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Questionario di 4 domande del 1995 sulla Interrogazione e la poiesis ai poeti di ieri e di oggi, Giorgio Linguaglossa, Francesco Paolo Intini, Gino Rago, Alfonso Cataldi, Giuseppe Talia, Plotino, Heidegger

Gif Donna sedutaGiorgio Linguaglossa

13 giugno 2019 alle 16:49

Trascrivo qui un Questionario di 4 domande che nel 1995 inviai ad alcuni autori; le risposte poi apparvero quel medesimo anno su un numero del quadrimestrale di letteratura Poiesis che a quell’epoca facevo con alcuni amici.

1) Vorrei porre la seguente domanda: se è vero che oggi la poesia è «libera», nel senso che non deve nulla a nessuno e che non deve rispondere a nessuno in quanto non v’è interrogazione o, detto in altri termini, mandato, se comunque è vero che la poesia sia soltanto l’impronta digitale di chi la scrive, e quindi un fatto «privato», ritiene che questa situazione storica sia favorevole o sfavorevole alla sopravvivenza della poesia?

2) Un tempo la poiesis (da poiéo= faccio) fu azione che, unita al canto divenne incantesimo, e unita alla mimica divenne dramma (drama da drao=faccio) rituale, cioè operazione magica, rappresentazione destinata a realizzare una presenza sacrale.

Oggi, nel laico mondo tecnologico, cosa è divenuta la poesia che ha ormai compiuto il divorzio dall’incantesimo, dal dramma rituale e dalla rappresentazione?

3) Il problema dell’interrogazione appare strettamente unito al quesito sull’ispirazione; se noi diamo a questa parola il significato etimologico, essa ci indica che la poesia sia qualcosa che nasce non dentro lo «spirito individuale» (formula infelice, lo ammetto) dell’uomo ma come qualcosa, un soffio, uno spirito? – che viene dal di fuori e si impadronisce dell’uomo; se noi riconosciamo al termine entousiasmos, entousiastes un significato affine a quello dell’ispirazione, cioè un qualificativo riferito alla Pizia vaticinante, «plena deo», non possiamo non riconoscere che l’essenza della poesia risieda fuori della poesia stessa, cioè nel mondo.

4) Ora, vorrei porre un problema, e precisamente: il legame che unisce il dentro con il fuori, cioè il mondo e la poesia, ovvero, il tempo e la temporalità della poesia, è un legame che vorrei chiamare istanza radicale o istanza temporale, che altro non è che quella problematica che il proprio tempo pone all’artista, come anche allo scienziato (anche se in modi differenti).

Quale è il Suo pensiero?

Un cordiale saluto. Giorgio Linguaglossa

Francesco Paolo Intini

14 giugno 2019 alle 22:34

domande interessantissime soprattutto l’ultima, caro Giorgio. La temporalità dello scienziato e dell’ artista che si confronta con il tempo secondo lo scienziato e l’artista. Da quello che posso arguire il tempo per il primo è qualcosa di misurabile, una delle sette grandezze fondamentali, una coordinata come quelle dello spazio. Per l’artista invece cos’è? Possiamo averne un’idea confrontando le loro opere?

Lo scienziato ha fiducia nella ripetizione dell’esperimento. Se le condizioni sono le stesse, il risultato finale sarà lo stesso.

Il tempo come successione di istanti uguali è garanzia di una successione di eventi uguali ad altri passati o futuri.

Si può dire lo stesso di un artista?
Come dire che se la Gioconda venisse dipinta oggi avrebbe i baffi.
Perché questa disparità?
E’solo perché la ripetibilità non è un concetto che appartiene all’arte o c’è qualcosa che riguarda la diversa concezione del tempo?

A parer mio è il concetto di successione di istanti tutti uguali a non avere a che fare con l’opera d’arte dove a c’entrare invece è il concetto di temporalità, ossia della problematica dell’epoca, ciò che emana dallo spirito del tempo.

Cosa c’è allora nella mente dell’artista se il tempo così concepito non gli lavora dentro? Probabilmente nulla, nient’altro che far zero il tempo a cui corrisponde un pensare per idee assolute come quelle della simmetria, valide nel definire i canoni di bellezza, per l’attrazione sessuale ma altrettanto valide in cristallografia e nella formazione dei legami chimici e in svariati altri campi. Il poeta non si discosta da questa linea di ricerca di entropia alla rovescia.

Se il tempo non esiste ogni epoca è uguale alle altre ed è legittimo, ultra attuale pensare in termini di polittico o di Commedia e di versi senza un verbo. Pensa tu allora cosa debba girare per la testa di uno che abbia abitudine per poesia ed esperimenti!

Alfonso Cataldi
15 giugno 2019 alle 15:12

Con lo studio del mondo subatomico, il concetto di tempo ha costretto a rimettere tutto in discussione, fino ad arrivare a descrivere fenomeni con equazioni in cui non esiste più la variabile tempo. Il tempo così come noi abbiamo imparato a conoscerlo e a misurarlo forse è un’illusione? Nei miei testi scrivo ormai quasi esclusivamente al tempo presente, anche azioni che la mia memoria o la memoria collettiva pone in tempi passati, superando così la convenzione che ci fa usare il tempo come classicamente ce lo hanno insegnato per meglio organizzare la nostra vita pratica. tutto esiste contemporaneamente? Ieri leggevo un’intervista dell’artista Mimmo Paladino, che fa “apparire frammenti di figure, mani, teste, elementi di una poetica che fonde spazi e epoche diverse, definendo un alfabeto di segni molto riconoscibili, che però non hanno un significato di senso univoco. Per Paladino l’artista dà vita a una materia informe che preesiste a lui. E’ un demiurgo, un essere dotato di capacità creatrice e generatrice, senza la quale “è impossibile che ogni cosa abbia nascimento”. Il demiurgo per eccellenza per Paladino è Don Chisciotte: “colui che vede cose che altri non vedono”.

Gino Rago

13 giugno 2019 alle 18:18

Benché avverta il peso ( in grado persino di schiacciarmi) delle 4 domande che Giorgio Linguaglossa srotola sul panno verde del piano inclinato del nostro tempo, tempo umano e tempo poetico, non posso sottrarmi all’invito impegnativo, sì, ma ineludibile e anche attraente dell’amico Linguaglossa se non altro per le questioni etico-estetiche ma anche tematico-stilistico-formali che le 4 domande linguaglossiane in sé contengono.

Vecchio Testamento

[contro il «no» che dentro mugghia]

La bella pittura postcubista?
Il nobile medium dell’olio?

Rimarrebbero forse le frasi piu turpi
Contro il «no» che dentro mugghia.
[…]
Nuove immagini da materiali nuovi.
Materiali eterocliti. Materiali poveri.

Il poeta del nuovo paradigma
Lascia in eredita lamiere malamente saldate.

Legni combusti. Cenci.
I segni d’amore o d’affinita per epoche remote.

I materiali effimeri. I materiali rozzi.
Le altre parole.
[…]
Le parole che negano
Sensazioni e idee della durata eterna.

I cenci. Gli stracci. Le velature.
Gli impasti. Le ombreggiature.

I sacchi vuoti
Ma pieni più di uomini vuoti.

[…]

Il ritorno an den Sachen selbst del poeta nuovo
Lascia in eredità l’arte del «no» libero

Contro il «sì» obbligato di Ferramonti e Belsen.
Viaggio incompiuto. Sorriso amareggiato.

E Milton che urla dal Paradiso Perduto: «E’ inferno.
Ovunque vada è inferno. Io stesso sono inferno.

Nessun uomo è un’isola».
[…]
Nuovo Testamento

[Vi lascio parole senza suono]

Vi lascio le schegge. Vi lascio il sole.
Vi lascio la grandine, la pioggia, il vento.

Vi lascio i cascami delle fonderie,
Le scorie radioattive,

La ricchezza del mondo in poche mani,
Le macromolecole di veleni.

Vi lascio le vernici, la plastica, i trucioli.
E il grafene.

Vi lascio parole senza suono,
I sentieri del dolore,

Le vie della mano sinistra,
Il catrame, le maschere, le colle,

L’alluminio in lamine per le scodelle dei cani,
Le limature, la calce viva, le polveri sottili.

Vi lascio il sorriso del prigioniero.
L’ansia d’azzurro di madri nel nero.

Vi lascio.
Vi lascio le stelle che brilleranno

E le schegge di quest’uomo nel fango.
Vi lascio il fango.

Vi lascio il canto d’un nuovo Big Bang.
E il Nulla che è tutto lo Spazio.

Vi lascio l’energia centripeta del Grande Scoppio,
L’estensione, l’esplosione, l’espansione dell’uomo

Nella Parola “altra” di Poesia.

Gino Rago

13 giugno 2019 alle 18:49

Una sintetica meditazione sulla parte finale della nota critica di Giorgio Linguaglossa sui versi che seguono:

[…]

Troppo spesso – pensavo – troppo,
troppo spesso noi animali ci affidiamo
alla bontà curiosa della nostra indole.

E laggiù dove andrò, remoto,
nella patetica smorfia verticale muore
l’impronta, e non lo sa, e replica
se stesso, ancora, nell’ultimo conato
costruttivo. Del resto
ci piace assaporare, puerili,
la più elementare forma di dominio,
espressione del nostro costume
e la natura ci ingombra, ci pesa ma consiglia
le terre più estreme, dove l’attrito procede
e si consuma ancora più violento
e fisico, più naturale.

Scrive Linguaglossa:

“Se si legge con attenzione questa composizione, ci accorgiamo che non è citato nemmeno un oggetto, tutte le espressioni appartengono al genere della decrescita felice del soliloquio plenipotenziario che è sito in un angolo remoto della mente; una ruminazione che non dice niente, che non parla al lettore, una composizione che si allontana dagli oggetti e si avvicina alla ruminazione interiore. Retropensieri di una retropia, o retropie di retropensieri, fate voi. Anzi, mi correggo, retrovie di retropie…”

E’ per me la certificazione della irreversibilità del coma etilico di un tipo di poesia che per anni abbiamo letto e visto scorrazzare da libro a libro, di antologia in antologia, di rivista in rivista…

Nelle vesti di medico legale Giorgio Linguaglossa ha poi fatto l’autopsia sul cadavere di questa poesia decretando la morte del cadavere freddissimo all’obitorio delle case editrici potenti dell’impero di creta della nostrana poesia.

Giorgio Linguaglossa

13 giugno 2019 alle 19:47

Lo storico della romanità, Mazzarino, ci ricorda che nella polemica Contro gli Gnostici, Plotino (203/205-270 d.c.) prospetterebbe il contrasto tra spirito pagano e spirito cristiano come «un contrasto tra chi ama il mondo ritenendolo eterno pur con tutte le sue disuguaglianze, e chi invece non l’ama, predicandone la fine». Premesso che amare il mondo non significa accettarne le diseguaglianze e le ingiustizie ma amarlo nonostante le disuguaglianze e le ingiustizie, qui è in questione un prius, una cosa che sta prima della divisione dell’etica dall’estetica e dello stesso politico, si intende la disposizione all’apertura verso il mondo.

Il disprezzo del mondo proprio dello spirito giudaico-cristiano nutre in sé l’idea della rottura della temporalità. Il mondo esisterebbe non in sé ma in un per noi, in quanto soggetto a passiva subordinazione alla potenza del dominio sulla physis. La temporalità del dominio è la temporalità del dominio e del disprezzo.

Di contro alla concezione greca della «pienezza del Tempo», l’escatologia giudaico-cristiana piega il Tempo al «compimento del Kairos», fin alla palingenesi in un altro tempo, il tempo della redenzione e della resurrezione. La macchina calcolante della tecnica prende posto nella temporalità giudaico-cristiana come temporalità del dominio e annichilamento della physis.

Il pensiero di Heidegger intende questo quando scrive che occorre attraversare «la storia del nichilismo e della metafisica» per potere arrestarsi dinanzi alla ineffabilità dell’essere. Il perché dell’essere sarebbe intraducibile con i mezzi del logos.

Il concetto moderno di rappresentazione presuppone l’esperienza del cogito che dà forma e sostanza agli enti. Il principio pratico-produttivo del concetto di rappresentazione riduce il mondo a «immagine» (Bild) della cosa e a oggetto che sta di fronte (Gegenstand).

Il concetto classico di Teorein significa corteo, processualità che si dispiega. La nozione moderna di rappresentazione pone in termini invalicabili la distanza del punto di vista in quanto esterno all’ente, insomma, come cogito. E il concetto di arte che ne consegue sarebbe l’immagine esterna dell’oggetto che si forma sulla superficie retinica dell’occhio.

L’arte del Moderno sarebbe quindi un’arte dell’impressione o, al massimo concedibile, dell’espressione ma mai di penetrazione del mondo, si arresterebbe alla prenotazione di una immagine. L’arte del Moderno è sostanzialmente cartesiana da almeno tre secoli, e la psicologizzazione del cogito che ne fa il freudismo si configura come una variabile dipendente, un adattamento alle nuove circostanze storiche con le quali si presenta il cogito. L’epoca della psicologizzazione del cogito verrebbe a coincidere con l’epoca dell’attraversamento della metafisica.

Le recenti tendenze dell’arte del Dopo il Moderno sembrerebbero accentuare il processo di psicologizzazione dell’arte moderna, con il che si ha il trionfo dell’estetica da oreficeria e della diffusione dell’estetica fuori dal concetto dell’estetico. Così che se tutto è estetico, nulla è estetico. E l’arte non può che defungere.

«Le ispirazioni che non fanno anticamera vanno in fumo impotenti».

«Le opere parlano come le fate nelle favole: tu vuoi l’incondizionato, ti sia concesso l’irriconoscibile».

«L’estetica non può capire le opere d’arte se le tratta da oggetti ermeneutici. Mundus vult decipi».

(T.W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, 1970 p, 231 e segg.)

Lo sguardo che cade dalla poesia sul lettore deve essere come lo sguardo cifrato d’un marziano.

La poesia per essere vera, deve essere irriconoscibile.

L’arte che si sottrae al principio del montaggio è kitsch. L’arte è montaggio elevato all’ennesima potenza

Giuseppe Talìa

13 giugno 2019 alle 23:52

Lo storico della romanità, Mazzarino, ci ricorda che nella polemica Contro gli Gnostici, Plotino (203/205-270 d.c.) prospetterebbe il contrasto tra spirito pagano e spirito cristiano come «un contrasto tra chi ama il mondo ritenendolo eterno pur con tutte le sue disuguaglianze, e chi invece non l’ama, predicandone la fine».

Il vero cambio di paradigma sarebbe, non tanto “tutti dobbiamo morire”, quanto, invece, “tutti dobbiamo vivere.”

Celso, Il discorso vero, Adelphi

Risvolto del libro

Questo libro è una testimonianza decisiva dello scontro dottrinale fra Pagani e Cristiani. Celso, filosofo medioplatonico del II secolo, sferrò con Il discorso vero un attacco radicale contro lo scandalo della nuova religione che veniva dalla Palestina e pretendeva di sostituirsi a culti immemorabili. Col gesto di un aristocratico cosmopolita, lo osserviamo reagire all’invadenza della pìstis, della fede, là dove dovrebbe regnare soltanto la conoscenza. E insieme rivoltarsi contro la boria antropocentrica dei Cristiani, che gli appaiono simili «a un grappolo di pipistrelli, o a formiche uscite dalla tana, o a rane raccolte in sinedrio attorno a un acquitrino, o a vermi riuniti in assemblea in un angolo fangoso che litigano per stabilire chi di loro è più colpevole». Dalla parte cristiana, Celso incontrò, dopo qualche decennio, l’avversario più temibile: Origene. E, per un’ironia della storia, mentre Il discorso vero, nella sua interezza, andò perduto, ciò che sopravvisse furono i frammenti che Origene ne citava nella poderosa opera di confutazione che gli dedicò. In essi, qui presentati per la prima volta in edizione italiana, possiamo riconoscere, in tutto il suo vigore, la voce di una grande civiltà su cui incombe il declino, ma che non vuole rinunciare a se stessa.

Giuseppe Talia

Cari Germanico e Mario M. Gabriele,

Ho ritrovato una traccia che credevo perduta nella prosodia.
Una traccia audio di sovrapposizioni e interruzioni dialogiche.

Una speculazione arbitraria. Una disfluenza. Una violazione.
Qualcosa o qualcuno si è introdotto. Ho chiamato il 118.

Gli esiti contradditori e la loro durata temporale preoccupano.
Non sto bene. Non sta bene. Non si sta bene. La violazione

Degli spazi interlocutori, anomalie tecniche, interruzioni,
Rare presenze regolamentari, conversazioni polifunzionali.

Pre-occupano le hit estive problematiche/non problematiche
Tra intoppi e perturbazioni, lapsus linguae e calami stratiformi.

Una meteora pre-termine. Audioregistrazioni sub-corpus.
La pragmatica descrittiva di Geoffrey Leech che attribuisce enunciati.

Le parole sono polisemiche. Le espressioni allocutive. “Ci sei?”
Il parlante Zimmermann si sovrappone con violenza intenzionale.

Durata breve e violenta: i muscoli involontari, all’unisono,
Supportano il parlare corrente e le variazioni di tono e di volume.

Ascoltate (mi)

Alfonso Cataldi

Cari amici dell’Ombra,

Ho problemi temporanei di vista, ho dovuto fare un laser d’urgenza per problemi alla retina di un occhio. Posso leggere poco. Volevo riallacciarmi alla riflessione di Gino Rago sulla “bontà curiosa della nostra indole animale” e sulla necessità di dominio che siamo chiamati ad esercitare nei confronti della natura, dal grado di civiltà raggiunto, che non mettiamo in discussione, con un mio testo:

“Quel monile sciamanico…”
direbbe chi osserva il polso della maestra Milena.

«I suoi alunni e tutto il corpo insegnanti erano gli unici assenti»
comunica il collaboratore scolastico.

Tra i piatti da sparecchiare
Francesca termina l’ultima stesura sulle origini della 3a C.

A Pripyat gatti selvatici di ogni forma e dimensione
hanno occupato le abitazioni abbandonate.

Un gruppo di alieni in tuta e maschera antigas
prende appunti il sabato sera:

  • l’equilibrio del disastro nucleare.
  • Le bugie allungano il naso

Dopo mille peripezie
Pinocchio scopre che il segreto della vita è nell’amore. Umano?

Troppo umano confidarsi con il legno
sradicare silenziosi di fronte alla luna.

[a dx Donatella Giancaspero, Roma, San Paolo, 2017)

Giorgio Linguaglossa

14 giugno 2019 alle 16:46

L’articolo n. 1) del Manifesto della Nuova Poesia Metafisica, pubblicato sul n. 7 del quadrimestrale di letteratura “Poiesis” nel 1995 si apre con il precetto, in consonanza con la massima di Plotino, di amare l’esistenza del mondo:

1) Dobbiamo amare l’esistenza del mondo più del mondo stesso e l’esistenza dell’uomo più dell’uomo stesso. L’arte vera raffigura l’uomo intero al centro delle tre dimensioni. Il Senso abita l’intero, la totalità. La nostra casa è il mondo e la lingua che lo delimita. Ampliare la lingua ai limiti dell’indicibile significa ampliare il mondo e la nostra integrale umanità.

L’articolo ricalcava testualmente il primo articolo del terzo manifesto dell’acmeismo vergato da Osip Mandel’stam, il quale invitava ed ammoniva ad amare il mondo.

Ecco, dall’acmeismo mandelstamiano del terzo manifesto del 1919 ad oggi, siamo arrivati alla «poesia polittico» e alla «nuova ontologia estetica». C’è un filo rosso che comunica attraverso i secoli ed i millenni, e questo filo rosso è l’amore per il «mondo» inteso come esistenza delle cose che sono in esso.

Il mio pensiero è che con la «nuova ontologia estetica» e la «poesia polittico» siamo usciti fuori dalla poesia della tradizione giudaico-cristiana, che in questi ultimi secoli qui in Occidente si è sviluppata sulla matrice petrarchesca, per aderire ad una visione più antica, e quindi più attuale: la visione della poesia come Commedia, ovvero, in termini moderni, come «polittico» in grado di abbracciare tempi e spazi plurimi e diversissimi.

Giorgio Linguaglossa

15 giugno 2019 alle 17:04

Scrive Alfonso Berardinelli nel libro Poesia non poesia, Einaudi, 2008:

«La poesia in una certa misura cambia storicamente (ammettiamo per un momento che la storia esista), cioè non è sempre uguale a se stessa e va quindi descritta di nuovo quasi a ogni generazione (o epoca o periodo). Compito specifico dell’attività critica è appunto descrivere, registrare e valutare questi cambiamenti.

Ma d’altra parte la poesia conserva una sua identità di principio, se non di fatto. È interessante notare che almeno da un quarto di secolo la continuità fra oggi e ieri sembri stare a cuore agli autori più di quanto avvenisse (per esempio) negli anni sessanta, decennio apocalittico e presuntivamente rivoluzionario, quando la nozione, l’identità, la tradizione della poesia venivano contestate e sottoposte a un giudizio radicale in termini di critica marxista (e avanguardista) della società borghese».

Il ragionamento salomonico di Berardinelli è qui vistosamente ironico verso questi anni di stagnazione e recessione del pensiero critico sulla poesia, il critico romano dice cose ovvie, tanto ovvie da non poter essere confutate: che oggi nessuno o quasi si occupa di critica, anzi, la stessa parola è caduta in disuso e in dispregio. Io di solito se qualcuno mi chiama critico, interloquisco subito dicendo che non sono un critico, ma un calzolaio della poesia e che i miei strumenti sono i chiodi e il martello, oltre, naturalmente, l’incudine. Anzi, lo strumento più importante è l’incudine, lo strumento immobile contro il quale il martello può battere.

Sembra incredibile lo stupore e la meraviglia di quanti dinanzi alla nuova ontologia estetica gridano metempsicosi e apocatastasi, questo fattore dovrebbe farci venire l’orticaria per la stupida ottusità che rivela una mentalità che manifesta orrore verso un pensiero critico dell’esistente. Come spiegare a questi signori che la nuova ontologia estetica non è nulla di definito ma è un percorso, un cammino in una certa direzione…

Ho saputo che è corsa voce a Milano e in certi ambienti romani, di non dare troppo credito alla ricerca intrapresa dall’Ombra, di non farne parola o menzione per nessun motivo, di erigere una barriera di silenzio. Buffo vero? Soprattutto meschino oltre che auto liquidatorio, ma che rivela bene con che tipo di personaggi abbiamo a che fare oggi, con quelle persone che hanno le mani in pasta… come tanti Lotti che maneggiano e maneggiano al CSM per le prebende e le nomine politiche…

Per fortuna questa sembra essere la tegola definitiva per Renzi e i renziani i quali adesso possono andarsi a fondare un partitino personale…

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Kikuo Takano (1927-2006) POESIE da Il senso del cielo (Passigli, 2017) tradotte da Yasuko Matsumoto e Renato Minore,  Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – Il Giappone degenerato in “piccola America”, con una intervista di Renato Minore a Kikuo Takano, traduzione di Yasuko Matsumoto

 

Gif Incrocio colored

Quando ti ho abbracciato/ la prima volta/ non mi ero ancora chiesto/ il senso di quell’abbraccio.

Kikuo Takano nato a Sado nel 1927, laureato all’università di Utsunomiya. L’anno dopo la fine della guerra cominciò a scrivere poesia. Su invito di Nobuo Ayukawa aderì al gruppo di intellettuali raccolto intorno alla rivista “Arechi” sostenuto da Ryuichi Tamura e da altrì e pubblicò in quella antologia. Concentrato sul senso dell’essere, e sulla metafisica della vita, Takano si interroga instancabilmente, in una poesia commossa e molto particolare, le cui basi filosofiche possono definirsi ontologiche piuttosto che esistenzialiste. Ha pubblicato La trottola, L’esistenza, Le tenebre come tenebre, Per incontrare ed altre raccolte. Ha scritto anche testi per musiche corali, inni e canti liturgici. In Italia, per Empirìa, ha pubblicato nel 1996 L’anima dell’acqua (a cura di Yasuko Matsumoto e Massimo Giannotta) e per la Fondazione Piazzolla nel 1999 Secchio senza fondo, e adesso esce per Passigli questo Il senso del cielo, 2017.

Foto femme vivant

Guarda questa scatola vuota/ che io chiudo con un piccolo coperchio.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

«Scrivere poesie vuol dire innanzitutto soffermarci con uno stupore profondamente fresco di fronte a ciò che esiste. Accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri. Fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia è per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri. Siamo radicati nelle parole e siamo sulla terra per custodirle». E ancora: «Sulla terra, quello che non siamo riusciti a sciogliere e a congiungere, viene di giorno in giorno accumulato e gettato. Per capire il senso di questa Terra, che per noi è unica, dobbiamo anzitutto interrogare il senso fondamentale del nostro essere e del nostro nascere».

Parole di Kikuo Takano che rivelano un poeta che procede per interrogazione delle cose, dalle più umili alle più complesse, una continua interrogazione sui misteri che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi.

La poesia di Kikuo Takano è simile a una pittografia e come la pittografia è silenziosa. Tutto intorno al tratto si rivela il vuoto, ma è il tratto l’elemento fondamentale, senza il tratto non ci sarebbe il vuoto. Nella poesia di Takano un grande ruolo è rivestito dal silenzio, un silenzio che proviene da lontano, dalla liberazione dall’egoità, dalla distanza dell’essere dall’io, dalla distanza dell’io dalle cose, dalla distanza tra io ed io, dalla distanza insormontabile tra le cose e dalla scoperta che questa distanza altro non è che il vuoto. La poesia di Takano ha una velocità costante, non ci sono accelerazioni o rallentamenti, le parole si diramano in pensieri con la naturale consequenzialità dell’acqua che scorre in un laghetto producendo acciottolio di sillabe e di fonemi. Takano amava ripetere l’assioma di Heiddegger «pensare sull’essere è scrivere poesie», infatti, non è un caso che la musa di Takano parta dalla auscultazione dell’essere dell’ente uomo, e non è un caso nemmeno che il poeta giapponese se ne sia stato per venti anni in silenzio, negli anni Sessanta e Settanta quando qui da noi in Europa imperversava la moda dello sperimentalismo. L’invasione delle parole superflue dello sperimentalismo lo aveva infastidito e reso muto.

Ed ecco la scoperta più stupefacente, la scoperta del vuoto:

Guarda questa scatola vuota
che io chiudo con un piccolo coperchio.
Se provo ad agitarla
tutto è silenzio.
Se vado ad aprirla,
non trovo nulla.
Meno male,
è proprio così? Torno
a chiuderla con il piccolo coperchio,
e la scuoto,
ancora silenzio,
torno a aprirla.
Meno male
è proprio così. È così
si svela
il niente che contiene,
né l’anima né Budda.
Meno male.
È proprio così? Finisco qui.
È proprio così? Finisco qui.

Esauritasi la moda dello sperimentalismo, Takano ha ripreso a scrivere poesie. Una poesia che proviene dal Vuoto e dal Silenzio. Takano nomina sempre direttamente la «cosa», l’esperienza che proviene o dal passato remoto o dal presente, perché il tempo cronometrico per lui è una convenzione buona per regolare la vita degli esseri umani. I suoi temi sono il tempo, i gesti, le cose dentro di noi, le cose fuori di noi, un burattino che agita le braccia, «un pazzo di mezza età», un giocattolo sventrato, un ferro ricurvo, un aquilone spezzato, la solitudine del cigno, le mani, una bambina morta che ritorna nel sogno, i bambini che salutano da un torpedone agitando le mani, etc., quanto di più prosaico e quotidiano vi possa essere, ma quello che fa la differenza è il trattamento degli oggetti e dei personaggi, un trattamento diretto che ricorda le linee dei maestri zen, un tracciare con dei gesti precisi e improvvisi delle linee sulla carta. Linee significative, piene di senso, ancorché di un senso povero e tribolato, che coglie di sorpresa il lettore. E poi, il dolore, anche il dolore è come circonfuso dalla prosaicità e dalla facilità con cui avviene nel mondo, in modo inconsapevole, improvviso, senza ragione. Ma è dall’esperienza del dolore e dall’esperienza del vuoto, dall’esperienza della seconda guerra mondiale e della successiva società di massa del Giappone moderno, che proviene questa poesia così flebile e fragile, ancorché temprata nel tempo e nel dolore.

Forse, ad un lettore di oggi la poesia di Takano potrà sembrare fuori moda o fuori tempo o fuori degli schemi, ma sono il tempo e la moda ad essere fuori dal mondo, non certo la poesia di Takano.

La poesia di Takano è una grande poesia perché in ogni momento egli si chiede: “perché scrivo?”, “che cosa voglio dire che non può essere detto se non in poesia?”; e si interroga in ogni istante non su che cos’è questo o quello (per questo compito ci sono i sociologi e i tuttologi, i bravi giornalisti, i talk show, gli opinionisti), ma sulla domanda fondamentale. Ora, può sembrare un atto di arbitrio e di arroganza da parte mia, nella città del minimalismo disossato, porre la questione della domanda fondamentale.

Una volta su un blog un interlocutore mi chiese: «E allora dicci tu qual è la domanda fondamentale».
I lettori capiranno come davanti a questa rozza domanda io sia rimasto senza parole, ammutolito. Come potevo far capire al mio rozzo interlocutore che se fosse stato possibile parlare della domanda fondamentale come si fa con 2 + 2 = 4, l’avrei fatto?

Bene, la poesia che va di moda oggi in Italia è questo 2 + 2 = 4, né più né meno, è una “poesia dell’impronta digitale”, dizione di Magrelli, una tautologia del senso comune; quella di Takano è una poesia della domanda fondamentale, quella domanda che tu lettore non ti saresti mai posto prima di leggere una poesia di Takano. È per questo che si leggono i libri di poesia, per sapere qualcosa di più su questa misteriosa entità che è la domanda fondamentale. È per questo che esistono i poeti.

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell'isola di Sado, Giappone, nel 1927

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell’isola di Sado, Giappone, nel 1927

Intervista a Kikuo Takano di Renato Minore

  Takano, nella sua poesia ri­suona quella schiettezza luci­da e distaccata che si legge nei versi di Eliot: un suo mae­stro?

«Sì, lo considero un maestro della mia poesia. Ho letto le sue poesie tradotte in giapponese, La terra desolata e I quattro quartetti. Soprattutto questi ul­timi mi hanno dato una profon­da emozione. Ricordo ancora i quattro versi del Little Godding: “Mai cesseremo di esplo­rare/ e alla fine dell’intera esplo­razione/ arriveremo dove sia­mo partiti/ e conosceremo per la prima volta quel luogo”».

 Quanto ha influito la tradizio­ne Zen nel suo lavoro?

«Da noi si dice che ci siano una trentina di modi per definire lo Zen. Io penso che lo Zen sia una modalità di attesa molto fervida per rinunziare a se stes­si. Quando viene annullato l’ego, il vuoto è riempito dalla saggezza di Buddha. Mi ha sem­pre affascinato la parola di un maestro: “Se batto le mani giunte, emettono suono. Da quale mano è prodotto questo suono e quale produrrà quello generato da una sola mano?”».

 E le letture di Heidegger e Montale?

 «Per quanto riguarda Heideg­ger, mi ha sempre emozionato il modo con cui egli tentava di dirci, senza scegliere, il silenzio sulle cose inesprimibili. Ho avuto la spinta dalla sua parola “pensare sull’essere è scrivere poesie”. Di Montale vorrei ricordare, Cri­salide. Il poe­ta parla del tempo doloro­so della crisa­lide avvizzi­ta. In realtà è essenziale il tempo in cui scorre la vita, i giorni in cui la vita muta. Sembra di sentire in que­sti versi come un’eco: conti­nuiamo a por­ci la doman­da sul nostro “dove anche se ci trovia­mo immersi nel dolore più profondo”».

 La musica è stata una componente im­portante del suo lavoro. Quan­to e in che misura ha influito sulla sua poesia?

«Per Valéry “la poesia dovreb­be aspirare allo stato della musi­ca”. Nel mio caso non è stato così. Tra chi amava la mia poesia c’erano musicisti che hanno composto musica voca­le e corale con i miei versi. La musica mi ha dato le ali invisi­bili che mi hanno permesso di volare, confortandomi con dol­cezza in un difficile momento quando non potevo andare avanti con le parole».

Foto femme brillant

Si­lenzio alto /frinire di cicale/ penetra le rocce

 Lei ha adottato il verso libe­ro, abbandonando gli schemi tradizionali, haiku e tanka. Si è sentito iconoclasta, anti­tradizionalista? Quanto deve alla cultura occidentale que­sta sua scelta?

«Amo i versi come quelli dell’ Imperatore Sutodu e di Matsuo Bashò quando scrive “Si­lenzio alto /frinire di cicale/ penetra le rocce”. Tuttavia non mi sono mai avvicinato consapevolemente alla poesia in schemi fissi come lo haiku e il tanka. Ho iniziato con la massi­ma naturalezza a scrivere poe­sie con il verso libero. Era un inevitabile atto espressivo per sopportare la realtà così doloro­sa da affrontare dopo la secon­da guerra mondiale. Sembrava che soltanto il vuoto tra i frantu­mi del senso perduto potesse essere accettato con tenerezza nella mia poesia. Poi lo ho abbandonato per scrivere poe­sie dove più forte è il senso di ricerca sull’essere. Era passato del resto poco meno di mezzo secolo da quando nel 1945 furo­no tradotte in Giappone le poe­sie occidentali di ventinove po­eti, da Dante a d’Annunzio. Noi giovani siamo corsi dietro ad ogni giardino di poesia euro­pea per cogliere fiori di grande fragranza esotica».

 Takano ha lasciato il Giappo­ne di recente: mi incuriosisce la tensione che la lega ai luoghi nati.

 «La piccola isola dell’Estremo Oriente dove sono nato è una regione lontana dalla cultura e dall’arte. E anche la mia patria non è più quella di cui uno possa vantarsi. E’ il motivo per cui noi giapponesi sogniamo l’Ita­lia, venendo in Italia. Sentia­mo l’anima degli uomini che hanno compiuto il glorioso Ri­nascimento e continuano a far­lo vivere tuttora magnifica­mente. C’è qui una patria di cui l’uomo può essere fiero. Io poi sono molto attratto da Vatti­mo, il teorico del pensiero debo­le. Ponendo l’attenzione sul concetto di “kenosis” egli consi­dera ideale il modello della “debolezza”. Per lui il nucleo del pensiero cristiano è quello in cui la presenza di Dio non è stata integralmente messa di­nanzi ai nostri occhi. E insiste sul fatto che si debba sviluppa­re il pensiero conforme alla debolezza, invece che vincere la debolezza».

 Qualcuno ha scritto che lei riesce a far sembrare familia­re una realtà così lontana e così diversa dalla nostra co­me quella giapponese. Ma è davvero così distante?

«Quando il mio traduttore Pao­lo Lagazzi ha visitato Tokyo ha detto: “E’ una piccola New York!”. Ahimé, il Giappone è ormai diventato una piccola America nella confusione e nel­la superficialità. La bomba ato­mica non ha distrutto solo Hi­roshima e Nagasaki, ma ha distrutto l’anima del Giappo­ne. Qui l’uomo comincia a di­struggere se stesso, addirittura rischia di sparire».

 Si parla di crescente Asian Power, una sorta di riscossa (economica e sociale) del vo­stro mondo nei confronti del­lo strapotere americano. Co­me considera questa tenden­za?

«Quando ci penso, mi viene un’ansia profonda per la realtà in cui si sta incorporando il sistema strategico mondiale sullo sfondo di una grossa po­tenza militare-economica. Su questa strada il nostro secolo fallisce l’obbiettivo principale, quello per cui l’uomo ritrova l’uomo e approda alla vera cau­sa di rappacificazione. Per sve­gliare la nostra coesistenza vor­rei che questo secolo fosse chia­mato “il nuovo secolo rinasci­mentale”.»

 C’è un ruolo del poeta nel mondo di oggi che sembra sempre più lontano dall”‘ascolto” della poesia?

«Ha scritto Patrizia Cavalli: “qualcuno ha detto/ che certo le mie poesie/ non cambieranno il mondo/ Io rispondo che certo sì/ le mie poesie non cambieranno il mondo”. La poesia è sicuramente impotente a cambiare il mondo. Ma non dovrebbe perdere la domanda essenziale, chi siamo e chi dob­biamo essere nel mondo. Se la poesia è lontana dall’ascolto forse è perché troppo spesso è diventata un semplice rumore. Il ruolo del poeta nel mondo è in se stesso, nella domanda severa e autentica: “perché scri­vo poesia?”.

 E infine, che rapporto ha Takano con i mezzi di comu­nicazione di massa?

«Io non ho alcun rapporto. Ma credo che ciò che protegge la cultura di alta qualità e la conse­gna al mondo senza errore è proprio un lavoro altamente qualificato, si potrebbe dire co­scienzioso, dei mezzi di comu­nicazione di massa, quando però questi superano la barrie­ra dell’affarismo e dell’opportu­nismo».

Gif la Ruota della giostra

Ma alla fine quest’anima/ è proprio una girandola

Poesie di Kikuo Takano da Il senso del cielo (Passigli, 2017)

Girandola

Ma alla fine quest’anima
è proprio una girandola,
spinge la propria pala
l’invisibile energia
che muove il suo asse
con la forza che cigola
e stride e gira, gira
a vuoto, con il suo vertiginoso
movimento, e senza mai
alcun inizio?

 

Soliloquio

«Siediti», ho detto proprio così
ma tu non c’eri.
In realtà parlavo tra me e me
e lo ripeto senza tentennamenti:
«Siediti».
«Siediti, siediti».
A dire il vero il soliloquio è dialogo
per il mio io inaccettabile
che non sopporta gli altri,
ma è ferito dalla solitudine.
È un forno che arde, il mio soliloquio!

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Wisława Szymborska (1923-2012) INTERVISTA pubblicata su “L’espresso” il 31 ottobre 1996 e POESIE SCELTE da “Epitaffio”, “Basta così” “Nel sonno”, (Adelphi, 2014) e “Monologo per Cassandra”, “Possibilità” “Conversazione con una pietra”, “Terrorista che guarda” “Prospettiva” con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Czeslaw Milosz Wislawa Szymborska

Czeslaw Milosz Wislawa Szymborska

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Basta così è il titolo della raccolta postuma di Wisława Szymborska curata da Ryszard Krynicki e tradotta da Silvano De Fanti per Adelphi. Poche poesie prima che sopraggiungesse la morte della poetessa polacca avvenuta il 1 febbraio del 2012.

Ho letto con curiosità l’episodio della pubblicazione di una poesia della giovanissima Wisława sulla rivista più prestigiosa del suo paese. Aveva spedito alla nota rivista alcune poesie che furono subito bocciate dalla redazione perché giudicate «banali e superficiali». Poi, però, uno dei redattori propose alla Szymborska numerosi tagli ad una sua poesia ed insistette affinché venisse pubblicata. Fu così che apparve la prima poesia della Szymborska sulla prestigiosa rivista di letteratura. Quello fu il battesimo letterario della poetessa polacca.

Ecco qui queste poche poesie che il curatore presenta nella forma autografa: foglietti scritti a mano con una grafia attenta e minuta, attraversata da correzioni e ripensamenti. Piccoli versi che non hanno nulla di prezioso, dove non c’è nessun struggimento dell’anima ma una precisissima attenzione per i dettagli delle situazioni e degli oggetti (i dettagli degli oggetti sono molto più importanti degli oggetti), gli spiragli del quotidiano che ci aprono abissi di senso, cose che vediamo tutti i giorni senza farci caso. Il viaggio nel mondo della poetessa polacca è il nostro viaggio, quello che noi tutti ogni giorno facciamo attorno al nostro dito e attorno al nostro «io». Traduzione in semplici frasi dell’assurdo del mondo quotidiano. L’assurdo di chi mette «tutto in ordine dentro e attorno a lui», di chi crede di avere la risposta pronta per tutti i problemi e «appone il timbro a verità assolute, / getta i fatti superflui nel tritadocumenti/, e le persone ignote/ dentro appositi schedari».

E poi ci sono quelle esilaranti composizioni rivolte come frecce acuminate contro gli intellettuali che si nutrono di «parole» inutili e superflue: «parole per spiegare le parole», «cervelli intenti a studiare il cervello», «boschi ricoperti di bosco fino al ciglio», «occhiali per cercare gli occhiali».

«Nulla è cambiato.
Il corpo trema, come tremava
prima e dopo la fondazione di Roma,
nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo,
le torture c’erano, e ci sono, solo la terra è più piccola
e qualunque cosa accada, è come dietro la porta»
(Wisława Szymborska, Torture)
WISLAWA SZYMBORSKA_3

Wisława Szymborska

Credo che la lettura della poesia della Szymborska abbia una funzione ecologica e profilattica della intelligenza, è una difesa della singolarità dell’uomo minacciato dalla invasione di massa del pensiero normalizzato. La poetessa polacca segue uno schema indiretto di esposizione, racconta un evento, magari trascurabile, che tutti abbiamo notato ma che abbiamo dimenticato perché ci è sembrato ovvio, appunto, normale; va per la via più breve attraverso il metro libero verso la cosa che vuole dire, ma poi accade che perde il filo di ciò che sta dicendo e cambia registro, parla di altro, apparentemente, per poi ricordarsi di quel filo lasciato in sospeso e lo riprende, lo riannoda, lo accorcia, lo allunga, lo mette sotto la lente di ingrandimento, lo abbandona di nuovo e lo riprende. Fa ad un tempo una poesia populistica e intellettualistica, minimalistica e antiminimalistica, ironica e autoironica, antifilosofica e filosofica, ermeneutica e antiermeneutica. In una parola, fa una poesia del nostro tempo nichilistico, accetta del Nihil il Nihil senza rimpianti religiosi o filosofici, senza inutili struggimenti, senza contorcimenti; sa che nel nostro mondo di oggi non c’è religione o filosofia che tenga; non c’è religione affatto, e forse non c’è neanche una filosofia che possa consolarci. Religio nel senso di stare insieme, non è più una cosa del nostro tempo. In realtà, la Szymborska minimizza ciò che va minimizzato e mette sotto la lente di ingrandimento i nostri piccoli tic quotidiani, le nostre contraddizioni, le nostre manie, le nostre piccole normalità quotidiane. È il suo modo di trattare il «quotidiano», il suo particolarissimo periscopio. È stato anche detto che la Szymborska è una poetessa minimalista. Nulla di più falso e fuorviante, la sua è una poesia che mette al centro del proprio fare il problema dell’Interrogazione.

È una poesia che si interroga su tutto, che chiede lumi al lettore, che lo convoca, che lo sfida, che lo provoca ad interrogarsi sulle sue medesime interrogazioni, che lo fa sentire importante. Non è una poesia che dice al lettore: «Vieni qui, guardami, guarda quanto sono bella!»; è una poesia che dice al lettore: «Vieni, conducimi, dimmi tu che cosa devo fare in mezzo al ginepraio del mondo». È una poesia di grande responsabilità estetica. Si diceva una volta, una poesia umanistica. Non so se è esatto, io mi contento di dire che è una poesia che si aggrappa al dubbio come all’ultima delle certezze. Forse in ciò è davvero umanistica in quanto problematica, e problematica in quanto umanistica. È una poesia modernistica nel senso più alto del termine, e problematica come lo può essere una poesia umanistica.

Per la Szymborska la poesia non è come una seconda pelle, come un abito che ti sta stretto alla vita, che non ti lascia respirare ma che sei costretto a portare per superiore costrizione, per educazione, per convenzione condivisa, ma un abito libero, abitabile, largo, elastico, comodo. Sappiamo da Wittgenstein che l’abito non è fatto per coprire il corpo nudo, non è quello il suo compito, altrimenti tutto sarebbe fin troppo semplice, ma per ben altri scopi che nulla hanno a che vedere con il freddo o il caldo da cui l’abito dovrebbe fornire protezione. Così, il linguaggio poetico è fatto per ben altri scopi che non per comperare un biglietto quando si sale sull’autobus. Si può prendere l’autobus o la metro senza aver mai letto un rigo di poesia. E la cosa riesce assai meglio dice la Szymborska che ci rivela che lei preferisce leggere prosa anziché poesia. Si vive meglio senza aver mai frequentato la Musa, dice la Szymborska. La Musa della poesia ama essere dimenticata, abbandonata in un angolo e dimenticata. Chi vuole risvegliarla dal suo letargo, spesso la fa fuggire. E per sempre. Così chi vuole comprarla con similori o con gioielli posticci. La Musa preferisce abiti lisi e trasandati. E, a volte, anche anime semplici. Abitate dal dubbio, però.

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Wisława Szymborska

Intervista a Wislava Szymborska pubblicata su “L’espresso” il 31 ottobre 1996

 Signora Szymborska, perché scrive poesie?

 Io proprio non lo so. Mi sembra che la risposta sia da ricercare fra i lettori, non fra gli autori. L’autore segue un impulso quasi vitale: e la risposta del lettore tiene in vita quell’impulso, che si perpetua. Perché il lettore d’un tratto ama una poesia? Forse qualcosa colpisce la sua memoria: qualcosa non lo lascia tranquillo tanto da dover tornare più volte su quel testo. A me capita questo quando leggo delle poesie. Come poeta scrivo perché si legga quello che scrivo: e scrivo perché ho bisogno di scrivere.

Spieghi ai lettori italiani, che la conoscono poco, qual è la sua poesia da cui sarebbe meglio partire per avvicinarsi alle sue opere, al suo lavoro.

Non sono in grado di farlo. C’è un filo conduttore che unisce tutto quel che ho scritto, ma per me è veramente impossibile esaminare in questo modo la mia poesia. però è una risposta che certamente un traduttore o un lettore attento sono in grado di dare molto meglio di me.

Ma come vorrebbe fosse interpretata la sua poesia?

A me piace quando un lettore o un attore legge i miei versi come se pensasse a voce alta. Vorrei fosse interpretata così la mia poesia. La cosa peggiore è la meta interpretazione, e iperinterpretazione: il volere a tutti i costi aggiungere qualcosa in più, qualcosa di troppo, che non c’è, alla poesia. Invece, sempre riferendomi ai miei versi, mi piace quando vengono letti guardando in faccia il pubblico, come in un discorso, con «nonchalance», come si stesse riflettendo ad alta voce.

Come scrive le sue poesie? Di getto o invece sono il frutto di una lunga riflessione?

L’ispirazione è sempre necessaria. La si può chiamare in modi diversi: estro, impulso… La mia poesia viene in genere descritta come «poesia riflessiva»: e lo è. Ma questo non ne fa una poesia fredda, programmatica, un lavoro a tavolino da burocrate. O almeno spero! Io traggo ispirazione da tantissime cose, ma tendo a scrivere poco: rifletto su quel che provo, non accetto facilmente tutte le prime parole «ispirate» che saltano in mente. Il problema è anche terminologico: da noi si tende ancora ad associare l’ispirazione solo e soltanto alla poesia, oppure la si riferisce solo a certi movimenti letterari delle epoche passate. A me sembra che ogni attività che richieda riflessione, ogni compito al quale ci si dedichi completamente, richieda un’ispirazione. L’ispirazione non è sconosciuta al medico, al chirurgo, all’avvocato, all’insegnante, allo studente e così via. È quel qualcosa che all’improvviso ti penetra il cervello con una chiarezza e evidenza tali da far vedere ciò che prima non c’era. Per la mia poesia è vitale: quando manca questo non scrivo più.

Lei ha sempre odiato i circoli letterari. Teorizza la solitudine del poeta. Ama far sapere che è inaccessibile, che le piace stare in disparte. Perché?

 All’inizio è naturale che i giovani poeti si riuniscano in gruppi. Il poeta solitario, fuori del mondo, deve avere una gran fortuna per riuscire a emergere e farsi sentire se non ha nessun contatto con gli altri poeti. Il gruppo all’inizio è necessario e naturale. Infonde anche una buona dose di coraggio. Ma può durare a lungo e certo non per tutta la vita. È di cattivo gusto e brutto segno quando, dopo una vita, ci sono ancora vecchi poeti che si tengono stretti al proprio circolo. E allora credo sia un disastro per entrambi, poeta e poesia.

L’ironia è uno degli elementi che fondano il suo lavoro di poeta. In tutte le sue opere l’ironia è un elemento fondamentale. Perché?

L’ironia è un concetto talmente vasto: le pagine più belle sull’ironia le ha scritte Thomas Mann, che pure ne distingue vari tipi. Spesso la gente confonde l’ironia col dileggio, lo scherno, il disprezzo per l’altro, e a volte diviene altezzosità che mette chi ironizza su un piano più elevato rispetto all’oggetto dell’ironia. Ma non bisogna dimenticare che nell’ironia c’è anche l’elementto della compassione. Io rido un po’ di me e un po’ di voi. Non dimentico mai di ridere prima di tutto di me stessa. Questa è l’ironia che preferisco e spero ogni tanto mi riesca così come la intendo.

Anche come antidoto contro il sentimentalismo

Sicuramente. La nostra è un’epoca che ha una paura folle dei sentimentalismi. Così l’ironia è una maschera dietro la quale ci si cela per dire qualcosa sinceramente, ma evitandoci l’imbarazzo del sentimento o della sincerità.

Cosa legge più volentieri?

Se parliamo delle mie letture, non quelle obbligatorie per lavoro o altro, allora più volentieri leggo prosa.

Non poesia?

No, affatto. Ho sempre amato tanto la prosa. Ho sempre letto prosa e quando ho iniziato a scrivere, quando pensavo che sarei stata una scrittrice all’età di dodici, tredici anni era per me inconcepibile la scrittura poetica. «Dio ce ne scampi dalle poesie», dicevo, «io scriverò enormi romanzi, in più volumi, grassi, massicci, intere biblioteche di romanzi!»

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Wisława Szymborska

È così che ha incominciato a scrivere quelle recensioni sui libri più strani e bizzarri che escono ancora periodicamente sul quotidiano ‘Gazeta Wyborcza’?

 Anni fa mi buttarono fuori dalla redazione del giornale per motivi politici – scrivevo una rubrica sulla poesia all’epoca. Poi qualcuno mi propose di aprire una rubrica tutta mia su qualsiasi argomento preferissi. E allora mi venne in mente di recensire o di trattare in un mucchietto di righe libri di tutte le specie, di botanica, pesca, culinaria, diari di donne sconosciute ecc. Tutti libri dei quali nessuno sa nulla, ma che esistono, che possono essere persino leggibili.

E funzionò?

erano tempi politicizzati nel senso meno salutare del termine e io feci del mio meglio perché la gente potesse per un attimo prender fiato da tutta quella propaganda. Credo mi sia riuscito, dal momento che la rubrica veniva largamente letta: la leggevano sapendo che in essa non si nascondevano dogmi ideologici. Sapevano che da me non avrebbero ricevuto il solito pappone propagandistico.

Nella sua opera manca l’elemento corporeo. Al punto che la sua poesia viene definita «asessuata».

Manca un certo grado di fisicità perché è una poesia riflessiva, cerebrale. e se si intende per fisicità la descrizione dell’amore fra un uomo e una donna, allora non la si troverà nella mia poesia, per il semplice fatto che ritengo l’amore fra l’uomo e la donna assolutamente indescrivibile. Io non ho mai letto un solo verso assolutamente passabile su questo argomento. Certamente fra le mie raccolte si possono rintracciare un paio di poesie scritte per una donna, o che hanno un punto di vista femminile… ma niente di più. Ma le donne non devono scrivere poesie d’amore…

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Wisława Szymborska

Epitaffio

Qui giace come la virgola obsoleta
l’autrice d’un paio di versi. La terra l’ha degnata
dell’ultimo riposo, sebbene in vita lo spettro
non abbia mai aderito a gruppi letterari di rispetto.
E anche sulla tomba di meglio non si trova
di questa filastrocca, un gufo e la bardana.
estrai dalla valigetta il cervello elettronico, passante
e medita sul destino di Szymborska un solo istante.

Nel sonno

.
Ho sognato che cercavo una cosa,
nascosta chissà dove oppure persa
sotto il letto o le scale,
all’indirizzo vecchio.
.
Rovistavo in armadi, scatole e cassetti,
inutilmente pieni di cose senza senso.
.
Tiravo fuori dalle mie valigie
gli anni e i viaggi compiuti.
.
Scuotevo fuori dalle tasche
lettere secche e foglie scritte non a me.
.
Correvo trafelata
per ansie e stanze
mie e non mie.
.
Mi impantanavo in gallerie
di neve e nell’oblio.
Mi ingarbugliavo in cespugli di spine
e congetture.
.
Spazzavo via l’aria
e l’erba dell’infanzia.
.
Cercavo di fare in tempo
prima del crepuscolo del secolo trascorso,
dell’ora fatale e del silenzio.
.
Alla fine ho smesso di sapere
cosa stessi cercando così a lungo.
.
Al risveglio
ho guardato l’orologio.
Il sogno era durato due minuti e mezzo.
.
Ecco a che trucchi è costretto il tempo
dacché si imbatte
nelle teste addormentate.

.
Monologo per Cassandra

Sono io, Cassandra.
E questa è la mia città sotto le ceneri.
E questi i miei nastri e la verga di profeta.
E questa è la mia testa piena di dubbi.

E’ vero, sto trionfando.
I miei giusti presagi hanno acceso il cielo.
Solamente i profeti inascoltati
godono di simili viste.
Solo quelli partiti con il piede sbagliato,
e tutto poté compiersi tanto in fretta
come se non fossero mai esistiti.

Ora lo rammento con chiarezza:
la gente vedendomi si interrompeva a metà.
Le risate morivano.
Le mani si scioglievano.
I bambini correvano dalle madri.
Non conoscevo neppure i loro effimeri nomi.
E quella canzoncina sulla foglia verde –
nessuno la finiva in mia presenza.

Li amavo.
Ma amavo dall’alto.
Da sopra la vita.
Dal futuro. Dove è sempre vuoto
e da dove nulla è più facile del vedere la morte.
Mi dispiace che la mia voce fosse dura.
Guardatevi dall’alto delle stelle – gridavo –
guardatevi dall’alto delle stelle.
Sentivano e abbassavano gli occhi.

Vivevano nella vita.
Permeati da un grande vento.
Con sorti già decise.
Fin dalla nascita in corpi da commiato.
Ma c’era in loro un’umida speranza,
una fiammella nutrita del proprio luccichio.
Loro sapevano cos’è davvero un istante,
oh, almeno uno, uno qualunque
prima di –

È andata come dicevo io.
Però non ne viene nulla.
E questa è la mia veste bruciacchiata.
E questo è il mio ciarpame di profeta.
E questo è il mio viso stravolto.
Un viso che non sapeva di poter essere bello.

(da “Sale” 1962)

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Possibilità

Preferisco il cinema.
Preferisco i gatti.
Preferisco le querce sul fiume Warta.
Preferisco Dickens a Dostoevskij.
Preferisco me che vuol bene alla gente
a me che ama l’umanità.
Preferisco avere sottomano ago e filo.
Preferisco il colore verde.
Preferisco non affermare
che l’intelletto ha la colpa su tutto.
Preferisco le eccezioni.
Preferisco uscire prima.
Preferisco parlar d’altro coi medici.
Preferisco le vecchie illustrazioni a tratteggio.
Preferisco il ridicolo di scrivere poesie
al ridicolo di non scriverne.
Preferisco in amore gli anniversari non tondi,
da festeggiare ogni giorno.
Preferisco i moralisti,
che non mi promettono nulla.
Preferisco una bontà avveduta a una credulona.
Preferisco la terra in borghese.
Preferisco i paesi conquistati a quelli conquistatori.
Preferisco avere delle riserve.
Preferisco l’inferno del caos all’inferno dell’ordine.
Preferisco le favole dei Grimm alle prime pagine.
Preferisco foglie senza fiori che fiori senza foglie.
Preferisco i cani con la coda non tagliata.
Preferisco gli occhi chiari, perché li ho scuri.
Preferisco i cassetti.
Preferisco molte cose che qui non ho menzionato
a molte pure qui non menzionate.
Preferisco gli zeri alla rinfusa
che non allineati in una cifra.
Preferisco il tempo degli insetti a quello siderale.
Preferisco toccar ferro.
Preferisco non chiedere per quanto ancora e quando.
Preferisco considerare persino la possibilità
che l’essere abbia una sua ragione.

Conversazione con una pietra

Busso alla porta della pietra
– Sono io, fammi entrare.
Voglio venirti dentro,
dare un’occhiata,
respirarti come l’aria.
– Vattene – dice la pietra.
– Sono ermeticamente chiusa.
Anche fatte a pezzi
saremo chiuse ermeticamente.
Anche ridotte in polvere
non faremo entrare nessuno.
Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
Vengo per pura curiosità.
La vita è la sua unica occasione.
Vorrei girare per il tuo palazzo,
e visitare poi anche la foglia e la goccia d’acqua.
Ho poco tempo per farlo.
La mia mortalità dovrebbe commuoverti.
– Sono di pietra – dice la pietra
– E devo restare seria per forza.
Vattene via.
Non ho i muscoli per ridere.
Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
Dicono che in te ci sono grandi sale vuote,
mai viste, belle invano,
sorde, senza l’eco di alcun passo.
Ammetti che tu stessa ne sai poco.

.
***

Terrorista che guarda, 1974:
La bomba scoppierà nel bar alle tredici e venti.
Adesso sono solo le tredici e sedici.
Alcuni faranno in tempo ad entrare,
Altri a uscire.
Il terrorista ha già attraversato la strada.
Questa distanza lo tiene in salvo dal pericolo,
e la visuale è proprio come al cinema.
Una donna con la giacca gialla, ecco entra.
Un uomo con gli occhiali scuri, lui esce.
Dei ragazzi in blue jeans se ne stanno a chiacchierare.
Le tredici diciassette minuti e quattro secondi.
Il più basso ha fortuna e salta sullo scooter,
quello più alto entra dentro.
Ore tredici e diciassette e quaranta secondi.
C’è una ragazza col nastro verde tra i capelli.
Ma ecco che l’autobus ne impedisce la vista.
Ore tredici e diciotto.
Non c’è più la ragazza.
Ma se è stata così sciocca da entrare,
lo si vedrà quando li porteranno fuori.
Ore tredici e diciannove.
Beh, non esce nessuno.
Ma ecco che esce ancora un uomo grasso e calvo.
Però, così, come se stesse cercando qualcosa per le tasche e
alle tredici e venti meno dieci secondi
rientra a veder se trova quei suoi miseri guanti.
Sono già le tredici e venti.
Ma come va piano il tempo.
Ecco, forse ora.
No, non ancora.
Sì, adesso.
È la bomba che scoppia.

.
Prospettiva

Si sono incrociati come estranei,
senza un gesto o una parola,
lei diretta al negozio,
lui alla sua auto.
Forse smarriti
O distratti
O immemori
Di essersi, per un breve attimo,
amati per sempre.
D’altronde nessuna garanzia
Che fossero loro.
Sì, forse, da lontano,
ma da vicino niente affatto.
Li ho visti dalla finestra
E chi guarda dall’alto
Sbaglia più facilmente.
Lei è sparita dietro la porta a vetri,
lui si è messo al volante
ed è partito in fretta.
Cioè, come se nulla fosse accaduto,
anche se è accaduto.
E io, solo per un istante
Certa di quel che ho visto,
cerco di persuadere Voi, Lettori,
con brevi versi occasionali
quanto triste è stato.

Wislawa Szymborska

Nasce nel 1923, nel 1931 Wisława Szymborska si trasferisce con la famiglia a Cracovia, città alla quale è stata sempre legata: vi ha studiato, vi ha lavorato e vi ha sempre soggiornato, da allora fino alla morte. Allo scoppio della guerra nel 1939, continua gli studi liceali sotto l’occupazione tedesca, seguendo corsi clandestini e conseguendo il diploma nel 1941. A partire dal 1943, lavora come dipendente delle ferrovie e riuscì a evitare la deportazione in Germania come lavoratrice forzata. In questo periodo comincia la sua carriera di artista, con delle illustrazioni per un libro di testo in lingua inglese. Comincia inoltre a scrivere storie e, occasionalmente, poesie.

Sempre a Cracovia, Szymborska comincia nel 1945 a seguire in un primo momento i corsi di letteratura polacca, per poi passare a quelli di sociologia, presso l’Università Jagellonica, senza però riuscire a terminare gli studi: nel 1948 fu costretta ad abbandonarli a causa delle sue scarse possibilità economiche. Ben presto viene coinvolta nel locale ambiente letterario, dove incontra Czesław Miłosz, che la influenzò profondamente.

Nel 1948 sposa Adam Włodek, dal quale divorziò nel1954. In quel periodo, lavorava come segretaria per una rivista didattica bisettimanale e come illustratrice di libri. Nel 1969 si sposa con lo scrittore e poeta Kornel Filipowicz, che muore nel1990. La sua prima poesia, Szukam słowa (Cerco una parola), fu pubblicata nel marzo 1945 sul quotidiano «Dziennik Polski». Le sue poesie vengono pubblicate con continuità su vari giornali e periodici per parecchi anni; la prima raccolta Dlatego żyjemy (Per questo viviamo) venne pubblicata molto più tardi, nel1952, quando la poetessa aveva 29 anni.

In effetti, negli anni quaranta la pubblicazione di un suo primo volume venne rifiutata per motivi ideologici: il libro, che avrebbe dovuto essere pubblicato nel1949, non superò la censurain quanto «non possedeva i requisiti socialisti». Ciò nonostante, come molti altri intellettuali della Polonia post-bellica, nella prima fase della sua carriera Szymborska rimase fedele all’ideologia ufficiale della PRL: sottoscrisse petizioni politiche ed elogiò Stalin, Lenin e il realismo socialista. Anche la poetessa-Szymborska cercò in seguito di adattarsi al realismo socialista: il primo volume di poesie del 1952 contiene infatti testi dai titoli come Lenin oppure Młodzieży budującej Nową Hutę (Per i giovani che costruiscono Nowa Huta), che parla della costruzione di una città industriale stalinista nei pressi di Cracovia. Aderì anche al PZPR (Polska Zjednoczona Partia Robotnicza, «partito operaio unito polacco»), del quale fu membro fino al1960.

Tuttavia, in seguito la poetessa prese nettamente le distanze da questo «peccato di gioventù», come da lei stesso definito, al quale è da ascrivere anche la seguente raccolta Pytania zadawane sobie (Domande poste a me stessa) del 1954. Anche se non si distaccò dal partito fino al 1960, cominciò ben prima a instaurare contatti con dissidenti. Successivamente Szymborska ha preso le distanze dai suoi primi due volumi di poesie.

Dal 1953 al 1966 fu redattrice del settimanale letterario di Cracovia «Życie Literackie» («Vita letteraria»), al quale ha collaborato come esterna fino al1981. Sulle pagine di questa pubblicazione è apparsa la serie di saggi Lektury nadobowiązkowe (Letture facoltative), che sono state successivamente pubblicate, a più riprese, in volume. Nel 1957  fece amicizia con Jerzy Giedroyc, editore dell’influente giornale degli emigranti polacchi «Kultura», pubblicato a Parigi, al quale contribuì anche lei. Il successo letterario arrivò con la terza raccolta poetica, Wołanie do Yeti (Appello allo Yeti), del 1957.

Dal 1981 al 1983 Wisława Szymborska è stata  redattrice del mensile di Cracovia «Pismo». Negli anni ottanta intensificò le sue attività diopposizione, collaborando al periodico samizdat «Arka» con lo pseudonimo «Stanczykówna» e a «Kultura». Si impegnò per il sindacato clandestino Solidarność. Dal 1993 pubblica recensioni sul supplemento letterario del «Gazeta Wyborcza», importante quotidiano polacco. Nel 1996 è stata insignita del Premio Nobel per la letteratura «per una poesia che, con ironica precisione, permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti d’umana realtà». Ha anche tradotto dal francese al polacco alcune opere del poeta barocco francese Théodore Agrippa d’Aubigné. Le sue opere sono state tradotte in numerose lingue. Pietro Marchesani ha tradotto la maggior parte delle sue raccolte poetiche in italiano; La sua più recente raccolta poetica, Dwukropek (Due punti), apparsa in Polonia il 2 novembre 2005, ha riscosso uno strepitoso successo, vendendo oltre quarantamila copie in meno di due mesi. Dopo diversi mesi di malattia, il 1º febbraio 2012, Szymborska è scomparsa nel sonno presso la sua casa a Cracovia. Dopo essere stata cremata è stata sepolta nella tomba di famiglia.

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