Giorgio Ortona, Palazzina romana, 1997, olio su tavola, Poetry kitchen, poesie di Letizia Leone, Alfonso Cataldi,

Giorgio Ortona Palazzina sulla Colombo, 1997 olio su tavola 20x14 cm

(Giorgio Ortona, Palazzina sulla Colombo, 1997 – Olio su tavola 20 x14 cm)

Un ricordo del 1998 della entusiasmante avventura esistenziale e artistica con Giorgio Ortona: una veduta urbana che non esiste più inghiottita nel magma delle nuove costruzioni.

Palazzi. Un volo radente sulla città che intrappola interi quartieri, stretti primi piani di un muro condominiale, la luce opaca che ingoia la Prenestina, il taglio prospettico di un edificio che irrompe invasivamente sulla tela: è l’apparizione di Roma nella pittura. La scelta di esporre una serie di quadri sul paesaggio urbano romano non è casuale in un artista che ha eletto la sua città come fonte inesauribile di “materiale” estetico. E poi la pittura, il senso del mestiere, la necessità e l’urgenza di recuperare e affermare il valore della pittura come mezzo moderno di ricerca e sperimentazione. “Sono convinto che dopo il duemila la pittura acquisterà sempre più senso come lavoro lento, come approfondito processo di conoscenza estetica di contro al mondo-fotocopia” afferma Ortona. La sua è una ricerca attenta che parte dallo scandaglio di zone romane e laziali recuperate al degrado attraverso la visione estetica. Solo costruzioni, un accavallarsi di palazzi che lasciano lo spazio ad altri palazzi, né macchine, né presenze umane; solo lo studio sulla forma, sulla luce, sul colore. Ricordo mattine luminose o pomeriggi a girare per strade alla ricerca di luoghi definitivi da regalare all’arte, era come se le visioni chiamassero: un palazzo isolato sulla Colombo (che ormai non esiste più, coperto dalla nascita dei condomini), prospettive geometriche su campi verdi con una luce felice che riusciva a riscaldare i residui tumorali di un orizzonte industriale. Una sorta di romanticismo freddo lo definisce Ortona, e passa a dipingere nature morte; sacchi di cemento. E come se a questa mancanza di pittura si sopperisse in modo energico ponendo pesantemente sulla tela il materiale da costruzione, la corposità, il dato fenomenico, la datità da cui riprendere il cammino nel segno di un radicale e originario mestiere. Nella qualità della materia pittorica.

(Letizia Leone “Studio su Roma”)

Danto iniziò la sua carriera come pittore prima di accorgersi che la pittura non aveva futuro, letteralmente, e fu allora che decise di dedicarsi solamente alla filosofia. Negli anni Sessanta la necessità storica di uno stile nei confronti di un altro viene meno: nell’analisi critica dell’arte si crea una divaricazione tra l’interpretazione e la identificazione artistica dell’opera. Innanzitutto, questa viene meno, o almeno si riduce ad un’ombra di sé. Perché dalla Pop all’Iperrealismo all’arte concettuale essa si avvicina sensibilmente all’identificazione letterale. Questa tendenza può essere già avvertita nelle astrazioni minimali di Reinhardt (1960-66). Possiamo ben dire che c’è una superficie di una certa dimensione, macchiata di un certo colore; a partire da questa identificazione letterale l’osservatore compie una identificazione: Questa tela è una pittura astratta in quanto così è stata pensata ed eseguita dall’artista. L’interpretazione a questo punto cessa, non c’è più alcun bisogno di alcuna interpretazione visto che l’opera d’arte è auto evidente di per sé e non richiede alcun intervento ermeneutico dall’esterno. In effetti, l’arte moderna post anni ’60 non richiede alcun intervento dall’esterno che la legittimi o la spieghi ai non vedenti o ai non capenti. L’arte è diventata un manufatto non ermeneutico e la critica viene a perdere il terreno da sotto i piedi, non c’è ermeneutica che possa legittimare un qualcosa che non richiede di essere legittimata. È accaduto che in ambito artistico qualsiasi cosa sia divenuta possibile. Ma, se qualsiasi cosa può diventare arte, la conseguenza appare ovvia: nessuna cosa più è arte. 

Il vero problema dell’arte contemporanea, cui Danto riferisce col termine “poststorica”, è la saturazione,  o meglio, il dissolvimento, dello spazio interpretativo che fino all’arte Pop intercorreva tra l’identità letterale dell’oggetto e quella della resa del medesimo oggetto in arte. La parola «arte» non ha più senso, è un’entità storica e letteraria terminata: adesso l’arte vive solamente all’interno della narrazione dell’arte. Si ha narrazione in quanto si ha comunicazione.

(Giorgio Linguaglossa)

reinhardt black paintings anni 60 David Zwirner Gallery

Reinhardt, black paingings, David Zwirner gallery anni ’60

Letizia Leone

LETIZIA LEONE è nata a Roma. Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (Roma, 2000); L’ora minerale, (Perrone Editore, Roma, 2004); Carte Sanitarie (Perrone Editore, Roma, 2008); La disgrazia elementare (Perrone Editore, Roma, 2011); Confetti sporchi (Lepisma Edizioni, Roma, 2013); Rose e detriti (FusibiliaLibri, 2015); Viola norimberga (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018)  Premio L’albero di Rose, Regione Basilicata, 2019; Notazioni sui fastidi del sonno (Ensemble Edizioni, 2020). Tra le numerose antologie: Antologia del Grande Dizionario della Lingua Italiana, UTET, Torino, 1998; La fisica delle cose, a cura di G. Alfano, Perrone Editore, Roma, 2011; Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, Giulio Perrone Editore, Roma 2007, dalla quale è stato messo in scena lo spettacolo Le invisibili, Teatro Valle, 2009; “Come è finita la guerra di Troia non ricordo” a cura di G. Linguaglossa, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016; Sorridi sei a Nettuno, Fusibilia edizioni, 2018; l’antologia americana How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Edition, 2019, New York.  Redattrice della Rivista Internazionale L’Ombra delle parole e della rivista di poesia e contemporaneistica Il Mangiaparole (Edizioni Progetto Cultura), organizza laboratori di lettura e scrittura poetica a Roma.

I

Il sangue allaga per spaziature ametriche.
Notturne dense fiumare.

Certi odori attecchiscono
Sul simbolo sacro della Tetraktys.

Coscia, ossobuco, le mascelle. Tagli bovini
Incartati nel fieno dello scritto. 

Metti lo strutto nella tua formula di pesante incanto.
La megalopoli è Illuminata.

Odore di bruciato, che notte alla finestra!

II

«Allora rinunciamo ai saperi che sono spariti?»
«Chi ha voglia di sfogliare incunaboli?»
«Libri di conoscenza? Lana sudicia sugli scaffali?»
«E le tenebre superiori? le avete viste?»

C’è una folla sanguinolenta di suini. Tagli e zecche.

Certe domande bisogna farle al buio.

III

Hanno disarticolato migliaia di zampe ai pipistrelli.
Un pensiero fisso. Poeticamente frivolo.

Nostra Stella di Iside asfissiata.
Così in un lampo dalla Storia alla preistoria.

Per assestarsi nel movimento il suino dovrebbe calibrarsi
al moto di rotazione terrestre da ovest a est.

Vite brevi a suon di tamburo.
E infine un Virus li scaraventò nell’Epica.

Alfonso Cataldi

 Alfonso Cataldi è nato a Roma, nel 1969. Lavora nel campo IT, si occupa di analisi e progettazione software. Scrive poesie dalla fine degli anni 90; nel 2007 pubblica Ci vuole un occhio lucido (Ipazia Books). Le sue prime poesie sono apparse nella raccolta Sensi Inversi (2005) edita da Giulio Perrone. Successivamente, sue poesie sono state pubblicate su diverse riviste on line tra cui Poliscritture, Omaggio contemporaneo Patria Letteratura, il blog di poesia contemporanea di Rai news, Rosebud.

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La kermesse delle ampolle da riempire

Le albicocche in offerta hanno il verme con la sindrome di Asperger.
All’OVS sono andate a ruba le t-schirt “Save the planet”

Il National Geographic ci ha stampato il logo sopra
ma “visto mai?” prosegue ad esplorare il piano B. Mars. Seconda stagione.

L’impatto umano sul pianeta rosso dopo la colonizzazione.
I Benetton serviranno una cameriera ?

Bombe di testosterone neutralizzano bombe d’acqua
la pazza gioia è alle costole dell’uomo scimmia.

«A quindicianni non ho mai salvato un pomeriggio dalla noia.»
I vicini carteggiano la voce per un karaoke tenebroso.

«La matricola 249, nome in codice Clara, è appena fuggita dai concetti basilari.»
I pappagalli gracchiano sugli alberi di Roma Est.

Christine Granville spunta tra i rami consapevole della missione
deve convincere i volatili a disertare la kermesse delle ampolle da riempire

prima che Sheldon Cooper li minacci col bazooka spaziale.
Ma Van Gogh si uccise veramente?

In questa poesia di Alfonso Cataldi abbiamo un esempio di autonomizzazione degli enunciati. Ogni enunciato, ogni atto di parola, va per la sua strada e tutti insieme fanno un gran fracasso, una grande confusione. Ogni enunciato pesca in cucina le parole dismesse, usate e gettate via e, tutte insieme, indicano molto bene la nostra condizione storico-esistenziale, assai più di quanto lo possano fare migliaia di poesie monadiche e monodiche bene educate ed equipaggiate che si fanno oggi.
Questa è, propriamente, la poetry kitchen, l’ultima e recentissima propaggine della ricerca di una nuova ontologia del poetico che prendesse le misure e le distanze alla ontologia estetica del novecento e di questi ultimi due decenni.

Scrive Giorgio Agamben in uno stralcio postato sopra:

«La sfera dell’enunciazione comprende, dunque, ciò che, in ogni atto di parola, si riferisce esclusivamente al suo aver-luogo, alla sua istanza, indipendentemente e prima di ciò che, in esso, viene detto e significato. I pronomi e gli altri indicatori dell’enunciazione, prima di designare degli oggetti reali, indicano appunto che il linguaggio ha luogo. Essi permettono, così, di riferirsi, prima ancora che al mondo dei significati, allo stesso evento di linguaggio, all’interno del quale soltanto qualcosa può essere significato».

Un amico che fa poesia mi ha detto ieri al telefono che non riesciva a capire la poesia di Marie Laure Colasson, quella enumerazione gli sembrava stucchevole. Al che io gli ho risposto semplicemente che il suo gusto è stato rovinato dalle migliaia di pseudo-poesie bene educate che si sono fatte in Italia e si continuano a fare oggi. E che magari dovrebbe leggere con più frequenza le poesie dell’Ombra delle Parole.

(Giorgio Linguaglossa)

Mario M. Gabriele

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso (Molise) nel 1940. Ha pubblicato per la poesia le seguenti opere: Arsura (1973, La Liana (1975), Il cerchio di fuoco. (1976, Astuccio da cherubino (1978),  Carte della Città Segreta (1982), Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992), Le finestre di Magritte (2000), Bouquet (2002), Conversazione galante (2004), Un burberry azzurro (2008), Ritratto di Signora (2014), L’erba di Stonehenge (2016), La porte ètroite (2016), In viaggio con Godot (2017), Registro di bordo (2020). Ha pubblicato  opere di saggistica e monografie di Autori  italiani del Secondo Novecento. È presente in Febbre furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, (1983), Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, (1994), Poeti in Campania di G.B. Nazzaro (2005), Le città dei poeti, di Carlo Felice Colucci (2005), Psicoestetica di Carlo Di Lieto (2006), in Critica della Ragione Sufficiente (verso una nuova ontologia estetica) di Giorgio Linguaglossa (2018) e nella Antologia AA.VV. Come è finita la guerra di Troia, di Giorgio Linguaglossa, con traduzione in inglese di Steven Grieco Rathgeb e prefazione di John Taylor, Chelsea Editions 2019. Alcuni suoi polittici sono stati pubblicati su la Repubblica di Sabato 15 Giugno 2019. La critica più qualificata si è interessata alla sua opera su Tuttolibri, Quinta Generazione, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier, Riscontri e su L’Ombra delle parole.

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Ti parlo, ma non mi ascolti.
Come è andata con Omar? Si è innamorato di Salomè?

Allora si spiega tutto
perché ha ucciso il serpente a sonagli.

La signora Hanna odia i positivisti
dopo aver letto la Pontificia Opera Cristiana.

Ogni giorno cerco nella cassetta
una piuma dal cielo.

Piqueras e Sweneey
non attendono le donne di Michelangelo

All’ultima curva della strada aspetto Milena
con Panetti e Shoppers.

Guardo il vestito, la maglietta a pailettes.
Controllo i Covered Bonds e le fake news.

Tommy è venuto a potare la siepe
per lasciare il posto al ruscus di Settembre.

Mark Strand si è rifatto ai quadri di Edward Hopper
diventando spiritualista.

Guardando la camera da letto di Van Gogh
sono riuscito a dormire senza EN.

Il Servizio urbano si è rinnovato
inaugurando vicoli con l’insegna: La tomba è il bacio di Dio.

11 commenti

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11 risposte a “Giorgio Ortona, Palazzina romana, 1997, olio su tavola, Poetry kitchen, poesie di Letizia Leone, Alfonso Cataldi,

  1. Pittura si contempla. Forse proprio questa la virtù che stiamo perdendo. Il lavoro dei pittori è continua contemplazione. Raffaello, per capirci.
    Attrae la tecnica, raramente il significato. Ci si aspetta che l’opera resti viva, e questo lo può fare il segno. Tutto il resto invecchia.
    Stando così le cose, può bastare che si dipinga un oggetto: una scodella, una chiave inglese. Due arance.
    Affidiamo al pop il compito di togliere tutto ciò che non serve più.
    Al Pop!

  2. Vedere un quadro come quadro significa ravvisare un’opacità rappresentativa che non lascia che lo spettatore ammiri o rifletta circa il contenuto dell’opera, previo riconoscimento del concetto di quadro, intendendo cioè “artisticamente” l’oggetto davanti al quale si trova.
    La struttura narrativa della palazzina romana poggia su una non-struttura, su una macchia di colore scuro che la sostiene. E questo è propriamente il modo di procedere di un artefatto di tipo umanistico. Il concetto di quadro viene prima del quadro stesso. L’osservatore vede prima il concetto del quadro, in un secondo momento percepisce il quadro stesso.

    Il Modernismo è una successione di «atti di fede» (enactments of faith) rivolti dagli artisti nei confronti di quel tipo di arte che di volta in volta essi
    considerano vera arte. Un’arte il cui senso recondito è adesso recuperato e ricordato dall’artista che, all’interno dell’opera mette il punto fine alla storia dell’arte. Lo straordinario individualismo dell’arte moderna è testimoniato da quel prodotto eminentemente modernista che è il manifesto. Il manifesto è un manuale che esprime i criteri secondo i quali narrare la storia di un determinato stile o opera d’arte.

    Un ricordo del critico Danto che risale al 1962:

    Vivevo a Parigi e stavo lavorando a … La filosofia analitica della storia. Un giorno mi fermai al Centro Americano a leggere qualche rivista, e vidi “Il bacio” di Roy Lichtenstein (stampato di lato) su Art News … Devo dire che rimasi senza parole. Sapevo che si trattava di un momento sorprendente e inevitabile, e nella mia mente capii immediatamente che se era possibile dipingere qualcosa di quel tipo – ed essere presia bbastanza sul serio perché una rivista di punta del settore la recensisse – allora tutto era possibile. E … se tutto era possibile, davvero non c’era un futuro specifico; se tutto era possibile, niente era più necessario oppure inevitabile, inclusa la mia visione di un futuro artistico … Per un artista era giusto fare quel che uno volesse. Significò anche che persi interesse nella produzione di arte e praticamente smisi. Da quel momento ero interamente un filosofo …

    *
    Danto, After the end of art, op. cit., pag. 123:

    I was living in Paris and working on … Analytical Philosophy of History. I stopped one day at the American Center to read some periodicals, and I saw Roy Lichtenstein’s The Kiss (printed sideways) in Art News … I must say I was stunned. I knew that it was an astonishing and inevitable moment, and in my own mind I understood immediately that if it was possible to paint something like this – and have it taken seriously enough by a leading art publication to be reviewed – then everything was possible. And …if everything was possible, there really was no specific future … it was all right, for an artist, to do whatever one wanted. It also meant that I lost interest in doing art and pretty much stopped. From that point on I was single-mindedly a philosopher …

    • https://lombradelleparole.wordpress.com/2020/08/02/giorgio-ortona-palazzina-romana-1997-olio-su-tavola/comment-page-1/#comment-66667
      Sulla Poetry kitchen

      La poesia ha finalmente fatto ingresso in cucina, ha lasciato i salotti degli intellettuali e gli androni con le colonne neoclassiche delle abitazioni borghesi e si è introdotta in cucina. È un’attività piccolo-borghese al tempo stesso ordinaria e generica (poiché tutti mangiamo, quindi appartiene al genere), quotidiana e individuale poiché il cibo viene preparato ogni giorno da ciascuno di noi.

      Nella sua dimensione ordinaria e quotidiana, la cucina soddisfa i nostri bisogni più immediati, si lega alla dimensione intima della casa, assolve un bisogno umano ma anche, consente differenze di stile e ingegnosità, fattori che producono piaceri fisici e intellettuali. Le possibilità estetiche della cucina sono dunque presenti fin dall’inizio della storia dell’homo sapiens in quella che si può definire come il sito dell’abitare per eccellenza qual è la casa, con il suo logo più importante: la cucina come luogo di confezionamento e consumazione dei cibi.

      Poetry kitchen dunque come manufatto costruito in casa con gli utensili che abbiamo sotto mano tutti i giorni: i piatti, le padelle, il coltello, la forchetta, il sale, lo zucchero, lo zenzero e la curcuma, gli aromi,,, senza il bisogno di indossare panni aulici o «sartorie teatrali». Scrivere in modo dimesso e dismesso, senza fronzoli o abissali angosce o insondabili epifanie; una poesia, diciamo, frittura di pesce, poesia omelette, poesia usufritta, fatta in padella, ascoltando il tiggì de “La 7” e i telegiornali di regime, magari masticando delle noccioline o trangugiando patatine fritte.

      Per Platone l’essenza dell’arte (naturalmente nel significato di saper produrre) consiste nell’imitazione delle cose del mondo che, a loro volta, sono imitazioni delle idee. In questa prospettiva, dunque, la cucina sarebbe ancora più lontana dal mondo vero di quanto lo sia l’arte. Il principale argomento a tale riguardo si trova nel Gorgia. Vale la pena ricordarlo brevemente.

      Socrate e Polo stanno discutendo di retorica. Socrate sostiene che essa non sia affatto un’arte, ma una mera pratica volta a produrre piacere.Polo chiede allora a Socrate che cosa ci sia di male nel produrre piacere.A questo punto, Socrate propone il paragone tra retorica e cucina:anche cucinare è un’attività che produce piacere ma, come per la retorica, si tratta di un piacere illusorio.

      È dunque attorno al tema dell’illusione che ruota l’argomento platonico contro la cucina come arte: i piaceri che lusingano sono illusori, dunque falsi, perché prodotti da attività che simulano di essere vere arti. Socrate va avanti con gli esempi mostrando che sia la retorica sia la cucina rappresentano appunto il polo negativo e illusorio dei veri piaceri dell’anima e del corpo. Rispetto alla retorica, la politica è vera arte, perché mira al bene sociale; rispetto alla cucina, vera arte è la medicina, perché mira al bene del corpo. (Platone, Gorgia 461c- 464d).

      Fare poesia kitchen non vuol dire ovviamente fare poesia gastronomica, vuol dire semplicemente fare poesia con gli oggetti e gli utensili che troviamo in cucina: il martello, i chiodi, il mestolo, l’imbuto, il cavaturaccioli… e gettare nella immondizia gli alambicchi sublimi della falsa metafisica della poesia di pessimo gusto che si fa oggi. La poesia da salotto, la poesia salottiera che si fa per il circolo di letterati di riferimento è una poesia nata già morta, una poesia da obitorio. Ad essa propongo la sostituzione con la poesia da cucina.

      La filosofia dell’arte è giunta a rivelare, dalla “Fontana” di Duchamp in poi, come un qualsiasi oggetto quotidiano può diventare arte. Allora, non serve necessariamente decontestualizzare l’oggetto o defunzionalizzarlo, e neppure esporlo in un luogo o in un momento determinato, dacché l’unico gesto che conta non è affatto un happening o una performance – roba per chi non si è ancora liberato del plebeo gusto dello spettacolo circense – bensì il fatto mentale, l’idea, la volontà, la pura essenza del fatto arte.
      Solo così tutto può ri-diventare finalmente arte senza toccare nulla della realtà materiale, delle sue proprietà, dei suoi usi, delle sue funzioni pragmatiche.
      Solo così è la piena, finale attualizzazione dell’arte che restituisce alla realtà la sua piena, originaria pienezza, come all’alba della storia, quando ogni cosa poteva essere arte, anzi, era arte.
      Ci vuole un grande coraggio per decretare questo definitivo fiat iperbolico: il mondo come ready made, mi correggo, il ready made come mondo.
      Wittgenstein nei suoi scritti non cerca mai di convincere i suoi lettori, piuttosto si limita a proporre delle questioni. Implicitamente chiede al lettore di rispondere.
      Significativo è questo appunto:
      «Questo libro è scritto per coloro che guardano con amichevolezza allo spirito in cui è scritto […]. Se dico che il mio libro è destinato solo ad una piccola cerchia di persone (se così la si può chiamare), non voglio dire, con questo, che, per me, tale cerchia sia l’élite dell’umanità; sono però le persone cui mi rivolgo, e non perché migliori o peggiori delle altre, ma perché formano la mia cerchia culturale, in certo modo sono gli uomini dalla mia patria, a differenza degli altri che mi sono stranieri».1
      Analogamente, se non si capisce che qualsiasi «real object» può essere «ready made» e può diventare arte per il solo fatto di inserirlo in un certo contesto, non si può capire nulla della poetry kitchen sulla soglia della quale il guardiano del faro, Mario M. Gabriele, ci invita ad entrare.

      1 L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980, p. 24.

  3. https://lombradelleparole.wordpress.com/2020/08/02/giorgio-ortona-palazzina-romana-1997-olio-su-tavola/comment-page-1/#comment-66612
    Scrive Mario Gabriele:

    Mark Strand si è rifatto ai quadri di Edward Hopper.

    È chiaro che qui siamo fuori dalla poesia come «enactment of faith», la poesia di Gabriele ha cessato ogni rapporto con la «fede». È questo lo spartiacque tra il prima, del Modernismo, e il dopo, del Dopo il Moderno. Oggi questo requisito lo si può rintracciare anche nella poesia di Alfonso Cataldi o di Francesco Paolo Intini e di altri poeti della poetry kitchen. La poesia come atto di fede è una cosa bella, che fa tanta nostalgia, una poesia confettura. Però, dobbiamo essere seri, quella roba lì è «poesia» come espressione di un atto di fede.

    E allora, voi mi chiederete che cosa fa la differenza?
    Io rispondo che la differenza la fa il grado di consapevolezza con cui si pensa che la stagione della poesia novecentesca è finita, e per sempre. I nostalgici faranno poesia nostalgica, i post-lirici faranno poesia post-lirica etc. soltanto chi penserà in profondità e in larghezza che la poesia (come noi la conosciamo) è finita, potrà fare della «nuova poesia». Ed io penso che Mario Gabriele sia il poeta italiano che per primo e con più forza ha pensato la fine della poesia.
    Penso sia un esempio da imitare.

    • mariomgabriele

      caro Giorgio,
      rimescolare tutte le carte della poesia per farne una nuova che si distacchi dalla mente del passato, è cosa ardua e difficile: un lavoro sotterraneo, illuminato da poche luci se ci si allontani dal pensiero dell’essere, ossia da quello statuto di realtà quotidiana e universale, che non può essere la pittura lessicale su un soggetto o su un cognome, ma la misura di una fase linguistica, che è vuoto mondo dentro e fuori di noi, e che pure si configura come un alfabeto morse che deve porsi anche ermeneuticamente alla decodificazione del testo, altrimenti anche la poesia kitchen finisce con l’essere una ontologia alla pari di tutte le altre forme che si sono avvicendate nel passato.

      Siamo tutti organizzati dopo il Covid19) a reinventare il nostro progresso tematico e formale. Per questo motivo, dobbiamo ricreare simboli, immagine e schema,come elementi di una nuova lingua che non può essere quella dei postermetici e postavanguardisti o poeti di fine secolo, se si voglia procedere sull’asfalto di un nuovo passaggio linguistico, senza crisi di astinenza o di continua latenza. E’ con questa speranza che auguro alla tua Rivista, caro Giorgio, gli esiti più favorevoli, ringraziandoti del tuo gentile pensiero sulla mia poesia che con Remainders, Registro, di bordo, In viaggio con Godot, e L’erba di Stonehenge hanno riconfermato una linea poetica come concezione dell’Essere e dell’Immaginario.

  4. In molta pittura, specie del ‘900, è ben presente la voglia di “sgrammaticare”. In pittura si può fare, meglio e più facilmente che in poesia. I disegni della poeta Francesca Dono, ad esempio, esprimono quella voglia, come di togliersi di dosso l’apparato artistico istituzionale. Per i poeti è questione di linguaggio, spesso scrivendo più col bisturi che con la penna – atteggiamento inverso a soverchiante fluenza modernista. Idem Giorgio Ortona, quando scancella parte della sua trascrizione pittorica. Rappresentano forse un personale rifiuto del reale, in quanto scelto, non scelto, e subito. Però un po’ di stilnovo nei ritratti alla nostra Letizia Leone… Va bene va bene, è solo un pensiero.

  5. tiziana antonilli

    Il dipinto di Giorgio Ortona ‘Palazzina romana’ e le parole illuminanti di Letizia Leone fanno scaturire alcune osservazioni sul duplice destino della città. Da una parte la città è stata la culla della modernità e della laicità, dei movimenti di riscatto e di protagonismo dei giovani e delle donne ,oggi sono il teatro delle manifestazioni di Black lives matter, quindi punto di partenza di progresso civile. D’altro canto le new towns post-sisma e le smart towns cinesi sono diventate l’emblema della perdita di identità storica e civile le prime, della realizzazione delle peggiori pre-visioni del capitalismo del controllo le seconde. A noi tocca l’impegno per poter vivere in città libere, vera fucina dei cambiamenti, oltre le disuguaglianze e gli esperimenti dispotici. L’amore per la propria città che troviamo nei quadri di Ortona, insieme alla critica costruttiva, possono essere un punto di partenza.

  6. (Mark Strand, USA, 1934)

    Answers Answers

    Why did you travel?
    Because the house was cold.
    Why did you travel?
    Because it is what I have always done between sunset and sunrise.
    What did you wear?
    I wore a blue suit, a white shirt, yellow tie, and yellow socks.
    What did you wear?
    I wore nothing. A scarf of pain kept me warm.
    Who did you sleep with?
    I slept with a different woman each night.
    Who did you sleep with?
    I slept alone. I have always slept alone.
    Why did you lie to me?
    I always thought I told the truth.
    Why did you lie to me?
    Because the truth lies like nothing else and I love the truth.
    Why are you going?
    Because nothing means much to me anymore.
    Why are you going?
    I don’t know. I have never known.
    How long shall I wait for you?
    Do not wait for me. I am tired and I want to lie down.
    Are you tired and do you want to lie down?
    Yes, I am tired and I want to lie down.

    Risposte

    Perché ti sei messo in viaggio?
    Perché la casa era fredda.
    Perché ti sei messo in viaggio?
    Perché è ciò che ho sempre fatto tra il tramonto e il sorgere del sole.
    Cosa indossavi?
    Indossavo un completo blu, una camicia bianca, una cravatta gialla e delle calze gialle.
    Cosa indossavi?
    Niente. Uno scialle di dolore mi teneva caldo.
    Con chi andavi al letto?
    Ogni sera andavo al letto con una donna diversa.
    Con chi andavi al letto?
    Andavo al letto da solo. Ho sempre dormito da solo.
    Perché mi hai mentito?
    Pensavo sempre di dire la verità.
    Perché mi hai mentito?
    Perché la verità è la più grande menzogna e io amo la verità.
    Perché te ne vai?
    Perché nulla ha più significato per me.
    Perché te ne vai?
    Non lo so. Non l’ho mai saputo.
    Per quanto tempo ti dovrò aspettare?
    Non aspettarmi. Sono stanco e mi voglio sdraiare.
    Sei stanco e ti vuoi sdraiare?
    Si, sono stanco e mi voglio sdraiare.

  7. caro Mario,

    la poesia è una esperienza dell’evento. Dell’evento, per Heidegger, non si dà una teoria o una conoscenza, ma un’esperienza, e che «l’esperienza non è qualcosa di mistico […] ma è il raccogliersi che porta a soggiornare nell’evento» e come tale «un accadimento che può e deve essere mostrato»: il «pensiero preparatorio» è già esso stesso esperienza dell’evento.

    Heidegger non considera l’ Ereignis come un semplice evento futuro, che esso è «già qui» nell’età della tecnica la quale ne è la «prefigurazione», che la storia è a più strati e l’Ereignis è «altro» solo nel senso che ne costituisce lo strato più profondo, che esso non viene sostanzializzato in una sostanza o in un accadimento…

    Pensare la poiesis come Ereignis ribalta tutti i piani concettuali con cui siamo abituati a pensare alla poiesis. Dal punto di vista dell’Ereignis cambia tutto, cambia l’orizzonte degli eventi. Nella tua poesia questo è immediatamente avvertibile, lo si percepisce. L’evento in sé non ha nessuna qualità, non è né bello né brutto, che sono delle determinazioni della soggettività. L’Ereignis in sé è neutro. Si presenta. E si assenta.

    La poetry kitchen è anche questa canzonetta postata sopra. Quando l’ho ascoltata e visto il video sono rimasto allibito, mi sono detto: «questa è davvero una canzonetta kitchen!»

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