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Risposta alla Domanda: Quale poesia scrivere nell’epoca della Fine della metafisica? È solo un gioco di specchi – direbbe il mago Woland – un gioco di scacchi, di fuochi d’artificio, una collezione di figurine bizzarre, una bizarrerie. La «nuova poesia» preferisce la folla e il rumore al silenzio ovattato della poesia elegiaca e del romanzo memoriale, è affollata in modo assordante dalla presenza del «mondo», in essa si assiste al «mondeggiare» del mondo e al «coseggiare» delle cose con tutte le loro acrobazie e follie, Poesie di Mimmo Pugliese, Marie Laure Colasson, Lucio Mayoor Tosi, Francesco Paolo Intini

Uomo sotto la neve

Lucio Mayoor Tosi, Uomo in bicicletta sotto la neve, 2023, opera digitale

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Risposta alla Domanda:

Quale poesia scrivere nell’epoca della Fine della metafisica?

La «nuova poesia» crea le sue «nuove» categorie ermeneutiche. La «nuova poesia» è nient’altro che «una messa in scena» con annesso e connesso la abolizione del simbolico e del sublime. La sublimazione presuppone la rimozione, è per questa ragione che la «nuova poiesis» avendo abolito la sublimazione può fare a meno, correlativamente, anche della rimozione. Una volta libera da queste due estremità la «nuova poiesis» può estendersi sulla superficie della estimità, essendo libera anche della intimità o interiorità che della rimozione ne è storicamente il prodotto alienato e contraffato.

La nuova fenomenologia del poetico, la poetry kitchen, si muove all’interno di una zona di interoperabilità tra gli oggetti (interni e esterni) e gli attanti, una zona di discretizzazione di tutte le funzioni della trasduzione, essendo la trasduzione nient’altro che il processo di trasformazione (interoperabilità) degli elementi che non esistevano prima che prendesse luogo il rapporto di trasduzione; è solo un gioco di specchi – direbbe il mago Woland – un gioco di scacchi, di fuochi d’artificio, una collezione di figurine bizzarre, una bizarrerie. La «nuova poesia» preferisce la folla e il rumore al silenzio ovattato della poesia elegiaca e del romanzo memoriale, è affollata in modo assordante dalla presenza del «mondo», in essa si assiste al «mondeggiare» del mondo e al «coseggiare» delle cose con tutte le loro acrobazie e follie; heideggerianamente, c’è la presenza della «terra», con tutta la sua pesantezza e voluminosità che ingombra. Le funzioni poetiche diventano così meri espedienti. E gli espedienti diventano meri scambi di interoperabilità degli elementi del rapporto trasduttivo.

Che altro è l’espediente della «pallottola» che nella poesia di Gino Rago attraversa ampi spazi e svariatissimi personaggi di plurimi tempi se non una relazione trasduttiva, un colloquio costante con la morte?, con la sua presenza ingombrante?; che altro sono gli inciampi linguistici e gli shifter, gli scambi di binari semantici di Francesco Paolo Intini se non l’ossessione della pulsione di morte dei significati convalidati dalla pratica sociale?, che cosa sono quei «pendeloques» (ciondoli) di Marie Laure Colasson se non manifestazioni del «mondeggiare» degli oggetti ovunque si volga lo sguardo?, quel «mondeggiare» che avviene in una condizione di assenza di orizzonte?, anche le «descrizioni» di Vincenzo Petronelli in realtà sono espedienti che portano fuori strada il lettore, interpretano una variante di quel «mondeggiare» privo di mondo e di orizzonte che è nient’altro che la nostra epoca glocale. Secondo il filosofo marxista Slavoj Žižek la freudiana pulsione di morte deve essere adottata quale categoria centrale del capitalismo, una categoria che si è internalizzata ed è diventata una adiacenza del mobilio psichico. La pulsione di morte abita il cuore del capitalismo odierno. La poetry kitchen è ossessionata dalla presenza di questa pulsione di morte che tenta di esorcizzare con un caleidoscopio di immagini, di figure, di icone, di avatar e di situazioni ultronee, ma si tratta pur sempre di un esorcismo, di una magia bianca in realtà la pulsione di morte è la protagonista assoluta della poesia kitchen che avviene mediante una «messa in scena» che avviene all’interno di una relazione di trasduzione che converte gli estremi in, come dire, estimità internalizzate.

La pop-poesia kitchen può essere letta da chiunque eserciti una professione utile ma non da un impiegato della pseudo cultura: un negoziante, un orologiaio, un barista, un bambino, chiunque tranne che da un letterato.
«Noi figli degli anni più belli», recita la pubblicità di Facebook. È vero, adesso noi, figli degli anni più belli abbiamo tra le mani un linguaggio di rottami, di rifiuti, di remainders, ed è con questo lessico che dobbiamo puntellare le nostre capanne per l’inverno che verrà. In distici, in tristici o in quadristici il kitchen è un discorso sulla tristizia del linguaggio de-politicizzato e privatizzato che usiamo tutti i giorni. Il fatto è che quel linguaggio si era decomposto già da tempo, il fenomeno era già da tempo sotto i nostri occhi, ma non volevamo vederlo. La decostruzione è già avvenuta e avviene continuamente tutti i giorni e tutti i momenti ad opera delle Agenzie emittenti dei media che emettono vomito linguistico profumato in miliardi di esemplari. Ma, gratta gratta, resta vomito. Così, ogni discorso diventa un percorso kitchen ad ostacoli.

Bisognerà chiedersi se la museruola lasciata al bulldog rientri nel silenzio dell’Essere. Andiamo tutti in giro con una museruola, solo che non ce ne accorgiamo; diciamo frasi fatte, frasi obbrobriose e intonse per la loro insignificanza. Tutto ciò «nel silenzio dell’essere». Non è drammatico se non fosse comico? Drammatico e demiurgico e demoscopico con un algoritmo che decide del nostro linguaggio de-politicizzato profumato all’aloe. È che «l’essere svanisce nell’Ereignis», «l’essere svanisce nel valore di scambio», ha scritto più volte Heidegger. Davvero, delle frasi così potrebbe sottoscriverle anche un filosofo marxista, e magari verrebbe tacciato di estremismo infantile. E invece le ha scritte Heidegger.

(Giorgio Linguaglossa e Marie Laure Colasson)

Marie Laure Colasson

Poesia n. 34 della raccolta Les choses de la vie (Progetto Cultura, 2022).

34.

Des pendeloques en or et en cellules d’apocalypse
se dessinent sur le visage de Petr Král

Kandinsky et Klee combat de pensées sous presse
refusent de se fourrer des pois chiches dans le nez

Voltige de mouettes dans la cuisine
se ruent sur les épluchures et la poignée du réfrigérateur

La blanche geisha se parfume à l’acide acétique
ne laissant aucun reflet dans le miroir

Eredia et Kantor poursuivent leur route
contre l’ingérence en construisant des emballages

Král Kandinsky Klee Kantor mettent en scène la blanche geisha et Eredia
créant l’impensable et l’impossible

La débauche terminée les mouettes
laissent des empreintes sur la sable

Des rides sur la mer
des cris et de funestes cercles dans le ciel.

*
Ciondoli in oro e in cellule d’apocalissi
si disegnano sul volto di Petr Král

Kandinsky e Klee combattimento di pensieri sotto la pressa
rifiutano di ficcarsi dei ceci nel naso

Volteggiano dei gabbiani nella cucina
si affollano sulle bucce e la maniglia del frigorifero

La bianca geisha si profuma all’acido acetico
senza lasciare alcun riflesso nello specchio

Eredia e Kantor proseguono la loro strada
contro l’ingerenza mentre costruiscono imballaggi

Král Kandinsky Klee Kantor mettono in scena la bianca geisha e Eredia
creano l’impensabile e l’impossibile

Finita la deboscia i gabbiani
lasciano delle impronte sulla sabbia

Delle rughe sul mare
delle grida e dei cerchi funesti nel cielo

Mimmo Pugliese
Il tango ha i capelli ricci

Hai nascosto le parole dietro i denti della pioggia
le matite accanto ai gatti sugli scafali del metaverso.

La memoria degli aghi di pino
bussa alla catatonia del polonio.

Sulle sbarre di sabbia diventa latte il ritorno
girato l’angolo è magro il fruscio del segnalibro.

Tra virgole d’asfalto si riposano gli elefanti
sorvolano il sudore i citofoni delle banche.

La giacca di flash-back centrifuga bustine di thè
su ponti inesistenti resistono passeri rampanti.

Non ti hanno visto partire
erano spenti i semafori.

Ha capelli ricci il tango uscito dallo specchio
ZZzzz…ZZzzz… video in riconnessione…..

Fuori è pomeriggio

Il pomeriggio che abbaia
si perde dietro all’eco del labirinto

Un rumore di motori scende dai tetti
innervosisce le briciole, scompone il vento

Nella fessura degli armadi
la luce bagna impermeabili nuovi

Quando la collina naviga nella pioggia
sono àsole le canne sulla strada

Alberi che non ti sono mai piaciuti
sciolgono gli intrighi delle onde

Ha dita di sale la botola
che scrosta i muri alla fine del fiume

La traiettoria del sonno si lascia dietro
scarpe e cifre smaltate sulla camicia

Mordono la luna gli storni
mentre parli ai cani della vendemmia

Francesco Paolo Intini
MARLIN

Ci sono missili che fanno la spesa al supermercato
Comprano nature morte senza copyright.

E intanto che nel nervo X si elencano le sinapsi da bloccare
Bartolomeo Colleoni segna un punto nella partita a golf

Ma forse non c’è stato e dunque il fegato chiude il coledoco
dopo la pestilenza , subito dopo Pasqua, oppure prima della Lotteria

Anche ora che la minaccia sembra sepolta
I contromissili di questa parte mostrano grossi sigari dalle ogive.

Ci sarà come trovare aria pura negli intestini
Penetrare da qualche altra parte e respirare nel duodeno.

Nell’attesa che il pancreas blocchi il dotto
Una gru parla in Televisione di una foglia
Che si secca di scendere giù dall’ albero.

Rallegra un Marlin con la testata bionda
Più della moglie appena uscita dal parrucchiere

CARO DESTINO

C’è un destino sul fondo del tegame
Ne parla Tiresia su richiesta di Re Nasone
La condizione umana coperta di teflon
E la Sfinge che torna al suo quiz:
Quale caffè dopo il postmoderno?

Diresti che il pranzo è servito e il ragù galleggia sul Tg
Chi alza la mano per spostare un bicchiere
giura d’aver visto l’angelo ma un bagnino lo convince
che raccogliere bollini è il Bene dell’umanità.

Gazze e corvi continuano a beccarsi.
La peste diffonde le sue idee nell’intestino crasso.
C’è un’appendice che s’infiamma
Un’idea, l’immortalità del moplen
che scuote come un T-rex nell’ano.

La stessa carne esposta ai pesci
E dunque che vale spogliarsi di bianco
Rendere al blu le bare?

E’ un affaccendarsi di notai ed eredi al letto di morte.
Ah ma se facciamo firmare una Guernica
Finisce che la cornice ci fa causa!

La linfa sale alla testa del verde
Quanti giri fanno i sanfedisti?

La vista del mandorlo si annebbia
La lingua ingrandisce l’ascessi a spese del dentista cieco.

Affini! Macchinisti!
Grida Antigone che si sbellica dalle risate
scambiando Creonte per l’onorevole Trombetta.

Lucio Mayoor Tosi
Primo pomeriggio

Un sottopentola, o tovaglietta. Di paglia, un po’ sfrangiata ai bordi.
Per forza di colore bordò. Chiaramente usata.

Anche farsi una sigaretta. Tavolo con casamenti per l’intero universo.
Nessun profilo, tutte le cose messe di fronte.

Quando d’improvviso. / E’ l’ora dei nani, tre quattro mosse
in paradiso di coscienza. E lì scavare, scavare.

Grigio, colore dominante. Acqua di colonia. Blu e nero
il monitor confinante col cimitero.

Un campo di luce più ristretto di quello del sole. Ora
primo pomeriggio. Raggi dal sottosuolo bene attivi.

Fermo come impalcatura ascolto. Se cuore e bellezza
siano confinanti.

«Confina con me. Il sottopentola» dissi. Quindi lei
sbattè la porta. E giurò di non vedermi mai più.

L’importanza di ogni cosa è misurabile scandendo
ogni sillaba del prontuario “Nuovo tempo”. Metodi

per il soccorso giornaliero. Homo sapiens. Prima
del digiuno. Lui e la sua coorte di oggetti.

Una poesia, quella di Lucio Mayoor Tosi, che sopravvive priva di alcun principio gerarchico, direi anarchica, con un metro polisillabico in distici che sta lì come una sentinella armata; ma armata di che?, di nulla, direi, perché la poesia è costruita senza alcuna costruzione (costrizione), sembra nata già decostruita, già rottamata e buona per la pattumiera del non riciclo. Sembra quasi che l’autore di Candia Lomellina si diverta a produrre scarti non riciclabili, scarti inquinanti ma non tossici, scarti che aggiungono inquinamento a inquinamento, così, giocando spensierato e alleggerito da tutti i pesi, perché l’importanza di ogni cosa (non) è misurabile, e l’homo sapiens se ne sta lì «Lui e la sua coorte di oggetti». (g.l.)

Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  NATOMALEDUE” è in preparazione. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen, nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, Calabria Letteraria-Rubbettino Editore, una raccolta di n. 36 poesie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, nonché nella Agenda Poesie kitchen 2023 edite e inedite Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen, nella  Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Lucio Mayoor Tosi nasce a Brescia nel 1954, vive a Candia Lomellina (PV). Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, ha lavorato per la pubblicità. Esperto di comunicazione, collabora con agenzie pubblicitarie e case editrici. Come artista ha esposto in varie mostre personali e collettive. Come poeta è a tutt’oggi inedito, fatta eccezione per alcune antologie – da segnalare l’antologia bilingue uscita negli Stati Uniti, How the Trojan war ended I don’t remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), Chelsea Editions, 2019, New York.  Pubblica le sue poesie su mayoorblog.wordpress.com/ – Più che un blog, il suo personale taccuino per gli appunti. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen, nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume saggistico di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Slavoj Žižek, da Kazimir Malevič a Marcel Duchamp, dal Quadrato nero su fondo bianco al ready made c’è già scritto il destino del modernismo con le sue avanguardie e le sue postavanguardie. Il Novecento è finito, e con esso anche le stagioni delle avanguardie e delle retroguardie, Che cos’è il Reale? Il Reale è sempre parallattico, Sul concetto di parallasse

Foto Malevitch Quadrato

Kazimir Malevič Quadrato nero, 1915, olio su lino, 79.5 x 79.5 cm, Galleria Tret’jakovMosca[1]

Slavoj Žižek

da Kazimir Malevič a Marcel Duchamp 

«Nell’arte di oggi il Reale NON ritorna anzitutto in guisa di scioccanti e brutali intrusioni di oggetti escrementizi, cadaveri mutilati, merda ecc. Questi oggetti, sono, sicuramente, fuori posto – ma perché possano esserlo, il posto (vuoto) deve essere già là, e questo posto è restituito dall’arte ‘minimalista’ a cominciare da Malevič. In questo risiede la complicità tra le due opposte icone del modernismo più estremo, il Quadrato nero su superficie bianca di Kazimir Malevič e l’esibizione di Marcel Duchamp di oggetti ready-made come di opere d’arte. La nozione che è implicita nell’elevazione da parte di Malevič di un oggetto comune e quotidiano ad opera d’arte afferma che l’essere opera d’arte non è una proprietà inerente ad un oggetto; è invece l’artista stesso che appropriandosi dello (o piuttosto di OGNI) oggetto e sistemandolo in un posto determinato lo rende opera d’arte, ma del “dove”. E quello che la disposizione minimalista di Malevič fa è semplicemente di restituire – di isolare – questo luogo come tale, lo spazio vuoto (o cornice) che ha la proto-magica proprietà di trasformare qualsiasi oggetto che si trovi nel suo raggio in opera d’arte. In breve non esiste Duchamp senza Malevič: solo dopo che l’esercizio dell’arte isola il posto/cornice in quanto tale, svuotato di tutto il suo contenuto, si può indulgere nella procedura ready-made. Prima di Malevič, un originale sarebbe rimasto solo un originale, anche se esibito nella più rinomata galleria.

L’appropriazione di oggetti escrementizi fuori posto è strettamente correlata all’apparizione del posto privo di oggetto, dello spazio vuoto in quanto tale. Di conseguenza, il Reale nell’arte contemporanea ha tre dimensioni, che in qualche modo ripetono la triade di Immaginario-Simbolico-Reale all’interno del Reale. Il Reale è innanzitutto l’anamorfico scolorimento, l’anamorfica distorsione dell’immagine diretta della realtà – come un’immagine distorta, come una pura apparenza che “soggettivizza” la realtà oggettiva. Quindi, il Reale è come lo spazio vuoto, come una struttura, una costruzione che non è mai qui, direttametne esperita, ma che può essere solo retroattivamente costruita e presupposta come tale – il Reale come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’osceno. Quest’ultimo Reale, se isolato, è un mero feticcio la cui presenza affascinante e accattivamnte maschera il Reale strutturale nella stessa maniera in cui, nell’antisemitismo nazista, l’ebreo come l’Oggetto escrementizio è Il Reale che maschera l’insopportabile Reale “strutturale” dell’antagonismo sociale. – Queste tre dimensioni del reale risultano dai tre modi in cui è possibile acquisire una distanza rispettto alla realtà ordinaria: sottomettendo questa realtà alla distorsione anamorfica; introducendovi un oggetto che in essa non trova collocazione; sottraendo/cancellando tutto il contenuto (gli oggetti) della realtà, in modo che tutto ciò che rimane è lo stesso spazio vuoto in cui questi oggetti sono collocati.»1

(S. Žižek, The Matrix, Mimesis, Milano-Udine, 2010 pp. 28-29)

pittura marcel duchamp 1

Marcel Duchamp

Slavoj Zizek, Il Trash sublime

«… nell’arte contemporanea il margine che separa lo spazio consacrato del bello sublime dallo spazio escrementizio del trash (i rifiuti), si sta gradualmente assottigliando fino ad arrivare ad una paradossale identità degli opposti: i moderni oggetti artistici sempre più escrementizi, trash (spesso in senso esattamente letterale: feci, corpi in putrefazione, ecc.) non sono forse esibiti per – fatti al fine di, destinati a riempire – il LUOGO Sacro della Cosa? Non è forse questa identità la “verità nascosta” dell’intero movimento? Qualsiasi elemento che reclami di diritto di occupare il Luogo Sacro della Cosa non è forse un oggetto escrementizio per definizione, un rifiuto che non può mai essere “all’altezza del suo compito”? Questa identità della definizione degli opposti (l’elusivo oggetto sublime e/o il rifiuto escrementizio) con la minaccia sempre presente che l’uno sconfinerà nell’altro, che il sublime Graal si rivelerà essere un pezzo di merda, è iscritta proprio nel nocciolo dell’objet petit a lacaniano.

Questa impasse è, nella sua dimensione più radicale, l’impasse che influisce sul processo di sublimazione, non tanto nel senso che la produzione artistica non sia più oggi capace di realizzare oggetti semplicemente “sublimi”, quanto in un senso molto più radicale. Si può affermare, infatti, che lo schema fondamentale della sublimazione – quella del Vuoto centrale, dello Spazio vuoto (“Sacro”) della Cosa esonerata dal circuito dell’economia quotidiana, che viene infine riempito da un oggetto positivo che è “elevato alla dignità della Cosa” (definizione lacaniana della sublimazione) – è sempre più minacciato. Ciò che qui è minacciat è proprio lo scarto tra il Luogo Vuoto e l’elemento (positivo) che lo riempie. Quindi, se il problema dell’arte tradizionale (pre-moderna) era quello di riempire il sublime vuoto della Cosa (il Luogo puro) con un oggetto bello – ossia come riuscire ad elevare efficacemente un oggetto comune alla dignità della Cosa – il problema dell’arte moderna è, in un certo senso, quello opposto (e molto più disperato): non si può più contare sul fatto che il Luogo sacro sia lì, pronto per essere occupato dai manufatti umani; perciò il compito è di sostenere il Luogo come tale, per assicurarci che questo stesso luogo “avrà luogo”. In altre parole, il problema non è più quello dell’horror vacui, riempire il Vuoto, ma piuttosto quello, innanzitutto, di CREARE il Vuoto. Diventa, perciò, cruciale la co-dipendenza tra un luogo vuoto, non occupato, e un oggetto elusivo che si muove rapidamente, un occupante senza un posto?

Il punto è che c’è semplicemente il surplus di un elemento rispetto agli spazi disponibili nella struttura, o il surplus di un posto che non ha alcun elemento che lo occupi; infatti, un posto vuoto nella struttura sostiene la fantasia di un elemento che presto o tarsi lo colmerà, mentre un elemento eccedente senza posto sostiene la fantasia di un luogo ancora sconosciuto che lo attende. Il punto è invece che il posto vuoto nella struttura è in se stesso correlativo all’elemento eccedente che manca al suo posto: essi non sono due entità diverse, ma il diritto e il rovescio di un’identica entità, quell’una e medesima entità che si iscrive nelle due superfici del chiasma di Moebius. In altre parole, il paradosso è che soltanto un elemento che è completamente “fuori luogo” (un escremento, un rifiuto o uno scarto) può reggere il vuoto di un luogo vuoto – cioè la situazione à la Mallarmè, in cui “nulla, tranne il luogo avrà luogo”; nel momento in cui questo elemento eccedente “trovasse il posto giusto”, non ci sarebbe più nessuno Luogo puro distinto dagli elementi che lo riempiono.

duchamp-bicycle-wheel

m. duchamp bicycle wheel

Ed effettivamente, come suggerisce Gerard Wajcman il grande sforzo dell’arte moderna non è proprio quello di mantenere la struttura minima della sublimazione, uno scarto impercettibile tra il Luogo e l’elemento che lo riempie? Non è questa la ragione per cui il Quadrato nero su Fondo Bianco di Kazimir Malevič riduce il meccanismo artistico alle sue componenti essenziali, alla mera distinzione tra il Vuoto (lo sfondo, la superficie bianca) e l’elemento (la macchia del quadrato)? Dovremmo cioè sempre ricordare che il tempo verbale stesso (il futuro anteriore) del famoso rien n’aura eu lieu que le lieu (“nulla avrà avuto luogo se non il luogo stesso”) chiarifica che abbiamo a che fare con uno stato utopico il quale, per ragioni strutturali a priori, non può realizzarsi nel presente (non ci sarà mai un tempo presente in cui “solo il luogo stesso avrà luogo”). Non è semplicemente che il Luogo conferisca all’oggetto che lo occupa una dignità sublime; è che soltanto la presenza dell’oggetto sostiene il Vuoto del Luogo sacro, ma sarà sempre qualcosa che, retroattivamente, “avrà avuto luogo” dopo esser stato intralciato da un elemento positivo. In altre parole, se sottraiamo dal Vuoto l’elemento positivo, “il piccolo pezzettino di realtà”, la macchia eccedente che disturba l’equilibrio, non otteniamo il puro Vuoto equilibrato come tale; il Vuoto stesso, piuttosto, scompare, non è più lì.

Perciò il motivo per cui gli escrementi sono elevati al rango di opera d’arte, utilizzati per colmare il Vuoto della Cosa, non è semplicemente quello di mostrare come “anything goes – qualsiasi cosa va bene”, come l’oggetto sia, in definitiva, indifferente, dal momento che qualsiasi oggetto può essere elevato ad occupare il Luogo della Cosa: questo ricorrere agli escrementi testimonia, piuttosto, l’ultimo disperato stratagemma di assicurare che il Luogo sacro c’è ancora. Il problema è che oggi, nel duplice movimento della mercificazione progressiva dell’estetica, e dell’estetizzazione delle merci, un oggetto bello (piacevolmente esteticamente) può sostenere sempre meno il Vuoto della Cosa – è come se, paradossalmente, l’unico modo per mantenere il Luogo (Sacro) sia di riempirlo di rifiuti e di escrementi. Gli artisti contemporanei che espongono escrementi come oggetti d’arte, lungi dall’indebolire la logica della sublimazione, in realtà si sforzano disperatamente di salvarla. Le conseguenze di questo collasso dell’elemento nel Vuoto del Luogo sono potenzialmente catastrofiche: infatti, senza uno scarto minimo tra l’elemento e il suo Luogo, non esiste ordine simbolico: cioè, noi dimoriamo dentro l’ordine simbolico solamente in quanto qualsiasi presenza appare contro lo sfondo della sua possibile assenza (questo è ciò a cui Lacan allude con il concetto del significante fallico come significante della castrazione: è un significante “puro”, il significante come tale, nella sua accezione più elementare, in quanto proprio la sua stessa presenza evoca la SUA STESSA possibile assenza/mancanza).

Forse la definizione più concisa della rottura modernista in campo artistico è proprio che, grazie ad essa, la tensione tra l’Oggetto (arte) e lo Spazio che esso occupa è considerata riflessivamente: ciò che fa di un oggetto un’opera d’arte non sono semplicemente le sue caratteristiche materiali, ma il luogo che occupa, il Luogo (sacro) del vuoto della Cosa. In altre parole, con l’arte modernista, si perde per sempre una certa innocenza: non possiamo più fingere di produrre oggetti che, in virtù delle proprie caratteristiche, cioè indipendentemente dallo spazio che occupano, “siano” opere d’arte. Per questa ragione, l’arte moderna si divide, fin dalle sue origini, proprio nei suoi due estremi, Malevič da un lato, Duchamp dall’altro. da una parte, l’enfatizzazione pura del vuoto che separa l’Oggetto dal suo Spazio (il Quadrato nero); dall’altra, l’esposizione di un oggetto quotidiano (una ruota di bicicletta) come opera d’arte, per dimostrare che l’arte non si fonda sulle qualità dell’opera d’arte, ma esclusivamente sullo Spazio che esso occupa, in modo che qualsiasi cosa, anche se è merda, possa “essere” un’opera d’arte se si trova nel Luogo giusto. E qualsiasi cosa venga fatta dopo la rottura modernista, anche se è un ritorno al falso neoclassicismo alla Arno Breker, è già “mediata” da questa rottura. Prendiamo un realista del XX secolo come Edward Hopper: ci sono almeno tre aspetti del suo lavoro che testimoniano questa mediazione. Primo, la ben nota tendenza di Hopper a dipingere paesaggi urbani di notte, soli, in stanze molto illuminate, visti dall’esterno attraverso una finestra (anche quando la finestra non è direttamente percepibile, il quadro è dipinto in modo tale che lo spettatore sia spinto a immaginare una cornice immateriale e invisibile che lo separa dagli oggetti raffigurati). Secondo, il modo in cui sono dipinti i suoi quadri e la sua tecnica iperrealista, producono nello spettatore un effetto di irrealtà, come se si stesse osservando qualcosa di onirico, spettrale, etereo, invece che comuni oggetti materiali (come l’erba bianca nei suoi quadri campestri). Terzo, il fatto che la serie di quadri raffiguranti sua moglie seduta in una stanza solitaria, fortemente soleggiata, mentre guarda attraverso una finestra aperta, sono percepiti come un frammento disarmonico di una scena globale, che necessita di un supplemento, che rimanda ad un invisibile spazio fuori campo, come il fotogramma di una sequenza cinematografica privo del suo contro-campo (e in effetti si può sostenere che questi quadri di Hopper siano già “mediati” dall’esperienza cinematografica).»*

* (S. Zizek, Il Trash sublime, Mimesis minima, Milano, 2013 pp. 33-37)

pittura Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years - 1915 to 1923 - to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, ...

Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years – 1915 to 1923 – to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, …

«Nell’arte di oggi il Reale NON ritorna anzitutto in guisa di scioccanti e brutali intrusioni di oggetti escrementizi, cadaveri mutilati, merda ecc. Questi oggetti, sono, sicuramente, fuori posto – ma perché possano esserlo, il posto (vuoto) deve essere già là, e questo posto è restituito dall’arte ‘minimalista’ a cominciare da Malevič. In questo risiede la complicità tra le due opposte icone del modernismo più estremo, il Quadrato nero su superficie bianca di Malevič e l’esibizione di Marcel Duchamp di oggetti ready-made come di opere d’arte. La nozione che è implicita nell’elevazione da parte di Malevič di un oggetto comune e quotidiano ad opera d’arte afferma che l’essere opera d’arte non è una proprietà inerente ad un oggetto; è invece l’artista stesso che appropriandosi dello (o piuttosto di OGNI) oggetto e sistemandolo in un posto determinato lo rende opera d’arte, ma del “dove”. E quello che la disposizione minimalista di Malevič fa è semplicemente di restituire – di isolare – questo luogo come tale, lo spazio vuoto (o cornice) che ha la proto-magica proprietà di trasformare qualsiasi oggetto che si trovi nel suo raggio in opera d’arte. In breve non esiste Duchamp senza Malevič: solo dopo che l’esercizio dell’arte isola il posto/cornice in quanto tale, svuotato di tutto il suo contenuto, si può indulgere nella procedura ready-made. Prima di Malevič, un originale sarebbe rimasto solo un originale, anche se esibito nella più rinomata galleria.
L’appropriazione di oggetti escrementizi fuori posto è strettamente correlata all’apparizione del posto privo di oggetto, dello spazio vuoto in quanto tale. Di conseguenza, il Reale nell’arte contemporanea ha tre dimensioni, che in qualche modo ripetono la triade di Immaginario-Simbolico-Reale all’interno del Reale. Il Reale è innanzitutto l’anamorfico scolorimento, l’anamorfica distorsione dell’immagine diretta della realtà – come un’immagine distorta, come una pura apparenza che “soggettivizza” la realtà oggettiva. Quindi, il Reale è come lo spazio vuoto, come una struttura, una costruzione che non è mai qui, direttamente esperita, ma che può essere solo retroattivamente costruita e presupposta come tale – il Reale come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’osceno. Quest’ultimo Reale, se isolato, è un mero feticcio la cui presenza affascinante e accattivamnte maschera il Reale strutturale nella stessa maniera in cui, nell’antisemitismo nazista, l’ebreo come l’Oggetto escrementizio è Il Reale che maschera l’insopportabile Reale “strutturale” dell’antagonismo sociale. – Queste tre dimensioni del reale risultano dai tre modi in cui è possibile acquisire una distanza rispettto alla realtà ordinaria: sottomettendo questa realtà alla distorsione anamorfica; introducendovi un oggetto che in essa non trova collocazione; sottraendo/cancellando tutto il contenuto (gli oggetti) della realtà, in modo che tutto ciò che rimane è lo stesso spazio vuoto in cui questi oggetti sono collocati.»**

** (S. Zizek, The Matrix, Mimesis, Milano-Udine, 2010 pp. 28-29)

Sul concetto di parallasse

The common definition of parallax is: the apparent displacement of an object (the shift of its position against a background), caused by a change in observational position that provides a new line of sight. The philosophical twist to be added, of course, is that the observed difference is not simply ‘subjective,’ due to the fact that the same object which exists ‘out there’ is seen from two different stations, or points of view. It is rather that […] an ‘epistemological’ shift in the subject’s point of view always reflects an ‘ontological’ shift in the object itself. Or, to put it in Lacanese, the subject’s gaze is always-already inscribed into the perceived object itself, in the guise of its ‘blind spot,’ that which is ‘in the object more than object itself,’ the point from which the object itself returns the gaze *

La definizione comune di parallasse è: lo spostamento apparente di un oggetto (lo spostamento della sua posizione rispetto a uno sfondo), causato da un cambiamento nella posizione di osservazione che fornisce una nuova linea di visione. La svolta filosofica da aggiungere, ovviamente, è che la differenza osservata non è semplicemente “soggettiva”, a causa del fatto che lo stesso oggetto che esiste “là fuori” è visto da due diverse stazioni o punti di vista. È piuttosto che […] uno spostamento “epistemologico” nel punto di vista del soggetto riflette sempre uno spostamento “ontologico” nell’oggetto stesso. O, per dirla in Lacanese, lo sguardo del soggetto è sempre-già inscritto nell’oggetto stesso percepito, nelle vesti del suo ‘punto cieco’, quello che è ‘nell’oggetto più che nell’oggetto stesso’, il punto da cui il oggetto stesso restituisce lo sguardo

* Zizek, S. (2006) The Parallax View, MIT Press, Cambridge, 2006, p. 17.

Il Reale parallattico

«Il “Reale” non è la disposizione effettiva, ma il nucleo traumatico di un antagonismo sociale che deforma la percezione dei membri della tribù della disposizione attuale delle case nel loro villaggio. Il reale è la X rimossa in base alla quale la nostra visione della realtà viene distorta anamorficamente, è al tempo stesso la Cosa a cui non si può accedere direttamente e l’ostacolo che impedisce questo accesso diretto, la Cosa che elude la nostra comprensione e lo schermo deformante che ci impedisce di cogliere la Cosa. Il definitiva, il reale è lo spostamento di prospettiva dal primo punto di osservazione al secondo. Pensiamo alla celebre frase di Adorno del carattere antagonista del concetto di società (quella individualista-nominalista anglosassone e quella organicista di Durkheim  della società come totalità che preesiste agli individui) appare irriducibile e sembra di avere a che fare con una vera antinomia kantiana che non può essere risolta tramite una “sintesi dialettica superiore e che eleva la società a una Cosa-in sé inaccessibile. Ad un secondo approccio, però, bisognerebbe notare come questa antinomia radicale che sembra precludere ogni accesso alla Cosa sia già la Cosa stessa: la caratteristica fondamentale della società di oggi è l’antagonismo inconciliabile tra il Tutto e l’individuo. Ciò significa che in fondo lo statuto del Reale è puramente parallattico e, in quanto tale, non sostanziale: non ha densità sostanziale di per sé, è solo uno scarto tra due punti prospettici, percepibile solo nello spostamento da un punto all’altro. Il Reale parallattico si contrappone così alla tradizionale nozione (lacaniana) del Reale come ciò che “ritorna sempre al suo posto”, come ciò che in tutti gli universi (simbolici) possibili rimane costante: il Reale parallattico è piuttosto ciò che rende conto della moltitudine di manifestazioni della stesso Reale sottostante».*

(da The Parallax View, 2006, trad. it. La visione di parallasse, il melangolo, 2013, pp. 41-42)

Žižek, Slavoj. – Filosofo e psicoanalista sloveno (n. Lubiana 1949). Tra i più importanti e incisivi pensatori contemporanei, docente di Filosofia e psicoanalisi all’European graduate school (Svizzera) e visiting professor presso numerosi atenei europei e statunitensi, muovendosi dalle teorie lacaniane ha sottoposto a una serrata revisione critica conflitti e contraddizioni della contemporaneità per come essi emergono dai modelli culturali proposti dalla letteratura popolare e dal cinema; di quest’ultimo ha indagato il gioco di sguardi incrociati tra autore, spettatore e oggetti in Gaze and voice as love objects (2004; trad. it. Dello sguardo e altri oggetti. Saggi su cinema e psicoanalisi, 2004), analizzandone il ruolo di strumento di formazione del desiderio e dedicando approfonditi saggi al lavoro di singoli registi – quali In his bold gaze my ruin is writ large (1992; trad. it. L’universo di Hitchcock, 2008), The fright of real tears, Kieslowski and the future (2001; trad. it. Paura delle lacrime vere. Krzysztof Kieslowski fra teoria e post-teoria, 2010), The art of the ridiculous sublime. On David Lynch’s lost highway (2000; trad. it. Lynch. Il ridicolo sublime, 2011). Pensatore a tutto campo, in anni più recenti Z. ha esteso la sua analisi a temi politici e sociali quali la guerra in Iraq (Iraq. The borrowed kettle, 2004; trad. it. 2004), la crisi del marxismo (First as tragedy, then as farce, 2009; trad. it. 2010), e dei modelli di sviluppo contemporanei (Living in the end times, 2010; trad. it. 2011). Autore estremamente prolifico, tra i suoi saggi più recenti occorre citare almento Less than nothing. Hegel and the shadow of dialectical materialism (2012; trad. it. 2013); The year of dreaming dangerously (2012; trad. it. 2013); Žižek’s jokes (Did you hear the one about Hegel and negation?) (2014; trad. it. 107 storielle di Žižek (La sai quella su Hegel e la negazione?), 2014); Islam and modernity. Some blasphemic reflexions (2015; trad. it. 2015); entrambi nel 2017, The courage of hopelessness: chronicles of a year of acting dangerously (trad. it. 2017) e Disparities (trad. it. 2017); Like a thief in broad daylight (2018; trad. it. 2019); nel 2020 la raccolta di articoli Virus, catastrofe e solidarietà e Pandemic! Covid-19 shakes the worldHegel in a wired brain (2020; trad. it. Hegel e il cervello postumano, 2021); Heaven in disorder (2022; trad. it. Guida perversa alla politica globale, 2022). Nel 2017 il filosofo è stato insignito del Premio Hemingway per “l’avventura del pensiero”. (Treccani)

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Il Capitale, per la legge della riproduzione allargata, ha bisogno di reinventare se stesso ogni giorno in modo nuovo; il capitalismo cognitivo di oggi ha assunto a tempo pieno e indeterminato lo sperimentalismo delle post-avanguardie e lo ha messo a reddito, a produrre un plus di reddito, Poesie kitchen di Tiziana Antonilli, Mimmo Pugliese, Francesco Paolo Intini, La poiesis non ha più alcuno spazio di manovra e di resilienza, neanche residuale ed epigonico; deve, se vuole superare il fosso, saltare il guado, andare sulla sponda opposta del futuro. La nuova poesia nasce soltanto andando verso il futuro, facendo un «salto» e uno «scatto» verso il futuro, mettendo tra parentesi il passato, la tradizione

Il modo di raccontare di Alfonso Cataldi parte da due personaggi reali: il figlio di sette anni e il venditore ambulante sulla spiaggia Joaquim; lo storytelling ha dunque una base di realtà ma il procedimento poetico non è mimetico, si allontana dalla mera mimesis per approdare, in modo personalissimo, ad uno storytelling in modalità kitchen. Il risultato è di ragguardevole originalità. L’ho detto molte volte che la poetry kitchen è una serie di modalità kitchen, non c’è un modello o un ombrello di realismo o di irrealismo, tantomeno il kitchen è una scuola di poiesis, il supermoderno ha messo fuori gioco e fuori campo tutte le idee di poesia racconto che abbiamo conosciuto nel secondo novecento e che sono finite con l’ultimo storytelling di Pierluigi Bacchini, lo storytelling di un mondo vegetale disertato dagli umani. Tutte quelle categorie e mini categorie che sono state impiegate nel tardo novecento: il mini canone, la poesia ottica, mnestica, memoriale, elegiaca, antielegiaca, neoorfica, adamitica, sperimentale, quotidianista etc. si sono rivelate di scarso peso e di scarsissimo orizzonte teorico e poietico.

Il fatto è che non c’è più nulla di sperimentale nel mondo di oggi perché tutto è diventato sperimentale, ogni branca di attività segue il marchio di fabbrica dello sperimentalismo, il Capitale, per la legge della riproduzione allargata, ha bisogno di reinventare se stesso ogni giorno in modo nuovo; il capitalismo cognitivo di oggi ha assunto a tempo pieno e indeterminato lo sperimentalismo delle post-avanguardie e lo ha messo a reddito, a produrre un plus di reddito; dirò di più (e questo lo dico ai giovani come Davide Galipò che pensano ancora in termini di neosperimentalismo e di post-avanguardia), lo sperimentalismo è oggi divenuto un ideologema, una stampella di sostegno del mercato che ogni giorno deve sperimentare nuove forme-merce, nuove parole d’ordine, nuovi cliché, nuovi apparati. Nelle nuove condizioni del capitalismo glocale e globale di oggi, come ha bene indicato Byung-Chul Han in Psicopolitica, la poiesis non ha più alcuno spazio di manovra e di resilienza, neanche residuale ed epigonico; deve, se vuole superare il fosso, saltare il guado, andare sulla sponda opposta del futuro. La nuova poesia nasce soltanto andando verso il futuro, facendo un «salto» e uno «scatto» verso il futuro, mettendo tra parentesi il passato, la tradizione e la sua storia ideologicaAncora è da fare il progetto agambeniano della Storia d’Italia attraverso la storia delle sue categorie, le categorie a saperle leggere e individuare, rivelano sempre il lato in ombra della storia culturale e politica del Paese..

(Giorgio Linguaglossa)

Tiziana Antonilli

Il figlio

Il figlio in Erasmus aveva perso i pantaloni negli incendi d’Australia.
Le certificazioni Cambridge sudano sulla pancia.
Flora piangeva per le lingue intrecciate in deroga.
Lui nascose nella toilette dell’aereo
i panni sporchi rifiutati dalla lavatrice di casa.

Chiusure

Un’incursione di panda ha contaminato la biglietteria.
Un pioppo divelto continua a piangere fiocchi di neve.
Il viale tornato pulito è stato acquistato dalle pompe funebri.
Ognuno ha masticato la brochure per non intasare
il sistema fognario del Comune.

Freddo

Il borsone era una pera farcita.
Con la panchina il mattino giocava a dama
ma nessuno si è fermato.
A notte fonda la coperta si trascinò in un bar
e partorì sul pavimento un lombrico viola.

Mimmo Pugliese
29 novembre 2022 alle 12:00

Gatti e pavoni

Gatti nelle steppe tengono per mano arance
vele schiacciano briciole sul cartongesso
un trattore elettrico scuote alberi di catrame
nel garage del Colosseo
hanno profili di melagrana le donne gitane
i fucili degli argonauti ululano alla serotonina
l’abilità dei licheni persuade l’inviato speciale
il pollice di Robin Hood è depresso
no, è vivo! fa la corte alla glottide
gli acini non si radono da tempo
il gallo allude
gladiatori contaminano l’olio di oliva
gli apostrofi corrono in salita
dalla punta dell’Adriatico si vede Stonehenge
il bonus casa telefona alla luna
il cerume soffre di insonnia
Paperone starnutisce ai pavoni

a proposito del «noi»

Non ci resta che uscire definitivamente dalla forbice concettuale tipica delle avanguardie e della politica leninista del novecento: distruzione/costruzione, avanguardia/retroguardia, élite/massa, classe borghese/classe subalterna, egemonizzati/omogeneizzati, apocalittici e/o integrati. In realtà siamo tutti diventati egemonizzati e omogeneizzati, eterni subalterni, mediatizzati e mitridatizzati, integrati nell’apocalisse e nell’apocope; siamo tutti diventati dipendenti delle apocope,* siamo scomparsi (deleted) e al nostro posto c’è una virgoletta, lassù, in alto. È l’epoca dello sdoganamento del nucleare facile e prêt-à-porter. Mi si dirà che sono un pessimista: forse che sì forse che no, non c’è altra via di uscita dallo standard della merce (la merce non rivela mai il suo arcano di feticcio) e dei prodotti culinari quali sono diventati i feticci «artistici». In queste condizioni la nuova fenomenologia del poetico e la poetry kitchen sono l’unica via (molto stretta, un vero e proprio collo di bottiglia) che può perseguire la poiesis oggi nel nuovo mondo semi globale e semi glocale, un mondo parallattico, nella accezione che ne dà Slavoj Žižek.

*apocope /a·pò·co·pe/ : sostantivo femminile – Caduta della vocale finale di una parola ed eventualmente anche della consonante che la precede: ‘san’ da santo; da non confondersi con l’elisione, che si ha quando la vocale finale cade solo davanti ad altra vocale. In enigmistica, amputazione.

(g.l.)

 

Francesco Paolo Intini
1 dicembre 2022 alle 22:37 
“Se un matematico è una macchina per trasformare caffè in teoremi” (Paul Erdos), cosa è un poeta? 

Il caffè crede di rimanere in tema.
Non immagina la iena che azzanna dal duodeno.

In una jeep, un grizzly
il cui unico piacere è spalmare dolore su un würstel.

Oh, il corso d’opera del distinguo sul mangiare
La misura? La sesta non copre i capezzoli.

Ma un buon caffè merita il paradiso solo a sentirlo discutere con l’aria.
-Tu hai gambe grasse per star fermo e riflettere, io ci tengo allo jogging tutte le mattine
Un fruscio qui, uno là e le malve si saziano, persino un’agave sorride
E parla di calcio, omettendo tristezze.

La debacle degli ammogliati è stato un disastro.
Speriamo l’anno prossimo. Qui tra pali del telegrafo
Non c’è modo di trovare un cent di allegria
L’ultimo Morse partì per l’Australia ma tornò vestito da poeta
Con un lenzuolo nell’obitorio e le ceneri sotto braccio.

Che serve fasciarsi di ridicolo in Parlamento?

I granchi intanto si affacciano al tema.
-È una palestra per soli scapoli. La tendina nasconde il cabaret “Allo scoglio”.
Una palla al centro si trova sempre.
Basta guardare giù in fondo e afferrare una coda di rospo.

La tv viene a galla
con i polpi attaccati ai raggi fiammanti

Un cormorano risale deluso:
c’è noia tra i programmi della lavastoviglie
E per giunta il fritto di alici ha ripreso a guizzare
Anche se rimase stecchito a gambe in su.

Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  NATOMALEDUE” è in preparazione. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, Calabria Letteraria-Rubbettino Editore, una raccolta di n. 36 poesie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Tiziana Antonilli ha pubblicato le raccolte poetiche Incandescenze (Edizioni del Leone), Pugni e humus (Tracce). Ha vinto il premio Eugenio Montale per gli inediti ed è stata inserita nell’antologia dei vincitori “7 poeti del Premio Montale” (Scheiwiller). Tre sue poesie sono entrate a far parte di altrettanti spettacoli teatrali allestiti dalla compagnia Sted di Modena. Il suo racconto “Prigionieri” ha vinto il Premio Teramo. Ha pubblicato il romanzo Aracne (Edizioni Il Bene Comune) e la raccolta di poesie Le stanze interiori (Progetto Cultura, 2018). Insegna lingua e letteratura inglese presso il Liceo Linguistico “Pertini” di Campobasso.

 

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Poesie scritte in tempo di guerra, Il soggetto postedipico è diventato un soggetto serendipico, Poesia di Giorgio Linguaglossa, Il misuratore delle ombre, Antonio Sagredo, Poesia mostruosa, Francesco Paolo Intini, Grizzly, Mauro Pierno, Marie Laure Colasson, La macchia, due strutture dissipative, 50×50, 2020, L’arte sopraffina e peculiarissima di Francesco Intini è l’analogo delle contorsioni di una contorsionista maghrebina che una volta vidi al Circo Togni, la signorina si chiudeva dentro una valigetta 24 ore (o quasi) e poi ne usciva indossando dei tacchi a spillo e fumando una sigaretta, Io ero esterrefatta

Marie Laure Colasson Ordo Rerum Struttura dissipativaMarie Laure Colasson, La Macchia, 50×50 cm acrilico, 2020
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La macchia è la «materia-immagine» della disintegrazione, l’idea della de-figurazione stessa del soggetto e dell’oggetto nel testo, tanto che a realizzare opere di de-figurazione attraverso una lingua-corpo è stato anche il già Antonin Artaud, in testi e disegni dove la de-figurazione non è una banale lacerazione sanguinante né un puro e semplice annientamento della figura. Al contrario, essa è la forza di destabilizzazione che intacca la figura, la forza che mette la figura in movimento e le imprime una rotazione vertiginosa, un ilinx, che è la risposta alla percezione che vede germinare sciami di corpuscoli e striature laddove dovrebbe esistere un solo volto, una sola riconoscibile figura. Ci sono in atto delle forze, invisibili alla percezione quotidiana, che minano alle fondamenta la figuralità della immagine e la distorcono in macchia abnorme. Si tratta delle forze storiche della de-figurazione che agiscono nel profondo dell’inconscio del capitalismo cognitivo e dell’inconscio di ogni individuo, esse sono in azione da un bel pezzo, sono le forze della de-valorizzazione e della de-figurazione.

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Marie Laure Colasson Struttura Dissipativa B 2020

[Marie Laure Colasson, La macchia, Struttura dissipativa, acrilico, 50×50, 2020]
Sostiene Lacan che nel campo scopico lo sguardo è all’esterno, io sono guardato, cioè sono quadro, il soggetto non coincide più come voleva Cartesio, con il punto geometrale a partire da cui si prende la prospettiva sulle cose, ma vive l’esperienza spaesante di essere in qualche modo oggettivato da uno sguardo altro, ridotto ad oggetto che “fa macchia” nel quadro: siamo presi dentro il quadro, e la vanitas, che credevamo riguardasse solo ciò che è rappresentato nel quadro, si rivela invece essere già da sempre anche la nostra, “che ci ri-guarda proprio dal punto impossibile, il fuori quadro nel quadro, che è lo sguardo come oggetto a”
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Giorgio Linguaglossa

Il soggetto postedipico è diventato un soggetto serendipico

Chiunque legga una poesia kitchen si accorge che qualcosa come una violenta mega esplosione è avvenuta all’interno del linguaggio, uno shock di inaudite dimensioni, un trauma gigantesco: Il Collasso dell’ordine simbolico ha trascinato con sé il Collasso dell’ordine del significante. Il che implica che quel soggetto (scabroso) che era il punto principiale e terminale della catena significante, ha fatto fiasco, e con esso fiasco è andato al macero quella antica metafisica che era, tutto sommato, rassicurante, ospitale, che va da Giovanni Pascoli di Miricae (1891) a Franco Fortini di Composita solvantur (1994). L’io del romanzo e del poetico si è trovato, si è scoperto essere nient’altro che un involucro vuoto che attende dei riempitivi per apparire significante di nuovo.
La NOe e la poetry kitchen nascono quando si inizia a distinguere chiaramente questo gigantesco iceberg che sbarra la navigazione ad ogni tipo di enunciato dotato di senso. A quel punto è andato al macero anche la catena del significante e la serie sintagmatica dei significanti che costituiscono gli enunciati dotati di senso e di significato. Con la guerra di aggressione all’Ucraina ciò appare ovvio: quel linguaggio  infarcito di ideologemi e di falsa coscienza, non si può più adottare.
Il soggetto postedipico è diventato un soggetto serendipico. Il Nome-del-Padre è diventato il Nome-di-Nessuno.

Francesco Paolo Intini

Che dire?
Da quando è iniziata questa guerra leggo quanto posso e ascolto i Tg, i talk show che si susseguono sulle reti, ascolto tutti e tutte. Ci sto mettendo passione per riuscire a capire cos’è che mi spaventa. Per qualche tempo ho pensato ai neutroni trattenuti nelle testate nucleari, costretti a stare buoni e non invadere nessun altro territorio. Devo confessare di aver persino sognato che facessero squadra e si mettessero in sciopero se qualcuno avesse pestato il tasto sbagliato. Ma i neutroni escono volentieri anche dalle mie fantasticherie. Devono berci sopra per non sentirsi schiavi di un impulso di morte. Piccoli kamikaze in picchiata libera sulle portaerei di grossa stazza. Botte a destra e a manca per ricavare una cattivissima reputazione. Che soddisfazione c’è a distruggere quello che capita?
Dopotutto sono solo fantasie mie che non stanno in cielo né in terra. Piuttosto penso a come un linguaggio combatta con un altro che vuol essere di segno opposto. A come l’uno sia incompatibile con l’altro ma provi comunque a vincere. Già, anche alcune parole sembrano votate all’auto distruzione. GUERRA, VINCERE, ARRENDERSI, COMPROMESSO, PACE, RESISTENZA, EROE etc appartengono a vocabolari ormai inservibili come i carri armati sulla via di Kiev. Dovremmo farne a meno o al massimo usarle per un selfie con la famiglia. Siamo in presenza di un tentata fissione della realtà in due parti. Dove l’una è Propaganda e l’altra è Verità. Non vale girare la testa di qua e di là sperando in questo o quello. La partita a ping pong si trasforma facilmente in una di calcio e quindi di rugby con molossi sulle curve, grandi come portaerei a suonarsele di buona ragione.
Non ce n’è nemmeno per gli arbitri. Spesso si finisce impiccati a una traversa solo per aver soffiato nel fischietto sbagliato con su scritto la parola “PACE” e chissà quando un santo verrà a mettere la buona parola.
Fino a quando insomma l’assurdo si travestirà di senso? Ogni guerra è assurda e meriterebbe una trattazione profonda delle ragioni che l’hanno scatenata. Occorrerebbe farne una dimostrazione matematica e insegnarla alla prima elementare con la pallottoliera del due più due. In una atmosfera surriscaldata dal lutto invece ogni frase è sospetta e deve fare un giro di scongiuri e rituali magici, pronunciare parole d’ordine per farsi aprire la porta dell’amico e farsi accettare senza che si sospetti di parteggiare per la parte sbagliata.
In tutto questo quale tipo di attacco può avere l’armata di parole di uno che starebbe solo nelle scarpe di Charlot e il suo grande dittatore?
E certo non è edificante vedere Arlecchino passare alle vie di fatto per convincere la platea che sta agendo e pensando seriamente. La risposta passa per il linguaggio tra panzer in fase di annichilimento reciproco ma anche per quello che c’è di tragico e marcio in un buffone disposto a uccidere migliaia di persone per dimostrare la sua versione di verità: DUE PI§ DUE FA CINQUE.
Nascono raggi gamma che accecano d’odio ma da cui, grazie a Dio, il linguaggio poetico prova a liberarsi con l’arma del ridicolo, dell’ironia, della caricatura e della strombazzatura. Credo che questo avvenga per vocazione allo smascheramento da parte del bambino che addita la nudità di re ed eroi di ogni genere. Un Omero piccolo piccolo che veste Achille con le armi di Fantozzi ed Ettore con quelle di Filini impegnati in una gita di fine agosto intorno a un trullo di Alberobello.

*

«tutti gli spettri metafisici emergono dagli antagonismi della vita reale». (Slavoj Žižek) 1

(Giorgio Linguaglossa)

1 S. Žižek  op. cit. p. 562

Giorgio Linguaglossa

Il misuratore delle ombre uscì dalla Cadillac nera

I

Il misuratore delle ombre uscì dalla Cadillac nera
parcheggiata sotto gli alberi
Il Mago Woland tirò fuori dal cilindro il Signor Putler in giacca e cravatta
il quale prese a tossire e a friggere
«È libera quella sedia?
Posso sedermi? È da tanto che sono in viaggio.
Ingehaltenheit in das Nicht»,
disse senza colpo ferire, aggiungendo la seguente postilla:
«Se in una poesia appare una bianca geisha,
non resta che contemplarla»

II

È arrivato finalmente il misuratore delle ombre
È entrato nella stanza con un metro pieghevole
Il letto era incassato nella parete
Ha preso le misure del letto, del lampadario, dei comodini, dell’appendiabiti
con le giacche del Signor Linguaglossa
Una torcia elettrica brillava nell’angolo dietro l’armadio
I bagagli erano tutti aperti, c’era della biancheria e delle scatole di medicinali
Il Signor K. si è accomodato sulla sedia dipinta in rosso
proprio di fronte al letto

«Una overdose di Remdesivir la si può prendere ad Abukir»
«Composizione per pantofole e violino»
«Infilare le pallottole nel pallottoliere»
«Spruzzare del borotalco»
«B. è un venditore di pentole, kitsch maleodorante disinfettato col deodorante»
«Sa, Linguaglossa, se in un romanzo compare una pistola, occorre che spari».
disse K.
« Sì, lo so, è incredibile: il Signor Putler e il Signor Salvini una volta erano dei bambini»,
replicai senza convinzione

III

Lafcadio, lo pseudo mulier, prese a tossire
si affacciò alla finestra
Mr. Humble si tolse gli occhiali di tartaruga mentre parlava fitto
Il bicchiere giallo era posato sul tavolo del tinello dipinto in verde
Il vento spazzava via i ricordi.

«È stato testato dal Signor Putler un budino all’isotopo di polonio in grado di abbattere in un sol colpo una intera brigata aviotrasportata della Nato»,
disse lo scrittore Gombrowicz che in quel momento aveva fatto ingresso dalla porta girevole nella hall dell’Hotel Excelsior di Budapest

Mauro Pierno Continua a leggere

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Da Malevic a Edward Hopper, Il Trash sublime, Riflessione di Slavoj Zizek, Poetry kitchen di Francesco Paolo Intini, Alfonso Cataldi, Lucio Mayoor Tosi, Esercizi serendipici di Gino Rago, Commenti di Jacopo Ricciardi

Locandina San Basile
tweet con versi di Francesco Paolo Intini

   Slavoj Žižek

Il Trash sublime

«… nell’arte contemporanea il margine che separa lo spazio consacrato del bello sublime dallo spazio escrementizio del trash (i rifiuti), si sta gradualmente assottigliando fino ad arrivare ad una paradossale identità degli opposti: i moderni oggetti artistici sempre più escrementizi, trash (spesso in senso esattamente letterale: feci, corpi in putrefazione, ecc.) non sono forse esibiti per – fatti al fine di, destinati a riempire – il LUOGO Sacro della Cosa? Non è forse questa identità la “verità nascosta” dell’intero movimento? Qualsiasi elemento che reclami di diritto di occupare il Luogo Sacro della Cosa non è forse un oggetto escrementizio per definizione, un rifiuto che non può mai essere “all’altezza del suo compito”? Questa identità della definizione degli opposti (l’elusivo oggetto sublime e/o il rifiuto escrementizio) con la minaccia sempre presente che l’uno sconfinerà nell’altro, che il sublime Graal si rivelerà essere un pezzo di merda, è iscritta proprio nel nocciolo dell’objet petit a lacaniano.

Questa impasse è, nella sua dimensione più radicale, l’impasse che influisce sul processo di sublimazione, non tanto nel senso che la produzione artistica non sia più oggi capace di realizzare oggetti semplicemente “sublimi”, quanto in un senso molto più radicale. Si può affermare, infatti, che lo schema fondamentale della sublimazione – quella del Vuoto centrale, dello Spazio vuoto (“Sacro”) della Cosa esonerata dal circuito dell’economia quotidiana, che viene infine riempito da un oggetto positivo che è “elevato alla dignità della Cosa” (definizione lacaniana della sublimazione) – è sempre più minacciato. Ciò che qui è minacciato è proprio lo scarto tra il Luogo Vuoto e l’elemento (positivo) che lo riempie. Quindi, se il problema dell’arte tradizionale (pre-moderna) era quello di riempire il sublime vuoto della Cosa (il Luogo puro) con un oggetto bello – ossia come riuscire ad elevare efficacemente un oggetto comune alla dignità della Cosa – il problema dell’arte moderna è, in un certo senso, quello opposto (e molto più disperato): non si può più contare sul fatto che il Luogo sacro sia lì, pronto per essere occupato dai manufatti umani; perciò il compito è di sostenere il Luogo come tale, per assicurarci che questo stesso luogo “avrà luogo”. In altre parole, il problema non è più quello dell’horror vacui, riempire il Vuoto, ma piuttosto quello, innanzitutto, di CREARE il Vuoto. Diventa, perciò, cruciale la co-dipendenza tra un luogo vuoto, non occupato, e un oggetto elusivo che si muove rapidamente, un occupante senza un posto?

Il punto è che c’è semplicemente il surplus di un elemento rispetto agli spazi disponibili nella struttura, o il surplus di un posto che non ha alcun elemento che lo occupi; infatti, un posto vuoto nella struttura sostiene la fantasia di un elemento che presto o tarsi lo colmerà, mentre un elemento eccedente senza posto sostiene la fantasia di un luogo ancora sconosciuto che lo attende. Il punto è invece che il posto vuoto nella struttura è in se stesso correlativo all’elemento eccedente che manca al suo posto: essi non sono due entità diverse, ma il diritto e il rovescio di un’identica entità, quell’una e medesima entità che si iscrive nelle due superfici del chiasma di Moebius. In altre parole, il paradosso è che soltanto un elemento che è completamente “fuori luogo” (un escremento, un rifiuto o uno scarto) può reggere il vuoto di un luogo vuoto – cioè la situazione à la Mallarmè, in cui “nulla, tranne il luogo avrà luogo”; nel momento in cui questo elemento eccedente “trovasse il posto giusto”, non ci sarebbe più nessuno Luogo puro distinto dagli elementi che lo riempiono.

Ed effettivamente, come suggerisce Gerard Wajcman il grande sforzo dell’arte moderna non è proprio quello di mantenere la struttura minima della sublimazione, uno scarto impercettibile tra il Luogo e l’elemento che lo riempie? Non è questa la ragione per cui il Quadrato nero su Fondo Bianco di Kazimir Malevič riduce il meccanismo artistico alle sue componenti essenziali, alla mera distinzione tra il Vuoto (lo sfondo, la superficie bianca) e l’elemento (la macchia del quadrato)? Dovremmo cioè sempre ricordare che il tempo verbale stesso (il futuro anteriore) del famoso rien n’aura eu lieu que le lieu (“nulla avrà avuto luogo se non il luogo stesso”) chiarifica che abbiamo a che fare con uno stato utopico il quale, per ragioni strutturali a priori, non può realizzarsi nel presente (non ci sarà mai un tempo presente in cui “solo il luogo stesso avrà luogo”). Non è semplicemente che il Luogo conferisca all’oggetto che lo occupa una dignità sublime; è che soltanto la presenza dell’oggetto sostiene il Vuoto del Luogo sacro, ma sarà sempre qualcosa che, retroattivamente, “avrà avuto luogo” dopo esser stato intralciato da un elemento positivo. In altre parole, se sottraiamo dal Vuoto l’elemento positivo, “il piccolo pezzettino di realtà”, la macchia eccedente che disturba l’equilibrio, non otteniamo il puro Vuoto equilibrato come tale; il Vuoto stesso, piuttosto, scompare, non è più lì.

Perciò il motivo per cui gli escrementi sono elevati al rango di opera d’arte, utilizzati per colmare il Vuoto della Cosa, non è semplicemente quello di mostrare come “anything goes – qualsiasi cosa va bene”, come l’oggetto sia, in definitiva, indifferente, dal momento che qualsiasi oggetto può essere elevato ad occupare il Luogo della Cosa: questo ricorrere agli escrementi testimonia, piuttosto, l’ultimo disperato stratagemma di assicurare che il Luogo sacro c’è ancora. Il problema è che oggi, nel duplice movimento della mercificazione progressiva dell’estetica, e dell’estetizzazione delle merci, un oggetto bello (piacevolmente esteticamente) può sostenere sempre meno il Vuoto della Cosa – è come se, paradossalmente, l’unico modo per mantenere il Luogo (Sacro) sia di riempirlo di rifiuti e di escrementi. Gli artisti contemporanei che espongono escrementi come oggetti d’arte, lungi dall’indebolire la logica della sublimazione, in realtà si sforzano disperatamente di salvarla. le conseguenze di questo collasso dell’elemento nel Vuoto del Luogo son potenzialmente catastrofiche: infatti, senza uno scarto minimo tra l’elemento e il suo Luogo, non esiste ordine simbolico: cioè, noi dimoriamo dentro l’ordine simbolico solamente in quanto qualsiasi presenza appare contro lo sfondo della sua possibile assenza (questo è ciò a cui Lacan allude con il concetto del significante fallico come significante della castrazione: è un significante “puro”, il significante come tale, nella sua accezione più elementare, in quanto proprio la sua stessa presenza evoca la SUA STESSA possibile assenza/mancanza).

Forse la definizione più concisa della rottura modernista in campo artistico è proprio che, grazie ad essa, la tensione tra l’Oggetto (arte) e lo Spazio che esso occupa è considerata riflessivamente: ciò che fa di un oggetto un’opera d’arte non sono semplicemente le sue caratteristiche materiali, ma il luogo che occupa, il Luogo (sacro) del vuoto della Cosa. In altre parole, con l’arte modernista, si perde per sempre una certa innocenza: non possiamo più fingere di produrre oggetti che, in virtù delle proprie caratteristiche, cioè indipendentemente dallo spazio che occupano, “siano” opere d’arte. Per questa ragione, l’arte moderna si divide, fin dalle sue origini, proprio nei suoi due estremi, Malevič da un lato, Duchamp dall’altro. da una parte, l’enfatizzazione pura del vuoto che separa l’Oggetto dal suo Spazio (il Quadrato nero); dall’altra, l’esposizione di un oggetto quotidiano (una ruota di bicicletta) come opera d’arte, per dimostrare che l’arte non si fonda sulle qualità dell’opera d’arte, ma esclusivamente sullo Spazio che esso occupa, in modo che qualsiasi cosa, anche se è merda, possa “essere” un’opera d’arte se si trova nel Luogo giusto. E qualsiasi cosa venga fatta dopo la rottura modernista, anche se è un ritorno al falso neoclassicismo alla Arno Breker, è già “mediata” da questa rottura. Prendiamo un realista del XX secolo come Edward Hopper: ci sono almeno tre aspetti del suo lavoro che testimoniano questa mediazione. Primo, la ben nota tendenza di Hopper a dipingere paesaggi urbani di notte, soli, in stanze molto illuminate, visti dall’esterno attraverso una finestra (anche quando la finestra non è direttamente percepibile, il quadro è dipinto in modo tale che lo spettatore sia spinto a immaginare una cornice immateriale e invisibile che lo separa dagli oggetti raffigurati). Secondo, il modo in cui sono dipinti i suoi quadri e la sua tecnica iperrealista, producono nello spettatore un effetto di irrealtà, come se si stesse osservando qualcosa di onirico, spettrale, etereo, invece che comuni oggetti materiali (come l’erba bianca nei suoi quadri campestri). Terzo, il fatto che la serie di quadri raffiguranti sua moglie seduta in una stanza solitaria, fortemente soleggiata, mentre guarda attraverso una finestra aperta, sono percepiti come un frammento disarmonico di una scena globale, che necessita di un supplemento, che rimanda ad un invisibile spazio fuori campo, come il fotogramma di una sequenza cinematografica privo del suo contro-campo (e in effetti si può sostenere che questi quadri di Hopper siano già “mediati” dall’esperienza cinematografica).»*

«Nell’arte di oggi il Reale NON ritorna anzitutto in guisa di scioccanti e brutali intrusioni di oggetti escrementizi, cadaveri mutilati, merda ecc. Questi oggetti, sono, sicuramente, fuori posto – ma perché possano esserlo, il posto (vuoto) deve essere già là, e questo posto è restituito dall’arte ‘minimalista’ a cominciare da Malevič. In questo risiede la complicità tra le due opposte icone del modernismo più estremo, il “Quadrato nero su superficie bianca” di Kazimir Malevič e l’esibizione di Marcel Duchamp di oggetti ready-made come di opere d’arte. La nozione che è implicita nell’elevazione da parte di Malevic di un oggetto comune e quotidiano ad opera d’arte afferma che l’essere opera d’arte non è una proprietà inerente ad un oggetto; è invece l’artista stesso che appropriandosi dello (o piuttosto di OGNI) oggetto e sistemandolo in un posto determinato lo rende opera d’arte, ma del “dove”. E quello che la disposizione minimalista di Malevič fa è semplicemente di restituire – di isolare – questo luogo come tale, lo spazio vuoto (o cornice) che ha la proto-magica proprietà di trasformare qualsiasi oggetto che si trovi nel suo raggio in opera d’arte. In breve non esiste Duchamp senza Malevič: solo dopo che l’esercizio dell’arte isola il posto/cornice in quanto tale, svuotato di tutto il suo contenuto, si può indulgere nella procedura ready-made. Prima di Malevič, un originale sarebbe rimasto solo un originale, anche se esibito nella più rinomata galleria.
L’appropriazione di oggetti escrementizi fuori posto è strettamente correlata all’apparizione del posto privo di oggetto, dello spazio vuoto in quanto tale. Di conseguenza, il Reale nell’arte contemporanea ha tre dimensioni, che in qualche modo ripetono la triade di Immaginario-Simbolico-Reale all’interno del Reale. Il Reale è innanzitutto l’anamorfico scolorimento, l’anamorfica distorsione dell’immagine diretta della realtà – come un’immagine distorta, come una pura apparenza che “soggettivizza” la realtà oggettiva. Quindi, il Reale è come lo spazio vuoto, come una struttura, una costruzione che non è mai qui, direttamente esperita, ma che può essere solo retroattivamente costruita e presupposta come tale – il Reale come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’osceno. Quest’ultimo Reale, se isolato, è un mero feticcio la cui presenza affascinante e accattivamnte maschera il Reale strutturale nella stessa maniera in cui, nell’antisemitismo nazista, l’ebreo come l’Oggetto escrementizio è Il Reale che maschera l’insopportabile Reale “strutturale” dell’antagonismo sociale. – Queste tre dimensioni del reale risultano dai tre modi in cui è possibile acquisire una distanza rispettto alla realtà ordinaria: sottomettendo questa realtà alla distorsione anamorfica; introducendovi un oggetto che in essa non trova collocazione; sottraendo/cancellando tutto il contenuto (gli oggetti) della realtà, in modo che tutto ciò che rimane è lo stesso spazio vuoto in cui questi oggetti sono collocati.»**

* S. Žižek, Il Trash sublime, Mimesis minima, (Milano-Udine), 2013 pp. 33-37
** S. Žižek, The Matrix, Mimesis minima, (Milano-Udine), 2010 pp. 28-29

Alfonso Cataldi

Invisibili

Manca il pane fresco sulla linea di porta
la Var ha deciso l’espulsione dei fornai di zona.

Il grano è in ostaggio negli spogliatoi
«Un sacrificio necessario per salvaguardare le coreografie dentro e fuori lo stadio.»

Le coppie di youtuber sorrisetti fissi lei strilloni lui
fatturano l’identità di Giacomo annoiata sul divano.

Cambiano i lavori, cambiano i nerd.
Il coding ha attecchito tra i frutteti dell’entroterra, lungo i terrazzamenti.

La CGIL ha paura dei tornanti stretti che finiscono nel bosco
Il bosco non tradisce e non fa scherzi.

A Bergeggi le meduse intrattenevano i turisti a riva
nelle retrovie gli inservienti su e giù lungo la spiaggia faticavano ad attirare l’attenzione.

(10/08/2022)

Gino Rago

Esercizi serendipici
*
Mostra esistenzialista
John Cage suona il flauto del filosofo Empedocle mentre sulla ventunesima stella piove a dirotto.
*

Fuga da Alcatraz
Il vespasiano in Via dei Dauni aspetta la fine dei fuochi artificiali.

*
Gabbia psicologica
Un romanzo di Moravia + una poesia di Sandro Penna x un bicchierino di Rum – “Il nome della rosa” romanzo di Umberto Eco.

*
Gabbia ideologica
4 + 4 = Corsivo – Normal = Discorso etero diretto.

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La colomba di Picasso
Era una sera buia e tempestosa. La poiesis ha finalmente fatto ingresso in cucina.

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Consiglio dell’astrologo
Evitare l’invidia degli specchi quando le lampadine sono fulminate.

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L’ ospite
Sigillate il futuro in una busta di plastica, lo scolapasta ha litigato con l’appendiabiti Continua a leggere

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Dopo il Moderno, Dopo il Novecento, Poesie kitchen di Giuseppe Gallo, Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, Antonio Sagredo, Il modernismo europeo in poesia come nel romanzo finisce negli anni Novanta. Zbigniew Herbert, uno dei massimi rappresentanti del modernismo europeo ha scritto negli anni Novanta: «La poesia è figlia della memoria». Herbert scrive questi versi significativi: «stammi vicino fragile memoria/ concedimi la tua infinità». Brodskij scrive in una poesia del 1988: «il trionfo della memoria sulla realtà»

Salvini Odoacre

immagine a computer del pelandrùn Salvini nelle vesti del barbaro Odoacre, il generale dei barbari che sconfisse Oreste, generale romano, e pose fine all’impero romano d’Occidente nel 476 d.C. Un magnifico esempio di come le sorti delle democrazie parlamentari d’Europa siano in pericolo e di poter naufragare in una confusa ideologia sovranista e antieuropea fatta di filo putinismo e anti atlantismo. Il pelandrùn ha detto che intende andare a Mosca a incontrare Putin, che ci vada pure magari con la maglietta quella con stampato il busto dell’autocrate russo in divisa militare. Il pelandrùn si comporta come il barbaro Odoacre, vuole mettere fine alle democrazie parlamentari perché hanno fatto il loro tempo, ma le democrazie parlamentari, pur con tutti i loro difetti, fanno paura alle autocrazie del globo… i dittatori temono le democrazie, le demonizzano, vogliono sanificarle, denazificarle, deucrainizzarle, saponificarle, derattizzarle… ma le democrazie sono più forti delle autocrazie e delle loro menzogne, e vinceranno con la forza stessa della  debole e contraddittoria istituzione chiamata democrazia.

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caro Gino Rago,

Il modernismo europeo in poesia come nel romanzo finisce negli anni Novanta. Zbigniew Herbert, uno dei massimi rappresentanti del modernismo europeo ha scritto negli anni Novanta:
«La poesia è figlia della memoria». Herbert scrive questi versi significativi: «stammi vicino fragile memoria/ concedimi la tua infinità».
Brodskij scrive in una poesia del 1988: «il trionfo della memoria sulla realtà».

La memoria, strettamente connessa alla tradizione, è vissuta dai poeti modernisti come la più grande alleata per situarsi entro l’orizzonte della tradizione, e quindi della storia. I poeti e i narratori dell’età del modernismo percepiscono la storia come tradizione e la tradizione come storia, in un nesso indissolubile; e nell’ambito della tradizione introducono il «nuovo», di qui le avanguardie del primo Novecento e le post-avanguardie del secondo Novecento. Con la fine del Novecento, con la caduta del muro di Berlino e del comunismo e la rivoluzione mediatica, le cose sono cambiate: la storia è diventata storialità e la tradizione è diventata museo, museo di ombre e di fantasmi, da difendere e da coltivare perché produce profitti.

La nuova ontologia estetica invece con la sua ultima produzione: la poetry kitchen assume: «La poesia non è figlia della memoria» perché la storia si è mutata in storialità. L’oblio della memoria (da cui i celebri versi di Brodskij: «La guerra di Troia è finita / chi l’ha vinta non ricordo»), segna l’inizio di una nuova poesia, di una nuova narrativa e di una nuova arte: una poiesis incentrata sulla dimenticanza della memoria e sull’oblio della tradizione.
Qui, in nuce, c’è il punto nevralgico della nuova poesia europea.
Un poeta del Dopo il Novecento non potrà più fruire dell’ausilio della memoria, dovrà imparare a farne a meno. La condizione dell’uomo nell’epoca del neoliberalismo è contrassegnata da questa duplice petitio principii: l’oblio della memoria (e della tradizione) e l’oblio della libertà (convertita in scelta tra più prodotti). Il primo motto di Microsoft recitava: «Where do you want to go today?», lasciando presagire la prossima ventura libertà assoluta della navigazione senza limiti nel web. Ma è la locazione dell’opera di poiesis, che ha dis-messo la memoria, l’ha derubricata in storialità, in storia minore. La parola della poesia nel tempo della storialità non fonda né stabilisce nulla tranne la propria interrogazione; un tempo forse la sua finalità era quella di dare un senso più puro alle parole della tribù, oggi questa è una domanda derubricata ad atto di fede. L’interrogazione poetica abita il traslato, il discorso spostato, indiretto, il discorso implicito, il meta discorso. La poesia abita la meta poesia. Dopo Giorgia Stecher (1929-1996) la sfiducia si è impossessata delle capacità discorsive della forma-poesia: i segni si proiettano su un fondale bianco da cui si diramano una molteplicità di significati possibili, altri segni sembrano indicare altri e diversi significati possibili. Il significato di questi segni non può essere conosciuto a priori, i segni sono enigmi che viaggiano nel tempo, o meglio, si diramano in più temporalità, e l’interpretazione di ciò che il tempo dice diventa sempre più problematico. Il tempo dice: nulla. Dunque, nichilismo.

La «secolarizzazione» ha investito il discorso poetico, lo ha privato, da un lato, del radicamento ad uno sfondo metafisico-simbolico, dall’altro, lo ha reso, nelle sue versioni epigoniche, sempre più riconoscibile, lo ha sproblematizzato. La topologia ci dice che tutti i luoghi sono simili, si assomigliano, gli aeroporti, i cavalcavia, le stazioni ferroviarie, i cinema, gli interni ammobiliati delle nostre abitazioni, le carlinghe degli aerei, i portabagagli delle nostre automobili, le nostre valigette ventiquattro ore… tutti i luoghi della nostra vita quotidiana si assomigliano, viviamo in non-luoghi, siamo noi stessi il precipitato dei non-luoghi, di non-eventi, viviamo noi tutti in temporalità terribilmente somiglianti. Il nostro modo di esistenza ha prodotto la moltiplicazione degli istanti, la moltiplicazione delle temporalità, la moltiplicazione delle immagini. Che cos’è l’immagine? L’immagine è l’istante. Che cos’è l’istante? Per Parmenide l’istante, o meglio l’istantaneo è: «L’istante. Pare che l’istante significhi(…) ciò da cui qualche cosa muove verso l’una o l’altra delle due condizioni opposte [del Passato e del Futuro]. Non vi è mutamento infatti che si inizi dalla quiete ancora immobile né dal movimento ancora in moto, ma questa natura dell’istante è qualche cosa di assurdo [atopos] che giace fra la quiete e il moto, al di fuori di ogni tempo…». (Parm., 156d-e).

Questa natura è una finzione, una petizione, una involontaria allegoria della nostra prigionia. Questa finzione narra la nostra condizione ontologica: siamo davanti al video e ci reputiamo presuntivamente liberi. Tutto il resto, ovvero, il reale, ci appare come degli epifenomeni laterali, periferici, consideriamo libertà la non-libertà.
Nell’oblio della libertà c’è tutta l’impossibilità per un poeta di oggi di scrivere come i poeti del modernismo europeo che erano guidati dalla stella polare del valore assiologico della parola «libertà». Tuttavia, come scrive Agamben, il naufragio «apre il luogo della parola, come quello in cui si può soltanto parlare e non sapere».

La dizione «poesia da frigobar», usata da Marie Laure Colasson, contrassegna la poesia del Dopo il Moderno, la crisi ormai ha assunto dimensioni planetarie…

(Giorgio Linguaglossa)

Antonio Sagredo

Mi portava via il Ponte dei Tormenti un non so che di me dal mio canto,
e ogni pietra della mia voce era il viatico per una discreta eternità – d’argilla
era la letania della notte che beffava con le note i miei capricci e il riso,
e conteggiava sul selciato i furori e i singulti – Viole d’amore dei miei occhi!
Tutti i passi erano meno di un’epoca e più di un mosaico greco!

E la caduta dei volti e delle maschere come petali dai balconi, i saluti recitati,
gli addii dai treni di confino, le gonfie glandole dell’infanzia di Pietroburgo.
I poeti sono martiri del futuro, e la loro parola è già oltre torture imprevedibili.

Applausi, e sul palco il can-can di despoti –
spettri ossuti del Moulin Rouge!
Torbidi tempi io vi sento… sipario!… ciak! –
siete pronti al trionfo delle apocalissi?

Giuseppe Gallo
28 aprile 2022 alle 9:25 

Omaggio alla “Pallottola” di Gino Rago

Il proiettile, dopo aver sorvolato la Muraglia cinese,
gli era entrato nell’occhio sinistro,
ma né Vic, né Mary se ne erano accorti.
-Mamy…
-Sì…
-Ho una pupilla ballerina!
-No! No! Ha l’occhio pigro! Sentenziò l’oftalmico.
-No, ribatté la madre, è un tentativo di suicidio.
-A quest’età? Si oppose il padre.
-Sì, perché mio figlio è molto precoce!
Jerry, comunque, gironzolava per casa come se niente fosse.
L’occhio pigro continuava a essere pigro
e non si curava di inseguire le farfalle
o le nuvole che si accoccolavano sulle sue spalle
invece che sulle antenne della città.
-Come farai a vivere
se non guardi sopra e sotto, sia a destra che a sinistra?
Si preoccupò la sorella.
-Non so… Perché non me la togli tu questa pallottola?
-Io?
-Tu, sì!
Allora Terry gli strinse il viso tra le mani,
afferrò il proiettile con gli incisivi e gli diede uno strattone.
E fu guerra tra Russia e Ucraina.

Mauro Pierno
2 Maggio 2022 alle 13:33 

Scappa di mano persino il sale. Da un buffet all’altro viaggia la fragranza dei cingoli. (F.P. Intini)

Ma poi non si ferma, da vero canto di disperazione. (Lucio Mayoor Tosy,)

una Bomba H, quella al neutrone che lascia le cose intatte e uccide gli esseri viventi (G. Linguaglossa)

Chi dovrebbe provvedere è in vacanza e non ha nessuna intenzione di tornare. (F.P. Intini)

lavatrici che si pensano libere dal giogo della centrifuga. (F.P. Intini)

la guerra di invasione di uno stato sovrano come l’Ucraina ha reso tutto ciò assolutamente evidente. (M.L. Colasson)

due cosmonauti russi i quali hanno issato a bordo della navicella spaziale la bandiera con la Z impressa. (M.L. Colasson)

aumentano i segnali che il regime si sta trasformando da autoritario a totalitario.( Greg Yudin )

leading from behind (Barack Obama)

L’America sarà l’Arsenale della democrazia». (Franklin Delano Roosevelt)

Ogni anno, il genere umano produce più di un trilione di immagini.(Linguaglossa)

E poi c’è questo gerundio che è sospettoso, perché indica una azione in atto (Sagredo)

Chissà che caldo fa in Africa! “ (A.Cechov).
E l’assassinio della Anna Politkovskaja non fu forse una regalo che si fece nel giorno di compleanno (Antonio Sagredo)

Le sue dita grasse sono pingui come vermi,
le sue parole sicure come pesi.(Osip Mandel’stam)

Scipione da grande generale aveva vinto ma si guardò dalla ambizione di voler stravincere.(Linguaglossa)

I cannoni della pandemia sono rimasti per qualche istanti vuoti.(F.P. Intini)

Una nuova genia d’animali viene fuori dai boschi di Chernobyl. (F.P. Intini)

Dvorský Petr Král a un certo punto della sua ermeneutica parla di poetica come “costellazione di parole” :(Gino Rago)

i cavoli da 81 a 99 rubli al kg
le patate da 50 a 53 rubli al kg. (Giorgio Linguaglossa)

TUTTO SI GENERA NEL CREMLINO E TUTTO DEGENERA NEL CREMLINO .(Sagredo)

Pacchi di odio legati con lo sputo.
-Tutto in ordine però-, rassicura l’airbag.”
(Francesco Paolo Intini)

le parole iperbariche, quelle stordite e istupidite da una immissione di ossigeno ad altissima densità (Marie Laure Colasson)

Sulla entalpia, cito la Treccani (Giorgio Linguaglossa)

partendo da James Joyce e Virginia Woolf, per il romanzo, da Ezra Pound e T. S. Eliot, per la poesia, (Rago)

E ci sovvennero i geroglifici incisi,
e le parole non identificate,
(Giuseppina De Palo)

Poi sono giunti dei presunti sacerdoti o qualcosa del genere a confondere i più le acque.(Sagredo)

Con la fine del Novecento, con la caduta del muro di Berlino e del comunismo(Linguaglossa)

o canto di disperazione. (Lucio M. Tosy)

Tra un po’ tolgo gli orpelli…

Mauro Pierno
2 Maggio 2022 alle 13:40 

Scappa di mano persino il sale. Da un buffet all’altro viaggia la fragranza dei cingoli.

Ma poi non si ferma, da vero canto di disperazione.

una Bomba H, quella al neutrone che lascia le cose intatte e uccide gli esseri viventi.

Chi dovrebbe provvedere è in vacanza e non ha nessuna intenzione di tornare.

lavatrici che si pensano libere dal giogo della centrifuga.

la guerra di invasione di uno stato sovrano come l’Ucraina ha reso tutto ciò assolutamente evidente.

due cosmonauti russi i quali hanno issato a bordo della navicella spaziale la bandiera con la Z impressa.

aumentano i segnali che il regime si sta trasformando da autoritario a totalitario.

Leading from behind
L’America sarà l’Arsenale della democrazia

Ogni anno, il genere umano produce più di un trilione di immagini.

E poi c’è questo gerundio che è sospettoso, perché indica una azione in atto

Chissà che caldo fa in Africa!
E l’assassinio della Anna Politkovskaja non fu forse una regalo che si fece nel giorno di compleanno?

Le sue dita grasse sono pingui come vermi,
le sue parole sicure come pesi.

Scipione da grande generale aveva vinto ma si guardò dalla ambizione di voler stravincere.

I cannoni della pandemia sono rimasti per qualche istanti vuoti.

Una nuova genia d’animali viene fuori dai boschi di Chernobyl.

Dvorský Petr Král a un certo punto della sua ermeneutica parla di poetica come “costellazione di parole”

i cavoli da 81 a 99 rubli al kg
le patate da 50 a 53 rubli al kg. (Linguaglossa)

TUTTO SI GENERA NEL CREMLINO E TUTTO DEGENERA NEL CREMLINO.

Pacchi di odio legati con lo sputo.
-Tutto in ordine però-, rassicura l’airbag.

le parole iperbariche, quelle stordite e istupidite da una immissione di ossigeno ad altissima densità.

Sulla entalpia, cito la Treccani

partendo da James Joyce e Virginia Woolf, per il romanzo, da Ezra Pound e T. S. Eliot, per la poesia

E ci sovvennero i geroglifici incisi,
e le parole non identificate,

Poi sono giunti dei presunti sacerdoti o qualcosa del genere a confondere i più le acque.

Con la fine del Novecento, con la caduta del muro di Berlino e del comunismo

o canto di disperazione.

(Lucio Mayoor Tosi)

 

1 Maggio 2022 alle 19:16 
caro Gino,

ci restano le parole iperbariche, quelle stordite e istupidite da una immissione di ossigeno ad altissima densità. Oggi abbiamo le parole ossigenate, ibrididatizzate, ibridizzate. La poesia di Intini fa incetta in grande quantità di queste parole mitridatizzate e addomesticate e le fa cozzare le une contro le altre come avviene con i fotoni all’interno del Large Hadron Collider di Ginevra che generano una energia miliardi di volte superiore a quelle immessa nel circuito.

In medicina: terapia iperbarica, tecnica terapeutica che prevede la somministrazione di miscele gassose costituite in prevalenza da ossigeno a pressione superiore a quella atmosferica, utilizzata per aumentare l’ossigenazione del sangue in pazienti colpiti da embolia gassosa. Camera iperbarica, speciale ambiente con pareti a chiusura ermetica, in cui si applica questo tipo di terapia.

Leggo con apprensione che è stato ferito il capo di stato maggiore delle forze armate russe il gen.le Gerasimov, l’inventore della guerra ibrida, ma il generale russo non poteva supporre che anche gli ucraini dispongono di un LHC di altissima qualità e precisione in grado di colpire i fotoni avversari con indubbia efficacia.

(Marie Laure Colasson)

2 Maggio 2022 alle 7:57 
cara Marie Laure,

in quanto alla guerra dei fotoni dell’HLC e alla guerra teorizzata da Gerasimov, la guerra ibrida, mi permetto di notare che anche la NOe ha teorizzato e praticato la iperbarizzazione delle parole ottenuta in una camera stagna mediante la ipermitridatizzazione e la iperibridazione delle parole, che è quella cosa lì che sta facendo in maniera encomiabile Francesco Paolo Intini.

Sulla entalpia, cito Francesco Intini:

«Il conto è fatto in entalpia ma bisognerà convertirlo in entropia. Ce la mettono tutta i ragazzi prodigi per la relazione semestrale. Tecnezio e Piombo seguiti da Titanio e Ferro lavorano sodo per tutta la notte ma il risultato finale è sempre lì che sfugge. Un po’ di massa non si converte al nichilismo.»

Sulla entalpia, cito la Treccani:

«[ἐνϑάλπω «riscaldare»]. – In termodinamica, funzione (detta anche impropriam. contenuto termico o calore totale) definita come somma tra l’energia interna e il prodotto della pressione per il volume di un fluido termodinamico; ha le dimensioni di un’energia e sua unità di misura SI è quindi il joule (J).»

Siamo entrati in quella dimensione fotosferica e fotogrammatica dove le cose (e le parole) che accadono sembrano accadere in vitro, in virtuale, all’interno della superficie di un monitor. Il reale è scomparso, ma non per far luogo all’Iperreale come asseriva Baudrillard ma per far luogo al minus quantum, al meno di reale. Siamo nella dimensione teorizzata da Zizek del «soggetto scabroso» di cui la poesia di Intini è il risultato ribaltato, un soggetto de-realizzato.

(Giorgio Linguaglossa)

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Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.

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Giuseppe Gallo, nato a San Pietro a Maida (Cz) il 28 luglio 1950 e vive a Roma. È stato docente di Storia e Filosofia nei licei romani. Negli anni ottanta, collabora con il gruppo di ricerca poetica “Fòsfenesi”, di Roma. Delle varie Egofonie,  elaborate dal gruppo, da segnalare Metropolis, dialogo tra la parola e le altre espressioni artistiche, rappresentata al Teatro “L’orologio” di Roma. Sue poesie sono presenti in varie pubblicazioni, tra cui Alla luce di una candela, in riva all’oceano,  a cura di Letizia Leone (2018.); Di fossato in fossato, Roma (1983); Trasiti ca vi cuntu, P.S. Edizioni, Roma, 2016, con la giornalista Rai, Marinaro Manduca Giuseppina, storia e antropologia del paese d’origine. Ha pubblicato Arringheide, Na vota quandu tutti sti paisi…, poema di 32 canti in dialetto calabrese (2018). È redattore della rivista di poesia “Il Mangiaparole”. È pittore ed ha esposto in varie gallerie italiane.

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Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.
Antonio Sagredo è nato a Brindisi il 29 novembre 1945 (pseudonimo Alberto Di Paola) e ha vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza. La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, 2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile.Come articoli o saggi in La Zagaglia: Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984,(pseud. Baio della Porta): Leone Tolstoj  le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A. Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale).Ha curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema: Tumuli di Josef Kostohryz , pubblicato in «L ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e KateYina Zoufalová; i poemi: Edison (in Lozio,& ., 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L ozio», 1988) di Vitzlav Nezval; (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová).Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rud enkova, di Zbynk Hejda, Ladislav Novák, di JiYí KolaY, e altri in varie riviste italiane e ceche. Recentemente nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar BYezina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo), trad. A. Di Paola e K. Zoufalová.

 

Dopo il Moderno, Dopo il Novecento, Poesie kitchen di Giuseppe Gallo, Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, Antonio Sagredo, Il modernismo europeo in poesia come nel romanzo finisce negli anni Novanta. Zbigniew Herbert, uno dei massimi rappresentanti del modernismo europeo ha scritto negli anni Novanta: «La poesia è figlia della memoria». Herbert scrive questi versi significativi: «stammi vicino fragile memoria/ concedimi la tua infinità». Brodskij scrive in una poesia del 1988: «il trionfo della memoria sulla realtà»

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Poetry kitchen di Alfonso Cataldi, Mimmo Pugliese, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, La soggettività non è mai «autentica», è sempre impura, contaminata; fin dall’inizio è impregnata di impersonale, perché solo la lingua pubblica (cioè di nessuno, arbitraria e presoggettiva) le offre i dispositivi grammaticali per formare l’“io”, Lacan: «Lalangue sert à de toutes autres choses qu’à la communication». Il pre-individuale precede la soggettività, ergo la lingua del pre-individuale è più vera di quella della soggettività

Alfonso Cataldi

Reven è atterrata in una bolla di fieno e fiori profumati.
Scava il primo tunnel

all’uscita sorprende le velleità preindustriali della ruota.
“Cosa avrò sbagliato nella vita?”

Esterrefatta, Francesca separa i bianchi dai capi colorati.

“Non cadrà più la neve sulle agenzie immobiliari di nuova apertura”
si sbilancia il guardiano all’ingresso della città

che alza e abbassa la sbarra
su nessuno che entra e nessuno che esce.

Il massaggiatore spunta nei sottotetti esistenziali
porta con sé il lettino a valigia sempre carico

I residenti attendono la meraviglia della resa
della cecità che prepara il riscatto.

Mimmo Pugliese
A UN METRO

A un metro dall’inverno
la ruota panoramica butta via la lanugine
e risale la corrente tra l’Africa e l’America
Prima
che una rana in creolina coronasse il suo sogno:
predire il futuro a giovani leoni
dall’oblò del transatlantico dismesso
Mentre
preti e alfieri spalmano specchi
e vecchi alberi bulimici
fuggono su aerei supersonici tamponati
Quando
di nascosto sull’alveo del fiume verticale
la ballerina di prima fila
arrota tacchi di brina
Dopo
che in un campo di isobare
la balena in abito scuro
ha sotterrato il pianoforte a coda di rondine
Durante
lo sforbiciato matrimonio
su una gondola
dell’ultimo torero con la donna di Botero.

poesia in stile kitchen
di Gino Rago

I

Marie Laure Colasson elude la sorveglianza
Dell’agente segreto Popov
Che il direttore dell’Ufficio Affari Riservati
Di Via Pietro Giordani n. 18,
– Il poeta Giorgio Linguaglossa –
Le ha messo ai calcagni.
Il giorno 2 del mese di ottobre
Dell’anno domini 2021, alle 19:56,
La poetessa Marie Laure Colasson in fretta verga questo biglietto

su un papiro d’Egitto:

«Egregio poeta Gino Rago,
Lei ha colto nel segno, adoro deglutire
I sandwich al jambon con la baguette.

Di solito mi reco, in compagnia del Mago Woland,
Nel bistrot sito in rue des Aubergines,
Chez le Batignolles.

Ma sto attenta alla signora dal tailleur color ciclamino,
Gioca sempre ai tarocchi
E beve Enfer d’Arvier e Arnad-Monjovet
Quando va in vacanza in Val d’Aosta…

Da francese amo la légereté, un baiser et un vol de pigeon

De chez moi à Montparnasse n.  23

Merci beaucoup».

 

II

L’agente Popov intercetta il biglietto
di Marie Laure Colasson.

Risponde:
«Madame Colasson,
La bottiglia del latte è il latte.
L’albero è sempre un albero
Anche se il gufo ci fa il nido.

Il poeta Giorgio Linguaglossa
Prima di andare a letto beve sempre una tisana al miele.

E l’artista Lucio Mayoor Tosi
Brinda sempre con spumante dell’Oltrepò Pavese.

Ma stia attenta a quel poeta kitchen
Che al chiar di luna
Beve sempre il Vino Est! Est! Est! di Montefiascone, è un ruba cuori!».

Giorgio Linguaglossa

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da Andrea Zanzotto di Filò del 1976 alla poesia di Francesco Paolo Intini del 1980, Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, Baudelaire letto da Giorgio Agamben, La «nuova poesia» che stiamo facendo riprende questo assunto fondamentale, quello di «peripezia» e di «esperienza dei blablaismi» per costruire una poesia all’altezza dei tempi di oggi, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, Ad un mondo che pone il soggetto al limite, Francesco Intini contrappone un linguaggio-limite, un linguaggio monstre

Joseph Cornell scatola piena di tecnologia

Joseph Cornell, scatola magica

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Giorgio Linguaglossa

da Andrea Zanzotto di Filò del 1976 alla poesia di Francesco Paolo Intini del 1980

Si riproduce in lingua italiana parte del “Filò” di Andrea Zanzotto, riprodotto in, Andrea Zanzotto, In nessuna lingua in nessun luogo. Le poesie in dialetto 1938-2009 (Quodlibet, 2019); una edizione del “Filò. Per il Casanova di Fellini” è stata pubblicata, con prefazione di Giuliano Scabia, da Einaudi nel 2012

Vecio parlar che tu à inte’l tó saór
un s’cip del lat de la Eva,
vecio parlar che no so pi,
che me se á descunì
dì par dì ‘inte la boca (e no tu me basta);
che tu sé cambià co la me fazha
co la me pèl ano par an
(…)
Girar me fa fastidi, in médo a ‘ste masiére
De ti, de mi. Dal dent cagnin del tenp
Inte ‘l piat sivanzhi no ghén resta, e manco
De tut i zhimiteri: òe da dirte zhimithero?
Elo vero che pi no pól esserghe ‘romai
Gnessun parlar de néne-none-mame? Che fa mal
Ai fiói ‘l petel e i gran maestri lo sconsiglia?
(…)
Ma ti vecio parlar, resisti. E si anca i òmi
te desmentegarà senzha inacòrderse,
ghén sarà osèi –
do tre osèi sói magari
dai sbari e dal mazhelo zoladi via -:
doman su l’ultima rama là in cao
in cao se zhiése e pra,
osèi che te à in parà da tant
te parlarà inte’l sol, inte l’onbria.

[da Andrea Zanzotto, Filò, 1976]

Vecchio dialetto che hai nel tuo sapore
un gocciolo del latte di Eva,
vecchio dialetto che non so più,
che mi ti sei estenuato
giorno per giorno nella bocca (e non mi basti);
che sei cambiato come la mia faccia
con la mia pelle anno per anno
(…)
Girare mi dà fastidio, in mezzo a queste macerie
di te, di me. Dal dente accanito del tempo
avanzi non restano nel piatto, e meno
di tutto i cimiteri: devo dirti cimitero?
E’ vero che non può più esserci oramai
nessun parlare di néne nonne-mamme? Che fa male
ai bambini il pètel e gran maestri lo sconsigliano?
(…)
Ma tu vecchio parlare, persisti. E seppur gli uomini
ti dimenticheranno senza accorgersene,
ci saranno uccelli –
due tre uccelli soltanto magari
dagli spari e dal massacro volati via -:
domani sull’ultimo ramo là in fondo
in fondo a siepi e prati,
uccelli che ti hanno appreso da tanto tempo,
ti parleranno dentro il sole, nell’ombra.

Francesco Paolo Intini
Sta qui il mio Sud
 (1980)

Sta qui
il mio sud
dove
il sole arde
-con fiamme d’ invidia-
talenti quasi artistici
poeti disperati, falliti, anarchici.

Pozzanghera dove pullula in miniatura
la lotta di classe.
Lotta tra amici
sotto un cielo di bolle.

Si rosicchia come tarli
la stessa porta
lo stesso gusto d’arraffare.

Reduci del ‘68
grassi e ricchi
di un ’68 mai vissuto
con ferite dentro al corpo
ma violente discussione
quelle sì
con fucili e cannoni
che sparavano sogni
frustrazioni non più represse
Rivoluzioni.

Ancora urlano
da una porta all’altra
dialettiche prese di coscienza
sensibilizzazioni di massa
ed un sangue
vernice rossa sui muri
testimonia ancora il fuoco nelle vene
di folli incazzati col potere
ora panciuti impiegati
ex intellettuali.

Teatro di gran battaglie
sul filo del suicidio sotto i treni
e d’aneddoti maliziosi
da ridacchiare insieme.
Con radio che educano all’ idiozia
nullità geniali che s’ingozzano d’avanguardia
ed il gioco della birra
a dettar legge nei partiti.
Miserabile teatro dei quattro venti
dove il sole si schifa di sorgere personalmente
partorisci imitatori
mimi
del gran baccano che chiamano

Arte, Cultura, Politica.

Sopra le antenne
vive una tribù di corvi,
qualcuno era di passaggio
ma ora è un piatto prelibato
questo paese di vive carogne.

Scrive Zanzotto:

«la mia infanzia è stata ricca di emozioni anche se non felice, ricca di stimoli di ogni genere, anche culturali, e (a proposito delle lingue) essendo sempre stata la nostra una zona di emigrazione, soprattutto francese e tedesco echeggiavano facilmente. […] mi venivano frammenti di tedesco minimo dalla nonna paterna che era stata, a Vienna, cameriera di una Prinzessin austriaca… mio padre Giovanni lavorò all’estero, soprattutto in Francia; ma nella prima fase era stato anche lui emigrante in Austria, cioè a Trieste. E già il nonno Andrea e suo fratello continuavano una tradizione secolare di migrazione in Cacania e più in su».
Il dialetto zanzottiamo vive in osmosi con il francese, il tedesco e l’italiano in un conglomerato linguistico che, in quanto tale, è quanto di più lontano si possa immaginare dalla lingua materna, dalla lingua «latte di Eva» del paradiso terrestre. Zanzotto da una parte tiene ferma la lingua del latte materno, una lingua ipotetico originaria, dall’altro innesta su questa lingua lessemi scarti e sintagmi rammemorati da altre lingue, in una certa ampia misura contraddicendo l’ipostasi di una lingua edenica e materna.

Logos erchomenos, la “parola che viene”. Andrea Zanzotto si è servito più volte dell’espressione che nei Vangeli e nell’Apocalisse designa il Messia, logos erchomenos, per definire il dialetto come sorgività della parola, qualcosa che viene direttamente dalla immediatezza di una pura interiorità.

Io ho sempre sospettato che dietro questa tesi si celasse un sottocosto, un prezzo aggiuntivo. L’etichetta della «immediatezza» e del «latte materno» linguistico mi ha sempre fatto venire l’orticaria… penso, anzi, sono convinto che non ci sia nessuna immediatezza alla base del linguaggio poetico, perché di questo passo finiremmo per divinizzare e teologizzare il mito della sorgività e dell’origine. La poesia non ha niente a che vedere con questo pseudo mito.

Tanto è vero che, in un momento di rara sincerità, Zanzotto ha detto che «il mio linguaggio poetico in lingua era fasullo», pronunciando un verdetto inequivocabile di discredito sulla sua produzione poetica in italiano.

Che Francesco Paolo Intini abbia potuto scrivere questa (tra l’altro molto bella poesia) nel 1980 non mi stupisce, ha fatto una poesia singolare-plurale che ha raccontato la storia di una generazione sconfitta e disillusa in pieno rigoglio e riflusso alla utopia della poesia rurale e della poesia adamitica in pieno inverdimento negli anni ottanta. Quella era una poesia con certificato vidimato di inautenticità e di programmatica falsa coscienza. La poesia di Intini io la leggo, oggi, come reazione a tutta quella fumisteria di buoni sentimenti e di buone intenzioni, di cuore aperto… le buone intenzioni lastricano sempre la via verso l’inferno.

Adesso capisco come l’ultima poesia kitchen di Intini sia in un certo senso imparentata con la sua produzione degli anni ottanta; nella poesia ultima di Intini non c’è nulla della immediatezza, tutto è meditato e mediato dal mondo del contemporaneo e dalla distanza che lui ha saputo mettere tra il linguaggio poetico e la sua interiorità. È stato il prezzo che Intini ha dovuto pagare per transitare, trenta anni più tardi, verso una idea di poesia oggettiva, che impiega le parole come oggetti linguistici e non come oggetti liturgici o mitologici, quello che ha fatto invece, con falsa coscienza, la poesia elegiaca.

(g.l.)

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Dalla «struttura tragica» di Maria Rosaria Madonna (con Stige del 1992) al ready language della poetry kitchen e della instant poetry, La poetry kitchen ha abbandonato il Principio di ragion sufficiente, La pop-poesia scopre la valenza gestuale del linguaggio, Poesie kitchen di Mario M. Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Dalla «struttura tragica» di Maria Rosaria Madonna  (con Stige del 1992) al ready language della poetry kitchen

La disintegrazione della «struttura tragica» della poesia di Maria Rosaria Madonna segna la pre-condizione di possibilità per la nascita della poetry kitchen. Dal 1992 anno che segna l’edizione di Stige di Madonna, scompare definitivamente dal periscopio della forma-poesia la possibilità di adottare una «struttura tragica», se ne accorgerà lei stessa, ne sono la prova le poesie poi apparse nel 2018, postume: Stige. Tutte le poesie (1990-2002), opera pubblicata da Progetto Cultura nel 2018, quando l’abbandono del «neolatino» segna, marca l’abbandono della «struttura tragica». La nuova fenomenologia del poetico investigata dai poeti dell’Ombra delle Parole in questi ultimi anni è un po’ la presa di consapevolezza della impossibilità di operare un riformismo moderato nell’ambito della forma-poesia del secondo novecento, che lavorava per successivi aggiustamenti e rimaneggiamenti della forma-poesia post-montaliana, post-Satura (1971). Ad un certo punto agli intelletti più avvertiti e sensibili appare chiaro che quella via si era ormai esaurita e si presentava senza sbocco. La poetry kitchen è il risultato di questa assunzione di responsabilità, ed il ready language ne è stato il necessario supplemento linguistico e stilistico.
La poesia di Guido Galdini, con i suoi pseudo limerick, si muove in questa direzione di responsabilità; le storie di una pallottola di Gino Rago, la poesia collage di Mario Gabriele, la instant poetry di Lucio Mayoor Tosi, di Mimmo Pugliese e Mauro Pierno in varia misura e con strumenti linguistici diversi adoperano un linguaggio che si trova già pronto nelle discariche linguistiche della nostra civiltà mediatica.

La pop-poesia scopre la valenza gestuale del linguaggio, il ready language è finalmente libero dal significato e dal senso; il linguaggio del ready language ha un valore «gestuale» evidentissimo che l’ontologia della poiesis tradizionale non riusciva a vedere, che anzi occultava e faceva di tutto per occultarlo. Wittgenstein lo aveva messo in chiaro da molto tempo. Per Wittgenstein il linguaggio è funzione di un agire, e può essere inteso solo se lo si coglie nella sua valenza gestuale-strumentale. Grazie al linguaggio facciamo molte diverse cose, e questa diversità caratterizza anche le forme linguistiche. Una forma linguistica per eccellenza che può fare uso del linguaggio gestuale è senz’altro la poesia. La poetry kitchen fa uso di linguaggio gestuale e figurato allo stato puro, è un ready language che rende evidente il fuori-significato, il fuori-senso. L’ontologia del linguaggio poetico del novecento faceva poiesis del non-senso, al massimo confezionava anti-poesia, nella poetry kitchen invece la valenza del linguaggio figurato e gestuale viene accentuata all’ennesima potenza. Il modo con il quale le parole si legano alla prassi è il segreto che può liberare la prassi delle parole dall’irretimento del linguaggio mediatico-strumentale. E questo lo può fare soltanto il linguaggio poetico che contempla una prassi senza alcuna finalità precostituita, una prassi che è essa stessa la sua finalità.

La poetry kitchen ha abbandonato il Principio di ragion sufficiente

non si pone più il quesito del perché qualcosa ha ragione di esistere e qualche altra cosa no, tutto esiste contemporaneamente, magari in un’altra dimensione, e quindi tutto è contemporaneo. Tutto dipende dai condimenti e dagli ingredienti che abbiamo in cucina, da ciò che abbiamo in dispensa, nella credenza, a portata di mano. La poesia la si fa con ciò che abbiamo in frigorifero, con gli avanzi di ciò che abbiamo in frigorifero.
Lacanianamente, il Simbolico è sempre mancante in un punto X. Il punto X è il punto non rappresentabile della rappresentazione. In quel punto il Simbolico non è simbolizzabile, questo significa semplicemente che il Simbolico è simbolizzabile proprio grazie a quel buco lasciato vuoto, grazie a quel punto non-simbolizzabile.

Il processo simbolico funziona così, da un lato opera entro un contesto fantasmatico, dall’altro implica una X non simbolizzabile, un «nucleo reale-impossibile» (dizione di Slavoj Žižek ), un punto vuoto, un punto cieco che inghiotte il Simbolico e che ne consente l’emersione. Ecco che la triade Reale-Simbolico-Immaginario comincia a prendere profondità e senso: il Simbolico è sì la dimensione dominante nell’uomo, ma essa, proprio perché umana, non è concepibile indipendentemente dal Reale (che forclude e che presuppone) né dall’Immaginario da cui è fondata e che continua a suscitare.
Nel seminario lacaniano RSI del 1974-5 questa emergenza fondamentale riveste una funzione psico-sociale, un aspetto individuale-collettivo: la costellazione Immaginario-Simbolico-Reale si dà in un nodo borromeo in quanto discende dal funzionamento dialettico: il Reale è la mancanza che si iscrive nel Simbolico, e l’Immaginario è la cornice fantasmatica che consente al Simbolico di emergere.

Quand’è che si incontra il Reale? Rispondo: la poiesis è il luogo ideale dove si può incontrare il Reale nel suo travestimento nel Simbolico.
Scrive Žižek: «Quand’è che io incontro l’altro nel Reale del suo essere… solo quando incontro l’altro nel suo momento di jouissance, cioè quando scopro in lui/lei un piccolo dettaglio- un gesto compulsivo, una eccessiva espressione del volto, un tic- che segnala l’intensità della realtà della sua jouissance …l’incontro con il Reale è sempre traumatico, c’è qualcosa perfino di minimamente osceno in esso».

Una nuova imagery di parole sorge quando sorge un nuovo condominio di Wortvorstellungen (rappresentazioni di parole) irriconoscibili. La nuova patria metafisica delle parole è nient’altro che questo: un nuovo condominio di parole irriconoscibili di cui ci è tolta la possibilità di appropriarcene. Fare uso del linguaggio come di un vuoto a perdere, farlo in modo che giri a vuoto, privo di referente e di denotazione.

Ciò che emerge dal Reale è l’immagine del «tram addormentato» in questo verso di Marie Laure Colasson in chiusura di una sua poesia. Vi sono due modalità mediante le quali l’uomo si può relazionare al linguaggio, quella inautentica, tipicamente novecentesca, ha a che fare con la «voce», in quella autentica invece non vi è né lingua, né patrimonio di nomi che si tramandano, bensì solo una dimora personale che non presuppone niente prima di essa, che il linguaggio è infondato.
Recuperare un rapporto autentico con il linguaggio significa recuperare l’immediatezza della sua espressione di pari passo con la sua infondatezza. Si tratta di esporre il linguaggio nel suo esser-così e alla sua maniera, senza appropriazione e senza illusione.

«Il tram si è addormentato come un viso mal rasato e sudato»

In questo verso della Colasson è evidente che ciò che è inverosimile e inappropriato (la metafora di «un viso mal rasato e sudato» che equivale al «tram [che] si è addormentato), diventa invece perfettamente verosimile e appropriato. Questo verso «tradizionale», quasi lirico, posto in chiusura di una poesia kitchen, aumenta a dismisura l’effetto di straniamento della poesia, la rende inesplicabile e insondabile in quanto riporta nel Simbolico la faglia, la schisi che si è aperta nel Reale. Il Punto X è la casella vuota della scacchiera, in ultima analisi, un Enigma.

1 S. Žižek, Che cos’è l’immaginario, Il Sagiatore, 1999, p.32

La Voce

Agamben continua l’intervento Hölderlin-Heidegger sostenendo che nell’articolazione / disarticolazione originaria si dà, secondo la tradizione, una “in-vocazione”: l’uomo è già da sempre richiamato ad assumere quel presupposto che prende il nome di Voce. Quindi in-vocazione significa tanto che si è “situati” anzitutto nella Voce, quanto che si è richiamati già da sempre presso di essa.

In Sein und Zeit ciò che richiama o in-voca è la lautlose Stimme (“voce senza suono”); cioè la voce silenziosa della coscienza che richiama il Dasein a se stesso. Agamben sottolinea, in Il linguaggio e la morte, il fatto che in Heidegger si dia un’«improvvisa reintegrazione del tema della Stimme» (op. cit. p. 73), che la spaesatezza dell’ Angst sembrava invece aver eliminato. La Voce è una pura intenzione di significare che non dice nulla di determinato. È un voler-aver-coscienza (Gewissen -haben-Wollen) anteriore ad ogni aver-coscienza di qualcosa di determinato.

Così Agamben può scrivere: «giunto, nell’angoscia, al limite dell’esperienza del suo esser gettato, senza voce, nel luogo del linguaggio, il Dasein trova un’altra Voce, anche se una Voce che chiama solo nel modo del silenzio». (op. cit. p. 74)

Agamben afferma così che il proposito heideggeriano di pensare il linguaggio al di là della Voce non è stato mantenuto, poiché, al pari della metafisica, il filosofo tedesco ha pensato l’esperienza del linguaggio a partire da quel fondamento negativo che è la Stimme. In questa negatività si situa – secondo la tradizione – l’aver-luogo del linguaggio come «pura intenzione di significare, come puro voler dire, in cui qualcosa si dà a comprendere senza che ancora si produca un evento determinato di significato» (ivi : 45).
In quanto è un non-più voce non-ancora significato, la Voce è il “fondamento” negativo che permette che «l’essere ed il linguaggio abbiano luogo».1

Sfugge nel linguaggio significante verso un passato, un esser-stato. Ma a questo proposito la parola poetica interviene per indicare un altro orizzonte al di là della negatività. In Hölderlin-Heidegger, si sostiene che Hölderlin – in Über die Verfassungsweise des poetischen Geistes – chiama l’aver-luogo della parola poetica “Stimmung”. Questa è lo spazio che si apre fra ciò che viene espresso in una poesia e l’elaborazione ideale. Tale “sentimento trascendentale” permette all’uomo di trovare “la sua parola”.* Lo riconduce alla disarticolazione fra vivente e parlante senza anteporre alcuna Voce, cosicché egli potrà finalmente proferire una parola libera «di un linguaggio che fosse veramente e integralmente il suo linguaggio».2

* In Il linguaggio e la morte, scrive Agamben:
«senza il richiamo della Voce, anche la decisione autentica (che è essenzialmente un ‘lasciarsi chiamare’, sich vorrufen lassen), sarebbe impossibile, come impossibile sarebbe anche da parte del Dasein l’assunzione della sua possibilità più propria e insuperabile: la morte»
(op. cit. p.: 75)

https://www.academia.edu/3163642/Jacopo_DAlonzo_Linguaggio_e_passioni_nella_filosofia_di_Giorgio_Agamben?email_work_card=title
2 Ibidem

Giorgio Linguaglossa

Le fanfare dei carabinieri a cavallo nuotano nel collirio
della materia oscura
Il pianoforte a coda litiga con i bersaglieri
a Porta Pia
Il cappello con le piume prenota una scatola di Pentotal
Le parole sono uscite a prendere il caffè
Dopo pranzo
Un manichino con la valigetta 24 ore
ha preso il treno per Parigi
Una ferrovia sospesa collega l’EUR alla Magliana
Una funivia con i vagoni pentastellati
attraversa l’Urbe in tutte le direzioni
Carlo Calenda candidato sindaco di Roma
Dixit
Il premier Giuseppe Conte deglutisce
il «Vaffa» di Grillo
La signorina Buonasera dice: «Buongiorno»
«Dopo il peggio viene il meglio», dice Flaiano
«Se non ci fosse la domenica dopo il sabato verrebbe il lunedì»,
dice Enzo Tortora al pappagallo Totò
«Il mio ideale di bellezza è lo scimpanzè Bonobo»
precisò la tgirl Aurelio Bang
Vota Antonio Vota Antonio Vota Antonio…
«Sarebbe preferibile»,
disse il maresciallo Oudinot

Lucio Mayoor Tosi

Instant poetry

Instant poetry Lucio Mayoor Tosi

http://mariomgabriele.altervista.org/inedito-da-horcrux-5/?fbclid=IwAR1T3hxAq-_lpl8P26LhINX9Jn1Mg_91_fNsPMtT2F7EVWDGU76JmtLR40k

Mario M. Gabriele
inedito da HORCRUX

Buon Giorno Signor Klister.
Ha risolto il problema?
con tutto il materiale indiziario
in suo possesso,
dovrebbe giungere a conclusione
il contezioso con le parti offese.

La doglianza è fondata
ed ha tutti i contraddittori
perché i ricorrenti Marx,
Heidegger,
Derrida,
Nietzsche,
e gli iscritti al Circolo di Vienna,
possano procedere alla loro richiesta
di diritti offesi.

Non si può stare sempre al buio!
C’è da capire qualcosa, disse Klister a Corbin.

Domanda impertinente.
Che fa uscire i topi dalla fogna.

Non ho niente da dire,
se non quello che dissi
ai Priori del Convento
quando rimasi solo nella stanza
a cercare le ampolle,
le brocche,
i vasi di veleni per la morte.

Il Nulla non ha voce.
Non si chiude agli spazi,
né al tempo.

Ha un assorbimento universale
senza alcun punto di interruzione.

Ci pensi bene!
Scusi, ma non afferro il concetto.
Se sta qui, disse Klister
lo deve al Nulla.

Gianmarco Vermigliani,
filosofo della Università di Boston,
scrisse che il cervello è una specie di caffè
in ebollizione, con due tazzine
di cui una piena e l’altra vuota.

Credo che un contradditorio
debba essere fatto
sentenziò Corvin.

Ho capito. Lei ha sempre un po’
di Essential CBD Extract che la salva
da ogni entertainment,
concluse Klister.

Su instagram
appaiono tante escursioni mentali
da individuare un certo
-esternalismo attivo-.

Oh bambù, bum bum!
I semi che piantasti
si sono rinvigoriti?
Hanno prodotto bouquet
per la Regina Margarethe?

I quadri di Julie Mehretu
hanno proposto figurazioni esterne
al Whitney Museum
in quattro parti di acrilici su tela
già esposti nella prima edizione
di Art Basel Cities a Buenos Aires.

Mi scorre il sangue sapendo
che la cucitrice di nuvole e lampi,
una certa Signora Bresson,
possa un giorno
raggiungere il piano superiore
restando in quarantena.

Ciao, Miss Shelin,
a quest’ora dovresti essere
in terapia ormonale
per evitare i sintomi vasomotori
che mettono in azione
il tromboembolismo venoso
se non ricorri subito al gabapentin.

Sia nel primo che nel secondo caso
il risultato è sempre lo stesso,

Come al solito, disse Klister,
non capisco,
e resto con il Direttore del Dipartimento
Federale, se mai abbia letto notizie
da Il Guardian su Because of Who I Am?

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. Ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014): L’erba di Stonehenge (2016), In viaggio con Godot (2017), Registro di bordo (2020) e Remainders (2021). Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento tra cui: Poeti nel Molise (1981), La poesia nel Molise (1981); Il segno e la metamorfosi (1987); Poeti molisani tra rinnovamento, tradizione e trasgressione (1998); Giose Rimanelli: da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues (1999); La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea (2000); Carlo Felice Colucci – Poesie – 1960/2001 (2001); La poesia di Gennaro Morra (2002); La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli (2004). È presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio (1983); Progetto di curva e di volo di Domenico Cara; Poeti in Campania di G.B. Nazzaro; Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci;  Psicoestetica di Carlo Di Lieto e in Poesia Italiana Contemporanea. Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, (2016). È presente nella Antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019
 .

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Per la poesia pubblica nel 1992 pubblica Uccelli (Scettro del Re) e nel 2000 Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).
Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 esce la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma) e nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019
Nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue nella ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia positiva della filosofia di oggi,  cioè un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia all’altezza del capitalismo globale di oggi, delle società signorili di massa che teorizza la implosione dell’io, l’enunciato poetico nella forma del frammento e del polittico. La poetry kitchen o poesia buffet.

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Lucio Mayoor Tosi nasce a Brescia nel 1954, vive a Candia Lomellina (PV). Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, ha lavorato per la pubblicità. Esperto di comunicazione, collabora con agenzie pubblicitarie e case editrici. Come artista ha esposto in varie mostre personali e collettive. Come poeta è a tutt’oggi inedito, fatta eccezione per alcune antologie – da segnalare l’antologia bilingue uscita negli Stati Uniti, How the Trojan war ended I don’t remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), Chelsea Editions, 2019, New York.  Pubblica le sue poesie su mayoorblog.wordpress.com/ – Più che un blog, il suo personale taccuino per gli appunti.

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Slavoj Žižek, Vivere alla fine dei tempi, traduzione italiana di C. Salani, Ponte alle Grazie, Milano 2011, pp. 619, Recensione di Valentina Rametta, Lucio Mayoor Tosi, Covid garden, acrilico, 2020

Lucio Mayoor Tosi Covid Garden Blues 40x50 cm acrilico

Lucio Mayoor Tosi, Covid garden blues, 2020

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L’epoca del disagio nel capitalismo liberale

 I tratti culturali della nostra epoca, all’incrocio tra collasso economico e collasso ecologico, sono iscritti in una “maniera apocalittica” di vedere i tempi all’opera, nella quale l’insoddisfazione generale per il sistema capitalistico, raddoppiata dal carattere sociale e politico della fine di un certo mondo, che proviene dalle resistenze delle società soffocate dalle violenze politiche e dalle oppressioni di tutte le forme di totalitarismo, lascia il posto ad una sorta di freudiano Unbehagen, di “disagio” nel capitalismo liberale. Già un antropologo italiano come Ernesto De Martino aveva puntato lo sguardo sul discorso della fine del mondo nella particolare congiuntura culturale degli anni della “mutazione antropologica” e dell’“industria culturale”, e nel 1980 Jacques Derrida parlava di “un tono apocalittico adottato di recente nella filosofia”. Già allora si trattava della medesima domanda sulla fine, su temi escatologico-messianici della fine della storia e delle fini dell’uomo.

Il tropo della fine del sistema capitalistico è oggi annunciato in perpetuo. La parata mediatica dei discorsi attuali sulla fine producono un infinito finire del mondo dentro il capitale, che pone la cognizione stessa del presente fuori di sé, in un tempo non-coincidente e  penultimo, disturbato e differito, insieme attuale e a-venire, eccedente e folle. È secondo questa intonazione retorica della fine che Slavoj Žižek avvia le sue analisi sulle contraddizioni culturali del tardo capitalismo nel suo libro dal titolo più che esemplificativo in tal senso, Vivere alla fine dei tempi: il sistema capitalistico si sta avvicinando ad un apocalittico punto zero. Secondo il filosofo sloveno nell’attuale stato del capitalismo globale emergono “quattro cavalieri dell’Apocalisse”: il collasso ecologico, la riproducibilità biogenetica, i mutamenti interni al sistema finanziario, l’esplosione violenta delle esclusioni sociali (p. 10).

La premessa di base del libro è che viviamo alla fine dei tempi del capitalismo, mentre le coordinate della nostra percezione sono assoggettate ad una patologica “negazione feticistica collettiva” (p. 11) che oscilla tra clonazioni del terrore e pedagogia della paura. In tal senso Žižek organizza il libro secondo lo schema delle cinque fasi di elaborazione del lutto (rifiuto, collera, venire a patti, depressione, accettazione), ripreso dalla psicologa Elisabeth Kübler-Ross, con quattro “interludi” che costituiscono una variazione sul motivo dello stato di menzogna vissuta della nostra vita quotidiana. In questa sorta di moltitudine che vive l’esperienza del lutto “è possibile scorgere le stesse cinque figure nel modo in cui la nostra coscienza sociale prova ad affrontare l’imminente apocalisse”(p. 13). Il fascio di tenebra che riceviamo in pieno viso da questo “universo senza mondo”, il quale è anche il fascio di tenebre del tempo, della cultura e della storia, rivela il fallimento degli ordini simbolici – l’idea di natura, il lacaniano “grande Altro” – e il rifiuto ideologico che normalizza l’evento “impossibile” – l’uragano Katrina, il crollo dell’11/9 – traslocando nel nudo reale le “incognite ignote” del trauma: “Il capitalismo globale genera dunque una nuova forma di malattia che è essa stessa globale, indifferente alle distinzioni più elementari come quella tra natura e cultura” (p. 409). Per tale ragione lo schema del lutto viene ripensato attraverso la formulazione critica di Catherine Malabou, come rapporto tra l’inconscio freudiano e l’inconscio cerebrale, ovvero il passaggio dalle “incognite note”, l’inconscio, alle “incognite ignote”, cioè il trauma. Per Žižek la nostra realtà socio-politica impone molteplici versioni di intrusioni esterne, “traumi, che sono solo questo, interruzioni brutali ma senza significato, che distruggono il tessuto simbolico dell’identità del soggetto” (p. 406).

Covid garden 2BASSA

La condizione luttuosa globale

Dopo il “soggetto scabroso” che mette indubbio la modernità singolare del Ventesimo secolo dunque, Žižek osserva ora l’emergere, in questa condizione luttuosa globale, di un nuovo soggetto, il “soggetto post-traumatico” del Ventunesimo secolo, una figura di sopravvissuto la cui sostanza libidinale è costituita interamente dalla ferita irrevocabile del trauma (clandestini, rifugiati, vittime del terrorismo, sopravvissuti ai disastri naturali, vittime del neocolonialismo, nuovi poveri). Se per l’Occidente “post-politico” il trauma è una temporanea intrusione violenta che disgrega la normalità della nostra vita, per le soggettività dilaniate dalle guerre o dai totalitarismi “il trauma è uno stato di cose permanente, un modo di vita” (p.407). Per l’inconscio cerebrale non c’è alcuna possibilità di essere presenti alla propria ferita, non c’è alcuna rappresentazione, alcuna scena per questa “cosa”che non è una cosa.

Il punto interessante della riflessione di Žižek sui “nuovi feriti” che vivono la fine dei tempi, consiste nel cogliere uno dei tratti propriamente apocalittici del nuovo millennio: “emerge un nuovo soggetto che sopravvive alla propria morte,la morte (o la cancellazione) della sua identità simbolica […]. Questo soggetto vive la morte come una forma di vita” (p. 408). È la condizione del Ventunesimo secolo e del soggetto “post-traumatico”, un’epoca di violenza politico-economica“astratta” che trae le proprie risorse dal misconoscimento e dalla rinuncia al senso propriamente politico della violenza, per cui “ogni ermeneutica è impossibile” (p. 409). Il primo paradosso è che l’oggetto-causa del desiderio – l’objet a di Jacques Lacan – diventa esso stesso un’esca, un sostituto vuoto che sta al cuore stesso dell’ordine simbolico, ma che nel medesimo movimento dimostra qualcosa in questa illusione, qualcosa di reale: “l’oggetto del desiderio nella sua natura positiva è vano, ma non il posto che esso occupa, il posto del Reale” (p.115). Le modalità della nostra sopravvivenza simbolica e materiale dipendono dunque dalla possibilità di intravedere, nel “posto del Reale”, ciò che resiste all’assedio del presente, giacché la nostra specie è divenuta una condizione naturale, un agente geologico sul pianeta. Da questa sponda antropologica Žižek osserva uno dei quattro cavalieri dell’apocalisse, l’ecologia: il passaggio dal Pleistocene all’Antropocene (p. 459) è il risultato del mondo divenuto “umano, troppo umano”, il cui effetto è di aver minato la distinzione tra natura e storia umana. Ecco dunque l’altro paradosso dell’apocalittismo contemporaneo:

“Possiamo preoccuparci quanto vogliamo delle realtà globali, ma è il Capitale che è il Reale della nostra vita” (p. 464).

Ad un mondo più compiutamente umano, fa da  speculum l’umano divenuto integralmente “naturale”. L’attenzione portata da Žižek al discorso sull’ecologia si sposta proprio nella direzione dello “sforzo impersonale del capitale stesso a riprodursi” (p. 464). Il conflitto tra capitalismo ed ecologia non è il semplice “conflitto d’interessi patologici”: sono le nostre “preoccupazioni ecologiche” ad essere fondate su un utilitario senso della sopravvivenza, per cui la stessa idea di “natura” di cui disponiamo, sia essa declinata in termini di decrescita che di sviluppo sostenibile, contiene in sé una minaccia apocalittica di riproducibilità del capitale in accordo col suo concetto, come ci suggerisce il discorso sul “capitalismo dei disastri”.

La conclusione provocatoria di questa diagnosi apocalittica del Ventunesimo secolo, per Žižek, potrebbe essere questa: dobbiamo avere il coraggio di accettare che il nostro diritto fondamentale è solo quello di partecipare alla  jouissance della  servitude volontaire e del suo  surplus di godimento (p. 334)? Oppure nell’immaginario collettivo, tra i desideri che occupano il posto del Reale, è visibile qualcos’altro? Il punto di partenza delle risposte abbozzate da Žižek “è imparare a essere terrorizzati da noi stessi” (p. 14), dallo stato “spontaneo” di menzogna vissuta per rendere ancor più oppressiva “quest’atmosfera di base letargocratica”, ma allo stesso tempo isolare i germi di una cultura opposta eutopica che passa dalle comunità dei topi di Kafka ai reietti  freaks di Heroes (p. 506). Continua a leggere

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Tre poesie kitchen di Francesco Paolo Intini, Immagine di Lucio Mayoor Tosi, Covid garden, Inverno, 2020, Nella poetry kitchen ci sono mille piccole percezioni inconsce, una sorta di pointillisme diffuso, Commento di Giorgio Linguaglossa, Parallasse, di Slavoj Žižek

Lucio Mayoor Tosi, Inverno, Covid garden, 2020

Lucio Mayoor Tosi, Covid garden, Inverno, 2020 

Giorgio Linguaglossa: un bel ritratto della Assenza. In realtà lì non c’è niente, niente di significativo… c’è un pointillisme di luci e corpuscoli diffusi…e della neve c’è l’Assenza… voglio dire che non c’è rappresentazione. Forse qui siamo veramente nella rappresentazione di una non rappresentazione, di un inconscio an-Edipico. L’inconscio an-Edipico ignora la significazione così come ignora le leggi, le immagini, le strutture e i simboli. È un inconscio orfano, poiché precede il nome del Padre che inietta nelle sue produzioni l’assenza costitutiva del sé

Lucio Mayoor Tosi: E’ così, oltre al gesto pittorico non c’è nulla. Resta da considerare il paesaggio della pianura Padana: linea dell’orizzonte, un sopra e un sotto. Impaginazione elementare, in regola con la sezione aurea. Della pittura mi resta la pittura stessa, il segno che non ammette ripensamenti. L’ho capito anni fa esaminando un dipinto di Caravaggio, mi pare la Cena di Emmaus: nel dettaglio di un panneggio, la preziosità del suo segno pittorico. L’insieme, o il grande significato, erano spariti alla mia vista. Ma così è la pittura astratta, specie quella giapponese. Per l’estetica ho appreso anche da artisti italiani, cito solo Enzo Cucchi. Ma anche Schifano, ai suoi esordi. E il mio preferito, Osvaldo Licini.

Lucio Mayoor Tosi: In altri dipinti il soggetto c’è, come La gallina Nanin. Ma è chiaramente una provocazione.

Marie Laure Colasson: Lucio è veramente un pezzo notevole, una semplicità difficile da raggiungere di grande attrazione. Io in questo periodo non mi so fermare a tempo, e non va bene. Almeno ne sono cosciente.

Lucio Mayoor Tosi Segni
Lucio Mayoor Tosi, Segni, 2020

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Giorgio Linguaglossa

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Nella poetry kitchen ci sono mille piccole percezioni inconsce, una sorta di pointillisme diffuso; esse sono le condizioni per l’esistenza delle nostre rappresentazioni, ed hanno il compito di non confondersi mai con le rappresentazioni chiare e distinte proprie del logos rationale ma di convivere con esse in un mistilinguismo insondabile.

La «materia» micrologica dell’inconscio, ciò che sta «al di sotto della coscienza», corrisponde a queste piccole percezioni che a noi e alla nostra esperienza restano del tutto oscure e impenetrabili.
Il carattere distinto-oscuro dell’inconscio del pensiero esprime qui la sua natura intensiva, la sua realtà non-empirica come oggetto fantasmatico che coincide con il suo coglimento problematico. La verità è che quell’oggetto problematico che sta al di fuori dell’empirico, il fantasmatico, è la realtà non-empirica come fenditura o taglio nel caos del Reale. Il carattere indeterminato (distinto-oscuro) del fantasma che costituisce la struttura segreta dell’inconscio, non è una carenza, ma una mancanza, mancanza di Reale che ritorna nel Reale come parola combusta, lapsus, clinamen, scarto, e riciclo dello scarto.
È l’orizzonte problematico del discorso poetico come discorso dell’Altro che qui si pone.

L’inconscio del linguaggio, la dimensione inconscia e pre-rappresentativa della lingua, mero segno che emerge nel metalinguaggio della parola poetica.
La parola poetica così come l’inconscio, non è mai né chiara-e-distinta, né chiaro-confusa come se la dà la rappresentazione apollinea delle estetiche del Bello, bensì distinta-oscura, chiaro-oscura, macchiata dall’ombra dell’inconscio. In sé è perfettamente distinta e differenziata in ogni sua singola parte, è una possibilità interna al linguaggio che è anche una spia della sua differenzialità costitutiva.
La rappresentazione dell’inconscio e di ogni sua produzione è un errore prospettico generato dalla volontà di padroneggiare il divenire. La verità appartiene al divenire, il cui carattere non è rappresentabile: ogni conoscenza si sporge su una differenza originaria, e tale conoscenza è possibile, come organizzazione a posteriori del materiale sensibile, solo quando il divenire si è definito in una serie di rapporti tali per noi da poterlo vedere, conoscere e simbolizzare.
L’ipotesi di un inconscio strutturato come un linguaggio concepisce lo stesso inconscio su quel modello linguistico che prevede l’organizzazione strutturale dei significanti, in se stessi mancanti, in una dipendenza da un significante dispotico che agisce e su di essi opera distribuendo il Valore-significazione. L’inconscio an-Edipico ignora la significazione così come ignora le leggi, le immagini, le strutture e i simboli. È un inconscio orfano, poiché precede il nome del Padre che inietta nelle sue produzioni l’assenza costitutiva del sé.

Quando si parla di “sintomo” della nevrosi, dice Lacan, si ha ache fare con un particolare significante connesso ad un significato che è stato rimosso dalla coscienza del soggetto. Si tratta, ancora una volta, di una testimonianza di come un malfunzionamento nella struttura del linguaggio, nella catena significante determini una alterazione della parola nei confronti della cosa che vorrebbe designare.
Analogamente il linguaggio poetico ha a che fare con un significante connesso ad un significato rimosso dalla coscienza del soggetto che si sposta su un altro significante imprevisto e imprevedibile… Qui, in questa linea di confine si situa la poetry kitchen.

La parola, divenuta incomunicabile e incomprensibile, perde la sua stessa essenza e la possibilità di ottenere una risposta. Diviene una parola vuota. La parola diun soggetto che crede di parlare di se stesso, ma che in realtà parla soltanto di qualcuno che gli assomiglia, ma che non coincide con il soggetto dell’inconscio, con il soggetto del suo desiderio. E’ la parola del soggetto che si crede un Io, del moi, di chi cede alla “follia più grande”. Come ricorda Recalcati, “più la parola si riempie di Io, più risulta vuota di desiderio”.1

Nell’uomo c’è qualcuno che parla, un Ça parle. Ma si tratta di uno sconosciuto.

1 M. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffaello Cortina Editore, 2012,Milano, pag. 102

Tre poesie di Francesco Paolo Intini

Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  NATOMALEDUE” è in preparazione. 

Fondi di bottiglie e citazione sul campo

Alba primordiale organizzata da Filini
Messidor à Paris, Autumn in Bari

Con la vasca di Marat piena fino all’orlo
senza più spazio nemmeno per un picchetto

forche da ninfee, braghe appese
Match in un angolo del Murat.

Nella stanza accanto la ghigliottina del 2020.
Cos’altro attendersi dopo una birretta?

Dalle fogne c’è da aspettarsi turchesi
E coccarde al petto di mignatte.

E invece piombano Charlotte
e torri fumano toscano.

I Tempi saltano da un ratto all’altro.

Pulci nubili contro ammogliate
Covid e Plutonio nell’altra semifinale.

Dove ammuffì Simonide la curva di Serse
Cobra con la bocca spalancata a seguire la palla

Aspettano un autogoal per poterla ingoiare.
Code di coccodrilli alle 8 e 1\2 sul Fortino

Di un tanto più intelligente il caso,
biglietto vincente senza spendere un cent

monetina in pozzanghera
come per il Nobel e Cro-Magnon.
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“No! I am not Prince Hamlet, nor was meant to be;
Am an attendant lord, one that will do
To swell a progress, start a scene or two…”* Continua a leggere

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Gli azzeccagarbugli parlano il linguaggio del Principe di Salina, Poesie di Ewa Tagher, Giuseppe Gallo, Stralci di Slavoj Žižek, Dialogo tra Giorgio Linguaglossa e Giuseppe Gallo sul moderno e la fine della storia

Marie Laure Colasson Strutture dissipative 30x30 2020

[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 30×30, acrilico, 2020]

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Giorgio Linguaglossa

Gli azzeccagarbugli parlano il linguaggio del Principe di Salina

«Il linguaggio è un gioco di rimpatri nella lettera… non è meno importante per noi riconoscere la doppia e contraddittoria identificazione: il tentativo di assumere la dimensione soggettiva del rimpatrio, il nostro incessante voler tornare a casa, giocandolo contro se stesso nello scarto delusorio che il linguaggio ci permette. Simbolizzare l’immaginario e immaginare il simbolico, ha detto una vota Lacan: continuo rimpatrio nel “simbolo” che la parola è, continuo rimpatrio nell’immaginario da parte del soggetto…
L’illusione che si ripresenta a ogni frase è che il nome e la cosa coincidano e che il soggetto parlante sparisca: sparisca come enunciante della frase ma perché vi ha preso completamente dimora. L’unico modo che abbiamo di maneggiare questa illusione non è farla sparire, ma – al contrario – riconoscerla, farla pesare sulla frase: attraverso il margine di paradossalità che resta praticabile, in un gioco inevitabilmente in perdita e che deve sapere di esserlo».

La poesia di Ewa Tagher è questo «mancare» di continuo il «rimpatrio», l’essere la sua parola fuori luogo, sconsiderata e inopportuna, con la consapevolezza che si tratta di instaurare un «gioco» con il linguaggio paradossalmente sempre in perdita. Una parola s-tonata, mal sbobinata, sortita fuori per errore da un registratore difettoso.
Ecco, questa parola difettosa direi che è il miglior viatico per la poesia di Ewa Tagher. Il sapere che voler far concidere la parola e la cosa è il crimine che commettono i poeti elegiaci, le «canaglie» di cui parlava la Colasson citando Baudelaire.

Per venire poi alla domanda della Colasson «se l’Italia abbia ancora un futuro davanti a sé», vorrei rispondere che il nostro Paese viene da circa un trentennio di lessico berlusconiano rifornito e addobbato di paralogismi semplici ma efficaci (il pericolo del comunismo, il pericolo della sinistra, la neocolonizzazione dell’Immaginario telemediatico, il pensare per scorciatoie, la messa al bando dei nemici, la retorica della congiura della sinistra, il markettificio ginecologico del Paese, l’abolizione del reato per falso in bilancio, le sanatorie fiscali, l’uso privato delle leggi del Paese, l’uso privato delle Istituzioni Pubbliche, etc.).

Non mi meraviglia che questo regime parolaio e propagandistico dopo 30 anni abbia deteritorializzato l’antropogenesi degli italiani e non mi meraviglia che il populismo demagogico e nazionalista della Lega di Salvini e della destra ex fascista, preceduti dalla retorica personalistica di un Renzi abbia desertificato la residua debole capacità di cognizione residuale del bene comune degli italiani. Gli azzeccagarbugli parlano il linguaggio del Principe di Salina. I cialtroni e gli scavezzacolli hanno preso il posto delle poche persone serie, il risultato è stata la distruzione e la neocolonizzazione del Paese da parte delle TV private e del becerume dilagante.
La poesia era ininfluente già trenta anni fa. Adesso, figuriamoci, dopo la deforestazione attuata da combriccole di piccoli e mediocri letterati, siamo arrivati alla Lichtung, alla radura. Se si aprono gli indici di poesia delle collane Einaudi, Mondadori, Garzanti ci troviamo una sfilza interminabile di nomi di autentiche nullità che non si sa bene per qual motivo siano approdate in quelle collane. È stata la desertificazione e la deforestazione antropologica del Paese che ha determinato tutto ciò.
Adesso il Paese è da ricostruire.

1 P.A. Rovatti, Abitare la distanza, Introduzione p. XXIX, Raffaello Cortina Editore, 2007.

Marie Laure Colasson Struttura 19x28,50 2020

[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 19×28,50, acrilico, 2020]

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Ewa Tagher

Ewa Tagher abita a Roma ed è un poeta inedito.

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Prove per una scenografia

“C’è vita nelle copie in gesso?”

Forse una possibilità di luce.

La periferia si arma, alza la voce,

poi la perde, nell’arco di un solstizio.

Gli sfondi da cortile non vanno più di moda

ha vinto l’improvvisazione e la vendita al dettaglio.

L’allestimento per la prossima scena

ha a che fare con un tic senza imbarazzo

a seguire una catena di torce , borborigmi,

mani in preghiera e tracce di nicotina.

Villa Borghese ha una nuova acconciatura

ai cancelli approcci di ruggine e corde di chitarra:

solo il Galoppatoio ha speranza

di entrare nel circuito dei benpensanti.

Il tema di Paolo e Francesca

contrasta con l’atmosfera sinistra dell’Inferno

hanno sbagliato luogo e ora

“Fermi qui, sull’orlo di un diario intimo.”

*

“L’aperto riconoscimento che la scienza fisica si occupa di un mondo fatto di ombre è uno dei progressi più significativi della scienza stessa” scrive Sir Arthur Stanley Eddington ne La natura del mondo fisico (1928). “Nel mondo della fisica noi assistiamo al dramma della vita quotidiana, proiettato in un gioco d’ombre. L’ombra del mio gomito è poggiata sul tavolo-ombra mentre l’inchiostro-ombra scorre sulla carta-ombra. Tutto è simbolico e per i fisici rimane tale. Poi interviene la mente alchimistica che trasforma i simboli… In parole povere la sostanza di cui è fatto il mondo è di natura mentale.” Dopo un secolo esatto, è ora che anche la poesia faccia i conti con una maniera diversa di elaborare la realtà, in linea peraltro con le teorie della fisica quantistica sulla radiazione e sulla materia avente natura ondulatoria e particellare. Linguaglossa scrive: la «parola» quindi è una entità per sua essenza mutagena che può essere rappresentata come una entità corpuscolare o ondulatoria a frequenza variabile. Ecco l’ontologia estetica ha preso atto del post-newtonismo sposando appieno la contemporaneità della visione del mondo, allontanandosi dalla convenzionalità seppur con il rischio, calcolato, di risultare incompresa, fredda, sfuggente, senza sfondo. (e.t.)

Marie Laure Colasson 20x50 cm acrilico 2020

[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 20×50, acrilico, 2020]

Continua a leggere

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L’ideologia è diventata non-ideologia, Tre poesie inedite di Marie Laure Colasson, da Les choses de la vie, Riflessioni di Slavoj Žižek e Giorgio Linguaglossa, L’immagine permette di vedere al di là dell’immagine

Marie Laure Colasson Pannello bidle 88 1 20 cm 1980

[Marie Laure Colasson, Pannello bidimensionale 88×1,20 cm 1980]

Giorgio Linguaglossa

Abbiamo lasciato alle spalle per sempre la poesia di «Sua Maestà l’io», per usare una dizione di Freud. Ormai quel tipo di poesia non ci interessa più, e non credo che interessi la cittadinanza. Non che sia impossibile dire ancora qualcosa di significativo sul mondo partendo dall’io, forse è ancora possibile parlare di muffe alle pareti ma è che questa posizione difetta di pensiero filosofico e critico, continua a parlarci dell’ombelico, e la poesia di Louise Gluck ne è un esempio implacabile. In Italia tutta la poesia maggioritaria di Roma e di Milano fa una poesia di questo tipo… personalmente penso che sia una poesia che non ha più niente da dirci di significativo sul mondo. E bene fanno i lettori e il pubblico a non chiederle più niente perché non ha niente da dire. Forse sbaglierò, sbaglieremo, ma occorrerà prima o poi dirle queste cose nel Bel Paese. Io ad esempio ritengo che una poesia come quella di Mario Gabriele postata sopra (https://lombradelleparole.wordpress.com/2020/10/13/prufrock-ed-eliot-due-gendarmi-della-rivoluzione-francese-o-del-68-poetry-buffet-poetry-kitchen-poesia-pop-corn-il-mondo-preistorico-della-poesia-di-mario-m-gabriele-con-il-punto-sulla-i-di-gior/ ) abbia molto più da dirci sull’essenza del nostro mondo che non quella di Louise Gluck.

Riguardo alla questione del soggetto e dell’io vorrei ricordare la posizione di un filosofo critico e militante dei giorni nostri: Slavoj Žižek. Un bel bicchiere di Žižek scaccia tutti i guai legati ai pregiudizi e alla mistica del pensiero non critico.

Scrive Slavoj Žižek:

«È necessario far riferimento al fantasma fondamentale, inteso come concetto presente in Freud e Lacan, e da questi definito come la più intima essenza del soggetto, come la definitiva cornice proto-trascendentale del mio desiderare che proprio in quanto tale rimane inaccessibile alla mia comprensione soggettiva; il paradosso del fantasma fondamentale è che l’essenza stessa della soggettività, lo schema che garantisce l’unicità del mio universo soggettivo mi è inaccessibile. Nel momento in cui mi avvicino troppo, la mia soggettività e auto esperienza perdono consistenza e si disintegrano».1

La poesia kitchen che noi facciamo, o che tentiamo di fare, ha a che fare con il «fantasma» più che con le muffe alle pareti dell’io, come scrive Gino Rago, viviamo in un mondo di spettri e di fantasmi, il Reale è popolato di fantasmi, prima o poi la poesia italiana dovrà prenderne atto.

“Più reale del reale, il fantasma è nell’oggetto più dell’oggetto stesso”.2

L’ideologia funziona in questo modo, sostiene Žižek : non si tratta di una illusione che costruiamo per sfuggire ad una realtà insostenibile, ma al contrario, l’ideologia è una costruzione fantasmatica che serve da supporto alla realtà, un’illusione che struttura le nostre relazioni sociali mascherando un certo nocciolo insostenibile, “reale”, impossibile. L’obiettivo dell’ideologia allora non è quello di offrirci una scappatoia dalla realtà, ma di offrire la realtà sociale stessa come scappatoia da qualcosa di più traumatico.

I generi artistici nelle nostre società di marketing operano tutti come illusioni, supporti del Reale, svolgono cioè una funzione di sostegno del Reale, intrattengono il pubblico in modo soddisfacente. Un genere artistico che non corrisponde al marketing universale qual è diventata la cultura nel mondo globale, viene ad essere esautorata della sua funzione critica, viene letteralmente espulsa dal marketing. Il mondo globale non ha neanche bisogno di una «amministrazione» (in tal senso la posizione di Adorno pecca ancora di illuminismo), ne fa a meno, e lascia tutto nelle mani del marketing e della pubblicità. L’ideologia è diventata non-ideologia.

L’ideologia non è soltanto una falsa coscienza, un’illusoria rappresentazione della realtà, ma piuttosto è la realtà stessa ad essere già pronta per venire concepita come ideologia. Ideologica, allora, sarà una realtà la cui esistenza implica una certa non consapevolezza da parte dei suoi attori. In altri termini l’ideologia (e dunque con essa la realtà), è una formazione di tipo sintomatico: una formazione la cui vera consistenza implica una certa non conoscenza da parte del soggetto, una formazione significante portatrice di jouis-sense, un sinthomo, sintomo con cui il soggetto sfugge alla follia, scegliendo “qualcosa” (formazione sintomatica) in luogo del niente (autismo psicotico), in luogo della distruzione dell’universo simbolico. Ecco perché la definizione finale del processo psicoanalitico secondo Lacan è l’identificazione con il sintomo: l’analisi finisce nel momento in cui il paziente riconosce nella realtà del suo sintomo l’unico supporto del suo essere. Ecco perché in definitiva il supporto dell’effetto ideologico è il “non sensical”, nocciolo pre-ideologico del godimento: così nell’ideologia, spiega Žižek, tutto è non-ideologia, ovvero non è significato ideologico. E questo surplus è proprio il vero supporto dell’ideologia.

1 S. Žižek, Lacrimae rerum, cit., p.217.
2 Ibidem

[Marie Laure Colasson, Structure, 82×33 cm 2010]

Tre poesie inedite di
Marie Laure Colasson, da Les choses de la vie di prossima pubblicazione

15.

Eredia rêve de ressembler à un tableau de Vermeer
se pare d’un collier et boucles d’oreille où scintillent les perles
ajuste un large chapeau rouge une étole d’hermine
et divine s’installe sur un banc aux jardins du Luxembourg
en guerrier de passage Scipion l’Africain la regarde
en amazone la fait monter sur son étalon
pour aller détruire Cartage

La blanche geisha boit un pur élixir artisanal
se retrouve à onze ans sur la branche d’un figuier
mange quelques fruits murs en dessinant des oiseaux sur son cahier
son cahier tombe à terre les oiseaux s’envolent
en véritable jeu d’équilibre ils sautillent de branche en branche
rompus de fatigue après un tel exploit
ils se recomposent en dessins
et colorent leur plumage sur la page blanche du cahier

Un pied à 4 doigts attrape un maker-painting
court à Naples dans le quartier espagnol
et en tagger dessine des graffitis acrobatiques

La sable du désert s’élève recouvre les corps planétaires
de Mercure Venus Mars Jupiter
ceux-ci se heurtent au soleil
provocant une véritable guerre de religion

*

Eredia sogna di assomigliare a un quadro di Vermeer
si orna di una collana e orecchini dove scintillano le perle
aggiusta un largo cappello rosso una stola d’ermellino
e divina si installa su una panca nei jardins du Luxembourg
un guerriero di passaggio Scipione l’Africano la guarda
la fa salire da amazzone sul suo stallone
per andare a distruggere Cartagine

La bianca geisha beve un puro élixir artigianale
si ritrova a undici anni sul ramo di un fico
mangia qualche frutto maturo mentre disegna uccelli sul suo taccuino
il quaderno cade a terra gli uccelli prendono il volo
in un vero gioco d’equilibrio saltellano di ramo in ramo
affranti di stanchezza dopo un tale exploit
si ricompongono in disegni
e colorano il loro piumaggio sulla pagina bianca del taccuino

Un piede a 4 dita afferra un marker-painting
corre a Napoli nel quartiere spagnolo
e da tagger disegna dei graffiti acrobatici

La sabbia del deserto si solleva ricopre i corpi planetari
di Mercurio Venere Marte Giove
i quali si urtano al sole
provocando una vera guerra di religione
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La nuova metodologia del poetico, Fantasmi, avatar, sosia, diplopia, salti spaziali e temporali, La Poetry kitchen, La Gallina della cover della Poetry kitchen di lucio Mayoor Tosi, Poesia di Gino Rago e Guido Galdini, Backstage n. 23, limerick, Presentazione di Giorgio Linguaglossa

Poetry kitchen cover

[Ecco la cover della Antologia della poetry kitchen in via di allestimento, opera grafica di Lucio Mayoor Tosi, che segnerà il coronamento di un percorso di ricerca che dura ormai da vari anni. L’Antologia, ovviamente, comprenderà gli autori che con più continuità e determinazione si sono mossi in questa direzione di ricerca]

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Giorgio Linguaglossa

La nuova metodologia del poetico

C’è stato un lungo interregno dal post-sperimentalismo al minimalismo italiano (all’incirca dagli anni sessanta al 2000) durante il quale ci si è soffermati sul «significante in eccesso». I romanzi di Giorgio Manganelli ne sono il miglior esempio; il peggior esempio di questa metodologia lo ritroviamo nella poesia di Edoardo Cacciatore. Poi è avvenuto che questo «eccesso» di significanti in libera uscita ha provocato la fine di quella stagione letteraria, con alcuni rigurgiti di significanti imbottiti e forclusi nell’orfanatrofio di uno pseudo simbolismo tutto italiano quale è stata la auto sedicente poesia neo-orfica.

C’è un «significante eccedente» che caratterizza la poesia contemporanea, questo è indubbio, ma ciò che caratterizza la poesia della nuova fenomenologia estetica della poetry-kitchen o pop-corn-poetry è una particolare idea di «significante eccedente». Pensare questa idea soltanto nel senso semantico come ha fatto lo sperimentalismo e la poesia tardo novecentesca, a mio avviso è limitativo e fuorviante. Qui occorre pensare l’«eccedente» nella accezione di uno scarto e di un residuo non assimilabile ad alcun significato stabilito, che eccede, che infirma l’Ordine Simbolico. A questo punto si apre uno spazio di «gioco linguistico» nel senso di Wittgenstein sconosciuto alla poesia del Moderno, impensabile dalla poesia del modernismo del novecento. È questo salto mentale che bisogna fare, altrimenti si ricade inevitabilmente nella poetica del significato e del significante.

Scrive Slavoj Žižek:

«Tramite il coraggio delle avanguardie artistiche, dal futurismo a dada, dal surrealismo al ready-made, sino al loro prolungamento nel dedalo dell’arte concettuale post-bellica, la provocazione è divenuta oggi una pratica non più provocatoria e una forma codificata. [É] in grado forse di darci qualche segno, qualche storta sillaba intorno alla nostra contemporaneità».1

Fantasmi, avatar, sosia, diplopia, salti spaziali e temporali costituiscono una metodologia del poetico in cui coesistono e coincidono elementi assolutamente contraddittori del soggetto che trovano luogo nella testualità della poetry kitchen che così risulta essere un prodotto di ibridazione e di eterogeneo, implantologia di elementi estranei e disparati. Una prassi di liberazione dell’immaginario è l’impegno concreto della nuova poesia, un nuovo progetto di impegno etico per il presente e il futuro.

Scrive Žižek: «ll potere dell’immaginazione nel suo aspetto negativo, distruttivo, disgregante, in quanto potere che dissolve il continuum della realtà in una molteplicità confusa di oggetti parziali, apparizioni spettrali di ciò che in essa esiste solo come parte di un organismo più grande?»2

Una volta chiesero a Federico Fellini dove avrebbe preferito abitare. Lui rispose candidamente: «a Cinecittà». Ecco, io direi che noi oggi siamo fortunati ad abitare in Italia. Ditemi, quale paese è più simile a Cinecittà del nostro martoriato Paese? Qui c’è di tutto. Nell’Immaginario del Politico ci sono: mascalzoni, malvissuti, malmostosi, portaborse, corrotti, fraudolenti, tagliaborse, monatti, untori, mangiafuoco, stampellieri, domatori di giraffe, palyboy da strapazzo, parvenue, paparazzi, voltagabbana e vomitevoli lustrascarpe… L’ideale per una poetry kitchen.

1 I. Pelgreffi, Slavoj Žižek, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2014, p. 31
2 S. Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, tr. it. a cura di D. Cantone e L. Chiesa,Cortina, Milano 2003, p. 37.
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Cover della Antologia della Poetry Kitchen, Il collasso dell’ordine simbolico, il Punto X, Tutto dipende dai condimenti e dagli ingredienti che abbiamo in cucina, di Giorgio Linguaglossa, Poesie di Ewa Tagher, Marie Laure Colasson

Poetry kitchen cover

[Ecco la cover della Antologia della poetry kitchen in via di allestimento, opera grafica di Lucio Mayoor Tosi, che segnerà il coronamento di un percorso di ricerca che dura ormai da vari anni. L’Antologia, ovviamente, comprenderà gli autori che con più continuità e determinazione si sono mossi in questa direzione di ricerca]

Giorgio Linguaglossa

Il punto X

La poetry kitchen ha abbandonato il Principio di ragion sufficiente, non si pone più il quesito del perché qualcosa ha ragione di esistere e qualche altra cosa no, tutto esiste contemporaneamente, magari in un’altra dimensione, e quindi tutto è contemporaneo. Tutto dipende dai condimenti e dagli ingredienti che abbiamo in cucina. Tutto dipende da ciò che abbiamo in dispensa, in cucina… a portata di mano. E la poesia la si fa con ciò che abbiamo a portata di mano.

Lacanianamente, il Simbolico è sempre mancante in un punto X. Il punto X è il punto non rappresentabile della rappresentazione. In quel punto il Simbolico non è simbolizzabile. Ma questo significa semplicemente che il Simbolico è simbolizzabile proprio grazie a quel buco lasciato vuoto, grazie a quel punto non-simbolizzabile.

Il processo simbolico funziona così, da un lato opera entro un contesto fantasmatico, dall’altro implica una X non simbolizzabile, un «nucleo reale-impossibile» (dizione di Slavoj Žižek ), un punto vuoto, un punto cieco che inghiotte il Simbolico e che ne consente l’emersione. Ecco che la triade Reale-Simbolico-Immaginario comincia a prendere profondità e senso: il Simbolico è sì la dimensione dominante nell’uomo, ma essa, proprio perché umana, non è concepibile indipendentemente dal Reale (che forclude e che presuppone) né dall’Immaginario da cui è fondata e che continua a suscitare.

Nel seminario lacaniano RSI del 1974-5 questa emergenza fondamentale riveste una funzione psico-sociale, un aspetto individuale-collettivo: la costellazione Immaginario-Simbolico-Reale si dà in un nodo borromeo in quanto discende dal funzionamento dialettico: il Reale è la mancanza che si iscrive nel Simbolico, e l’Immaginario è la cornice fantasmatica che consente al Simbolico di emergere.
Quand’è che si incontra il Reale? Rispondo: la poiesis è il luogo ideale dove si incontra il Reale nel suo travestimento nel Simbolico.

«Quand’è che io incontro l’altro nel Reale del suo essere… solo quando incontro l’altro nel suo momento di jouissance, cioè quando scopro in lui/lei un piccolo dettaglio- un gesto compulsivo, una eccessiva espressione del volto, un tic- che segnala l’intensità della realtà della sua jouissance …l’incontro con il Reale è sempre traumatico, c’è qualcosa perfino di minimamente osceno in esso» (S. Žižek 1999, p.32)
Per esempio, ciò che emerge dal Reale è l’immagine del «tram addormentato» in questo verso di Marie Laure Colasson in chiusura di una sua poesia:

«Il tram si è addormentato come un viso mal rasato e sudato»

dove è evidente che ciò che è inverosimile e inappropriato (la metafora di «un viso mal rasato e sudato» che equivale al «tram [che] si è addormentato), diventa invece perfettamente verosimile e appropriato.
Questo verso «tradizionale», quasi lirico, posto in chiusura di una poesia kitchen, aumenta a dismisura l’effetto di straniamento della poesia, la rende inesplicabile e insondabile in quanto riporta nel Simbolico la faglia, la schisi che si è aperta nel Reale.
Il Punto X è, in ultima analisi, un Enigma.

Poetry Kitchen Topologia del poetico Cover
di prossima pubblicazione

Marie Laure Colasson

[Marie Laure Colasson è nata a Parigi il 1955 e vive a Roma. È stata ballerina di danza classica. Attualmente insegna danza classica e contemporanea, è coreografa e pittrice. È in preparazione il suo primo libro di poesia, Les choses de la vie.]

Una mia poesia kitchen, tratta dalla raccolta Les choses de la vie di prossima pubblicazione.

12.

Antibiotique citrobiotic probiotique patriotique
Napoléon des tics des tocs pour des yeux verts mimbés de soleil

Un chat voluptueux enfile sa robe indienne à pois
et discute fermement avec les angrais de compostage

Des particules élémentaires au ventre proéminent
montent dans le tramway n’aboutissant à rien

Zigzag le chien de Madame Bonjour avec un lorgnon d’écaille de tortue
lèche une glace au chocolat en conduisant sa Porsche

Eredia rapide s’habille d’illusions électrocinétiques
se rend 11 rue de Nulle Part pour y voir un film muet

Ville palladienne ensoleillée Londre est en effervescence
la couronne de la Reine Elizabeth a disparue
avec le soleil au petit matin

Le tramway s’est endormi comme un visage mal rasé et en sueur Continua a leggere

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L’implosione dell’ordine Simbolico e l’Immaginario, La poetry kitchen, La poesia buffet, Poesie di Alfonso Cataldi, Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno, Giorgio Linguaglossa

 

Foto 1 2 3Giorgio Linguaglossa

L’implosione dell’Ordine Simbolico

Come si fa a capire qualcosa della poetry kitchen se non la si pensa entro quel rivolgimento che è l’implosione dell’Ordine Simbolico?

L’epoca moderna non solo tende a produrre comportamenti psicopatologici  ma si configura come una società ad alta incidenza di psicopatologie diffuse, psicopatologie di massa, innocui disturbi della psiche o perturbazioni dell’attività fantasmatica.
La diffusione del fantasma a livello di massa nella attuale fase di sviluppo del capitalismo va di pari passo con la diffusione delle psicopatologie non più come mero «sogno ad occhi aperti» di Freud ma come una vera e propria liberazione dell’Immaginario, è questa la caratteristica saliente della implosione del Simbolico.
Il postmoderno segna l’epoca della crisi dell’Ordine del Simbolico. Tale crisi nasce dal fatto che nel postmoderno vengono a maturazione due situazioni che per Slavoj Žižek sono indicative di un difetto strutturale della funzionalità del Simbolico: rimane in questo Ordine una carenza di fondo per cui vi è sempre un resto, un residuo del Reale non simbolizzato, un «qualcosa». Il Simbolico per funzionare necessita sempre di un supporto fantasmatico ovvero di quell’ancoraggio tra la realtà psichica e la rete dei significanti. Il fantasma è ciò che per il soggetto prende posto nel reale e lo supporta, lo sostiene. È destino del fantasma andare al seguito della catena del significante.
L’Ordine Simbolico o Grande Altro, per Lacan comprende la legge e il potere e si presenta con molteplici e complessi aspetti. È l’Ordine che fa da barriera al Reale con le sue forme di godimento ed è titolare dell’importante funzione di tenere insieme l’Immaginario e il Reale. L’accesso all’Ordine simbolico (rete dei significanti e linguaggio) comporta l’alienazione del soggetto, prezzo che questi deve pagare per raggiungere una identità purchessia. È il prezzo da pagare per essere assoggettato.
L’Ordine Simbolico o Grande Altro, alla fine del postmoderno tende a collassare rendendo evidenti le patologie della struttura, dando così origine alle innumerevoli patologie identitarie di oggi: psicopatologie diffuse, narcisismi patologici, fondamentalismi, misticismi, esoterismi, integralismi religiosi, integralismi politici, personalismi, presenzialismi, manie e fobie le più varie etc. Il Reale diventa un Immaginario popolato di spettri. E gli spettri ritornano nell’Immaginario, popolandolo.

Queste perturbazioni della nostra società sono presenti in amplissima misura nella poetry kitchen o nella poesia buffet che pescano le proprie risorse nelle perturbazioni e nelle patologie dell’Immaginario.

L’Immaginario

È pensiero della filosofia contemporanea che l’immaginario sia mantenuto in vita artificialmente. Ed è vero, la religione telemediatica mantiene in vita l’immaginario, lo coltiva, lo concima, lo forgia. Quando vediamo un film o leggiamo un romanzo o una poesia riconosciamo subito l’immaginario che li popola. È l’Immaginario a fornire l’alfabeto, il lessico e la sintassi delle «istanze di verità», che piega alle sue ragioni le ragioni del logos. Chiediamoci: la poesia di Gino Rago, di Francesco Paolo Intini, o quella di Mauro Pierno sono un prodotto di artificio?, di maniera? – come qualcuno ha obiettato -.

Io penso il contrario: senza una ricerca si cade dritti nella maniera e nel manierismo. È invece la ricerca che ci consente di evitare il manierismo. Di solito prendiamo per buono l’immaginario che ci consegna l’ideologia dominante, ma la poesia che ne risulta diventa un epifenomeno dell’ideologia e nient’altro. Anche la poesia fa parte dell’ideologia, ne è parte integrante, fa parte della visione del mondo di un’Epoca. Qualcuno dice che Sì, si tratta di un irreale (l’Immaginario) che procede da una realizzazione linguistica (il Simbolico). Altri sostengono che la poesia sorga da una duplice istanza di verità: è vera per me che la faccio e per te che la leggi. Ma anche questo argomento che riporta tutto al soggettivismo a me sembra specioso. Ma, in fin dei conti, che cosa significa «istanza di verità»? È il logos che muove l’istanza di verità o accade il contrario?

La poetry kitchen vuole rimettere tutto in discussione, in primis l’Immaginario maggioritario e il logos che lo racconta. Il movimento della coscienza è intenzionale e inintenzionale insieme, noi vediamo solo le cose che l’inconscio ci suggerisce e non altro. Nel caso dell’immagine il correlato della coscienza è preso di mira come ciò che non è sottoposto al mio sguardo, anzi, che non dipende dal mio sguardo, anzi, tanto meno dipende dal mio sguardo tanto più quella immagine sarà vera, sarà «istanza di verità». Sono «istanza di verità» anche ciò che viene espulso dalla «verità», ciò che non è ritenuto degno di entrare nella «verità».

È questa la novità della poesia buffet. O poetry kitchen.

Francesco Paolo Intini

 Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti: “ NATOMALEDUE” è in preparazione. 

Scatto dopo scatto

Sul maniglione era scritto: “QUI SI VIVE”.
Meglio non aggiornare il tasso d’ateismo.

A ogni tocco uno scatto di mamba.
Ma qualcosa andava storto.

Cruscotto in moto. Uteri allevati da feti.
Secondo scatto, chiusura della cataratta.

Gli uomini del porto cavalcarono alici

muovendo il vento
distillarono cobalto.

Da qui non si passa.
Se guardi bene troverai una galassia.

Costruirono la Luna di Flaiano riciclando caffettiere
Così prese a pendere sugli intellettuali.

Restavano versi a sé, nudi del racconto
Senza alcun ritegno, urati del dolore

Vista sulle Alpi con bagnanti
Mossa di caffè che gira cucchiaini
.
Nessuno sapeva come trasformare un po’ di massa
in termini di Io.

Il rischio di rimanere sepolti
da una pioggia radioattiva.

Tra chi lascia l’ostrica con la perla al collo
e i forzati della parola,

Il pesce nuvola di Hiroshima.
Esploso di una brocca.

Ad oganesso sotto controllo
Il Dio delle previsioni toccava ferro. Continua a leggere

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Nietzsche, Sul concetto di «catastrofe», poetry kitchen, Slavoj Žižek, Giorgio Linguaglossa, poesia di Francesco Paolo Intini, Marina Petrillo Quadri e illustrazione di Marie Laure Colasson e Lucio Mayoor Tosi

[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, la macchia, 35×35, acrilico, 2020]
Osserviamo attentamente, ed ecco che emerge una “macchia” (nella parte inferiore, centrale, a sx?). Soltanto distorcendo la prospettiva di osservazione, ovvero, guardando il quadro obliquamente fino a non poter distinguere la partitura dei colori, l’ osservatore potrà realizzare che quella zona non riconoscibile corrisponde ad un buco nero: il punto/centro geometrale cartesiano è perduto, quello che emerge è la zona di angoscia che non può essere raffigurata se non da una macchia nera. L’indicibile. L’irrappresentabile. La catastrofe.

Giorgio Linguaglossa 

Sul concetto di «catastrofe»

Nietzsche scrive:

«Ciò che racconto è la storia dei prossimi due secoli. Descrivo ciò che verrà, ciò che non potrà più venire diversamente: l’avvento del nichilismo.
Questa storia può essere raccontata già oggi, poiché qui è all’opera la necessità stessa. Questo futuro parla già per cento segni, questo destino si annuncia dappertutto; tutte le orecchie sono già ritte per questa musica del futuro. Tutta la nostra cultura europea si muove già da gran tempo con una tensione torturante che cresce di decennio in decennio, come se si avviasse verso una catastrofe: inquieta, violenta, precipitosa; come un fiume che vuole sfociare, che non si rammenta più, che ha paura di rammentare»1

«“Tutte le cose diritte mentono,” borbottò sprezzante il nano. “Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo”» (La visione e l’enigma)

La zona grigia di compromissione in cui tutti ci muoviamo, è già in sé una ideologia.
Abbiamo dato agli azzeccagarbugli la lingua del Principe di Salina.
Sullo sfondo di una realtà che sparisce per lasciare posto all’iperrealtà, alla pseudorealtà e alla iporealtà, alla ipoverità, alla pseudoverità e alla iperverità, la distanza tra segno e referente, tra segno e cosa, si fa squarcio insondabile. Dal capitalismo della produzione e dei consumi, oggi ci troviamo immersi in un capitalismo semiurgico, capitalismo della manipolazione dei segni, semiotico, semantico nel quale le parole diventano insensibilmente innocue, si iperbarizzano, si atrofizzano, entrano nel frigorifero e da lì ne escono a temperatura sotto zero, pronte per essere impiegate nelle catene di montaggio dei significanti e dei segni.

Il linguaggio che impiega la poetry kitchen, a ben guardare, è un linguaggio rifritto, di seconda o terza cottura. Tutta la migliore poesia di oggi è di seconda o terza cottura, ripassata in padella. I puristi del bel verso eufonico sono quei tuttofare disposti a tutto. Così come anche in pittura. Guarda i vari strati di pittura, gli strati di colore, i graffi, le smagliature, i tagli, le ulcerazioni sovrapposte intendo, sui quali il pittore stende la pittura, ehm, definitiva, volevo dire ultima, giacché di definitivo nell’arte di oggi non è rimasto un bel niente, sono il conglomerato di una idea di poiesis che si fa per sporcificazione, quando invece non c’è bisogno di alcuna sporcificazione, è il reale stesso in modo oltraggioso sporcificato oltre misura. La poesia della poetry kitchen mi dà la sensazione di una scrittura un po’ improvvisata, come se fosse una scrittura ancora da ultimare. Ma è che non è più possibile pensare di scrivere una scrittura definitiva e definita, oggi non è più pensabile pensare di licenziare una scrittura poetica ultimata. Oggi è forse possibile soltanto una scrittura che porti con sé un quantum di improvvisazione, di oscillazione, di inquietudine e di incertezza… Che poi è, mi sembra di capire, quella cosa che sta a cuore alla nuova fenomenologia del poetico. La nuova poesia ha in sé il marchio di fabbrica della propria vulnerabilità e della tendenza alla disparizione oltre che all’ammutinamento. La poiesis tende all’ammutinamento nella misura in cui tende all’ammutolimento. La costituzionalizzazione della poiesis che ha avuto luogo a partire dagli anni sessanta ad oggi è stato un prodotto storico inevitabile, ma questo non è un motivo sufficiente per considerare eterno ciò che è soltanto un prodotto storico.

Opere di Friedrich Nietzsche, edizione italiana diretta da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, voI VIII, tomo II [Frammenti postumi 1887-1888], tr. it. di Sossio Giametta, Adelphi, Milano 1971, pp. 392-393)

«Benvenuti in tempi interessanti»

di Slavoj Žižek

«Ci sentiamo liberi perché ci manca il linguaggio necessario per articolare la nostra mancanza di libertà.»

«Non abbiamo un linguaggio idoneo per esprimere lo stato di catastrofe in cui ci troviamo.» (g.l.)

top pop poesia, poetry kitchen,  poetry buffet e top picture

Per capire il mondo attuale non abbiamo più bisogno della poesia.
L’arte che si fa oggi in Europa è simile al dolcificante che si mette nel veleno.
I piccoli poeti pensano al dolcificante in dosi omeopatiche…
I grandi poeti pensano al dolcificante in dosi macropatiche…
È molto semplice: Dopo le Avanguardie non ci saranno più avanguardie, né retroguardie, le rivoluzioni artistiche e non, non si faranno né in marsina né in canottiera. Non si faranno affatto.
Siamo all’interno di un gioco di specchi. Ciò che vediamo sono le illusorie metastasi della realtà.
Ripeto, Faust chiama Mefistofele per una metastasi, dal titolo eloquente del libro di Francesco Paolo Intini. Continua a leggere

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Sulla poetry kitchen da una visione marxista, di Giorgio Linguaglossa, Strutture dissipative, acrilici di Marie Laure Colasson, 2014-2020, Una poesia kitchen

Marie Laure Colasson 50x20 Struttura 2020
[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 50×28, acrilico 2020]

Marie Laure Colasson

da Les choses de la vie

Des pendeloques en or et en cellules d’apocalypse
se dessinent sur le visage de Petr Král

Kandinsky et Klee combat de pensées sous presse
refusent de se fourrer des pois chiches dans le nez

Voltige de mouettes dans la cuisine
se ruent sur les épluchures et la poignée du réfrigérateur

La blanche geisha se parfume à l’acide acétique
ne laissant aucun reflet dans le miroir

Eredia et Kantor poursuivent leur route
contre l’ingérence en construisant des emballages

Král Kandinsky Klee Kantor mettent en scène la blanche geisha et Eredia
créant l’impensable et l’impossible

La débauche terminée les mouettes
laissent des empreintes sur la sable

Des rides sur la mer
des cris et de funestes cercles dans le ciel.

*

Ciondoli in oro e in cellule d’apocalissi
si disegnano sul volto di Petr Král

Kandinsky e Klee combattimento di pensieri sotto la pressa
rifiutano di ficcarsi dei ceci nel naso

Volteggiano dei gabbiani nella cucina
si affollano sulle bucce e la maniglia del frigorifero

La bianca geisha si profuma all’acido acetico
senza lasciare alcun riflesso nello specchio

Eredia e Kantor proseguono la loro strada
contro l’ingerenza mentre costruiscono imballaggi

Král Kandinsky Klee Kantor mettono in scena la bianca geisha e Eredia
creano l’impensabile e l’impossibile

Finita la deboscia i gabbiani
lasciano impronte sulla sabbia

Delle rughe sul mare
delle grida e dei cerchi funesti nel cielo

[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 50×50, acrilico 2014]

Scrive il filosofo Slavoj Žižek:

«Non è che falliamo perché non riusciamo a incontrare l’oggetto, piuttosto l’oggetto stesso è la traccia di un certo fallimento.
Per questo Freud ha avanzato l’ipotesi della pulsione di morte – il nome giusto per questo eccesso di negatività. E il mio intero lavoro è ossessionato da questo: da una lettura reciproca della nozione freudiana di Todestrieb e di quella negatività auto negativa tematizzata dagli idealisti tedeschi. Insomma, questa nozione di auto-negatività relativa, così come è stata regolata da Kant fino a Hegel, filosoficamente ha lo stesso significato della nozione freudiana di Todestrieb, pulsione di morte – questa è la mia prospettiva fondamentale. Ovvero, la nozione freudiana di pulsione di morte non è una categoria biologica ma ha una dignità filosofica.
Cercando di spiegare il funzionamento della psiche umana in termini di principio di piacere, di principio di realtà e così via, Freud si rese conto via via sempre più della presenza di un elemento disfunzionale radicale, di una distruttività radicale e di un eccesso di negatività, che non possono essere spiegate.»1

La «struttura tragica» di Maria Rosaria Madonna (Stige. Tutte le poesie 1990-2002, Progetto Cultura pp. 150 € 12) ha bisogno dell’oggetto. È solo sull’oggetto che può costruire la struttura simbolica della sua poiesis. Per far questo Madonna è costretta a tenere in piedi, in qualche modo, la struttura trascendentale soggetto-oggetto, la struttura tragica.. L’Imperatrice Teodora sa bene che sta parlando ai posteri e vuole auto assolversi dinanzi ai posteri visti come gli oggetti del futuro; analogamente i «barbari» che stanno arrivando sono un «oggetto» identificabile, bene identificato, sono un simbolo trascendentale ma ancora storico. E così il «peccato», la «lussuria», i «diavoli» etc. sono tutti oggetti ben determinati, precisi. È la civiltà dell’umanesimo che si nutre della dualità soggetto-oggetto, anzi, è fondata sulla dualità soggetto-oggetto. Con il crollo dell’umanesimo la poesia di Madonna si staglia con auto evidenza assoluta come l’ultimo monolite di quella civiltà. La pulsione di morte che attraversa la struttura simbolica della poesia di Madonna è una categoria dell’umanesimo.

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Per capire il mondo attuale non abbiamo più bisogno della poesia, Top Pop Poesia, Poetry kitchen, Soap poetry e Top picture, Commenti di Slavoj Žižek, Mario M. Gabriele, Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa, Poesie di Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno

Marie Laure Colasson Struttura Dissipativa e Figura

Marie Laure Colasson, Gambe con calze rosse, e acrilico 30×25 cm, 2020

[L’idea del quadro è nata dalla vista di un manifesto strappato e lacerato dappertutto; rimanevano solo due gambe con calze rosse su delle scarpe nere. Marie Laure Colasson fotografa l’immagine e, giunta nel suo studio, monta l’immagine su una superficie aggiungendovi dell’acrilico]

.

Benvenuti in tempi interessanti

di Slavoj Žižek

«Ci sentiamo liberi perché ci manca il linguaggio necessario per articolare la nostra mancanza di libertà.»

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Per capire il mondo attuale non abbiamo più bisogno della poesia.
L’arte che si fa oggi in Europa è simile al dolcificante che si mette nel veleno.
I piccoli poeti pensano al dolcificante in dosi omeopatiche… i grandi poeti pensano al dolcificante in dosi macropatiche…
È molto semplice: Dopo le Avanguardie non ci saranno più avanguardie, né retroguardie, le rivoluzioni artistiche e non, non si faranno né in marsina né in canottiera. Non si faranno affatto.
Siamo all’interno di un gioco di specchi. Ciò che vediamo sono le illusorie metastasi della realtà. Ripeto,
Faust chiama mefistofele per una metastasi, dal titolo eloquente del libro di Francesco Paolo Intini.

Sorprendono gli intenti esecutivi della coloristica di Marie Laure Colasson e gli incisi narrativi di Mario Gabriele, la maestria comune ad entrambi nel modo dei tocchi, degli affondi, degli incisi, del fraseggio, delle citazioni, nel recupero fulmineo di tracce di memoria e di tracce di rovine, di avatar, di esperienze stracotte. D’istinto, c’è il seguire i punti culminanti o luminosi d’un oggetto; vengono esasperate le relazioni, in modo da imporre all’attenzione dello spettatore il reticolo accidentale o, semplicemente, evenemenziale della datità. Le sensazioni dello spettatore vengono così dinamizzate in un difficile gioco tra la volontà di vedere tutto e magari anche la rimembranza e la negligenza di non vedere null’altro che inezie, aspetti secondari, modellizzazioni esornative. Vengono ad evidenza l’arabesco del contorno e l’intreccio dell’incontro con il superfluo, tra rapide indicazioni, masse cromatiche, stadi accennati, intensità di luci e di ombre, schermi ottici e leggi morfologiche che convivono beatamente, in bilico tra un’ottica coloristica e un’esigenza tattile e mnemonica.

Momenti percettivi dissonanti si continuano e si accostano delineando i contorni di un immaginario già cinematografico. Un racconto visivo con una trama fatta di orme invisibili, di legami celati, di ripostigli oscuri, segmenti letterari, citazioni simili a inquadrature, che ritraggono volti, occasioni, scenari, situazioni, flâneries per disegnare un ordito libero, eppure segretamente organizzato, che sembra replicare le disarticolazioni del nostro modo di vita, tra percorsi, reti, rinvii, in-direzioni, parti che collegano e s-collegano altre parti. Flussi che si intersecano, trasformano il testo in una sequenza che contiene altre sequenze, citazioni che contengono altre citazioni in un gioco di rimandi e di rinvii caleidoscopico. Scrittura narrativa caratterizzata da sorprendenti interruzioni – impressioni quotidiane colte con agili tecniche della ripresa continua e interrotta –, che potrebbero essere interpretati anche come volontarie citazioni del linguaggio filmico.

L’occhio sensibile ai dettagli, alle casualità, a ciò che abitualmente si trascura nella quotidianità, il desiderio di toccare la realtà mentre si fa e si disfa dinanzi a noi, il culto per ciò che è stato dimenticato, smarrito, rimosso. Una visione dialettica della immobilità. Questo è propriamente una scrittura top pop oggi.

Il flâneur, gli avatar, i personaggi da fumetto sono, al pari del regista del film, dei detective, come i commissari nelle poesie di Gino Rago, che si consegnano alle incursioni del caso. Ad accomunarli è il bisogno di saldare sguardi e luoghi, in un gioco che tende a rendere ogni dato liquido e instabile. Fanno il reportage, perlustrano regioni inesplorate, intrattengono un costante dialogo con la datità e la surrealtà, il tutto per avversione della normografia opprimente del mondo odierno. Vogliono captare tutte le voci che, in contemporanea, insistono nella datità. Elaborano una filologia disinvolta per entrare dentro le tessiture del mondo. Analogamente allo straccivendolo benjaminiano, essi si aggirano negli anfratti di una temporalità frantumata e disgiunta, che non si srotola come un filo, ma appare come una corda sfilacciata in mille matasse che pendono come trecce sciolte. Per loro, uno specifico motivo non è un punto fisso, né un processo, non è una linea, ma un arabesco di traiettorie e di conflitti, di spostamenti e di salti. Sanno porre in relazioni tracce marginali, cuciono insieme vestigia, rifiuti, cadute, equivoci, ordinano un catalogo di cascami e di rovine, rinunciano alla facile sintassi del racconto, collezionano minuzie, raccolgono reliquie e oggetti disparati, interrompono cliché, conferiscono spessore a rimozioni e a dimenticanze. Catalogatori di merci usate, interagiscono con il paesaggio delle merci contraffatte e demiurgiche della civiltà globale. Fanno un archivio del disutile e del rimosso.

(Giorgio Linguaglossa)

Fuori da questo elenco, c’è poco spazio da aggiungere, quasi nulla se non sottoponessimo i soggetti-oggetti ad una indagine psicoanalitica; e qui il discorso diventerebbe un punto di contatto fra linguaggio letterario e linguaggio dell’inconscio.

Bisognerebbe considerare anche questi due eventi. a cui non dovrebbero mancare il processo creativo, i tempi di una procedura narrativa o coloristica, proiettati all’esterno come una carrellata di plurieventi, tra aperture e dissolvenze, rapporti distaccati e incrociati, che messi insieme fanno da panoramica o da Pan-Shot come nei film.

Non è tempo di reportage o di identikit di personaggi chiamati.in una sequenza di dati e dettagli al’interno di testi poetici. Non c’è più confronto con la norma, col codice che abbiamo istituzionalizzato con la NOE e il Distico e via dicendo: tutto un mondo specifico e costruttivo a cui Giorgio si era preparato per una nuova antologia e che, purtroppo i soprassalti linguistici hanno messo al muro dissolvendo ogni speranza.

Marie Laure Colasson

Leggiamo la prima strofa di una poesia di Mario Gabriele:

Una Jeep Renegade ferma davanti alle VideoNews.
Signorina Borromeo, l’aspettiamo qui
dove meglio si possono leggere i suoi pamphlets.

Non dicono molto
ma rappresentano episodi di prosa spontanea.

Mi vengono in mente i tantissimi romanzi che si scrivono oggi, che sono in realtà delle cianfrusaglie, dei pettegolezzi sciorinati fatti passare per analisi psicologiche. Ma restano pettegolezzi senza alcuna importanza. Più che flusso di coscienza siamo davanti ad un flusso di cianfrusaglie. E il bello è che vengono presi sul serio e magari gli danno anche il premio Strega! La poesia narrativa postata ieri di Giovanni Giudici è un esempio di poesia racconto (con qualche rima interna) che sarebbe stato meglio trascrivere direttamente in racconto.

La poesia di Mario Gabriele, invece, non la puoi trascrivere in racconto perché manca il racconto, manca il plot. I suoi personaggi sono delle icone, degli emoticon messe lì come semafori che indicano il verde, il giallo e il rosso. È la poesia che si può fare oggi dopo Warhol, a distanza di settanta anni da Warhol. Celan è ancora un poeta dell’umanesimo, probabilmente l’ultimo. In lui non c’è mai un racconto, come invece avviene per la poesia italiana dagli anni sessanta in poi. E poi, mi chiedo, che cosa c’è da raccontare? Puoi raccontare soltanto la “Storia di una pallottola” o la storia di “una Jeep Renegade ferma davanti alle VideoNews”.
Forse la poesia italiana che è venuta dopo Giovanni Giudici non ha ancora fatto i conti con la legittimità del raccontare, di fare racconti in poesia. Non ha ancora capito che i media hanno tolto ogni possibilità alla poesia di accedere al racconto in versi.

Oggi il mondo lo puoi comprendere soltanto se dimentichi il “racconto”, non c’è nulla da raccontare, l’arte deve ripudiare e aborrire il racconto. Mi piace anche la poesia di Carlo Livia (anche lui aborrisce il racconto) ma mi piacerebbe leggere le sue poesie in versione pop top o in versione poetry kitchen. Tutto sommato i suoi angeli, il suo Dio, i suoi demoni io li leggo in versione pop top, come una versione dopo la fine della storia, dopo la fine dell’umanesimo.

I poeti che continuano a scrivere racconti in versi non si rendono conto della vacuità e obsolescenza di un tale indugio?

Francesco Paolo Intini

Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017), Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019) e  Faust chiama Mefistofele per una metastasi, Progetto Cultura, 2020. Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – e una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017).

 VENERE

Una pentola suona il flauto
e Mission dà il LA a Master Chef

“Notizia di una pulce nata mamba.”

Si apre la bara delle chiavi.
E tu risorgi rossa. Ogiva sul tramonto.

Difficile distinguere i putti di Raffaello
Da una sedia elettrica.

Sacco, Vanzetti…”SILENCE”
La clessidra dei bimbi morti al secondo.

Tecnologia che affranca la pantera dall’ indios
contraddice Bolsonaro.

Te ne vai ma la pubblicità resta salda ai pubblicitari
Nano-cellula contro nano-offerta.

Filini arbitro e santo subito.

Yersinia questa volta
Come a rifocillarsi del pan degli angeli

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Esercizio con violino e tamburo, Video di Gianni Godi, musica di Antonio Amendola, Poesia di Giorgio Linguaglossa

Ho impiegato molto più tempo del previsto per la costruzione del video, e perché nelle ultime settimane sono stato poco bene (pressione alta poi bassa bassa…). e perché dal punto di vista tecnico è stato un lavoro abbastanza complicato. Le moltissime lettere dell’alfabeto che svolazzano qua e là e tutti gli altri oggetti, non sono immagini fotografiche ma oggetti tridimensionali. Quando cadono sulla “superficie” del black hole si comportano come veri e propri oggetti fisici. Seguendo la legge gravitazionale scivolano inesorabilmente nel buco. In teoria non si dovrebbe vedere alcunché di quanto avviene nel buco, però facendo finta di stare nei pressi dell’orizzonte degli eventi e avendo una telecamera adeguata…noi abbiamo il privilegio di vedere e ascoltare i coniglietti, forse perché qualcuno, dall’aldilà del buco, ha registrato l’evento. Non lo sapremo mai!
Che Einstein e Hawking, mi perdonino.
(Gianni Godi)

Foto Belle al poker

Giorgio Linguaglossa

Esercizio con violino e tamburo

K. sbatte la porta. Resto là, sulla soglia, per qualche minuto.
Impalato. Poi mi scossi e guardai la porta aperta. [1]

Madame Hanska aprì tutte le finestre, «Sa, le finestre sono nere», disse.
E fece entrare le madamigelle con il grembiulino.

«Buonasera Cogito – esordì Hanska – le cose sono cambiate
negli ultimi tempi». Prese una forbice e un posacenere

e li posò sulla siepe di capelvenere e di acanti.

«Sa, c’è una tigre e un pianoforte… Ecco, metto la forbice
sul pianoforte, adesso Vivaldi può suonare.

Woland ha ordinato ai gatti di suonare, il Requiem, quello, sì.
Solo quello. La musica uccide gli uccelli», aggiunse.

«Lo specchio avrà la sua vendetta», disse Baudrillard,
«Non resta che reinventare il reale», aggiunse tra il serio e il faceto.

Era seduta in mezzo alla camera. La tigre sorrideva.
«Per oggi basta con la musica – disse – dovrebbe esercitarsi più spesso.

Impari a suonare piuttosto. La rappresentazione è finita.»

 

Il commissario fece un buco nel muro

Entrò il commissario. Delle uniformi grigie lo seguivano.
Fecero un buco nel muro, dietro il quadro appeso alla parete.

«Qui è nascosta la refurtiva».
«Sì, da qualche parte ci deve pur essere», mi disse.

«Ne sono certo». Annuii. Guardai il cielo color lavagna,
e mi lavai le mani.

«Chi è Yolande?»
«Si chiama Yolande, ma non so chi sia…

Un tempo è stata la mia amante», risposi.
«Yolande è piccola, porta sempre scarpe con tacchi 12

E cappelli esagerati».

Sopra il cappello c’era un ombrello.
Però, era già notte. Entrai nel bosco.

La pioggia era fitta, mista a neve.
Così, ho preso il bus notturno per arrivare più in fretta.

Erano le tre.

Glossa
[1] Le tesi Sul concetto di storia di Benjamin si concludono con una frase paradigmatica: “ogni secondo […] era [per gli ebrei] la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il Messia”. Questo significa che ogni momento di ogni giorno, in questa vita e in questo mondo, è il momento (“cairologico”) della decisione e dell’azione, il presente, e non il futuro, è il tempo della storia
*

La poesia si situa in quell’essere-in-mezzo, quello “Zwischen” di cui ci parla Heidegger. Quel frammezzo che è il vero centro dell’essere, ovvero, del nulla. Se il poeta è il vero fondatore dell’essere, è anche il vero fondatore del nulla, come ci ha insegnato Andrea Emo. La poesia è il suo progetto aperto al futuro, è il futuro aperto al presente. È il presente aperto alla Memoria del passato. È insomma quella entità che sta al mezzo delle tre dimensioni del tempo. Ed è ovvio che in questo frangente, il linguaggio della poesia non può che situarsi nello “Zwischen”, cioè in un non-luogo linguistico, in un non-luogo dell’essere. Continua a leggere

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