della nuova poesia europea.
Un poeta del Dopo il Novecento non potrà più fruire dell’ausilio della memoria, dovrà imparare a farne a meno. La condizione dell’uomo nell’epoca del neoliberalismo è contrassegnata da questa duplice petitio principii: l’oblio della memoria (e della tradizione) e l’oblio della libertà, Pessoa rientra nella generazione di quell’Europa che si preparava, inconsapevolmente, a militare per la irregimentazione nei regimi illiberali e autoritari, di qui la dissoluzione dell’Io e la disintegrazione  dell’inconscio storico. Pessoa con straordinaria lungimiranza preannuncia tutto ciò.

Forse nessuno in Europa come Pessoa ha avvertito i segnali, i campanelli di allarme che tintinnavano dovunque. In Italia noi, in piena autarchia, abbiamo avuto un Cardarelli e il ritorno all’ordine de “La Ronda”, poca roba davvero. Oggi, l’epoca del neoliberalismo si nutre vampirescamente delle zone grigie dell’inconscio storico, la poiesis, priva di ricerca intellettuale, si riduce ad uno statuto ancillare e auto propositivo. Un poeta, la profondità di un poeta la si misura dalla sua capacità di captare i segnali del proprio tempo che preannunciano il futuro prossimo venturo, di sondare la crisi del proprio tempo. Non si capisce niente di Pessoa e della grande poesia europea di quegli anni se non teniamo presente la crisi dell’Europa: la poesia di Mandel’stam, Eliot, Pessoa, Montale sta lì a dimostrare che alcuni poeti avevano intravisto, molto in anticipo sui propri contemporanei, la crisi di civiltà e di valori della cultura del loro tempo. Non si capisce nulla della poesia di Pessoa se non si tiene bene aperto davanti agli occhi il registro del nichilismo e della dissoluzione dell’Io, quel morbo invisibile che attecchì le menti degli abitanti dell’Europa dagli anni trenta ai quaranta. Non si capisce niente del mondo di oggi se non teniamo bene aperto il quaderno del nichilismo di oggi: la crisi delle democrazie parlamentari dell’Unione Europea e dei suoi cittadini, spaesati, impoveriti e impauriti da una guerra insensata scatenata dalla autocrazia di Mosca. La poesia è tra le arti forse quella più idonea a rappresentare la crisi di un mondo, del nostro mondo…

da Il libro dell’inquietudine:

Mi ero alzato presto e mi attardavo a prepararmi ad esistere [147]

La generazione cui appartengo, quando è nata, ha trovato un mondo sprovvisto di fondamenta per chi abbia cervello e un cuore. Il lavoro di distruzione delle generazioni anteriori aveva fatto in modo che il mondo, sul quale siamo nati, non ci potesse dare nessuna sicurezza sul piano religioso, nessun aiuto sul piano morale, nessuna tranquillità sul piano politico. Siamo nati ormai in piena ansia metafisica, in piena ansia morale, in piena agitazione politica. Ebbre delle formule esteriori, dei meri procedimenti della ragione e della scienza, le generazioni che ci hanno preceduto hanno abbattuto i fondamenti della fede cristiana… [173]

Onto Fernando Pessoa

Fernando Pessoa

Anniversario

Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno,
io ero felice e nessuno era morto.
Nella casa antica, perfino il mio compleanno era una tradizione secolare,
e l’allegria di tutti, e la mia, era giusta come una religione qualsiasi.

Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno,
avevo la grande salute di non capire alcunché,
di essere intelligente per quelli della famiglia,
e di non aver le speranze che gli altri avevano in mia vece.
Quando arrivai ad avere speranze, non sapevo più avere speranze.
Quando arrivai a guardare la vita, avevo perso il senso della vita.

Sì, quello che fui di supposto per me stesso,
quello che fui di cuore e famiglia,
quello che fui di veglie di semiprovincia,
quello che fui perché mi amavano e perché ero bambino,
quello che fui – Dio mio!, quello che solo oggi so di essere stato…
Com’è lontano!…
(Nemmeno l’eco…)
Il tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno!

Ciò che oggi sono è come l’umidità nel corridoio in fondo alla casa,
che provoca muffa nelle pareti…
Ciò che oggi sono (e la casa di quelli che mi hanno amato trema attraverso le mie
[lacrime),
ciò che oggi sono è che abbiano venduto la casa,
è che tutti siano morti,
è che io sia sopravvissuto a me stesso come un fiammifero freddo…

Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno…
Quale oggetto d’amore è per me quel tempo, come una persona!
Desiderio fisico dell’anima di essere lì un’altra volta,
attraverso un viaggio metafisico e carnale,
con una dualità da me a me…
Mangiare il passato come pane per l’affamato, senza tempo di burro sotto i denti!

Vedo tutto ancora una volta con una nitidezza che mi rende cieco alle cose presenti…
La tavola apparecchiata con dei posti in più, con la porcellana migliore, con dei
[bicchieri in più,
la credenza con molte cose – dolci, frutta, il resto nell’ombra sotto la scansia –,
le vecchie zie, i cugini estranei, e tutto era per me,
al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno…

Fermati, cuore mio!
Non pensare! Lascia il pensiero alla testa!
Oh mio Dio, mio Dio, mio Dio!
Oggi non compio più gli anni.
Perduro.
I miei giorni si addizionano.
Sarò vecchio quando lo sarò.
Nient’altro.
Rabbia di non aver portato in tasca il passato rubato!

Il tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno!…

15 ottobre 1929 Continua a leggere

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Edith Dzieduszycka, 4 poesie da Ingranaggi, Progetto Cultura, Roma, 2021, pp. 100 € 12, Piccola Antologia di poesie, Lettura di Giorgio Linguaglossa, Video poesia di Diego De Nadai

Si hanno «ingranaggi» quando tra due corpi vi sono dei punti di contatto. Sono i contatti che muovono gli «ingranaggi», quelli fisici e quelli psicologici, propriamente umani; ma negli esseri umani la questione è terribilmente più complessa perché i contatti sono per lo più inconsci, è l’inconscio che decide del quoziente di contatti che avvengono, e quindi di ingranaggi che noi mettiamo in essere. Ecco la problematica squisitamente esistenziale che Edith Dzieduszycka sviscera in questo libro. Poesia esistenziale questa della poetessa francese di adozione romana che non smette di interrogarsi e di interrogare la questione della condizione umana. A che punto è la quaestio degli «ingranaggi» oggi?, si chiede la poetessa. Accade che un eccesso o un difetto del numero di contatti può degenerare in uno stop degli «ingranaggi». La macchina umana viene vista come un complicatissimo meccanismo di ingranaggi archimedici e cibernetici fatti con buonissimi propositi ma che alla fine cagionano una implosione, un arresto, uno stop.
Giorgio Agamben pone la questione dei «contatti» in questi termini: «Giorgio Colli ha dato un’acuta definizione affermando che due punti sono a contatto quando sono separati soltanto da un vuoto di rappresentazione. Il contatto non è un punto di contatto, che in sé non può esistere, perché ogni quantità continua può essere divisa. Due enti si dicono a contatto, quando fra essi non si può inserire alcun medio, quando essi sono cioè immediati. Se fra due cose si situa una relazione di rappresentazione (ad esempio: soggetto-oggetto; marito-moglie; padrone-servo; distanza-vicinanza), essi non si diranno a contatto: ma se ogni rappresentazione viene meno, se fra di essi non vi è nulla, allora e solo allora potranno dirsi a contatto. Ciò si può anche esprimere dicendo che il contatto è irrappresentabile, che della relazione che è qui in questione non è possibile farsi una rappresentazione».1
Così, nella poesia”I pescatori” i personaggi scoprono che sono presi in un gorgo, in un medesimo «ingranaggio» che non lascia scampo, almeno fino a quando non si avrà il coraggio di dire: «Non vogliamo», come recita l’ultimo verso della poesia. E così termina la poesia, con l’ultimo verso posto come un semaforo rosso. Il colore del diniego e del rifiuto può essere la chiave di volta che apre i mondi dell’esistenza, dire «No» è molto più importante del dire «Sì», rende inoperoso il «Sì», lo debilita, lo disarma, e ci rende più umani. Il libro dunque ci racconta la storia dell’attraversamento del territorio del «No», un «Non vogliamo» in grado di spezzare gli «ingranaggi» con cui la socialità con le sue leggi implacabili ha irretito le esistenze degli uomini del nostro tempo.

(Giorgio Linguaglossa)

1 https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-filosofia-del-contatto

Quattro poesie da Ingranaggi (2021)

Signor Raggiro

Caro signor Raggiro
tra rosa fra le dita e fetido concime
tra brandelli e stracci

ma con il cuor in mano
la schiena curva dall’artrite sotto l’abito nuovo

a Lei senza timore
perfino con speranza e un grande rispetto
quest’oggi mi rivolgo

convinto di trovare
in Lei
un orecchio attento

mi dica signor Raggiro
quanti siamo scongelati
con tacchi a spille o luride ciabatte

quanti siamo a chiedere – e a chi poi? –
verso quale meccanico di quale Quartiere Generale
possiamo elevare questa preghiera ingenua?

dove quando andremo nel paese del Dopo?
Credo siamo in tanti
a provare sgomento a tale proposito

caro signor Raggiro
per favore mi dica
ha notato per caso questa cosa

un’altra che trovo io ben strana?
me la spieghi La prego
se mai ci ha pensato

si tratta di una domanda
che nessuno mai si pone
salvo pochi ingenui

sul Dopo sì va bene
facciamo ipotesi del tutto strampalate
e ci preoccupiamo

per noi cibo da vermi
inquinati frammenti
rimane però oscuro un punto da chiarire

chi ci racconterà e c’illuminerà
su quel che facevamo
alla bassa marea nel paese del Prima?

 

I pescatori

Sulla riva del fiume un bel giorno d’estate
a distanza normale – che vuol dire normale? –
s’erano sistemati su scomodi sgabelli

due pescatori

a terra il materiale
scatola per le esche mosche vermicellini
ami e mulinelli

canne grande cestino
In tuta verde loro
con capelli a visiera

mollemente distese su pieghevoli sdraie
le mogli in disparte si annoiavano
leggendo poesie forse facendo finta

più passava il tempo
meno mordeva
la preda

malgrado gli ampi gesti
da mulino a vento
per buttare l’arpione

si alzò irritato uno dei pescatori
s’avvicinò all’altro
con fronte corrucciata

mi dica – se lo sa –
da un bel po’ di tempo
mi tormenta un pensiero

forse sono venuti
il momento e il luogo
per chiederci

da dove ci arriva la Coscienza del Sé
con Libero Arbitrio
sedicente a rimorchio?

chi ci ha caricati
sulle spalle quel peso?
mi dica – se lo sa –

di quale utilità per noi
è il capire
che ora qui ci siamo

tra che cosa
e chi sa
qual altra cosa ancora?

ben presto dall’arpione
verremo acciuffati
e non ci sarà modo di dire

non vogliamo.

La crepa

In un angolo perso o distratto o nascosto
– ancora non lo so –
del mio giardino rosa
mi sono rifugiata una sera di spleen

Sarà perché mi piace la parola
-giardino –

mi suona dentro furtivo campanello
parola dondolante incerta
a metà strada fra terra acqua e cielo
festa fragrante

in fondo al mio giardino diventato selvaggio
tra invasivi rovi erbe cattive sassi
si cela una crepa
un passaggio segreto

nella materna terra ove striscianti
cadono man a mano le cose
che non so più chiamare

il mio giardino rosa blu verde o grigio
– come oggi m’appare –
a volte bianco neve che in pianto si scioglie
sulla traccia del giorno si lascia andare stanco

ha sete
il mio giardino

e si sta consumando nell’autunno che vira
e volta sulla ruota
che mi sento girare
in fondo alla pancia sulla panca di muschio

il mio giardino a volte
raramente fiorisce
è poco – voi direte –
ma non è vero niente

fiori preziosi e rari dalla melma bocciati
in me sento fiorire
semi d’ombra e fragranza. Continua a leggere

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Stanza n. 57, Il saluto del Signor K. per il santo Natale di Giorgio Linguaglossa, Video e voci recitanti di Diego De Nadai e dell’Autore, Parlare di contenuto di verità a proposito dell’arte moderna è come parlare di immondizia dello spirito

Giorgio Linguaglossa

Stanza n. 57

Il saluto del Signor K. per il santo Natale

«Cari Signori Gino Rago, Giorgio Linguaglossa,
Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi e compagnia varia…

Vi porgo i miei saluti
dal Labirinto, quel luogo dal quale non è più

Possibile trovarsi, dove forse non c’è neanche bisogno di perdersi
o di cercare le scaturigini di alcunché.

Le parole, egregio Signor Linguaglossa, in questo luogo
sono del tutto fuori posto.

Mi perdoni questa ovvietà – disse il Signor K. –
ma lei, mi dicono, è un poeta!

Vede? Cado anch’io a volte dalle nuvole
nelle trappole della geometria euclidea.

Che vuole, ho un debole per i triangoli scaleni, i triangoli ottusi,
gli eptaedri, i vertici acuti, i numeri primi…

Tutto ciò che avete amato,
cari Gino Rago e Linguaglossa, Gabriele e Lucio Mayoor Tosi
e compagnia varia.
E quanti altri della nuova ontologia estetica
non ha più ragion d’essere…».

Il lestofante aprì la confezione di pasticcini ripieni di crema e bignè al cognac.
Arietta di Offenbach.
Sorrise.
La bocca zeppa di denti d’oro che brillavano.
«Professione?»,
«Sì, metta intagliatore di diamanti», rispose il cialtrone.
Poi si chinò per arraffare qualcosa dalla tasca interna della giacca di velluto.
Cravatta blu a pallini gialli.
Farfugliò qualcosa sul pianoforte a coda.
«Non siamo parenti – mi disse – però, in un certo qual modo, siamo prossimi…
No, no, non parlo di voi, caro amico…
Parlo d’altro…».

«La realtà è il risultato dell’autonegarsi dell’Assoluto.
Auto-negarsi nel suo stesso porsi, un porsi

nel suo stesso negarsi.
Che vuole, un gioco di prestigio!
Op! Op!, carta di qua, carta di là, dove sta?, di qua o di là?

Sì, mi attendo da Voi una risposta», ingiunse il cipiglio.
«Una sola, però,

intorno alla decoincisione dell’essere dal nulla.
E sì, anche intorno all’Assoluto.

Per questo vi do il mio indirizzo:
Quartier Generale dell’Aldilà
dove scorre il fiume dell’aldiquà,
al numero civico 777, piano terzo, scala D,
senza ascensore,
attigua alla abitazione di Dio, perbacco!».

Stanza n. 23 – la raccolta inedita di Giorgio Linguaglossa è un Labirinto di stanze all’interno delle quali si accede mediante delle aperture e delle chiusure personificate da porte. Le porte sono tutte chiuse. Ciò che avviene nelle Stanze sono degli eventi. La stanza non è altro che uno spazio aperto da una porta e chiuso da una porta, la porta-adito e la porta-serramento. È all’interno delle molte stanze del Labirinto che si svolge il confronto, serrato e drammatico, tra il Signor K. e Cogito. I due agonisti sono l’espressione della civiltà occidentale nel momento della sua massima crisi. È banale dirlo: alle stanze si accede attraverso una porta, al di là di essa si apre uno spazio chiuso, lo spazio della domesticità dove accade l’esistenza. In ogni stanza di questo Labirinto si svolge un evento, accade una esperienza che ha per protagonisti Cogito, il filosofo, per estensione l’uomo pensante, e il Signor K., l’Altro,  il convenuto, l’inviato nel mondo degli uomini con il preciso compito di introdurre in esso il caos, il principio di dissoluzione di tutte le cose. Il confronto è serrato, dialettico, senza esclusione di colpi, dei due uno soltanto potrà cantare vittoria. Ma, verosimilmente, se vittoria ci sarà, sarà una vittoria effimera, una vittoria di Pirro.
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Caro Francesco Paolo Intini,

sono propenso a pensare che tutta la nuova fenomenologia del poetico è, in certo modo, il prodotto del «nuovo mondo»,1 conglomerato di citazioni senza virgolette (non c’è bisogno che sia necessariamente virgolettato) di altri poeti dell’età del modernismo e dell’umanesimo, auto citazioni, ma anche montaggio, compostaggio incessante di tutto ciò che può essere montato, compostato; costellazione di appuntamenti segreti, ricordi, rammendi, parole trovate, perdute, ritrovate, parole dimenticate, fotogrammi, lapsus e, perché no, delle nostre ossessioni, delle nostre fobie. Una «pallottola» che rimbalza qua e là e che produce una sequenza impensabile di disastri, un commissario inconcludente, un misterioso «Ufficio di Informazioni Riservate» di Gino Rago che interviene ad libitum e scombuglia il corso degli eventi, un Faust che colloquia con Mefistofele, la vita come «Registro di bordo» (Mario Gabriele). Ci guida una idea di poesia ma non possediamo alcuna poesia. Ci guida una idea di mondo ma non possediamo alcun mondo. La cultura è spazzatura e l’arte ne dipende come la nettezza urbana dall’immondizia. Parlare di contenuto di verità a proposito dell’arte moderna è come parlare di immondizia dello spirito.
Con questi frammenti abbiamo puntellato la nostra poesia.

(Giorgio Linguaglossa)

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1 Cfr. G. Agamben, Nudità, Nottetempo, Roma 2009 «il nostro tempo non è nuovo, ma novissimo, cioè ultimo e larvale. Esso si è concepito come poststorico e postmoderno, senza sospettare di consegnarsi così necessariamente a una vita postuma e spettrale, senza immaginare che la vita dello spettro è la condizione più liturgica e impervia, che impone l’osservanza di galatei intransigenti e di litanie feroci, coi suoi vespri e i suoi diluculi, la sua compieta e i suoi uffici. […] Poiché quel che lo spettro con la sua voce bianca argomenta è che, se tutte le città e tutte le lingue d’Europa sopravvivono ormai come fantasmi, solo a chi avrà saputo di questi farsi intimo e familiare, ricompitarne e mandarne a mente le scarne parole e le pietre, potrà forse un giorno riaprirsi quel varco, in cui bruscamente la storia – la vita – adempie le sue promesse». Continua a leggere

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Philosophy Kitchen, Poetry kitchen, Topologia del Reale, Una superficie piatta, unidimensionale, priva di discontinuità, Riflessioni di Fabio Vergine, Giorgio Linguaglossa, Due poesie kitchen di Marie Laure Colasson, Video di Diego De Nadai

Escher moebius

[Nel nastro di Möbius esiste un solo lato e un solo bordo. Dopo aver percorso un giro, ci si trova dalla parte opposta. Solo dopo averne percorsi due ci ritroviamo sul lato iniziale. Quindi si potrebbe passare da una superficie a quella “dietro” senza attraversare il nastro e senza saltare il bordo ma semplicemente camminando a lungo]

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Marie Laure Colasson

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Leggendo anche quest’ultima poesia di Lucio Tosi, dopo quella di Gino Rago, Mario Gabriele, Mauro Pierno, Francesco Intini e altri… mi sono resa conto di come la poesia kitchen si muova lungo la superficie, che poi sia una superficie toroidale o di un nastro di Moebius non cambia nulla. La superficie ha sostituito la verticale e la verticalità. Voglio dire che la poesia di Ungaretti de Il porto sepolto (1916), poi L’Allegria di naufragi (1919), è una tipica poesia della verticalità e del thaumazein; ancora la poesia del primo periodo di Maria Rosaria Madonna si muove sulla verticalità, ma già quella del second periodo opta per la superficie; analogamente il primo Montale abbraccia la verticale, il secondo opta per la superficie. Dunque, c’è una forza storica che spinge in questa direzione, verso la superficie, la superficie versus la superficie, ma quello che differenzia la poesia kitchen o pop poetry dalla poesia tradizionalmente novecentesca è la scelta deliberata e consapevole verso la poesia di superficie unica, estesa ed infinita.
E mi sembra che la differenza è quella che fa questione.

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Marie Laure Colasson 20x29 2020

[Marie Laure Colasson, Struttura, 20×29 cm, acrilico, 2020]

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Fabio Vergine
Philosophy Kitchen #9 , Anno 5, Settembre 2018 ISSN: 2385-1945, Soggettivazioni. Segni, scarti, sintomi p.13

Extimité. Per un reale fuori dal senso

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Che cosa è un soggetto? Come lo si definisce? Sono alcuni plausibili interrogativi entro cui è possibile ricondurre l’intenzione globale della riflessione di Jacques Lacan.
Il soggetto è ciò in cui si condensano e si polarizzano forze attrattive radicalmente opposte, pur nella profonda ed apparentemente placida intimità con sé stesso. Uno dei più scostanti paradossi della soggettività lacaniana è quello in forza del quale i confini delle consuete dimensioni spaziali collassano: il dentro e il fuori non si oppongono più, l’interno e l’esterno non tratteggiano più le proprie reciproche frontiere, l’interiorità e l’esteriorità non sono più i due poli di una medesima unità, ma si trattengono in una sintesi immediata e non dialettica dell’uno e dell’altro. Extimità.
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Nei suoi numerosi riferimenti alla topologia Lacan utilizza la figura toroidale per fornire un’immagine concreta del reale: il vuoto al centro del toro è quel fuori attraverso cui si definisce il dentro (Benvenuto 2011, 10). L’intimità del toro ne è a sua volta l’esteriorità, il suo dentro più intimo è al di fuori di sé stesso, ed è proprio ciò in base a cui si definisce la sua dimensione ambivalente, o la confusione dei propri confini.
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In Lacan, dunque, la nozione di extimità si costituisce come quella soglia indeterminabile che lega insieme il fuori e il dentro, a partire dalla presenza di un vuoto centrale, di un buco, di uno iato.
In questo senso, quel vuoto centrale è ciò che stabilisce i confini della Cosa, das Ding. Come è noto, del resto, il vuoto cui Lacan qui si riferisce in termini simbolici per la determinazione dell’extimità relativa al soggetto, è quello stesso vuoto che Martin Heidegger descrive in relazione allo spazio vuoto interno alla brocca che, per certi versi, genera per ciò stesso la possibilità di un pieno. Pieno e vuoto, fuori e dentro, interno ed esterno; la topologia, in riferimento alla figura toroidale, è quello strumento che serve a spiegare la dimensione di un’intimità estima, o più esplicitamente, di un vuoto centrale che è immediatamente esterno ed interno. E lungi dall’essere una dimensione puramente astratta, il reale, descritto in termini di extimità, è il reale proprio del soggetto.
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In altri termini, si può affermare che il centro di ogni soggettività sia al di fuori di sé stessa (Benvenuto & Lucci 2014, 114). È possibile dunque figurare il reale come quello spazio vuoto centrale, intimo e al tempo stesso esterno al soggetto, in virtù del quale è si può generare il pieno del soggetto medesimo.
Così descritto, allora, il reale è sempre il reale del soggetto. Ancor più radicalmente, si può dire che il processo di soggettivazione sia il luogo dell’extimità del soggetto, o ancora, quello spazio instabile in cui avviene la torsione metamorfica tra l’interno e l’esterno (Domanin & Palombi 1997, 144).
C’è qualcosa, nel soggetto, che si configura, come ebbe a dire Sigmund Freud in relazione all’Es, nei termini di un «territorio straniero interno» (Bottiroli 2010, 8). In termini più appropriatamente lacaniani, questo territorio scosceso è, per l’appunto, ciò in forza del quale è possibile tentare di definire il soggetto ricorrendo alla nozione di extimità, nella misura in cui con tale categoria non è possibile riferirsi placidamente al mondo interiore del soggetto, o alla sfera dell’interiorità.
Le origini trascendentali del mondo.
Per un’ontologia topologica del reale globalmente intesa, quanto piuttosto a quell’ambivalenza radicale che attraversa, incidendola, l’intima esteriorità del soggetto a sé stesso. In ciò che usualmente intendiamo con interiorità c’è dunque uno spazio aperto, un vuoto che affetta, che taglia, che genera una differenza incolmabile, o un’«irriducibile estraneità» (Bottiroli 2010, 8) che, per quanto intima, incide inesorabilmente il soggetto.
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Ma ciò che più conta davvero è che questa intima esteriorità si configuri come quel vuoto necessario, originario e persino generativo per il soggetto stesso. Il carattere per certi versi trascendentale dell’extimità nei confronti del soggetto fa sì che essa, precedendo di diritto qualsiasi opposizione logica tra interno ed esterno, si configuri come quello spazio pre-logico in cui ogni dualismo perde la propria sostanzialità. Vuoto originario, causativo, limite trascendentale al fondo di ogni soggettivazione. Se il soggetto si genera dal suo vuoto così intimo eppur esterno a sé stesso, il reale è ciò che serve a nominare tale intima esteriorità. Questo nucleo vuoto, per certi versi irrappresentabile, attorno al quale il pensiero di Lacan si è arrovellato fin nell’ultimissimo periodo della sua vita, si costituisce come quella totalità originaria sulla quale si sviluppano e fioriscono tutte le concrezioni progressive della soggettività (Palombi 2014, 156).
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In fin dei conti, allora, il reale è così profondamente intimo alla soggettività da essere invisibile, irrappresentabile, ingovernabile. Come quella forma di cecità auto-indotta da chi osserva troppo da vicino gli oggetti, tanto da non poterne distinguere nitidamente tutte le sinuosità, il reale del soggetto è figurato da quell’intima esteriorità vuota al centro del soggetto stesso, che ne ostacola, perciò, ogni sorta di dominio.
Nella sua extimità, dunque, lo statuto della Cosa è al di là di ogni sua possibile rappresentazione; oltre, cioè, ogni sua possibile chiusura nel sistema della significazione. In questo senso, la Cosa è ciò che si muove in prossimità del reale (Forleo 2017, 170); più precisamente il reale stesso, nel pensiero lacaniano, sembra costituirsi come quel registro di un’esperienza del tutto particolare che, refrattaria all’ordine simbolico del linguaggio, è definibile soltanto nei termini di uno spazio vuoto che buca ogni concettualizzazione o, che è lo stesso, ogni possibilità di iscrizione dell’esperienza in un sistema di senso.
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È proprio in questa accezione che Lacan (1986), nel Seminario VII dedicato all’etica della psicoanalisi si riferisce a Das Ding e al suo statuto come a qualcosa che si situa al di fuori di ogni significato. Se è vero, infatti, come sostiene il celebre psicoanalista francese, che la Cosa è «quel che del reale patisce del significante» (Lacan 1986, 140), allora la vacuità nel cuore del reale (il reale del soggetto, ma anche il reale nella sua totalità, il reale inassimilabile al senso, il reale “primordiale”) non è altro che la condizione di possibilità di un pieno. Così come infatti il vuoto è la condizione necessaria del pieno, il fuori senso è la condizione di possibilità di ogni senso e di ogni non-senso.
Ecco dunque il motivo per cui la Cosa, in questi termini, è utilizzata da Lacan come manifestazione del reale stesso: costituendosi in un paradossale regime di intima esteriorità, la Cosa è ciò che, eccedendo i limiti del linguaggio, buca dal suo interno il linguaggio medesimo, rigettandosi così ad ogni sua eventuale rappresentazione. (Recalcati & Di Ciaccia 2000, 191).
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Il reale non è la realtà. Se in Lacan la realtà è il tessuto simbolico e immaginario, il registro del reale, nella problematica moltitudine delle sue accezioni, è ciò che massimamente irrompe nella trama della realtà bucandone l’intreccio. È questo uno dei motivi per cui il reale, come si è anticipato, è ciò che si situa fuori dal senso, al di là di ogni plausibile significazione.
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Le origini trascendentali del mondo. Per un’ontologia topologica del reale
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Se nella prima fase dell’insegnamento lacaniano l’inconscio strutturato come un linguaggio è l’etichetta in qualche modo “strutturalista” entro
la quale inserire la riflessione del celebre psicoanalista francese, in realtà, con la tematizzazione del registro del reale così come emerge soprattutto a partire dal Seminario VII, si profila qualcosa che nell’inconscio non è riconducibile alla sfera del significante; c’è un nucleo vuoto nell’inconscio, un vuoto centrale, intimamente estraneo all’inconscio stesso che, pur non minandone il funzionamento significante, l’articolazione simbolica non riesce a suturare (Di Ciaccia 1994, 9).
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Il reale è allora ciò che non si riduce ad alcunché di significante, ma che, al contrario, indica che non tutto è riconducibile al significante, o al registro simbolico. Opponendo strenua resistenza alla significazione, il reale è ciò che si nega persino a qualsiasi tentativo di definizione: interrogarlo è mancarlo, riferendone qualcosa non si fa che trasporlo in un registro di senso. Parlare del reale è, per certi versi, il modo migliore per mancarne l’obiettivo. È anche per questa ragione, in fondo, che, inseguendo tutte le asperità della teoria lacaniana sul reale, non possiamo che inserirci nel solco di un fallimento necessario, non potendo affatto escludere che ogni parola possa essere veramente proferita a vanvera. (Zenoni 2015, 203).
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Corriamo volentieri il rischio, se non altro perché, in fatti d’inconscio, non crediamo esistano modi ed attitudini migliori alla conoscenza se non attraverso il malinteso e l’equivoco.
Nell’inconscio del soggetto, allora, il reale emerge come un resto, un residuo, un torsolo; in ciò la psicoanalisi, lungi dal digradarsi a mera pratica ermeneutica, non può ridursi a una semplice teoria del senso (Recalcati 2013, 100): se così fosse, infatti, il nucleo vuoto del reale resterebbe assolutamente inviolato.
In fin dei conti, è anche per questi motivi che secondo Jacques Lacan, così come ricorda molto puntualmente Rocco Ronchi (2015, 119), lo psicoanalista è colui che più di ogni altro sa perfettamente che il reale, nella sua intima estraneità all’ordine simbolico, può manifestarsi solo nei termini di un eccesso residuale.
Ecco allora che fuori dal simbolico c’è del reale, ma in quel fuori così intimo che è al contempo un dentro: fuori dal significato, fuori dal senso, il reale si dà al soggetto in tutta l’ambiguità del suo statuto, anche e soprattutto dal punto di vista dello spazio di pertinenza.
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L’estraneità del reale al senso, tuttavia, non coincide precisamente con l’insensatezza del reale medesimo. Se è vero, come crediamo, che la sottigliezza di questa differenza non sia puramente formale, allora è fondamentale intendersi con cura: non rispondendo ad alcuna intenzione originaria di significazione, o di “voler dire”, il reale è il registro di tutto ciò che, nell’inconscio del soggetto, è fuori tanto dal senso quanto dal non-senso. Indifferente alla sua logica, il senso è ciò che sfugge al reale in entrambi i versi del proprio dominio.
Queste le parole di Lacan al riguardo, in uno dei numerosi tentativi costitutivamente fallimentari di definizione del reale:
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L’Altro dell’Altro reale, ossia impossibile, è l’idea che abbiamo dell’artificio in quanto è un fare che ci sfugge, e cioè oltrepassa di molto il godimento che possiamo averne. Tale godimento sottile sottile è ciò che chiamiamo spirito. Tutto questo implica una nozione di reale. Certo, bisogna distinguerla dal simbolico e dall’immaginario. L’unica seccatura – è il caso di dirlo, vedrete fra poco perché – è che in questa faccenda il reale fa senso, mentre, se andate a scavare quello che intendo io con la nozione di reale, appare che il reale si fonda in quanto non ha senso, esclude il senso o, più precisamente, si deposita essendone escluso. (Lacan 2005, 61).
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Tuttavia, malgrado la sua estraneità e la sua irriducibilità all’ordine simbolico, alla significazione e a qualsiasi tentativo di rappresentazione, esiste un modello in grado di riferire piuttosto adeguatamente l’opacità del reale al senso. Si tratta della lettera. Qual è lo statuto della lettera in Lacan? Ben lungi dall’aderire al modello della scrittura tradizionale, la lettera è qualcosa di insignificante, o insensato, ma di quell’insignificanza o insensatezza che non indica tanto l’assenza di significanza o senso, quanto l’estraneità ad esso, l’indifferenza, l’inanità.
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Ogni senso, così come ogni non-senso, è interdetto alla lettera, la cui solitudine indica l’emersione di qualcosa, nel registro dell’esperienza umana (esperienza profondamente simbolica) come di un resto problematicamente irrisolvibile e non integrabile nell’esperienza stessa, in quanto dotata di senso.
In questa prospettiva, nondimeno, esiste un’utilità della lettera, non riconducibile soltanto alla sua funzione meramente indicativa, o se si vuole, sintomatica di un reale in quanto residuo non integrabile e non significante nell’esperienza del soggetto: si tratta, piuttosto, di una funzione di collegamento con una sorta di campo trascendentale del mondo del linguaggio, prima cioè che il linguaggio stabilisca ed inauguri concatenazioni significanti di parole. Si tratta, in altri termini, di annodare l’insignificanza della lettera al potere enunciativo delle parole, così da poter “godere del solo blaterare della parola”. (Floury 2012, 96).
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La questione di fondo è legata al riconoscimento del carattere esplicativo della lettera, nella misura in cui essa, prima ancora di costituirsi come segno in un sistema linguistico, polverizza il linguaggio riducendolo alla materialità di una cosa. E quella cosa che emerge come scarto nel linguaggio, non è altro che il reale stesso. Così come sottolinea precisamente Felice Cimatti (Conferenza in “Convegno sui Piani di Immanenza”, Università degli Studi di Verona, 10 Dicembre 2015) al riguardo, la lettera, non alienandosi nell’esperienza significante del linguaggio articolato, ma opponendovi resistenza, mostra l’emergere del reale come ulteriorità rispetto alla significazione delle parole.
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In fin dei conti, in questa prospettiva il reale è ciò che interrompe il funzionamento illimitato del dispositivo semiotico: irruzione del reale nella catena semiotica, impasse della formalizzazione e dell’elaborazione dell’inceppo nel dispositivo stesso. Il reale fa problema nella linearità del dispositivo linguistico, nella strutturazione simbolica della realtà. E se il dispositivo semiotico, appunto, è ciò che funziona a patto di non arrestarsi mai, il reale emerge in questo meccanismo introducendovisi come una crepa che ne mina anche solo per un istante la stabilità.
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Del reale, dunque, non si dà sapere. Escluso all’inscrizione in un registro di senso, il reale non è dell’ordine del conoscibile, né dunque della verità.
Come esso non si concede né al senso né al non senso, così esso risulta esteriore al conoscere e al non conoscere, nella misura in cui essi non sono altro che i poli opposti di un medesimo regime: il conoscere, appunto. Come sostiene Alain Badiou al riguardo, una delle differenze sostanziali tra il reale e la realtà nel pensiero lacaniano consiste nell’inscrizione della realtà nel dominio di ciò che è, almeno di principio, conoscibile. Al contrario, il reale, che abbiamo visto essere esterno tanto al conoscere quanto al non-conoscere, non può essere pensato, per ciò stesso, nemmeno nei termini di inconoscibilità. Al di là di ogni formalizzazione fallita, il reale si può solo incontrare.

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Marie Laure Colasson Struttura dissipativa 15x20 2020

M.L. Colasson, Struttura dissipativa, 15×20 cm 2020

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Giorgio Linguaglossa

Topologia del Reale? Una superficie piatta, unidimensionale, priva di discontinuità

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L’inconscio funziona come una topologia, il sapere dell’inconscio è un sapere topologico.
La topologia ci dice che si dà un luogo che è un non-luogo. L’esemplificazione più avvincente di questa teorizzazione è il nastro di Möbius, il più famoso esempio di superficie non orientabile, della quale non è possibile stabilire un sopra o un sotto, un dentro o un fuori. Per averne conferma non ci resta che attraversare questa figura, di percorrerla, in un senso o nell’altro.
Il nastro di Möbius ci rende evidente il paradosso dell’inconscio. L’inconscio è la dimensione più propria e intima del soggetto, ma è anche quel qualcosa che gli resta sempre escluso, esterno al soggetto, bersaglio mancato, luogo nel quale l’incontro con il reale avviene nella figura del trauma. Avviene così che l’extimità è quel qualcosa di più intimo del soggetto che però si trova al di fuori di esso; la superficie topologica del nastro di Möbius ci fornisce una perfetta rappresentazione della scissione del soggetto, l’estraneità del soggetto nei confronti del suo reale più proprio ed intimo.
Quel vuoto causativo del reale al centro del soggetto è intimamente intimo ed estraneo al soggetto medesimo. Nel nastro di Möbius il sopra è immediatamente il sotto, il dentro è immediatamente il fuori, il vuoto è immediatamente il pieno. Si dà un transito continuo: il sopra diventa sotto, il dentro diventa fuori, il vuoto diventa pieno. Lo svolgimento di questo divenire è un accadimento immediato, senza soglia, mediante un transito continuo. Un effetto quasi magico.

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Si verifica un continuum non discontinuo, non oppositivo. Ciò accade in quanto ogni dimensione diventa un altro da sé in uno svolgimento, senza scambio né attraversamento di soglie o discontinuità. Nel nastro di Möbius ogni dimensione spaziale precipita nel suo opposto senza andare oltre la soglia del continuum.
Così nella poesia kitchen di Gino Rago o di Marie Laure Colasson tutto accade in virtù del continuum, per via dello statuto non oppositivo del Reale, dove si passa da un personaggio all’altro attraversando i secoli (Antonio e Cleopatra), oppure mettendo in comunicazione telepatica e geografica, oltreché storica, gli autori della nuova poesia (Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa), facendo interagire oggetti disparati come la pallottola, la gallina Nanin e la giacca di Magritte. Sono questi oggetti a costituire l’orditura del Reale. O meglio, è per il tramite della ribellione degli oggetti che possiamo gettare uno sguardo all’interno del Reale. Nella poesia di Marie Laure Colasson abbiamo un gioco di maschere e di sosia che si scambiano il posto e le identità (Eredia, la bianca geisha, Francis Bacon etc.) in una fantasmagoria che segue le leggi dell’inconscio e, in particolare, quel vuoto causativo del Reale che si rivela essere la soglia più intima (ed estranea) della soggettività.

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Gli oggetti e i personaggi della nuova poesia kitchen sono come situati su un tappeto volante o nastro magico che, scorrendo, ci mette in scena la coreografia e la scenografia di un Reale che non conoscevamo, gli scenari di un retro-Reale o sopra-Reale.
La configurazione topologica di questo nastro magico è dunque tale per cui in esso non c’è una cosa che si rovesci nel suo altro, perché prima non c’è alcuna cosa, ma solo un piano assoluto di un continuum senza opposti, senza contrari, senza discontinuità.

Marie Laure Colasson Struttura dissipativa 30x30 2020

[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 30×30 cm, 2020]

Marie Laure Colasson

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due mie ultime poesie tratte dalla raccolta inedita Les choses de la vie. Anche nella mia poesia la storia (l’aspetto diacronico) e la geografia (il piano sincronico) coesistono e coabitano dando forma ad una superficie estesa in lungo e in largo, onnivora e vorace. Forse perché viviamo ed operiamo in un mondo piatto, in un Reale piatto (con buona pace dei terrapiattisti) che un giorno sarà popolato soltanto da virus e da germi monocellulari. Proviamo ad invertire le cose (de la vie): noi umani siamo solo ospiti dei germi e dei virus.

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36.

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Charlemagne de son épée magique
tranche la tête du hibou le grand duc
aux yeux émeraude qui désirait épouser
l’une de ses filles
le pape en jouit bénit l’inceste
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Un oeuf enfile ses baskets court
dans la cinquième avenue à New York
pour manifester contre le racisme
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La poussière lunaire envahit l’atelier de Francis Bacon
se répand sur les pinceaux les tubes de peinture
restés ouverts le fauteuil bancal les toiles
à peine initiées puis pénètre dans la salle de bain
pour se doucher se poudrer le nez
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Eredia et la la blanche geisha montent sur Sophie
Sophie monte sur l’avion pour observer
la lune ses cratèrs son eau liquide
sa délirante végétation installent leurs
chaises longues prennent le soleil sans
se faire bronzer écoutent l’alto sax
de Cannonball Adderley qui joue
“Arriving soon”

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Fernando Pessoa (1988-1935), Tabaccheria, Ode alla notte, Lisbon Revisited (1926) Recitazione e montaggio in video di Diego De Nadai

fernando pessoa 1

Diego De Nadai è nato a Cagliari il 20 luglio 1955, laurea in Lettere moderne. La carriera di voce  recitante: Doppiatore, attore  (maker  creatore di video poesie ) nasce dopo il 1999 dopo una formazione di 5 anni con la docente di dizione e espressività vocale Ludmilla Martinucci. Vincitore di vari concorsi nazionali a tema unico dell’accademia d’arte drammatica sezione A.D.I. “Associazione Doppiatori Italiani.”  1° classificato Napoli 2017 –Firenze e Torino 2018 – Milano 2019, 1° premio della fondazione Fernando Pessoa di Lisboa 2010 quale miglior interprete delle poesie di Fernando Pessoa in lingua italiana. Film come attore.   Io Bullo – Santa –  Quando i papaveri erano rossi. Lettore di poesia religiosa : Rai 3  per il  Programma “Uomini e profeti” “Docente a Roma”   al  “Polmone pulsate- salita del Grillo” di una scuola di interpretazione vocale con corsi specifici e individuali di (dizione, fonetica e espressività vocale ) con l’applicazione del metodo Stanislavskij. È anche organizzatore di premi letterari.

Diego de Nadai
Diego De Nadai 2019

«La voce di Diego De Nadai è in sé una nobile arte frutto di scavo psicologico e lavoro sui testi. Arte che è un fare per veicolare messaggi, viaggio nel valore semantico delle parole, insieme al suono, al ritmo, alla modellizzazione secondaria. Non la voce è importante, ma “ciò che è nella voce” dice Aristotele. La fonogènica voce di Diego De Nadai, pregnante di pathos, racchiude in sé alcune qualità della musica e riesce a darci la Befindlichkeit, lo stato in luogo della voce; convogliare emozioni e stati d’animo in maniera più semanticamente più ricca di quanto talora faccia la musica stessa. La poesia come Dire originario diventa comunicazione quando si legge o si ascolta la poesia stessa arricchita dall’apporto emotivo di una particolarissima Befindlichkeit. La voce di De Nadai sinesteticamente convoglia nella sensibilità soggettiva dell’ascoltatore la sensiblerie della voce recitante. La voce recitante con il suo apporto emotivo incide sull’alone del significato della parola e sul suo valore semantico, contribuendo a fornire una maggiore e più profonda comprensione del testo poetico.»

(Giorgio Linguaglossa)

 

Ci tenevo a postare questa poesia di Fernando Pessoa interpretata da Diego De Nadai. Personaggio di poeta così complesso e sfaccettato che non è possibile racchiudere in una formula. Uno dei principali poeti del novecento, uno dei massimi del modernismo europeo. Oggi mi chiedo chi siano in Italia gli eredi del modernismo europeo, se c’è stato in Italia un modernismo europeo o un movimento poetico ragguagliabile al modernismo in accezione specifica e perché e per quali ragioni in Italia non c’è stato un movimento poetico modernista. Che cosa significa oggi fare in Italia una poesia in qualche modo erede della tradizione del modernismo in un momento storico come quello attuale di fine del postmoderno e quindi di fine del modernismo. Impresa non facile e ricca di sfaccettature che richiede qualche riflessione. La nuova ontologia estetica o fenomenologia del poetico è una cosa che è in rapporto in qualche modo e misura con quella lacuna, con quella mancanza, è come se nella tradizione poetica italiana mancasse un anello, un tassello di congiunzione all’Europa, con il modernismo portoghese ed europeo, è questo il senso profondo di riproporre oggi la lettura di un poeta come Pessoa che impersona la grande crisi della cultura europea degli anni venti e trenta. Anche oggi, come allora, viviamo in un momento di grande crisi della cultura europea. Non è un caso che il poeta più influente degli anni trenta che abbiamo avuto in Italia è stato Vincenzo Cardarelli mentre in Portogallo c’era un certo Fernando Pessoa, la differenza dice tutto. La nuova ontologia estetica invece con la sua ultima produzione: la poetry kitchen assume: «La poesia non è figlia della memoria» perché la storia si è mutata in storialità. L’oblio della memoria (da cui i celebri versi di Brodskij: «La guerra di Troia è finita / chi l’ha vinta non ricordo»), segna l’inizio di una nuova poesia, di una nuova narrativa e di una nuova arte: una poiesis incentrata sulla dimenticanza della memoria e sull’oblio della tradizione.
Qui, in nuce, c’è il punto nevralgico della nuova poesia europea.
Un poeta del Dopo il Novecento non potrà più fruire dell’ausilio della memoria, dovrà imparare a farne a meno. La condizione dell’uomo nell’epoca del neoliberalismo è contrassegnata da questa duplice petitio principii: l’oblio della memoria (e della tradizione) e l’oblio della libertà, Pessoa rientra nella generazione di quell’Europa che si preparava, inconsapevolmente, a militare per la irregimentazione nei regimi illiberali e autoritari, di qui la dissoluzione dell’Io e la disintegrazione  dell’inconscio storico. Pessoa con straordinaria lungimiranza preannuncia tutto ciò.

Forse nessuno in Europa come Pessoa ha avvertito i segnali, i campanelli di allarme che tintinnavano dovunque. In Italia noi, in piena autarchia, abbiamo avuto un Cardarelli e il ritorno all’ordine de “La Ronda”, poca roba davvero. Oggi, l’epoca del neoliberalismo si nutre vampirescamente delle zone grigie dell’inconscio storico, la poiesis, priva di ricerca intellettuale, si riduce ad uno statuto ancillare e auto propositivo. Un poeta, la profondità di un poeta la si misura dalla sua capacità di captare i segnali del proprio tempo che preannunciano il futuro prossimo venturo, di sondare la crisi del proprio tempo. Non si capisce niente di Pessoa e della grande poesia europea di quegli anni se non teniamo presente la crisi dell’Europa: la poesia di Mandel’stam, Eliot, Pessoa, Montale sta lì a dimostrare che alcuni poeti avevano intravisto, molto in anticipo sui propri contemporanei, la crisi di civiltà e di valori della cultura del loro tempo. Non si capisce nulla della poesia di Pessoa se non si tiene bene aperto davanti agli occhi il registro del nichilismo e della dissoluzione dell’Io, quel morbo invisibile che attecchì le menti degli abitanti dell’Europa dagli anni trenta ai quaranta. Non si capisce niente del mondo di oggi se non teniamo bene aperto il quaderno del nichilismo di oggi: la crisi delle democrazie parlamentari dell’Unione Europea e dei suoi cittadini, spaesati, impoveriti e impauriti da una guerra insensata scatenata dalla autocrazia di Mosca. La poesia è tra le arti forse quella più idonea a rappresentare la crisi di un mondo, del nostro mondo…

da Il libro dell’inquietudine:

Mi ero alzato presto e mi attardavo a prepararmi ad esistere [147]

La generazione cui appartengo, quando è nata, ha trovato un mondo sprovvisto di fondamenta per chi abbia cervello e un cuore. Il lavoro di distruzione delle generazioni anteriori aveva fatto in modo che il mondo, sul quale siamo nati, non ci potesse dare nessuna sicurezza sul piano religioso, nessun aiuto sul piano morale, nessuna tranquillità sul piano politico. Siamo nati ormai in piena ansia metafisica, in piena ansia morale, in piena agitazione politica. Ebbre delle formule esteriori, dei meri procedimenti della ragione e della scienza, le generazioni che ci hanno preceduto hanno abbattuto i fondamenti della fede cristiana… [173]

Poesie di Fernando Pessoa

Tabaccheria

Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso voler essere niente.
A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo.

Finestre della mia stanza,
della stanza di uno dei milioni al mondo che nessuno sa chi è
(e se sapessero chi è, cosa saprebbero?),
vi affacciate sul mistero di una via costantemente attraversata da gente,
su una via inaccessibile a tutti i pensieri,
reale, impossibilmente reale, certa, sconosciutamente certa,
con il mistero delle cose sotto le pietre e gli esseri,
con la morte che porta umidità nelle pareti e capelli bianchi negli uomini,
con il Destino che guida la carretta di tutto sulla via del nulla.

Oggi sono sconfitto, come se conoscessi la verità.
Oggi sono lucido, come se stessi per morire,
e non avessi altra fratellanza con le cose
che un commiato, e questa casa e questo lato della via diventassero
la fila di vagoni di un treno, e una partenza fischiata
da dentro la mia testa,
e una scossa dei miei nervi e uno scricchiolio di ossa nell’avvio.

Oggi sono perplesso come chi ha pensato, trovato e dimenticato.
Oggi sono diviso tra la lealtà che devo
alla Tabaccheria dall’altra parte della strada, come cosa reale dal di fuori,
e alla sensazione che tutto è sogno, come cosa reale dal di dentro.

Sono fallito in tutto.
Ma visto che non avevo nessun proposito, forse tutto è stato niente.
Dall’insegnamento che mi hanno impartito,
sono sceso attraverso la finestra sul retro della casa.
Sono andato in campagna pieno di grandi propositi.
Ma là ho incontrato solo erba e alberi,
e quando c’era, la gente era uguale all’altra.
Mi scosto dalla finestra, siedo su una poltrona. A che devo pensare?
Che so di cosa sarò, io che non so cosa sono?
Essere quel che penso? Ma penso di essere tante cose!
E in tanti pensano di essere la stessa cosa che non possono essercene così tanti!
Genio? In questo momento
centomila cervelli si concepiscono in sogno geni come me,
e la storia non ne rivelerà, chissà?, nemmeno uno,
non ci sarà altro che letame di tante conquiste future.
No, non credo in me.
In tutti i manicomi ci sono pazzi deliranti con tante certezze!
lo, che non possiedo nessuna certezza, sono più sano o meno sano?
No, neppure in me…
in quante mansarde e non-mansarde del mondo
non staranno sognando a quest’ora geni-per-se-stessi?
Quante aspirazioni alte, nobili e lucide -,
sì, veramente alte, nobili e lucide -,
e forse realizzabili,
non verranno mai alla luce del sole reale né troveranno ascolto?

Il mondo è di chi nasce per conquistarlo
e non di chi sogna di poterlo conquistare, anche se ha ragione.

Ho sognato di più di quanto Napoleone abbia realizzato.
Ho stretto al petto ipotetico più umanità di Cristo.
Ho creato in segreto filosofie che nessun Kant ha scritto.
Ma sono, e forse sarò sempre, quello della mansarda,
anche se non ci abito;
sarò sempre quello che non è nato per questo;
sarò sempre soltanto quello che possedeva delle qualità;
sarò sempre quello che ha atteso che gli aprissero la porta davanti a una parete senza porta,
e ha cantato la canzone dell’Infinito in un pollaio,
e sentito la voce di Dio in un pozzo chiuso.
Credere in me? No, né in niente.

Che la Natura sparga sulla mia testa scottante
il suo sole, la sua pioggia, il vento che trova i miei capelli,
e il resto venga pure se verrà o dovrà venire, altrimenti non venga.
Schiavi cardiaci delle stelle,
abbiamo conquistato tutto il mondo prima di alzarci dal letto;
ma ci siamo svegliati ed esso è opaco,
ci siamo alzati ed esso è estraneo,
siamo usciti di casa ed esso è la terra intera,
più il sistema solare, la Via Lattea e l’Indefinito.

(Mangia cioccolatini, piccina; mangia cioccolatini!
Guarda che non c’è al mondo altra metafisica che i cioccolatini.
Guarda che tutte le religioni non insegnano altro che la pasticceria.
Mangia, bambina sporca, mangia!
Potessi io mangiare cioccolatini con la stessa concretezza con cui li mangi tu!
Ma io penso e, togliendo la carta argentata, che poi è di stagnola,
butto tutto per terra, come ho buttato la vita.
Ma almeno rimane dell’amarezza di ciò che mai sarà
la calligrafia rapida di questi versi,
portico crollato sull’Impossibile.
Ma almeno consacro a me stesso un disprezzo privo di lacrime,
nobile almeno nell’ampio gesto con cui scaravento
i panni sporchi che io sono, senza lista, nel corso delle cose,
e resto in casa senza camicia.

(Tu, che consoli, che non esisti e perciò consoli,
Dea greca, concepita come una statua viva,
o patrizia romana, impossibilmente nobile e nefasta,
o principessa di trovatori, gentilissima e colorita,
o marchesa del Settecento, scollata e distante,
o celebre cocotte dell’epoca dei nostri padri,
o non so che di moderno – non capisco bene cosa -,
tutto questo, qualsiasi cosa tu sia, se può ispirare che ispiri!
Il mio cuore è un secchio svuotato.
Come quelli che invocano spiriti invoco
me stesso ma non trovo niente.

Mi avvicino alla finestra e vedo la strada con assoluta nitidezza.
Vedo le botteghe, vedo i marciapiedi, vedo le vetture passare,
vedo gli esseri vivi vestiti che s’incrociano,
vedo i cani che anche loro esistono,
e tutto questo mi pesa come una condanna all’esilio,
e tutto questo è straniero, come ogni cosa.
Ho vissuto, studiato, amato, e persino creduto,
e oggi non c’è mendicante che io non invidi solo perché non è me.
Di ciascuno guardo i cenci e le piaghe e la menzogna,
e penso: magari non ho mai vissuto, né studiato, né amato, né creduto
(perché si può creare la realtà di tutto questo senza fare nulla di tutto questo);
magari sei solo esistito, come una lucertola cui tagliano la coda
e che è irrequietamente coda al di qua della lucertola.

Ho fatto di me ciò che non ho saputo,
e ciò che avrei potuto fare di me non l’ho fatto.
Il domino che ho indossato era sbagliato.
Mi hanno riconosciuto subito per quello che non ero e non ho smentito, e mi sono perso.
Quando ho voluto togliermi la maschera,
era incollata alla faccia.
Quando l’ho tolta e mi sono guardato allo specchio,
ero già invecchiato.
Ero ubriaco, non sapevo più indossare il domino che non mi ero tolto.
Ho gettato la maschera e dormito nel guardaroba
come un cane tollerato dall’amministrazione
perché inoffensivo
e scrivo questa storia per dimostrare di essere sublime.
Essenza musicale dei miei versi inutili,
magari potessi incontrarmi come una cosa fatta da me,
e non stessi sempre di fronte alla Tabaccheria qui di fronte,
calpestando la coscienza di esistere,
come un tappeto in cui un ubriaco inciampa
o uno stoino rubato dagli zingari che non valeva niente.

Ma il padrone della Tabaccheria s’è affacciato sulla porta e vi è rimasto.
Lo guardo con il fastidio della testa piegata male
e con il disagio dell’anima che sta intuendo.
Lui morirà ed io morirò.
Lui lascerà l’insegna, io lascerò dei versi.
A un certo momento morirà anche l’insegna, e anche i versi.
Dopo un po’ morirà la strada dove fu stata l’insegna,
E la lingua in cui furono scritti i versi.
Morirà poi il pianeta che gira in cui tutto ciò accadde.
In altri satelliti di altri sistemi qualcosa di simile alla gente
continuerà a fare cose simili a versi vivendo sotto cose simili a insegne,
sempre una cosa di fronte all’altra,
sempre una cosa inutile quanto l’altra,
sempre l’impossibile, stupido come il reale,
sempre il mistero del profondo certo come il sonno del mistero della superficie,
sempre questo o sempre qualche altra cosa o né una cosa né l’altra.

Lucio Mayoor Tosi interpreta Fernando Pessoa

Ma un uomo è entrato nella Tabaccheria (per comprare tabacco?),
e la realtà plausibile improvvisamente mi crolla addosso.
Mi rialzo energico, convinto, umano,
con l’intenzione di scrivere questi versi per dire il contrario.
Accendo una sigaretta mentre penso di scriverli
e assaporo nella sigaretta la liberazione da ogni pensiero.
Seguo il fumo come se avesse una propria rotta,
e mi godo, in un momento sensitivo e competente
la liberazione da tutte le speculazioni
e la consapevolezza che la metafisica è una conseguenza dell’essere indisposti.

Poi mi allungo sulla sedia
e continuo a fumare.
Finche il Destino me lo concederà, continuerò a fumare.
(Se sposassi la figlia della mia lavandaia
magari sarei felice.)
Considerato questo, mi alzo dalla sedia.
Vado alla finestra.
L’uomo è uscito dalla Tabaccheria (infilando il resto nella tasca dei pantaloni?).
Ah, lo conosco: è Esteves senza metafisica.
(Il padrone della Tabaccheria s’è fatto sulla soglia.)
Come per un istinto divino Esteves s’è voltato e mi ha visto.
Mi ha salutato con un cenno, gli ho gridato Arrivederci Esteves!, e l’universo
mi si è ricostruito senza ideale né speranza, e il padrone della Tabaccheria ha sorriso.

Ode alla notte Continua a leggere

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Alfredo de Palchi è morto (1926-2020), Il decano della poesia italiana ci ha lasciati, abbiamo perduto un grande innovatore della poesia e un grande rappresentante della tradizione poetica italiana, a lui va il nostro saluto riconoscente e ammirato, Video di Diego De Nadai

poesia tratta da Sessioni con l’analista (1967, Mondadori)

4
strumenti: ben
disegnati precisi numerati
non occorre contarli: hanno già l’osseo colore;
nella cava il paleontologo
scoprirà la scatola blindata di lettere
che dissertano l’uomo, alcuni ossi
su cui sono visibili tracce
delle malefatte — e nel libro
spiegherà che gli strumenti automatici
erano (sono) necessari ai robots primitivi

“spiega”
lo so, il mio dire
non mi esamina o spiega, eppure . . .
(la segretaria incrocia le gambe sotto il tavolo
e vedendomi in occhiali neri
“interessante”
commenta “ma ti nascondi”)
è chiaro
— sono ancora nascosto —
non più per paura benché questa sia . . . per
autopreservazione

“perché” paura, accetta i risultati,
affronta . . . difficile
l’autopreservazione,
capisci? se tu mi avessi visto allora
nel fosso, dopo che il camion . . .

(il camion traversa il paese
infila una strada di campagna seminata
di buche / ai lati fossi filari di olmi /
addosso alla cabina metallicamente
riparato pure dai compagni che al niente
puntano fucili e mitra)
— capisci che si tratta di strumenti —
(ho il ’91 tra le gambe)

di colpo spari e io
— già nel fosso —
alla mia prima azione guerriera non riuscii . . .
me la feci nei pantaloni kaki
l’acqua mi toccava i ginocchi. Sparai quando
“leva la sicurezza bastardo” urlò il sergente Luigi
— fu l’ultimo sparo in ritardo —
dal fosso al cielo di pece
strizzando gli occhi
la faccia altrove — risero:

”sono scappati
hai bucato il culo bucato dei ribelli”

— capisci? se la ridevano —
mentre io non pensavo
no, alla preservazione.
La intuivo nel fosso —

Alfredo de Palchi 2

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Zagaroli Alfredo de Palchi Venezia 2011

Antonella Zagaroli con Alfredo de Palchi, Venezia 2011

Alfredo de Palchi John Taylor

John Taylor

È con grande tristezza che devo annunciare la morte del poeta italiano Alfredo de Palchi (13 dicembre 1926-6 agosto 2020). Alfredo aveva molti traduttori pregiati in passato: Sonia Raiziss, I. L. Salomon , Ned Condini, Luigi Bonaffini, Barbara Carle, Anamaría Crowe Serrano, Michael Palma e Gail Segal. Ho avuto il privilegio di tradurre i suoi ultimi tre libri: ′′ Nihil “, ′′ L ‘ estetica dell’equilibrium ′′ e ora ′′ Eventi Terminal “. Prima di morire, Alfredo sapeva che Karl Kvitko (di Xenos Books) ed io stavamo mettendo gli ultimi ritocchi sulle prove finali di ′′ Terminal Events “, che appariranno tra qualche settimana.

Francesca Dono

Sono nella tristezza più assoluta

Vincenzo Petronelli

Mi spiace enormente! Da qiando seguo la poetica della Noe è diventato per me un punto di riferimento di poesia vera, indipendente dalle mode e dalle correnti e capace di trasporre in poesia la lettura della storia del nostro tempo. La sua poesia ci accompagnerà sempre e sono sicuro che continuerà ad ispirare sempre chi sia im grado di seguire e scovare i veri sentieri della poesia.

Lucio Mayoor Tosi

La sua presenza è insegnamento. Sono addolorato.

Alfonso Cataldi

Incredibile. Proprio oggi rileggevo i suoi testi.

Antonella Zagaroli

Grazie John. L’avevo sentito a fine giugno e ne avevo parlato con Giorgio. Mi aveva detto che oramai era stanco ma “lei” non arrivava. Io gli devo la forza di portare avanti la mia poesia al di là dei pensieri altrui. Lessi profondamente ogni suo scri…Altro…

Letizia Leone

Una gravissima perdita umana e poetica. Un grande poeta che con autentica generosità si è dedicato da mecenate alla diffusione e promozione della poesia italiana con la sua pregevole Chelsea Editions… Condoglianze alla famiglia

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto lirico

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto lirico

Giorgio Linguaglossa

Una riflessione intorno all’opera poetica di Alfredo de Palchi

Un pensiero intorno alla povertà delle parole

Quando si pensa ad una nuova opera, ad una nuova «cosa», ad una nuova poesia pensiamo ad un «non ancora». E che cos’è questo «non ancora» che non riusciamo ad interpellare, a nominare? È l’impensato nel pensiero, l’impensato che sta al di là di ogni pensiero pensato… è il «non ancora» che guida il nostro pensiero verso la soglia dell’impensato. Allora, possiamo dire che è l’impensato che guida il pensiero verso il pensato…
La «metafora silenziosa» è l’impensato che fa irruzione nel pensiero.

Ecco, la nuova ontologia estetica è il «non ancora», è quell’impensato che muove il pensiero verso il pensato… Privati dell’utopia dell’impensato, si ricade nel pensiero già pensato, nel pensiero routinario… Dobbiamo quindi abitare l’impensato, abituarci al pensiero di abitare il «non ancora», l’impensato…

Dobbiamo intensamente pensare ad una «nuova metafisica delle parole» per poter pensare di fare «nuova poesia». Lo sappiamo, le parole della vecchia metafisica sono finite dal rigattiere, sono state vendute al Banco dei pegni. Dobbiamo trovare in noi una nuova patria metafisica delle parole, pensare alle linee interne delle parole, non a quelle esterne della rappresentazione. Quello che ha fatto Alfredo de Palchi è stato parlare direttamente della propria esperienza personale, per linee interne. E così la propria personalissima biografia è diventata la propria personalissima metafisica, e le parole sono venute da sole: brutte, sgraziate, cacofoniche, impopolari, antipatiche, anti letterarie, estranee, ultronee. Alfredo de Palchi ha fatto un passo indietro ed ha trovato come per magia le parole delle linee interne, ha esiliato le parole delle linee esterne, quelle compromesse con le parole di una metafisica non più ospitale, le parole fraudolente e ciniche, ha usato soltanto le parole sulfuree che gli dettavano la sua iracondia, le sue idiosincrasie, i suoi umori.

Qualcuno mi ha mosso, ragionevolmente, un interrogativo intorno a ciò che ho tentato di abbozzare con il nome di «metafora silenziosa». Comprendo bene le ragioni di tale diffidenza, sono comprensibili, condivisibili ma proviamo ad andare un po’ al di là del pensiero corrente, proviamo a pensare alla «metafora silenziosa» come ad una manifestazione del linguaggio. Possiamo dire così: che la «metafora silenziosa» appare quando il linguaggio si ritrae; la metafora silenziosa si annuncia quando l’orizzonte linguistico si ritrae; dobbiamo allora pensare alla metafora non come ad un composto di nomi, non come ad un nome che proviene da altri nomi, quanto come un nome che appare quando gli altri nomi si ritirano dietro la soglia dell’orizzonte linguistico.

La metafora silenziosa è qualcosa di analogo all’Umgreifende, qualcosa o qualcuno si manifesta e viene verso di noi quando non ci dirigiamo verso di lui, anzi, quando ci allontaniamo da lui, quando prendiamo congedo dalla povertà delle parole…

Allora, veramente accade che la parola si manifesta quando facciamo un passo indietro (zurück zu Schritt), quando pensiamo alla parola non per il suo rinvio ad altro ma per il suo non essere invio, o rinvio, per il suo non significato e non significabile, come a qualcosa o qualcuno che non può essere catturato, afferrato, preso (greifen) con la potenza della nostra volontà, ma che può essere preso soltanto mediante un atto di congedo da qualsiasi apprensione, con un passo indietro.

[Del termine Umgreifende sono state date numerose traduzioni tra cui menzioniamo ulteriorità (Luigi Pareyson), tutto-abbracciante (Cornelio Fabro), tutto-circonfondente (Renato De Rosa), comprensività infinita (Ottavia Abate), orizzonte circoscrivente (Enzo Paci); i francesi usano il termine englobantenveloppant. Nella presente trattazione, una volta chiarito il senso, s’è preferito lasciare il termine nell’espressione tedesca, il cui significato emerge dalle parole che lo compongono: “greifen” che significa “afferrare, prendere”, e “um” che è una preposizione che dà il senso della “circoscrizione”, della com-prensione”. “Um-greifende” è allora “ciò che, afferrando, circoscrive; prendendo com-prende”. Ciò che è circoscritto e com-preso è, stante il senso dell’operazione filosofica fondamentale, sia il significato oltrepassato, sia l’orizzonte oltrepassante. L’uno è presente con l’altro, ogni significato è presente con la totalità del suo “altro”, e la loro compresenza è appunto l’Umgreifende.1]

1] U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente Feltrinelli, 2017, p. 78

Strilli De Palchi La poesia anticomplessa e commerciale

Strilli De Palchi Fuori dal giro del poeta

Il Mangiaparole rivista n. 1

Il «rumore di fondo» dell’opera di esordio di Alfredo de Palchi, Sessioni con l’analista (1967)

caro Lucio Mayoor Tosi,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/12/13/intervista-a-alfredo-de-palchi-a-cura-di-roberto-bertoldo-con-un-commento-di-john-taylor-per-il-92mo-compleanno-di-alfredo-de-palchi-poesie-scelte-da-sessioni-con-lanalista-1967/comment-page-1/#comment-44878

per rispondere alla tua riflessione, dico sì, penso che il critico, o il lettore quando devono sforzarsi perché non capiscono, allora danno il meglio di sé. La modernità della poesia di Alfredo de Palchi penso che risieda nel fatto che lui interviene nel contesto dei linguaggi letterari correnti degli anni sessanta con una carica de-automatizzante che frantuma il tipo di comunicazione segnica in vigore in quei linguaggi letterari, e lo frantuma perché quel suo linguaggio si pone al di fuori dei linguaggi del cliché letterario vigente negli anni sessanta.

Direi che il linguaggio di de Palchi in Sessioni con l’analista (1967) ha la forza dirompente del linguaggio effettivamente parlato in un contesto di lingua letteraria che non era in grado di sostenere l’urto di quel linguaggio che poteva apparire «barbarico» per la sua frontalità, perché si presentava come un «linguaggio naturale», non in linea di conversazione con i linguaggi poetici dell’epoca. Questo fatto appare chiarissimo ad una lettura odierna. E infatti il libro di de Palchi fu accolto dalla critica degli anni sessanta in modo imbarazzato perché non si disponeva di chiavi adeguate di decodifica dei testi in quanto apparivano (ed erano) estranei all’allora incipiente sperimentalismo ed estranei anche alle retroguardie dei linguaggi post-ermetici. Ma io queste cose le ho descritte nella mia monografia critica sulla poesia di Alfredo de Palchi, penso di essere stato esauriente, anzi, forse fin troppo esauriente.

Ad esempio, l’impiego delle lineette di de Palchi era un uso inedito, voleva significare che si trattava di un «linguaggio naturale» (usato come «rumore di fondo») immesso in un contesto letterario. A rileggere oggi le poesie di quel libro di esordio di de Palchi questo fatto si percepisce nitidamente. Si trattava di un uso assolutamente originale del «rumore» e della «biografia personale» che, in contatto con il«linguaggio naturale» reimmesso nel linguaggio poetico dell’epoca che rispondeva ad un diverso concetto storico di comunicazione, creava nel recettore disturbo, creava «incomunicazione» (dal titolo di una celebre poesia di de Palchi); de Palchi costruiva una modellizzazione secondaria del testo che acutizzava il contrasto tra i «rumori di fondo» del linguaggio naturale, «automatico», in un contesto di attesa della struttura della forma-poesia che collideva con quella modellizzazione. Questo contrasto collisione era talmente forte che disturbava i lettori letterati dell’epoca perché li trovava del tutto impreparati a recepire e percepire questa problematica, li disturbava in quanto creava dis-automatismi nella ricezione del testo.

Io queste cose le ho descritte penso bene nella mia monografia critica, chi vuole può leggere e approfondire queste problematiche in quella sede.

Il problema di fondo che si pone oggi alla «nuova ontologia estetica», o comunque a chiunque voglia creare una «nuova poesia» è esattamente questo, ed è sempre lo stesso: come riuscire a creare dis-automatismi e dis-allineamenti semantici nel contesto dei linguaggi poetici ossificati dei giorni nostri…

Penso che oggi chiunque legga ad esempio la poesia di Mario M. Gabriele proverà disorientamento nel recepire un tipo di «composizione» che impiega i rottami e gli stracci, le fraseologie della civiltà letteraria trascorsa (cioè i «rumori di fondo») come un mosaico di specchi rotti che configgono e collidono nel mentre che rimandano all’esterno, cioè al lettore, una molteplicità di riflessi e di immagini creando nel lettore una sorta di labirintite, di spaesamento…

Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York, dove ha diretto per molti anni la rivista “Chelsea” (chiusa nel 2007), ed è morto il 6 agosto 2020. Ha diretto la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto un’intensa attività editoriale. Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in nove libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L. Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; Il edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus (introduzione di Sandro Montalto, Novi Ligure (AL): Edizioni Joker, 2010). Nel 2016 esce Nihil (Stampa2009) con prefazione di Maurizio Cucchi. Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966); ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a tradurre in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane. Nel 2016 e nel 2018 escono per Mimesis Hebenon gli ultimi due libri, Eventi terminali ed Estetica dell’equilibrio. È stato componente della redazione della rivista on line lombradelleparole.wordpress.com

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Poesie di Edith Dzieduszycka da L’immobile volo, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2020, Un uomo, video di Diego De Nadai su poesia di Edith Dzieduszycka, La cartella clinica della grande solitudine, Lettura di Letizia Leone

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Nota di lettura

di Letizia Leone

Se con Mario Luzi volessimo pensare  il titolo di un libro come un mantra che viene da molto lontano, L’ Immobile volo del recentissimo libro di Edith Dzieduszycka è la scatola nera di un disastro “aereo” che ci raggiunge dall’inerzia di lunghe epoche di incomunicabilità. Uomo-donna, marito-moglie, l’Io e l’Altro, ciò che la poetessa fa emergere è una critica della comunicazione, della socializzazione standardizzata.

Dalla fenomenologia del rapporto di coppia alla più generale sclerosi di ogni «etica della comunicazione», che è poi conflitto dei linguaggi in una contemporaneità cacofonica.

Il soliloquio, ‘l’io-penso’ di  due «voci monologanti», come definite da Linguaglossa, agisce  dentro la scacchiera formalizzata di un matrimonio.

Un componimento in apparenza simile al genere antico del contrasto, genere molto diffuso che nella definizione di Carlo Salinari  sviluppa una tecnica «basata sull’invenzione e sul rinfaccio tra i vari personaggi; questi non hanno un reale sviluppo psicologico, ma sono personaggi stereotipati, quasi maschere.»

Ma se il contrasto già nella letteratura latina medievale era indicato come disputatio, conflictus, altercatio, questo calco sbiadito sulla carta velina che ne fa Edith Dzieduszycka si configura quale intermittenza, interferenza, disturbo sonoro, anomalia d’onda nella linea piatta di un cronografo, sismografo o cardiogramma. Oscillazioni. Librazioni minime nell’ambito di uno scambio superficiario, affidato ai soli significanti o ai correlativi di un codice neutro (unica possibilità d’incontro tra gli “sposi”): vestito nuovo piuttosto provocante, vino bianco frizzante, le tende tirate, le note un po’ lagnose d’un tango argentino…E in una botola interiore i significati, i dubbi, l’asfissia, lo sfogo cutaneo di un profondo tedium familiare.

Per questa deriva solipsistica e narcisistica, (tutta epocale e generalizzata) Edith ritaglia i dettagli del micro-mondo, il privato più intimo della relazione matrimoniale, e poi passa all’investitura di una sotto-lingua priva di fonazione, quella del monologo muto: Cosa vuole dirmi?; Penso d’aver sbagliato la mia ipotesi; farò finta di niente; non riesco a chiederle; forse avrai capito che ti aspettavo al varco…

Come la LEI del testo, Edith imbandisce la cena su una tavola del silenzio e delle supposizioni con le pietanze avvelenate dalla diffidenza: ingredienti super raffinati per rinnovare l’ardore di un incontro erotico. E con leggera maestria registra una malattia contemporanea dello spirito in questa messa in scena, o per meglio dire «messa in cena» sullo sfondo del non-evento, del non-accadimento dialogico-comunicativo.

Ognuno per sé con i propri moti, pensieri, riflessioni, esigenze. La ricerca di un collegamento al solo fine del contatto consolatorio. La costruzione di un contesto domestico finalizzato alla propria tranquillità interiore.  Quasi come la grande piattaforma virtuale del consenso del Like o del tweet.

Ci ricorda Karl-Otto Apel che il fondamento dell’etica politica e civile della comunicazione collettiva sia socraticamente il dialogo.

Ma qui, in queste stanze, la nuda vita, due voci separate, due monadi. E si procede per lenta accumulazione, torpore, semplice ripetizione, quotidiana rotazione.

Edith Dzieduszycka L'immobile volo

Retro di copertina di L’immobile volo 

Il libro è costituito da due «voci»: una maschile e l’altra femminile, ridotte alla «nuda vita».  L’io è stato ridotto a nuda voce. Due «voci» monologanti, presumibilmente due persone conviventi o sposate dei giorni nostri di un qualsiasi luogo insignificante dell’Occidente evoluto che mettono in opera una «confessione» separata, a compartimenti stagni, in camere separate, blindate dalla incomunicabilità generale. Ciascuna «confessione» avviene nell’ambito del proprio Foro interiore, ciascuna parla a se stessa per  parlare all’altra, ciascuna parla un linguaggio che l’Altro intende benissimo ma che, proprio per questo, lo fraintende e lo equivoca. Perché ciò che aziona le «voci» è la mole invisibile dell’Inconscio. Ecco spiegato il titolo L’immobile volo, in realtà i due personaggi, le due «voci», pur legate presumibilmente da una contiguità passata e da una relazione intima pregressa, ciascuna, dicevo, è sostanzialmente «immobile», cioè incapace a superare e infrangere lo schermo del Foro interiore, la convenzione sociale della «confessione» e quant’altro. Ergo, ciascuna «voce» è  inetta e infetta,  e falsa, fortificata dalla propria falsità, falsificata dalla falsa coscienza con la quale si presenta la civiltà dell’ordine borghese dei rapporti di produzione e delle forze produttive che ubbidiscono alle regole del mercato e del capitale. I personaggi hanno un vissuto, vivono, si strappano le vesti, gridano e si dibattono nei meandri del teatro della «confessione», ma sembrano incapaci di andare oltre di essa,  impossibilitati a varcare le colonne d’Ercole del Foro interiore. L’esistenza ridotta a nuda voce, è questo il tema di questo straordinario libro di Edith Dzieduszycka.

(g.l.)

Testi da L’immobile volo

LEI


ma sì
lo so
certo che lo so
da tempo, tanto tempo
tempo che non sospetti
forse
ma forse sbaglio
come tu sai –credo –che io so
ma fai finta di nulla
come faccio anch’io
così entrambi
in livido vortice
di silenzio.

LUI

prevedo che sarà
quest’oggi
una giornata no
Mi basta il suo sguardo
obliquo
sfuggente
per capire l’umore
l’oscuro meccanismo
che di quando in quando
la pervade
la rode
rendendola straniera al decorso normale
pensa forse “banale” della vita vissuta
In questi casi
sto zitto
aspetto che le passi

LEI

sento però salire
quella voglia
malata
di aprire la botola
dall’aria rarefatta e sentori di muffa
in cui contorte strisciano
e s’aggrovigliano
sul fondo viscido e claustrofobico
come larve i pensieri
richiusi
assuefatti ormai
a quella vita grama di torpore
a quella vita che addosso
ci sta appiccicata
sempre sia quella
vita

LUI

però devo sapere
se quel mio pensiero è l’ipotesi giusta
me ne deve parlare
sono cose urgenti
non c’è tempo da perdere
Non riesco a chiederle
se quella è la causa
del suo atteggiamento
quasi colpevole
Se sarò troppo brusco
si richiuderà lei
e per un giorno
due quattro
chi sa quanti non si sbottonerà
e staremo allo stallo
Una bella fatica
sopportare le donne
tentare di capirle

LEI

una tovaglia fresca
odorosa di bucato
sul tavolo rotondo accanto alla finestra
Invece sul carrello
un vassoio di lacca con calici bottiglie
un mazzo di lillà dai sentori d’infanzia
In sordina gemevano
in preda a Metamorfosi
i ventitré violini
Ho scoperto con gioia
che anche a te piacciono
Era tutto perfetto
era stucchevole
quasi mi vergognavo
un’immagine kitsch da corriere del cuore
Prevedevo il tuo ghigno
lo davo per scontato
ma ti sei trattenuto
forse avrai capito che ti aspettavo al varco

LUI

devo però ammettere
conciata così
sei piuttosto arrapante
-quasi non ricordavo-
pure un po’ patetica
vista la cosa cruda
a mente fredda
Scommetto che nel bagno
per completare il quadro hai acceso candele
Andato a controllare
invece non ci sono
delusione! Ora ti tolgo un punto
A parte quel dettaglio
non manca proprio niente
avrai letto “Eva Nuova”
Ma mi viene un sospetto
forse il tuo scopo è prendermi in giro
recitando sulfurea
la parte dell’allumeuse?
Aspetto lo strip-tease

LEI


proprio strozzare
basta poco
davvero
per di colpo cambiarci in bestie
omicide
Credo si chiami raptus
quell’impulso violento
quasi incontrollabile
che sai di dover stringere dietro un argine
L’iter è fare finta
rimanere nel solco
perfino sprofondarci
con la mano sul freno
Così ti ho sorriso
un sorriso solare
quello delle stagioni felici della storia
sei sembrato sorpreso
forse ti aspettavi una lunga valanga
di accuse e rimproveri?

Edith Dzieduszycka immagine

Edith Dzieduszycka, immagine, fotografia

LUI

una gelida fiamma
perché nel tuo sguardo all’improvviso
cupo
ho percepito al volo
spaventato
una traccia di odio
fino ad allora ignota
Così veloce è stata
che m’è venuto il dubbio di avere sbagliato
colpa dell’ombra scesa
subdola sulla sera
Infatti subito
nella luce rosata del sole al tramonto
si è illuminato il tuo viso
-sorpresa non da poco-
in un largo sorriso
Radioso il tuo volto
all’improvviso

LEI

nel tenue chiarore che a quest’ora
filtra dalle persiane chiuse
due gisants côte à côte di marmo opalescente
i nostri due corpi
ora disintrecciati
pesante la tua testa
sul mio braccio dolente
che non oso spostare per non farti svegliare
Meno male
non fumi
rito dopo rito
invece te ne vai
in un mondo lunare
in cui non ti raggiungo
distane siderali
di nuovo
tra di noi
ad alare barriere

LUI

(Dorme)

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La Neglitudine umana Poesie di Marina Petrillo, La razza aliena di Edith Dzieduszycka, video di Diego De Nadai, Il centro eccentrico della soggettività, Da dove scaturisce l’eccedenza di senso, di Carlo Livia, una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, Homo sapiens, di Francesca Dono

Francesca Dono homo sapiens 26x34 su carta lavata Olio e acrilico, 2020

Francesca Dono homo sapiens 26×34 su carta lavata, olio e acrilico, 2020

Uno scarabocchio, questo è diventato l’homo sapiens di Francesca Dono, che non si distingue più dal fondo tonalmente opaco e slontanante, un mucchietto di linee tonde, arcuate e spezzate… Il segno, da indice testuale (cioè entità semiologica) si altera in entità organicamente partecipe del corpo. La difficoltà di questo punto è evidente: dire che nell’essenza del vivente vi è il tracciarsi (come semiosi ma anche come percezione di sé) significa pensare diversamente il vivente, ma anche la scrittura. Il vivente animale è quell’ente che si scrive sempre entro una tendenza a percepire il proprio movimento, percepire le tracce del suo vivere, e quindi, in qualche modo a fare dell’autobiografia. (g.l.)

Edith Dzieduszycka

La razza aliena

D’origine francese Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie stu­di classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa dedicandosi parallelamente al disegno e alla poesia (un premio nel 1967 e presenza in varie antologie). Nel 1968 si trasferisce in Italia: Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate. Dal 1979 vive a Roma. Oltre alla scrittura conduce un’attività artistica con personali e collettive in Italia e all’estero. Tra le sue pubblicazioni: La Sicilia negli occhi, fotografia, Editori Riuniti, 2004; Diario di un addio, poesia, Passigli, 2007; Tu capiresti, poesia e fotografia, Il Bisonte, 2007; L’oltre andare, poesia, Manni, 2008; Nella notte un treno, poesia bilingue, Il Salice, 2009; Nodi sul filo, 20 racconti, Manni, 2011; Lo specchio, romanzo, Felici, 2012; Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013; Lingue e linguacce, poesia, G. Bentivoglio Ed., 2013; A pennello, poesia, La vita Felice, 2013; Cellule, poesia bilingue, Passigli, 2014; Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi, 2014; Incontri e scontri, poesia, Fermenti, 2015; Trivella, Genesi, 2015; Come se niente fosse, Fermenti, 2015 e La parola alle parole, 2016, Squarci (2017), L’immobile volo (2020) con Progetto Cultura; Intrecci, romanzo, Genesi, 2016; Haikuore, haiku, Genesi, 2017; Bestiario bizzarro (Fermenti); Squarci (ProgettoCultura); numerose antologie, tra cui Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di G. Linguaglossa, Progetto Cultura, 2016 e Inquiete indolenze, a cura di R. Piazza, Fermenti, 2017. Ha curato le pubblicazioni di: Pagine sparse – Fatti e figure di fine secolo, di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007; La maison des souffrances. Diario di prigionia di Geneviève de Hody, Editions du Roure, 2011; Le sol dérobé, Souvenirs d’un Lorrain 1885-1965, de Marcel de Hody, Editions des Paraiges, 2016.

Si sfilano sfilacciano dissolvono
gli esseri le cose gli eventi
all’interno del tempo
ciste nebbiose dagli orli sbiaditi

giocano con la luna e le stelle filanti
le comete lontane dalla coda ritrosa
strascichi lenti dalle mosse sornioni
vengono trasportati da brezze impercettibili
verso contrade ignote

fanno finta di stare
immoti, lì, per sempre
non potersi staccare dalla loro memoria
estenuata
resistono, a lungo, lembi stropicciati
all’assalto del vento nel frattempo alzato
che li strappa e inghiotta
bocconi dal sapore ormai scipito

L’orrido buco nero in cui sprofonderà
un giorno che verrà ancor indecifrabile
l’immane umana massa dalle mosse inconsulte
che gremisce la scorza dell’albero ignaro
possiede labirinti anfratti nascondigli
cunicoli carnivori dai fetidi sentori
reconditi recessi ove stanno strisciando
le larve sontuose di una razza aliena

enumerate in ordine sopra le tavole
d’un disegno segreto a loro stesse ignoto
le loro maschere sono indecifrabili
icone immote e mute d’un segnale in attesa
avvolte nelle vele dai risvolti cangianti
di ali ripiegate intorno all’ignoto
ora stanno dormendo d’un sonno intermittente

sapranno cosa fare nell’ora della muta?
è stato loro infuso in onde virtuali
sentieri da scoprire percorsi da seguire
quando riapriranno i loro occhi spenti
strisciando verso l’uscita in uno slancio obliquo?
spazzeranno stridendo la torba brulicante
avvolta nell’inezia della sua ignavia?

Ma sarà tardi ormai per poterle respingere.

 

Marina Petrillo

Marina Petrillo è nata a Roma, città nella quale vive da sempre. Ha pubblicato per la poesia, Il Normale Astratto. Edizioni del Leone (1986) e, nel 2016, a commento delle opere pittoriche dell’artista Marino Iotti (Collezione privata Werther Iotti), Tabula Animica, opera premiata nell’ambito del Premio Internazionale Spoleto art Festival 2017 Letteratura. Nel 2019 pubblica materia redenta con Progetto Cultura. Sta lavorando ad un’opera poetica ispirata a I dolori del giovane Werther di Goethe. Sue poesie sono apparse su riviste letterarie. È anche pittrice.

Lo splendore disarma l’Evento a prisma.
Avviene, eterno, in omeopatia costante.

Trae origine il gesto sino a disincarnarsi.
Fu antecedente all’intento primigenio.

Vuoto, cade a sua simiglianza
inviso al precursore della scalfita Ombra.

Spinge la frequenza alla consegna
del cielo a nuovi dei esenti da onnipotenza.

Un suono li precede come fossero untori
di incauto infinito tra spoliati sogni.

Semenza in mosto consapevole al delirio delle coscienze.

Neglitudine umana del cui diafano sole
conscia ne è la terra.

*

Si traccia a sua somiglianza
il pallido sorgere del sole.

Tace della natura il lascito
lunare e inciampa raggi annichiliti
da brividi albescenti.

Incerto sullo splendore, annida l’ombra
in emanante abbraccio e lì si abbandona.

Eterno è il suo momento
mai avvizzito dal ciclo delle divine stagioni.

 Azzardo una ipotesi ermeneutica: l’autos del discorso poetico di Marina Petrillo è prigioniero di un tempo-spazio intra-soggettivo precedente il costituirsi stesso della soggettività, tanto di quella cosciente quanto di quella subcosciente, la quale abita naturalmente le zone ibride fra le zone di attività e di passività della poiesis, quella zona neutra del linguaggio poetico che abbiamo più volte investigato.

Autos è, ad esempio, la funzione intra-soggettiva («Neglitudine umana») che fa perdere di pertinenza alla dicotomia sonno-veglia, così come a quella percepito-percepiente, e a tutte le altre che la riflessione può imbastire.

Il centro è allora in quelle zone, in quelle funzioni, in quelle mobili organizzazioni di relazioni tra interno ed esterno, l’alto e il basso sempre pre-verbali, le quali, a stretto rigore, non sono da nessuna parte e, purtuttavia, esistono e insistono e producono effetti intra-soggettivi. L’autos del discorso poetico petrilliano non è ubicabile nel tempo o nello spazio in modo identificabile ma in un altrove nel quale l’autos può esplicarsi.

All’autos pertiene una quota di staticità: è il provvisorio costituirsi come centro eccentrico della soggettività. Ciascuno di noi ha ed è la forma di un imbuto di raccolta degli stimoli sensoriali, o, in altri termini, ha ed è una trama di segni, una traccia, delle orme. Ma è anche vero che l’autos è già altro da sé (altro dall’autos) in quanto sede di dinamismo involontario, in quanto è ciò che mi ri-produce, che mi fa essere me, con adesione immunitaria e perfino auto-immunitaria del me. La poiesis petrilliana opera in questa no man’s land, espressione da intendere alla lettera come landa senza vivente umano. In questa terra di nessuno, dove l’uomo è senza uomo in quanto ancora mancante di sé, nasce l’impulso verso il linguaggio simbolico e verso la poiesis.

L’impulso verso la poiesis è un evento che, nella sua assenza di volumetria, sfiora il nulla ma che, essendo già strutturato, non è un nulla: in esso
occorre pensare la compresenza problematica di autocoscienza riflessiva e vigilanza, una forma di vigilanza orientata in senso percettologico e teleologico, un’estesiologia della scrittura poetica che promana dalla mentale corporeità.

(Giorgio Linguaglossa)

Grazie infinite Giorgio, per la tua vibrante ipotesi ermeneutica.
Essere presenti su questo piano di esistenza ; esserlo in parte o del tutto a sua insaputa, in paradosso generativo. Un continuo spostare i piani intersecantesi a precipizio, sino a non giungere che alla visione interiorizzata, memoria emanante se stessa. Fonte in cui i linguaggi interagiscono in latitudine difforme.
Agisce la sospensione in evanescenza convergente a multiverso. Si sommano e sottraggono le parole trasmutate in Verbo. La conoscenza si impreziosisce di immagini latenti al reale, tuttavia non esclusive di ciò che visibile, su questo piano, immaginiamo di poter tollerare.
Amplia il suo grado il potenziale la cui finitezza abita l’imperscrutabile.
Svapora e torna ad identificarsi in ciò che stato, è. Un fotogramma scardinato al dipanarsi di tempi avulsi da ogni contesto.
Non definibile il sacro. Insostenibile la capillarità delle sue emanazioni giunte da ogni silenzio. La solitudine sovrasta l’eco umana. Polverizza la meticolosa parsimonia del presente in atto volto a frantumazione.
Sublimante attracco ad un linguaggio graffiato della sua vibrazione terrestre e riportato a spazio estremo. Pessoa invaghito dell’alterità eterica subliminale all’essenza animica.
Si stabilizza quindi in rare parole evocative, attinte dall’archetipo profondo ancora privo di dimensione . Misterioso al suono evocato dall’oltre terreno in ibrida specie. E’ tocco che amplifica , genera onde di impermanenza.
Commuove, poiché estraneo ad ogni mondo.

(Marina Petrillo)

Da dove scaturisce l’eccedenza di senso

la semantica poliedrica, metamorfica, inafferrabile della poesia, e come può costituire un‘istanza palingenetica, soteriologica, fronteggiando la deriva metafisica oggettivante, nichilistica, distruttiva del pensiero tecnologico?

In Su verità e menzogna in senso extramorale Nietzsche enuclea l’origine convenzionale e l’implicita violenza ideologica della formazione del linguaggio convenzionale, razionale. Tutta la conoscenza scaturisce da un processo individuale di creazione di metafore, cioè simboli mediatori fra esperienza sensibile e attività psichica. L’esigenza sociale di comunicazione e coerenza determina l’imposizione, da parte dei dominatori, di alcune di questo errante esercito di metafore individuali, che vengono canonizzate attribuendovi, surrettiziamente, il valore di verità. Questo determina l’emarginazione e la subordinazione di tutta l’attività creativa degli altri sistemi simbolici, a cui viene negato valore e significato, se non come patologie o inutili fantasie.

Non solo a livello sociale, ma anche all’interno della psiche questo dominio gerarchizzante vincola e imprigiona in dogmi norme espressive cristallizzate. La formazione della coscienza razionale è l’esito di sistemi di forze in conflitto, da cui, per esigenze ancora una volta sociali, si costruisce una identità, precaria e instabile, che è la persona (maschera) che meglio sembra adeguarsi alle esigenze relazionali.

Questo processo di conformazione a codici e paradigmi logici e morali eteronomi, e quindi vincolante e alienante, nasce nel pensiero nicciano dalla metafisica platonica. La “decadence” del pensiero è nata dalla necessità di preservare l’immutabilità ed eternità dell’Essere, come era per Parmenide, dalla impermanenza del materialismo di Eraclito, per cui tutto è divenire, morte e mutazione, come nell’esperienza comune.
L’Essere viene così relegato nella dorata immutabilità del mondo delle idee, ma così anche mummificato e dimenticato (la res amissa dell’ultimo libro di Caproni). Perduto il senso dell’Essere come arkè e telos, il pensiero si concentra solo sugli enti, con un atteggiamento dominatore e distruttivo che è andato radicalizzandosi fino all’odierna ossessione capitalistica e consumistica.

Nietzsche, figlio e nipote di pastori protestanti, matura una crescente ribellione e risentimento nei confronti del cristianesimo, per cui non può o vuole capire che la vera liberazione dalla metafisica , da lui tentata invano, era già avvenuta proprio nel pensiero cristiano, certo non in quello che da Paolo alla patristica si ibrida di toni ellenistici, riproducendone gli stessi paradigmi ontologici, ma nella predicazione evangelica, come si evince dall’incipit di Giovanni. Cosa significa che il Verbo si fece carne e abitò in mezzo a noi, se non rovesciare lo schema platonico e riunire trascendenza e immanenza?

Verbum traduce logos, che non è solo parola, ma pensiero e soprattutto relazione. Il “grande simbolista”, come lo stesso Nietzsche chiamava Gesù, opera la necessaria correzione morale al dogmatismo idealista, riducendo tutti i comandamenti alla carità, cioè all’unico evento che non si può comandare, perché eccede la sfera razionale, unendo individuo ed essere, libertà e necessità, come ben intuito da Spinoza.

La visione evangelica del predominio dell’agape sulla ragione offre anche l’unica via d’uscita alla strettoia ermeneutica, inaugurata dalla celebre frase “non vi sono più fatti ma solo interpretazioni”. Ha giustamente fatto notare Gianni Vattimo che non si è dato la giusta importanza alle parole che la chiudono, ribaltandola: ”ma anche questa è un’interpretazione”.
Evidentemente questa chiusa indica implicitamente l’ineludibile aporia sottesa al nichilismo.

L’ha evidenziata con molto acume Heidegger, che indica il limite dell’istanza iconoclasta di Nietzsche, e di tutti coloro che, volendo rovesciare la metafisica, non fanno altro che riproporla, mutandola di nome e prospettiva: la volontà di Potenza, o il nulla di Leopardi o Sartre, non sono altro che un nuovo fondamento metafisico, un’ontologia che ricalca lo stesso shema platonico-cristiano, solo che sostituisce il nome di Dio con un altro.

Anche Heidegger, figlio del sagrestano di Messkirch, fatto studiare teologia per iniziativa del parroco, tenta in tutti i modi di emanciparsi dalla sua formazione cattolica, che non odia e diffama, ma vorrebbe integrare alla filosofia greca e alla fenomenologia di Husserl. Cos’è infatti la sua visione dell’Essere se non una trascrizione in chiave esistenzialista della teologia apofatica dei grandi mistici cristiani, da Ekhart a Cusano?

Nel suo capolavoro, Holzwege, tenta sulla scia della poesia mistica di Holderlin, di fondare un nuovo pensiero, che sia “all’altezza delle immagini dei poeti”, che “seguono le tracce degli Dei fuggiti”, per rifondare sacralità e mistero, oltre la miseria del tempo del tramonto, in cui si attende la venuta di nuovi Dei.

Riflettendo sul famoso aforisma nicciano della Gaia scienza, in cui l’uomo folle annuncia la morte di Dio, conclude: “L’uomo pazzo…è colui che invoca Dio chiamandolo ad alta voce. Un pensatore ha mai realmente invocato così De profundis? E hanno udito le orecchie del nostro pensiero? O continuiamo ancora a non udire quel grido? Il grido continuerà a non essere udito finché non si incomincerà a pensare. Ma il vero pensiero incomincerà solo quando ci si renderà conto che la ragione glorificata da secoli è la più accanita nemica del pensiero”.

(Carlo Livia)

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Video di Diego De Nadai su poesie di Edith Dzieduszycka e Marina Petrillo, La Cosificazione nella poesia della nuova ontologia estetica

Edith Dzieduszycka

Muri quattro

Fase 1.

Muri quattro
chiave smarrita
forse nascosta
nelle pieghe dell’attesa
universo concentrazionario
Nel suo interno
Uno
al suo centro
Uno
sempre quello
Uno uguale Uno
pure diverso

Uno contro Uno
e contro quello
sbatte
e gira
trottola
senza via d’uscita
senza scampo
con la testa all’indietro
o davanti
nel dubbio

Vuole guardare
l’Uno
Dalla finestra chiusa
il mondo silenzioso
il mondo vuoto
sotto
che prima brulicava
gregge indaffarato
ignaro del domani
il domani in agguato
Dietro la porta sciami
rivoli dilaganti
dal verso impercettibile
dal morso imprevedibile

Alle pareti specchi
lamiere smerigliate
a malincuore rinviano
riflessi rattrappiti di unità infranta
brandelli sparpagliati
da rammendare
prima di raccordarli
ancora
e ancora
alla trama spezzata

Luci rifrangenti
sbattute contro soffitto
fanno svettare ali
ali spennate di angelo sconfitto
Lotta dell’Uno
contro l’angelo proprio
volteggiano piume
grigie
e sembra nebbia
spuntata dalla bocca d’un alto forno

Vuole uscire
l’Uno

Dentro la serratura
ora gira
la chiave ritrovata
va per le scale
l’Uno
l’Uno smarrito
per le scale che scendono
e scendono
ancora
e ancora
verso l’inferno
respiro corto
affanno

Fuori aspettano
le ombre mascherate
da dubbi
angoscia
rabbia

*

Cara Edith,

testo bellissimo dal punto di vista strutturale, con ripetizioni ad anafora che ne determinano sonorità e ritmo. Si crea una suggestione anche visiva, oltre che acustica che va oltre l’immagine e oltre la musica associate magistralmente dal bravissimo attore montatore del video. L’universo concentrazionario evocato dai versi conferma altre mie interpretazioni dei tuoi testi sul carattere tragico, ma anche follemente e pure lucidamente straneante del tuo immaginario. Il testo richiama in qualche modo il Processo di Kafka, ne ha lo stesso stigma metafisico… Più precisamente nel tuo caso una filosofia dell’assurdo cosmico-storico è sottesa a una scrittura radicata nei ricordi della tua infanzia, che tornano in una sorta di freudiana “coazione a ripetere”, il trauma da cui non ci si libera e che si condensa nella rivendicazione del carattere di assoluta unicità dell’esperienza umana, che non è mai riducibile a quella del genere; un dato di fatto in cui il “singolo”, l’ “uno” si mostra kierkegardianamente superiore al genere che pure lo comprende.  Si configura una sorta di trascendenza metafisica del soggetto alienato, imprigionato, torturato, una trascendenza verso il basso, una sorta di kenosis cristiana, di svuotamento, di annichilimento del soggetto senza resurrezione. In ciò sta la tragedia assoluta che solo la bellezza dei versi rende in qualche modo sopportabile. Un abbraccio.

(Luigi Celi)

Marina Petrillo

Multiverso

Se dovesse lasciare questo piano di esistenza
vorrei vederla piccola, rannicchiata sul pavimento

intonare un canto,Angelus della dipartita
benevole al gesto dell’insidioso andare,

Paradigma brama bellezza in archetipo
se muove l’insoluta perfezione ad attimo.

Lì perviene il presente in dubbio
opalescente al nastro annerito del pianeta.

Hölderlin canta l’Essere, la sua pace d’oro.
Dimenticanza, perdono. Nube che viaggia che viaggia innanzi alla serena luna,

Smemore ogni tratteggio nell’indiviso multi verso
o diafanità tralucente la parola.

Alla preghiera antica, torna il coro
degli esseri senzienti declinati ad Uno.

Lieve tocco in stilla apparsa in sogno
primo gesto non contemplato ad inizio

per cui il Big Bang è tonfo della sua fine.

[Marina Petrillo nasce e vive a Roma. Nel 1986 pubblica Normale astratto e, nel 2029 con Progetto Cultura, materia redenta. È anche pittrice]

Strilli Lucio Mayoor Hurg

Lucio Mayoor Tosi

È una poesia questa, di Marina Petrillo, che a me pare del corpo. Scritta con parole non sospese, che non toccano, ma con parole che entrano nel corpo. E profondamente. Una dichiarazione impudica, di fisica deità. A conferma di quanto dichiarato da M.R. Madonna a proposito della corporeità della poesia.

Giorgio Linguaglossa

Cari Ewa Tagher, Giuseppe Gallo e Mario Gabriele,

l’epoca del liberalismo democratico corrisponde ad una forma di poiesis nella quale lo scrittore, l’artista o creatore (parola da prendere con doppie pinze) esternava la sua, diciamo, visione del mondo o, più semplicemente, delle cose. Bene, quest’epoca è finita. Chiusa. La concessione che ha fatto il liberalismo democratico a ciascuno di dire e fare quello che voleva è sfociato nel postruismo, nel populismo e nel banalismo. Quel tipo di poiesis è diventata oggi una apologia delle cose come sono.
Leggiamo una poesia di un autore che ha pubblicato tutti i suoi libri nella collana bianca Einaudi:

Avrebbe minacciato un benzinaio
con la pistola carica
di un proiettile d’oro.
Cineasta e poeta, orafo e orco!
Ma cosa contestare a quest’accusa,
l’arma o la sua pallottola?
Cosa rivendicare,
santa Romana Chiesa o l’usignolo?
Quel colpo mai sparato
traversa la sua opera
piegandola ad un duplice ossimoro,
fantastico e fantasma
di violenza e pietà,
di sangue e alloro.

Si tratta di un commento, di una libera chiosa, o glossa, come si conviene all’epoca del liberalismo delle opinioni e del mercato. Un commento dove il «poeta» fa mostra della sua intelligenza causidica e didattica che finisce non si capisce bene con quale messaggio-bonifico o bonificato, tanto è gratuito e confuso.
Bene. Oggi una poesia di questo tipo è semplicemente postruismo. Apologia del banale, quel banale che l’ideologia del liberalismo ha insufflato in ogni dove.
Io sono dell’opinione che dopo la pandemia del Covid19 questo tipo di poiesis possa essere rubricata nel truismario e nello sciocchezzaio senza reticenza alcuna.

*

Marie Laure Colasson Abstract_17

Marie Laure Colasson, Abstract, 2015, acrilico su tavola 30×35 cm

La Cosificazione nella poesia della nuova ontologia estetica

Ciò che usualmente intendiamo con interiorità è uno spazio aperto, un vuoto che taglia, che genera una differenza dirimente, una irriducibile estraneità che, in quanto intima, incide inesorabilmente il soggetto. Il soggetto è il territorio straniero interno. Ciò che è significativo è che questa intima esteriorità si configura come un vuoto a perdere originario e irrappresentabile per il soggetto stesso. Il carattere trascendentale dell’extimità nei confronti del soggetto fa sì che essa, precedendo di diritto qualsiasi opposizione logica tra interno ed esterno, si configuri come quello spazio pre-simbolico in cui ogni dualismo perde la propria fatticità. C’è un vuoto originario, causativo, c’è un limite trascendentale al fondo di ogni soggettivazione. Se il soggetto si genera dal proprio vuoto interno eppur esterno a sé stesso, il reale è ciò che viene pro-vocato da tale intima esteriorità. Questo nucleo vuoto, per certi versi irrappresentabile, attorno al quale il pensiero di Lacan si è arrovellato fin nell’ultimo periodo della sua vita, si costituisce come quella totalità originaria sulla quale si sviluppano tutte le concrezioni della soggettività.

Il reale è così profondamente intimo alla soggettività da essere invisibile, irrappresentabile. Come quella forma di cecità auto-indotta da chi osserva troppo da vicino gli oggetti, tanto da non poterne distinguere nitidamente tutte le smagliature. Il reale del soggetto è figurato da quell’intima esteriorità vuota al centro del soggetto stesso, che ne ostacola, ogni sorta di rappresentazione.
In una parola: il reale è irrappresentabile.

Nella sua extimità, lo statuto della Cosa è al di là di ogni sua possibile rappresentazione, oltre ogni sua possibile chiusura nel sistema della significazione. La Cosa è ciò che viene pro-vocata dalla prossimità del reale. La comparsa nell’arte moderna del ready made ad opera di Duchamp rende evidente questo processo di cosificazione dell’arte e della coscienza della soggettività.
Questo processo di cosificazione è evidente nei risultati della poesia della nuova ontologia estetica dove il fuori-senso è la categoria centrale che guida la rappresentazione dell’irrappresentabile, ovvero, dell’interno esteriorizzato o dell’esterno interiorizzato che costituisce l’origine irrappresentabile della rappresentazione.

Per Lacan il reale si costituisce come quel registro di un’esperienza refrattaria all’ordine simbolico del linguaggio, che è definibile soltanto nei termini di uno spazio vuoto che buca ogni concettualizzazione o, il che è lo stesso, ogni possibilità di iscrizione dell’esperienza in un sistema di senso. La Cosa si situa al di fuori di ogni significato. Se è vero, infatti, come sostiene il celebre psicoanalista francese, che la Cosa è «quel che del reale patisce del significante», allora la vacuità nel cuore del reale (il reale del soggetto, ma anche il reale nella sua totalità, il reale inassimilabile al senso) non è altro che la condizione di possibilità di un pieno. Così come infatti il vuoto è la condizione necessaria del pieno, il fuori senso è la condizione di possibilità di ogni senso e di ogni non-senso. Ecco dunque il motivo per cui la Cosa, in questi termini, è utilizzata da Lacan come manifestazione del reale stesso: costituendosi in un paradossale regime di intima esteriorità, la Cosa è ciò che, eccedendo i limiti del linguaggio, buca dal suo interno il linguaggio medesimo, rigettandosi così ad ogni sua eventuale rappresentazione

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Al punto più alto della Crisi del Covid19, è la poesia in grado di rispondere con una Proposta di alto profilo? La poesia dal punto di vista dell’Ereignis, Commenti e poesie di Ewa Tagher, Marina Petrillo, Giuseppe Gallo, Mauro Pierno, Giorgio Linguaglossa, Video di Diego De Nadai

 

Marina Petrillo

Multiverso

Se dovesse lasciare questo piano di esistenza
vorrei vederla piccola, rannicchiata sul pavimento

intonare un canto,Angelus della dipartita
benevole al gesto dell’insidioso andare,

Paradigma brama bellezza in archetipo
se muove l’insoluta perfezione ad attimo.

Lì perviene il presente in dubbio
opalescente al nastro annerito del pianeta.

Hölderlin canta l’Essere, la sua pace d’oro.
Dimenticanza, perdono. Nube che viaggia che viaggia innanzi alla serena luna,

Smemore ogni tratteggio nell’indiviso multi verso
o diafanità tralucente la parola.

Alla preghiera antica, torna il coro
degli esseri senzienti declinati ad Uno.

Lieve tocco in stilla apparsa in sogno
primo gesto non contemplato ad inizio

per cui il Big Bang è tonfo della sua fine.

 

Giorgio Linguaglossa

cara Ewa Tagher,

giunti, come parrebbe che stiamo, al punto culminante della Crisi, abbiamo il dovere di percorrere con lo sguardo la crisi per abbracciare, con un colpo d’occhio, con l’occhio della crisi, l’arte che è stata fatta in questi ultime decadi. E derubricare quel modo di fare poiesis. E la poesia? Che cosa si penserà di noi tra cento, duecento anni? Che cosa si citerà di significativo della crisi di questi anni?

Vorrei attirare l’attenzione dei lettori su questo punto: sulle conseguenze nel discorso poetico della assunzione di questa pratica e di questa petitio principiis: una pratica della differenza e della contraddizione.
La nuova fenomenologia poetica vuole liberare la differenza dalla differenza per dare luogo a un discorso poetico che preveda e consenta la differenza, la contraddizione, la dialettica senza negazione, la dialettica negativa. Un discorso poetico che dica sì alla differenza, alla contraddizione; un discorso poetico del molteplice, della molteplicità che non si limiti alla omogeneizzazione fonologica e stilistica, come è stato fatto finora, che riesca a liberarsi dall’assoggettamento alle categorie, che vogliono costringere lo sguardo che osserva dall’alto in basso secondo l’ideologema di un io plenipotenziario e panottico che crede ingenuamente di tutto abbracciare e tutto governare, che squadra l’oggetto e lo descrive, o crede di descriverlo.

La ragione è in se stessa l’atto che differenzia, che mette in opera quell’Unter-scheidung (differenza), figlia dell’Ent-scheidung (decisione), che realizza la Scheidung, il taglio dei significati e dei significanti, la moltiplicazione dei significanti. La poesia della nuova fenomenologia del poetico ha questa spiccata consapevolezza, che quel logos, quella ragione è inappropriata a rappresentare ciò che sfugge alla rappresentazione, l’origine non rappresentabile della rappresentazione.

Ewa Tagher

Gentilissimo Linguaglossa,

Lei scrive: ”un discorso poetico che dica sì alla differenza, alla contraddizione; un discorso poetico del molteplice, della molteplicità che non si limiti alla omogeneizzazione fonologica e stilistica” e ancora “la ragione è in se stessa l’atto che differenzia, che mette in opera quell’Unter-scheidung (differenza), figlia dell’Ent-scheidung (decisione), che realizza la Scheidung, il taglio dei significati e dei significanti, la moltiplicazione dei significanti”. A me sa cosa viene in mente? Una visione: il trittico “Il giardino delle delizie” di Hieronymus Bosch, che non a caso è un polittico, ancora ammirato, seppur vecchio di oltre 530 anni. E perché ancora molti ne rimangono estasiati? Proprio perchèélì avviene quanto Lei auspica per la poesia contemporanea: sulla tela si agitano “moltiplicazioni di significati”, rovesciamenti, significanti dai doppi, tripli significati. Lasciando da parte le intenzioni di Bosch (purtuttavia poco chiare anche agli studiosi), la sua opera affascina i contemporanei proprio perché è di difficile interpretazione e perciò richiede uno sforzo, occorre richiamare alla mente tutte le possibili metafore per comprendere i gesti delle piccole figure nude, prigioniere in gusci d’uova. Ecco, io mi auguro che la Nuova Ontologia Estetica, il Cambiamento di Paradigma, così come Lei auspica, diventi il Nuovo Giardino delle Delizie, un lavoro al quale fra 100, 200 anni altri possano guardare incuriositi, stimolati, invaghiti.

 

Marina Petrillo

Sento che giunge, non so cosa sia.
È una lingua di fuoco azzurra, creante, a scendere e a soffiare la vita.
Abita il cielo dell’onnipotente pensiero tralasciando ogni altra forma.

Non giace immobile il mare e torna in risacca
dopo aver compiuto traccia del suo esodo.
In ipotesi estatica, trae luce il Verbo, a solstizio armonico,

come se sottili lettere ambissero nuovo lemma.
Ad aereo suono risponde la compagine alfabetica, assorta
in emisferi dello spirito limitrofi alla linea iniziale.

Contemplare l’ombra a sua luce è espediente noto.
Non lasciare adito a supponenti orchestrazioni filosofiche
ma allo spazio derivante da conoscenze eterne,

ne è la traduzione in diagramma plurimo.
Si dissolve il pensiero, algoritmo dimostrabile in sequenza
tendente al non finito.

Essere sulla soglia non contempla l’azione dell’entrare
se il passo non si attiva e le sinapsi non determinano la funzione di controllo. Procede il ripetersi di azioni conclamate ad avvio della coscienza,

non suffragate da eventi coerenti all’agire stesso.
Riflessioni animano spazi verbali ma non vi sostano se, combacianti a specchio, negano il respiro in asfissia della coscienza

Resta immobile il respiro e in sua apnea,
giunge un suono tramutato in parola.
Indaga il suo doppio e lì permane a scrutare i cieli possibili.

I più imponderabili.
Contraddizione in termini mai sazia di indizi lessicali.

Mauro Pierno

L’alfabeto muto dell’appartenenza
la semplicità della rete in fibra, fare centro al primo colpo!

La messa cantata annullata,
solo due visi pallidi in pompa magna.

A quell’ora predisposta fuori dell’uscita.
Lo stesso prezzo lo stesso cartellino.

La menzogna della calze lunghe,
Raggiodiluna allenta le briglie.

Quelle scommesse così rarefatte,
non indicate vi prego le praterie.

E le parole quante volte appese.
Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo stoppino.

Giuseppe Gallo

Giorgio Linguaglossa chiede un parere sulla trascrizione in terzine della poesia di Marina Petrillo. Il suo tentativo ha il pregio di rendere più chiari i contenuti, le immagini e i significati che sottostanno al testo. Linguaglossa introduce un principio di ordinamento linguistico nel cuore del vaticinio e della profezia. Un risultato consimile si sarebbe ottenuto anche attraverso una trascrizione in distici e l’isolamento di qualche verso. Così, però, la scrittura della Petrillo perde quell’aura di sapienza sacerdotale che la percorre e attraversa tutta. La scrittura della poetessa, fascinosa e misticheggiante, è l’ avvenente trucco di una vestale del Verbo, sotto il segno
di una “contraddizione in termini”, dove termini significano “respiri in apnea” che producono parole… e “indizi lessicali” per delineare gli argini di un territorio imperscrutabile.

Giorgio Linguaglossa

caro Giuseppe Gallo,

la poesia di Marina Petrillo è a mio avviso un esempio probante di poesia dell’età tecnologica in quanto adotta le strategie della retorica al meglio e in profondità, proprio quella retorica che ha contraddistinto il novecento, proprio quella retorica che ha accompagnato il feretro della civiltà dell’umanesimo. Proprio in questi giorni lo spettacolo dei fascismi di ritorno (è inutile girarci attorno, qui bisogna chiamare le cose con il loro nome), fenomeno eclatante e inquietante in Italia, in Europa e nel mondo sembra convalidare la nostra ipotesi che siamo un paese alla deriva e all’avanguardia del fascismo in Europa.

La fine dell’umanesimo significa, per chi ancora non l’avesse capito, la fine di quel modo di fare poiesis come l’abbiamo conosciuta nel novecento e in queste ultime due decadi. Quella poiesis è risultata Kitsch, ancella del conformismo. Marina Petrillo, e questa è la sua prerogativa, reimpiega la retorica della antica poiesis per sfornare un nuovo modello di poesia. In fin dei conti, la retorica è nient’altro che tecnica, rientra nella tecnica e non ne è mai uscita.

Per pensare adeguatamente la tecnica è necessario aprire gli occhi sul fatto della natura e della tecnicità dell’uomo, della immediata mediatezza dell’esistenza umana: l’uomo è per natura un essere artificiale, la tecnica non solo non è la negazione dell’umanità, ma è anzi l’espressione della sua più profonda essenza,l’esplicazione dei fondamenti della sua costituzione materiale.

Heidegger ha notoriamente interpretato la nostra epoca come epoca del Gestell (apparato impersonale/dispositivo/impianto) che si impone portando aconcepire il mondo intero non più soltanto come Gegenstand aperto dinnanzi al Subjekt ma addirittura come Bestand pronto all’impiego (in cui persino il Subjekt diventa impiegato, nel migliore dei casi, come impiegante).

Il pensatore tedesco ha fatto della tecnica, ancora più radicalmente, non tanto solo uno dei più importanti eventi del nostro tempo, quanto soprattutto l’Ereignis a partire dal quale nel nostro tempo le cose possono e-venire e av-venire, a partire dal quale nel nostro tempo ogni accadimento e ogni atto diventano possibili e pensabili. Saremmo di fronte al La Tecnica maiuscola per eccellenza, al modo in cui il Seyn si dà in questa epoca, al modo il cui l’Essere per noi si “epocalizza” in quanto modo dell’aletheuein , al modo in cui la temporalità per noi si temporalizza.

Marina Petrillo

Gentili Giuseppe Gallo e Giorgio Linguaglossa,

nel silenzio che alcuni scritti abitano, si manifesta un mondo di pensiero e riflessione poetica in sé compiuto.
L’evento si muove aereo, quasi in assenza di forza di gravità.
Le parole, geometria nello spazio, ingenerano una progressione data non solo dalla successione logica ma dalla profondità.
Si integrano i segni convenzionali in libere associazioni, come se trasformassero in reazioni chimiche il vuoto indugiare.
L’aura di sacro esprime e risolve la natura dell’accadimento, diviene coincidente al processo del pensiero stesso. Catalizzatori di memorie, i processi associativi, come microchips della coscienza in sua espansione.
In tale prospettiva, si è in un prisma che induce nuovo riverbero, senza estenuazione.
Come per l’opera pittorica citata da Ewa Tagher, “Il giardino delle delizie” di Bosch, in cui l’esoterico prende forma attraverso una messe infinita di indizi in un processo di amplificazione visiva.
Una moltiplicazione dei linguaggi, campo di ricerca al quale attingere. Frattali energetici dove sublimare contenuti.
In un approfondimento di pochi giorni fa, caro Giorgio, hai sottolineato l’importanza del significato di ” evento” che sento di condividere.

Con l’Ereignis (Evento) si interrompe quel gioco linguistico per cui qualcosa come un significante sta, in quanto segno, per qualcos’altro, cioè per un altro significante, poiché non c’è nulla, al di fuori dell’Ereignis. È l’Ereignis che precede e fonda il significante e il significato, e quindi il linguaggio. Ora, conformemente a questa premessa, costruire una poesia dal punto di vista dell’Evento significa sottrarsi al vincolo di una poesia basata sul significante e sul significato e sottrarsi al punto di vista che questo necessariamente comporta.

Ringrazio Giuseppe Gallo, sposando la sua tesi, poiché lo scritto, per il potenziale che evoca, necessita della funzione fondamentale che lo anima, non ultimo l’interrogativo iniziale tratto dal Libro di Giobbe: “Ma la sapienza da dove si trae?”.

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Poesia di Mario M. Gabriele, Promenade in Zelia Nuttal Gallery,  Video di Gianni Godi, Video di Diego De Nadai, Poesie di Mario M. Gabriele, Marina Petrillo, Giuseppe Gallo, Mauro Pierno

È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.

Giuseppe Gallo

Pane al pane e vino al vino

Il Padre cullava l’idea di essere anche poeta.
Ogni tanto scriveva fiordaliso e poi sorriso.
Bruma ed aprico, rinfocola e sestante.
Una volta scrisse asfodèlo senza averne l’immagine negli occhi.
L’asfodèlo se la prese a male e protestò vivacemente.
-Perché non dici pane al pane e vino al vino?
Il Padre, allora, vide Jerry e gli scrisse Figlio sulla fronte.
Incontrò Mary nel corridoio e le scrisse Moglie sopra i seni.
Si guardò allo specchio del bagno e scrisse Padre sopra il suo riflesso.
Quando Jerry si accorse d’essere solo Figlio
se ne andò di casa a cercare una Moglie per essere Marito e Padre.
E quando Mary pensò d’essere solo Moglie
abbandonò la casa per cercare la Figlia ch’era stata
e trovare la Madre ch’era ancora.
Così, il Padre, ormai solo e poeta, tornò di fronte allo specchio del bagno,
inumidì il vetro con il proprio respiro e scrisse la parola Ombra
sulla sua Ombra.

caro Giuseppe Gallo.

la tua poesia mi ha fatto venire in mente questa frase di Giorgio Agamben: «il sottouomo deve interessarci assai più del superuomo. Questa infame zona d’irresponsabilità è il nostro primo cerchio, da cui nessuna confessione di responsabilità riuscirà a tirarci fuori».1 La poesia deve andare a sondare quella realtà del sottouomo, come tu scrivi: «Ombra sulla sua Ombra». Che cosa c’è sopra e dietro l’Ombra? Un’altra Ombra. Cosa c’è dietro il fondo? Un altro s-fondo. E così via. Fino a giungere all’Ereignis (l’evento). Con le parole di Heidegger: «l’essere svanisce nell’ Ereignis».2 Con il che la storia giunge al termine, e con essa la metafisica. L’Evento indica il punto cieco della ragione, ciò che non può essere portato a “significato” essendo lcondizione che precede e rende possibile ogni significato. Penso che la nuova poesia sia un aspetto della problematica dell’evento che si configura sotto i nostri occhi, emblematicamente rappresentato dalla perturbazione indotta nel nostro mondo dall’insorgere del Covid19.

(Giorgio Linguaglossa)

1 da http://ariliterature.org/forum/wp-content/uploads/2019/03/AGAMBEN-Quel-che-resta.pdf

2 M. Heidegger,  Zur Sache des Denkens, Niemeyer, Tübingen 1969; trad. it. a
cura di E. Mazzarella,  Tempo ed essere, Guida, Napoli  1980, p. 123

 

Mauro Pierno

In un’altra casa spingendo carrelli a vapore
un variopinto dipinto variegato al cioccolato. Senza panna.

Corresse subito la mira, la stessa ripartenza.
Suvvia i versi potrebbero misurarsi a metri, non ne avremmo difficoltà a srotolarne i nastri!

Ho fatto a meno dei decalitri questo sbottò.
Si portò la mano alla fronte, era totalmente sfebbrato.

A guardarlo non si direbbe. Colavano dal naso alternativamente i gusti cacao e fior di fragola.

Sono qui a dipingervi! Non potete, non potete ogni volta inventarne
di nuove e astruse! Questa volta sbatte forte la cella.

Sulla tavolozza le macchie correvano lungo le arterie, svoltarono.
Mirò il virus si attenne all’ordine.

Misurò la profondità del menù e svenne.

Mario M. Gabriele

L’unica cosa che Orlock disse fu: Gratia vobis et pax-
facendo frullare le ali delle rondini sul sagrato.

Giuda attese che lo chiamassero al Palazzo di Giustizia
dove c’era un bodyguard con la tagliola in mano.

Avete mai visto un uomo crescere nel pantano?
domandò Padre Cruz ai missionari nel Wuhan.

-Abbiamo bisogno di un sofà con lenzuolo di seta
e almeno 10 bicchierini di Gentleman Jack.

Il tuo viso non necessita di Chanel.
Ti toccherà tornare al passato rubando Le Illuminazioni.

Le cose come sono viaggiano a tradimento.
Ne parleremo con il Giudice al Processo.

Ci ha pensato anche Ian Bruegel, il Giovane,
con il Paradiso Terrestre alla Gemaldegalerie di Berlino.

Qualcuno si fermò nel concerto dei Pink Floid
dopo aver scritto: Liebe Christa wie geht es dir?

Si arrivava a piedi all’abbazia di Fra Petrarca
l’unico che sapeva dove fosse il Santo Graal.

I falchi passavano da un ramo all’altro
come pensieri senza sponda.

Niente più veniva alle porte del mattino
se non l’ombra del verbasco su un futuro da epitaffio.

Su tutto echeggiavano le parole di Franz Wertmuller
Oh, la soupe à l’Oignon Gratinée! –

(inedito)

Non saprei dire se questa sia una poesia post-pop o una pop-poesia, così come c’è oggi una philosophy kitchen si dà anche una poetry kitchen. Mario Gabriele sonda le possibilità della nuova poesia accostando e facendo fibrillare la Gemaldegalerie di Berlino con il Santo Graal, Wuhan e l’abbazia di Fra Petrarca, Franz Wertmuller e la soupe à l’Oignon Gratinée… mischiando il sacro col profano, reperti del museo della storia e ologrammi, fragili algoritmi poetici con assiomi e aforismi diserbati di significato. È il nostro tempo di Covid19 che richiede una poesia siffatta, né derisoria né irrisoria, che si sottrae alle categorie della critica del testo perché in realtà non c’è più nessun testo da interpretare, qui l’ermeneutica fa cilecca, mostra tutta la propria inanità. Qui c’è un testo che non si dà più come un testo, qui c’è un testo che bara con il lettore e con l’autore, e così facendo mostra che le regole del gioco sono state cambiate durante la partita, e che quindi non c’è più nessun gioco che si gioca, che la partita è finta, è frittura di pesce marcio… Continua a leggere

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Poesia di Alfredo de Palchi recitata da Diego De Nadai, Per il 93° compleanno di Alfredo de Palchi, Parte IV, Poesie di Alfonso Cataldi, Luciano Nota, Sabino Caronia, Giuseppe Gallo, Guglielmo Aprile, Mauro Pierno

Scrivere una poesia priva di identità. È questo uno dei compiti della «nuova poesia». Alfredo de Palchi, come tutti i poeti dell’epoca del post-moderno, ha perseguito una poesia della identità, dalla identità fortemente definita, ma oggi forse siamo entrati in un nuovo eone, ci viene richiesto di fare una poesia senza carta di identità, senza indirizzo del mittente e del destinatario.

Forse oportet insegnare ai poeti a non essere un poeta, che la poesia è una pratica di vita, forse la più alta e astratta, che da essa possiamo imparare a seguire le nostre passioni, le nostre inquietudini, che essa è un’etica proprio in quanto esula dall’etica, o è vero il contrario, che l’etica viene prima dell’estetica, perché essa ha a che fare con il «sacro», con il recinto, il «versus», il recursus delle parole che abitano la patria metafisica. E un poeta non può tradire le sue parole (ma le parole, sì, le parole lo possono tradire).  

Oserei dire che la nuova poesia è un tentativo radicale di costruire una nuova ontologia modale, un nuovo modo di porsi tra il linguaggio e il mondo. Una sola sostanza per tutti gli attributi. Fantasia e realtà, dopotutto, sono fatti della medesima sostanza, no? Forse, davvero, dobbiamo tornare a pensare che tutto è sostanza, e tutto è fantasia. L idea di Agamben della possibilità che la nostra vita plasmi larchetipo sulla base del quale siamo stati creati, dice con tutta evidenza limportanza assegnata dal filosofo al principio poetico dell’immaginazione. E dato che non vi è memoria senza immagine e senza immaginazione, come ci ricorda Agamben per il tramite di Aristotele, la storia dell’umanità è sempre una storia di immagini e di fantasmi, più precisamente, è vero il contrario di quanto comunemente si crede: è la realtà che viene edificata tramite l’immaginazione poetica. 

(Giorgio Linguaglossa)

Per il 93° compleanno di Alfredo de Palchi, Parte IV

Alfonso Cataldi

Alfonso Cataldi

«A rivederci dalla balaustra al ginocchio
sulle intenzioni pre-matrimoniali.»

L’incipt è disdicevole, si vocifera nei portierati, più dello strapiombo reale
tra il leggìo e le parole in decantazione.

Sul lato di via San Barnaba il procuratore capo distribuisce volantini
“vietato sporgerti se non sei degli anni 30”

Meno slanciati, certo, ma tutti ritiravano
le uova cautamente allo sportello del new deal.

«Giacomo è tardi, andiamo a fare la doccia»
«La doccia no, preferisco a spezzatino»

col corpo in equilibrio sulla trave
in equilibrio sulla calce che bolle

Anas Al-Bashar sbilenca il cravattino
e prepara il piano terra per i futuri sposi.

“Deontologia professionale” insiste il picchetto antistante
l’onore e l’ossobuco sfrigolanti. Col naso all’insù

il cinghiale inciampa al primo tormentone del bozzagro
appena fuori città.

luciano-nota

Luciano Nota

Nessuno al mondo è rondine

Poggia il sesso sul rizoma delle felci
e muori eiaculando sulla linfa
affinché tu rinasca sulle acque dell’oceano.
E parla d’amore, dei sogni revocabili
dello spazio nelle stanze perpendicolari.
Non chiedere la primula al primo passante
a chi transita granitico sulla festa della vita.
Nessuno al mondo è rondine
ma strascico del proprio cammino.
Sii il silenzio dell’essere definito
nascosto per essere visto
da un occhio e da un tormento profumato.

(da Intestatario di assenze, Campanotto, Udine, 2008)

Giuseppe Gallo

Giuseppe Gallo

Zona gaming 22

per A. De Palchi

Nessuna certezza…
Ancora senza isole…

Il gabbiano, escrescenza arcaica,
gesticola sul cratere spirituale.

Ovunque bocche sbilanciate a mordere
vesciche d’alghe.

Esistere significa. Annerire il cielo.
Capovolgerlo come uno specchio.

Zona gaming
…it’a macht…

A volte il nostro nihil
per un cavallo zoppo.

Per la sua bocca a fico d’India.
Per il fruscio di un cyborg.

Avevo uno zio. Si chiamava Alfredo.
Finse un suicidio d’amore.

Zona gaming
… it’ a macht…

Non esistere significa.
Stringiamo al petto croci di cioccolata.

-Scopri l’infinito!
-Fai un carico di energia!

-Scegli la tua destinazione!
Il trionfo della spazzatura * (E. Montale)

Cos’è la vita? Nessuna certezza.
Abbaglio di isola nell’occhio distorto del gabbiano.

Zona gaming
… it’s a macht made in heaven… Continua a leggere

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Jorge Luis Borges (1899-1986)  CINQUE POESIE METAFISICHE «L’arte vuole sempre irrealtà visibili» con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Jorge Luis Borges

Jorge Luis Borges

http://www.letteratura.rai.it/articoli/jorge-luis-borges-il-mio-rapporto-con-il-tempo/993/default.aspx

http://it.radiovaticana.va/news/2016/09/22/teatro_della_misericordia_alcuni_versi_di_jorge_luuis_borge/1259943

Jorge Luis Borges

Jorge Luis Borges

Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo nasce a Buenos Aires il 24 agosto 1899 e muore a Ginevra il 14 giugno 1986. Nonostante sia stato uno dei più importanti scrittori del ventesimo secolo, ed abbia ricevuto importanti riconoscimenti, non gli fu mai conferito  il Premio Nobel. Più volte il suo nome è apparso nella lista dei candidati ma le sue idee politiche conservatrici e filo-occidentali gli hanno alienato i favori dei membri della giuria svedese.

Borges è famoso per i suoi racconti nei quali  ha saputo coniugare idee filosofiche e metafisiche con i classici temi del fantastico (quali: il doppio, le realtà parallele del sogno, i libri misteriosi e magici, la contemporaneità del tempo).

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Molti sono gli scrittori che sono stati influenzati dalle sue opere: Cortazar, Philip K. Dick, Umberto Eco, Leonardo Sciascia, Italo Calvino. Oggi l’aggettivo «borgesiano» definisce una concezione dell’arte e dell’esistenza, l’opera come menzogna, intersezione e sovrapposizione di reale e immaginario ( famose le sue recensioni di libri immaginari).
Dal 1914 al 1921 è con la sua famiglia in Europa; dapprima in Svizzera, a Ginevra, dove frequenta il Collège Calvin, che gli consente di conoscere molti autori europei, apprendere il latino, il francese ed il tedesco, poi Lugano, Maiorca, Siviglia e Madrid.
Nel 1925, Borges incontra Victoria Ocampo, la musa che sposerà quarant’anni dopo. Con lei stabilisce un’intesa intellettuale destinata a entrare nella mitologia della letteratura argentina.

Jorge Luis Borges

Jorge Luis Borges

 Nel periodo successivo ad un incidente che lo costringe all’immobilità e ad un attacco di setticemia che mette in serio pericolo la sua vita, Borges concepisce alcuni dei suoi capolavori che verranno pubblicati dopo 6 anni, nel 1944 col titolo di Ficciones e dopo altri cinque anni anche i racconti di Aleph, ispirati all’immortalità, all’idea del tempo infinito. Nel 1955 viene nominato direttore della Biblioteca Nazionale, ciò che aveva sempre sognato di fare. Con spirito eminentemente borgesiano, lo scrittore commenta così la nomina: «E’ una sublime ironia divina ad avermi dotato di ottocentomila libri e, al tempo stesso, delle tenebre».
E’ l’inizio di un lungo e fecondissimo tramonto. Nonostante la morte avvenga molto più tardi. Gli sarà accanto la sua seconda moglie, l’amatissima Marìa Kodama, una sua ex allieva divenuta poi sua segretaria.

Ha scritto Addison che quando sogniamo l’anima «conversa con innumerevoli individui di sua creazione e si trasferisce in diecimila scene di sua immaginazione»: l’anima è, insomma, «il teatro, l’attore e lo spettatore». Ma anche, soggiunge Borges, l’autore della storia cui assiste, sicché i sogni rappresentano un vero e proprio «genere letterario».

Nel saggio Kafka y sus precursores, pubblicato nel 1951, Borges sostiene che «cada escritor crea a sus precursores. Su labor modifica nuestra concepción del pasado, como ha de modificar el futuro. En esta correlación nada importa la identidad o la pluralidad de los hombres». Sta qui la chiave per entrare dentro la produzione letteraria di Borges, l’idea di una letteratura che crea i propri lettori creando un nuovo genere letterario. I racconti e le poesie di Borges vogliono essere non qualcosa di «nuovo» quanto un nuovo genere letterario. È questo il punto decisivo della sua poetica tipicamente modernista.

Lungi dal trattasi di una esperienza del sublime come quella che commuove Dante nel Paradiso, El Aleph evoca l’abietto mediante l’apparizione di immagini sgradevoli e impensate e mediante l’allusione a una realtà multipla, inconoscibile, governata dalla incertezza e dalla mutevolezza degli spazi e dei tempi. In realtà, la sua poesia e i suoi racconti sono una brillante interpretazione degli incubi e dei sogni dell’uomo contemporaneo, scritture libere da qualsiasi pensiero mimetico del reale. La scrittura è simulacro, immagine riflessa di un simulacro, simulacro di un sogno e ciò che l’uomo considera «reale», è semplicemente il frutto dell’abitudine alle credenze, non diversamente dalla mentalità primitiva che crede negli sciamani. Per dirla con Ortega y Gasset, l’uomo borghesiano è un animale «fantastico tecnologico», ha bisogno di creare continuamente i propri mondi irreali e fantastici per poter sopravvivere e utilizzare al meglio la tecnologia. 

Per Borges il tempo è il problema centrale della metafisica e l’inesplicabile costituiscono alcuni dei temi centrali della sua opera. Come il punto microcosmico può contenere l’universo, così un istante può significare la eternità. La prima ipotesi si fonda sul misticismo panteista, la seconda un avatar del paradosso di Zenone: «William James niega – scrive Borges, que pueda transcurrir catorce minutos, porque antes es obligatorio que hayan pasado siete, y antes de siete, tres minutos y medio, y antes de tres minutos y medio, un minuto y tres cuartos, y así hasta el fin, hasta el invisible fin, por tenues laberintos de tiempo». Borges pensa che la dialettica di Zenone è una irreltà che conferma il carattere allucinatorio del mondo; nelle sue narrazioni la dialettica opera all’interno della irrealtà dell’arte, per questo i suoi racconti, come la tartaruga di Zenone, hanno un colore di irrealtà nel mentre che sono retti da una logica irrefutabile. Russell ha scritto che «lo scetticismo universale, quantunque logicamente inconfutabile, risulta praticamente sterile». Borges sa che gli schemi temporali della metafisica, come le sue teorie, sono irrealtà, sa che l’uomo non può negare la sostanza di questo fatto – il tempo -; sa, e lo ha detto, che in una gran parte della sua opera palpita uno «scetticismo essenziale». Analogamente, sa anche che l’arte non è «uno specchio del mondo, ma una cosa aggregata al mondo», e che sul piano della letteratura lo scrittore diviene un artigiano che tratta schemi temporali come Dio scrive le pagine dell’universo. Di tutti gli schemi temporali, quello preferito che ricorre con maggiore frequenza nella sua opera è il tempo ciclico o circolare. In molti dei suoi saggi Borges ha approfondito le vicissitudini di questa dottrina: dalla sua genesi platonica alla rinnovata formulazione di Nietzsche. Di tutte le versioni dell’eterno ritorno, quella che Borges preferisce è la ipotesi che considera che i cicli che si ripetono infinitamente non sono identici ma similari. Tale concezione del tempo permette una feconda interpretazione della realtà che lo scrittore argentino applica nei suoi racconti e nelle sue poesie.

«Por qué nos inquieta – chiede Borges – que el mapa esté incluido en el mapa y las mil y una noches en el libro de Las mil y una noches? ¿Por qué nos inquieta que Don Quijote sea un lector del Quijote, y Hamlet espectador de Hamlet? Creo haber dado con la causa: tales inversiones sugieren que si los caracteres de una ficción puede ser lectores o espectadores, nosotros, sus lectores o espectadores, podemos ser ficticios»(O.I. 68-69).

Se l’arte è sogno o magia, l’esito del mago è questo istante nel quale il reale sembra fittizio e il fittizio, reale. Il programma della sua narrativa Borges lo definisce così:

«creare irrealtà che confermano il carattere allucinatorio del mondo, come è dottrina presso tutti gli idealisti»(D.136), come appare evidente dal seguente paragrafo di Schopenhauer: 

«Se il mondo come idea è solamente la visibilità della volontà, l’opera dell’arte restituisce questa visibilità della volontà, l’opera dell’arte restituisce questa visibilità più precisa. È la camera oscura che mostra gli oggetti  in modo più puro e ci fornisce la possibilità di esaminarli e comprenderli meglio. È il dramma dentro il dramma, lo scenario sopra lo scenario in Hamlet

Per Schopenhauer, l’arte è una irrealtà all’interno di un’altra, come il dramma dentro il dramma in Hamlet, che ha però la strana virtù di proiettare una immagine più chiara della realtà che per lui è un prodotto della volontà. Borges si propone, sul piano della letteratura fantastica, il compito che mette insieme la metafisica idealista con il piano della realtà: se il mondo esiste come una mia idea del mondo, allora io, come parte di questo mondo, sono solo una idea all’interno di questa mente che mi percepisce o mi proietta come una percezione. Crea con esso personaggi fittizi, sempre nell’ambito della finzione, nel mentre che li pensiamo reali. Borges insomma converte personaggi storici reali in personaggi fittizi e favolosi come quel Marco Flaminio Rufo comandante di una coorte romana al tempo della guerra di Diocleziano contro i mitici popoli degli agili e dei garamanti nei pressi di Berenice, di fronte al mar Rosso.

(Giorgio Linguaglossa)

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Il sogno

Quando gli orologi della mezzanotte elargiranno
un tempo generoso,
andrò più lontano dei rematori di Ulisse
nella regione del sogno, inaccessibile
alla memoria umana.
Da quella regione sommersa recupero residui
che ancora non comprendo;
erbe di botanica elementare,
animali un po’ diversi,
dialoghi coi morti,
volti che in realtà sono maschere,
parole di lingue molto antiche
e talora un orrore non comparabile
a quello che può darci il giorno.
Sarò tutti o nessuno. Sarò l’altro
che ignoro d’essere, colui che ha contemplato
quell’altro sogno, la mia veglia. La giudica,
rassegnato e sorridente.

El sueño

Cuando los relojes de la media noche prodiguen
un tiempo generoso,
iré más lejos que los bogavantes de Ulises
a la región del sueño, inaccesible
a la memoria humana.
De esa región inmersa rescato restos
que no acabo de comprender;
hierbas de sencilla botánica,
animales algo diversos,
diálogos con los muertos,
rostros que realmente son máscaras,
palabras de lenguajes muy antiguos
y a veces un horror incomparable
al que nos puede dar el día.
Seré todos o nadie. Seré el otro
que sin saberlo soy, el que ha mirado
ese otro sueño, mi vigilia. La jurga,
resignado y sonriente.

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Cosmogonia

Né tenebra né caos. Esige occhi
che vedano, la tenebra; così
suono e silenzio esigono l’udito,
e lo specchio, la forma che lo popola.
Né lo spazio né il tempo. E neppure
una divinità che concepisce
il silenzio anteriore all’iniziale
notte del tempo, che sarà infinita.
Il gran fiume di Eraclito l’Oscuro
non ha intrapreso il corso irrevocabile
che dal passato va verso il futuro,
che dall’oblio va verso l’oblio.
Qualcosa che già soffre. Che già implora.
Dopo, la storia universale. Ora.

Cosmogonía

Ni tiniebla ni caos. La tiniebla
requiere ojos que ven, como el sonido
y el silencio requieren el oído,
y el espejo, la forma que lo puebla.
Ni el espacio ni el tiempo. Ni siquiera
una divinidad que premedita
el silencio anterior a la primera
noche del tiempo, que será infinita.
El gran rio de Heráclito el Oscuro
su irrevocable curso no ha emprendido,
que del pasado fluye hacia el futuro,
que del olvido fluye hacia el olvido.
Algo que ya padece. Algo que implora.
Después la historia universal. Ahora.

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[poesia attribuita a Borges ma scritta alla maniera di Borges. In tal senso riteniamo questo tentativo di imitazione un esperimento interessante»

Istanti

Se io potessi vivere un’altra volta la mia vita
nella prossima
cercherei di fare più errori
non cercherei di essere tanto perfetto,
mi negherei di più,
sarei meno serio di quanto sono stato,
difatti prenderei
pochissime cose sul serio.

Sarei meno igienico,
correrei più rischi, farei più viaggi, guarderei più
tramonti, salirei più montagne, nuoterei più fiumi,
andrei in più posti dove mai sono andato, mangerei più
gelati e meno fave, avrei più problemi reali e
meno immaginari.

Io sono stato una di quelle persone che ha vissuto sensatamente e
precisamente ogni minuto della sua vita; certo che ho avuto
momenti di gioia ma se potessi tornare indietro cercherei
di avere soltanto buoni momenti. Nel caso non lo sappiate,
di quello è fatta la vita, solo di momenti;
non ti perdere l’oggi.

Io ero uno di quelli che mai
andava in nessun posto senza
un termometro,
una borsa d’acqua calda, un ombrello
e un paracadute; se potessi vivere di nuovo
comincerei
ad andare scalzo all’inizio della primavera
e continuerei così fino alla fine dell’autunno.
Farei più giri nella carrozzella,
guarderei più albe
e giocherei di più con i bambini,
se avessi un’altra volta la vita davanti.
Ma guardate, ho 85 anni e so che sto morendo.

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Il guardiano dei libri

Là sono i giardini, i templi e la giustificazione dei templi,
la retta musica e le rette parole,
i sessantaquattro esagrammi,
i riti che son l’unica sapienza
che agli uomini concede il Firmamento,
la dignità di quell’imperatore
la cui serenità venne riflessa dal mondo, specchio suo,
così che i campi davano i loro frutti
e i torrenti rispettavano le sponde,
l’unicorno ferito che ritorna per indicare la fine,
le segrete leggi eterne,
il concerto dell’orbe;
tali cose o la loro memoria sono nei libri che custodisco nella torre.
I tartari vennero dal Nord su piccoli criniti puledri;
annientarono gli eserciti
che il Figlio del Cielo aveva inviati per punire la loro empietà,
eressero piramidi di fuoco e tagliarono gole,
uccisero il malvagio con il giusto,
uccisero lo schiavo incatenato che vigila la porta,
conobbero le donne, le scordarono
e andarono oltre, al Sud,
innocenti come animali da preda,
crudeli come coltelli.
Nell’alba dubitosa
il padre di mio padre salvò i libri.
Sono qui nella torre dove giaccio
e ricordano i giorni stati d’altri,
gli stranieri, gli antichi.
Mancano i giorni ai miei occhi.
I palchetti son alti, non ci arrivano i miei anni.
Leghe di polvere e sonno cingono la torre.
A che ingannarmi?
La verità è che non seppi mai leggere,
ma mi consolo pensando
che immaginato e passato sono tutt’uno
per un uomo che è stato
e contempla quel che fu la città
e toma ora ad essere deserto.
Che cosa m’impedisce di sognare
che decifrai un tempo la sapienza
e tracciai con attenta mano i simboli?
Il mio nome è Hsiang. Sono il custode dei libri,
che sono forse gli ultimi
giacché nulla sappiamo dell’Impero
e del Figlio del Cielo.
Sono là nei loro alti palchetti,
remoti e prossimi a un tempo,
visibili e segreti come gli astri.
Là sono i templi, là sono i giardini.

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Jorge Luis Borges

È l’amore

È l’amore. Dovrò nascondermi o fuggire.
Crescono le mura delle sue carceri, come in un incubo atroce.
La bella maschera è cambiata, ma come sempre è l’unica.
A cosa mi serviranno i miei talismani:
l’esercizio delle lettere, la vaga erudizione,
le gallerie della Biblioteca, le cose comuni,
le abitudini, la notte intemporale, il sapore del sonno?
Stare con te o non stare con te è la misura del mio tempo.
È, lo so, l’amore: l’ansia e il sollievo di sentire la tua voce,
l’attesa e la memoria, l’orrore di vivere nel tempo successivo.
È l’amore con le sue mitologie, con le sue piccole magie inutili.
C’è un angolo di strada dove non oso passare.
Il nome di una donna mi denuncia.
Mi fa male una donna in tutto il corpo

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