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Gif La porta si apre

il mondo è non-mondo e il linguaggio è non-linguaggio-atopon in cui il linguaggio si toglie e lascia essere il mondo

Giorgio Linguaglossa

Scrive un filosofo italiano di oggi, Massimo Donà:

«Ciò che rende il linguaggio “segno del mondo” e il mondo “disponibile alla parola” è dunque quello stesso per cui il mondo è non-mondo e il linguaggio è non-linguaggio-atopon in cui il linguaggio si toglie e lascia essere il mondo, ma in cui, allo stesso modo, anche il mondo dissolve il proprio silenzio e si fa parola.
Solo in questo luogo-non-luogo può dunque abitare la condizione di possibilità del rapporto parola-mondo.»1

Il linguaggio, anche quello della poesia, è un linguaggio che si toglie. Ogni volta, in ogni istante di tempo, il linguaggio è Altro, non è più se stesso; il luogo del linguaggio è il non-luogo. Il luogo del linguaggio è fuori dell’io, de-coincide e de-incide l’io nel quale provvisoriamente si trova. La voce è la presenza del linguaggio nel linguaggio, è Figura del presente, Figura dell’assente. La impossibilità del linguaggio e del linguaggio poetico in particolare ad ospitare tutto il dolore del mondo de-coincide e de-incide la sua stessa possibilità di essere.

Si può scrivere in distici soltanto se si avverte il distico come una presenza subito seguita da una assenza, come una voce subito seguita da una non-voce.

Lo spazio che segue e precede il distico è il nulla del bianco della pagina che de-istituisce la presenza del distico.

L’antitesi della scrittura (il distico) e il bianco della non-scrittura, ripropone figurativamente e semanticamente l’antitesi e l’antinomia tra l’essere e il nulla.

Il distico istituisce visivamente il nulla.

Si tratta di una percezione singolarissima. Può scrivere in distici soltanto chi ha questa percezione singolarissima.

1 Massimo Donà, L’aporia del fondamento, Mimesis, 2008, p. 521

Giuseppe Gallo

Giorgio Linguaglossa, riportando una riflessione di Carlo Sini:

«L’aura sta al limite della figura, segnandone la relazione al profondo, cioè alla sua provenienza, innanzi tutto, ma anche alla sua destinazione futura.» ben definisce le atmosfere caratteristiche della poesia di Maria Borio. Sulla stessa linea le puntualizzazioni di Gino Rago. Quello che a me colpisce è la consequenzialità logica e formale dei concetti che si allineano nella versificazione… riporto come esempio l’ultima Trasparenza:

Il mare è davanti. La luce della mattina si sgrana,
ci trasforma nei punti di fuga di una prospettiva rovesciata.

i frutti cadono, ci attraversano i pensieri,
si depositano sopra le ossa e i pensieri si gonfiano

in alto resistenti nell’aria di fine estate, sfere dove
le proiezioni di molti uomini iniziano a scambiarsi

fissandosi dentro la luce mentre mare e terra
raffreddano. Inaspettatamente possiamo diventare

freddi appoggiati su onde e nuvole fredde.
Intorno il posto adesso è trasparente.

Intorno, è il posto interiore della paura e della verità.
in mezzo, le sfere dei pensieri sono libellule:

si accoppiano e i frutti cadono, dicono
cosa siamo, come ci siamo immaginati.

È mattina: è tornare l’uno di fronte all’altro
– essere la prospettiva fragile e forte

per chi ci ha abitato, chi ci abita.

A me appare sempre più difficile accettare un periodare in cui l’ordine del materiale linguistico è coordinato dall’io. Non so a voi. E non vale per questi distici nemmeno quanto afferma Giorgio Linguaglossa nell’ultimo intervento:

“Lo spazio che segue e precede il distico è il nulla del bianco della pagina che de-istituisce la presenza del distico.
L’antitesi della scrittura (il distico) e il bianco della non-scrittura, ripropone figurativamente e semanticamente l’antitesi e l’antinomia tra l’essere e il nulla.
Il distico istituisce visivamente il nulla.
Si tratta di una percezione singolarissima. Può scrivere in distici soltanto chi ha questa percezione singolarissima.”

Il perché è presto detto: “Lo spazio bianco” in cui si “istituisce visivamente il nulla” io non riesco a coglierlo. Per il resto la poesia di Maria Borio mi sembra un ritorno, robusto ed intenso, all’indagine, inesauribile, di chi abita ancora dentro di noi e di chi è stato sfollato.

Zona gaming 11

Vado a vivere nel nulla
dove chi parla non ha ospiti da esibire.

Il cielo s’apre. Entrano alberi. E nubi.
Escono rondini, sciamano aeroplani.

-Devo sapere, Joe! Devo sapere!
-Lo faccia, Ben! Lo faccia! C’è un segno!

O un sogno. A qualche chilometro di parvenza.
A qualche ora posteriore alla disfania.

Zona gaming
Anche i fiori spazzatura.

Vado a vivere nel nulla
Dove Dio bacia se stesso.

Nella Camera Oscura delle congiunzioni elettriche.
E delle sconnessioni magnetiche.

Eccoci. Siete impazienti. Ansiosi del rimosso.
Dentro le ragnatele delle pagine.

Zona gaming
Spazzatura anche il filo spinato.

-Devo sapere sapere, Ben! Devo sapere!
-Lo faccia, Joe! Lo faccia! C’è un sogno!

Segno della polvere spianata
dopo il timore della vertigine.

I metalinguaggi delle trasgressioni.
I riflessi del pubblico e del privato.

I codici della nostra sublimazione,
la semantica della follia…

Zona gaming
…segni del tempo e viceversa

Gif porta girevole

Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?

Giorgio Linguaglossa

Sono d’accordo con te caro Giuseppe Gallo,

la poesia di Maria Borio appare situarsi nella zona di trapasso dall’io al noi e dall’io alla terza persona singolare. È vero, è ancora l’io il governatore di questa «zona optica», ma è un «io» che si indebolisce, che sbiadisce… tra poco di quell’io non rimarrà più niente, nient’altro che nuvole e polvere, il mondo reale sfumerà nell’indistinto. A quel punto, la crisi della poesia della Borio avrà raggiunto il punto di non ritorno, infatti l’autrice non pensa ancora il bianco della pagina che circonda il distico come ad uno spazio vuoto, uno spazio del nulla, ma come un complemento della scrittura e sua prosecuzione. La mia riflessione sul distico voleva essere una riflessione generale, sugli esiti cui conduce la ricerca approfondita sul distico. E qui il problema emerge in tutta la sua complessità: «Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?». Dinanzi alla abissalità di questa domanda, faccio un modesto passo indietro: io non so «quale poesia scrivere», la sto cercando, certo che non potrà riepilogare le orme del recente passato, quella è ancora una poesia della «colonna sonora», una poesia del «pieno», una poesia che evoca il «pieno» dal «non-pieno», che evoca il «pieno» dal «vuoto», una poesia della «ontologia negativa» che vuole evocare il «pieno» dal «non pieno». Io penso invece che occorra dimorare stabilmente in una ontologia positiva, una poesia che abiti stabilmente il «nulla» e che nomini il «nulla» mediante le sue «Figure», le sue «Maschere».

Le «Maschere» sono nient’altro che dei simulacri che attendono i personaggi della nostra alterità.

Corre l’obbligo, dopo la fine del novecento e della poesia modernista europea, porsi due domande terribili:

Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?

Quale è il compito della poesia dinanzi a questo evento epocale?

Allora, apparirà chiaro che quella simbiosi chimica delle parole che avviene attraverso il tempo e le temporalità può eventuarsi mediante un processo di metaforizzazioni: dalla cosa all’immagine mentale e da questa alla parola. La metaforizzazione ci porta «fuori» dal discorso ordinario, quello dell’epoca e dei suoi linguaggi di settore. Questo esser «fuori» è un attributo fondamentale dell’esser «altro» del linguaggio della poesia, altrimenti sarebbe «dentro», e precipiterebbe nei linguaggi di nicchia e di settore dell’evo mediatico.

L’epoca della metafisica compiuta è quella che richiede una filosofia ermeneutica e un’arte ermeneutica, che è un altro modo di porre la questione dell’«ermeneutica [come] forma della dissoluzione dell’essere».1]

L’esercizio della memoria si dà soltanto sul presupposto della perdita della memoria. L’esercizio della memoria è l’esercizio della nostra mortalità.

1] Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1985 p. 164 Continua a leggere

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Maria Borio, Poesie da Trasparenza, Interlinea, 2018 pp. 134 € 12 con Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa, Le ferite dello Spirito non guariscono e lasciano vistose cicatrici, Interpretare una poesia implica disvelarne l’aura

Gif Finestra con veneziane

Le ferite dello Spirito non guariscono e lasciano vistose cicatrici

Maria Borio, nata nel 1985, si è laureata in Lettere ed è dottore di ricerca in letteratura italiana. Ha pubblicato le raccolte Vite unite (XII Quaderno italiano di poesia contemporanea, Marcos y Marcos, Milano 2015) e L’altro limite (Lieticolle, Pordenone-Faloppio 2017). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, Pisa 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, Venezia 2018). Cura la sezione poesia di “Nuovi Argomenti”. Trasparenza è il suo primo libro di poesia.

Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

«Le ferite dello Spirito guariscono senza lasciare cicatrici», lo ha scritto Hegel, sono le parole finali della Fenomenologia dello spirito, che io però interpreto à rebours: Le ferite dello Spirito non guariscono e lasciano vistose cicatrici… E questo libro di Maria Borio lo lascia intendere con molta chiarezza al di là delle intenzioni dell’autrice, è la natura delle contraddizioni stilistiche che qui emerge in modo palese. La «Trasparenza» di cui si narra nel libro è la invisibilità delle cicatrici che riposano sul corpo martoriato dello Spirito, invisibilità appena impercettibile che alligna sotto il pelo d’acqua di una scrittura nitida e sottile e avvolgente, metà poesia metà prosa breve alla maniera della scrittura poetica materiatasi nel post-novecento di questi ultimi lustri; la «voce» contiene in sé una voce «trasparente», quasi che la trasparenza la si voglia ostendere e nascondere nell’elemento dialogico, nella forma narrante della terza persona, dell’estraneo che ci abita e che sembra governare tutte le cose ma che invece ne è succube, prigioniero dell’esterno e dell’esteriorità e della chiacchiera del «si».

«Trasparenza» della terza persona e delle cose e invisibilità dei «confini» tra le cose e gli umani sono il segnale di qualcosa di impronunciabile che la poesia vorrebbe, ad un tempo, ostendere e nascondere, elidere, implica e allude ad una colpa dell’io per non aver osato oltrepassare quei «confini», per non aver saputo o potuto oltrepassare la «soglia» che ci divide dalle cose e dai loro significati e dagli altri esseri umani. «Trasparenza» è anche questa disumanizzazione cui siamo costretti, questa problematica impossibilità ad inoltrarci nella dimensione attigua, che noi sentiamo prossima, ma che ci è sbarrata, insondabilmente ostile, slontanante e lontana, impercettibilmente aliena, mentre la nostra «voce» è irrimediabilmente reclusa in un circondario di «voci senza suono», in un reclusorio di «volti scavati».

Maria Borio trasparenza

Voci senza suono, volti scavati
passano in fondo al video come i tronchi maceri
di una leggenda: anche le persone con i desideri

infossati come solchi nel catrame possono portare
una leggenda. Le grida sono legni, acqua vecchia
diventano gusci, forse nodi bianchi.

La leggenda che porto ora in questa città
racconta della nascita di certi uccelli
dai gusci dalla schiuma dai legni morti

poi crescono le piume – dice – e volano sul mare
come tutti gli uccelli, tutti gli uccelli anche qui
– credo – qualcosa si sta alzando o si rompe.

La leggenda fa trasparenza, i solchi sul catrame
sono le cicatrici che ogni persona in qualche parte
nasconde. Invecchiando si mimetizzano.

Anche le leggende fanno sfere mimetiche.
Adesso volano a me’’aria, senza misura
lacera o intatta.

*

Anche la voce può dimagrire
ed è sentirlo come il corpo dimagrisce

trasforma i muscoli in altra massa
li fa sbiancare e ascolta i toni che cadono

fra le corde vocali, perdono l’equilibrio.
il corpo dimagrisce come la mente quando sogna:

questo che era noi è noi, passato, futuro
in una voce pura il corpo sottile

fino a quando non restano dentro un’immagine lontana
corpo e voce intrecciati, scie dopo la pioggia.

Chi ci guarda può annullarci, farci dimagrire, portarci via.

Forse l’hanno guardata come li ha guardati
ed è dimagrita entrando negli altri:

la voce cade in uno spazio fra le corde vocali

di tutti, vuota e bianca, fino a stringerci.

gif-volto-bianco-con-macchia-rossa

Nella sua essenza profonda la poesia resiste come può allo sguardo indagatore

Interpretare una poesia implica disvelarne l’aura.

Ogni poesia ha un’aura, contiene delle parole chiave che consentono l’ingresso in un enigma di significati che resistono ostilmente alla interpretazione. Nella sua essenza profonda la poesia resiste come può allo sguardo indagatore che vorrebbe scandagliarne gli abissi, nella sua essenza profonda la forma poetica è un dispositivo di resistenza ostile alla penetrazione, è una sottrazione, un passo indietro rispetto alla significazione; l’aura è qualcosa che risiede sul limite esterno delle figurazioni, potremmo forse ragguagliarla alla stratosfera che protegge il pianeta dalle radiazioni cosmiche e solari, l’estremo lembo di difesa contro gli agenti nocivi extra solari… ma è vero anche che l’aura si configura come il limite di ciò che delimita la figurazione e le impedisce di palesarsi nella figurazione, di far sortire significati nascosti o dimenticati o rimossi.

La poesia di Maria Borio gira instancabilmente intorno a se stessa, parla preferibilmente in terza persona, adotta la meta poesia per sortire fuori dalla forma-poesia della tradizione italiana di questi ultimi lustri; ci parla della crisi della poesia a diventare poesia, a diventare adulta; ci narra la difficoltà della «voce» a raggiungerci, di farsi scrittura, grafema, segno lessicale, significato, quasi che il supporto della carta non sia più idoneo a recepire la scrittura poetica, «la voce cade in uno spazio fra le corde vocali», scrive l’autrice, «la voce cade» in uno spazio vuoto. È la problematica della poesia a diventare «nuova poesia» attorno a cui ruota tutta la poesia italiana di queste ultime decadi quella che sta a cuore a Maria Borio, quella problematica che la «nuova ontologia estetica» ha affrontato elaborando un nuovo modo di impostare e pensare il discorso poetico. Ma questa è la cronaca dei giorni nostri. Un ultimo appunto: nella scelta delle composizioni ho privilegiato quelle in distici, che rivelano una singolare rassomiglianza con il distico adottato dalla «nuova ontologia estetica». Ma si tratta di due distici lontanissimi nella pensabilità  di esso distico come struttura epistemologica nella NOE e come versione rispettabilmente stilistica nel distico della Borio. Si tratta di una de-coincidenza, che forse non è senza significato.

maria-borio-ip

Maria Borio

Dorso duro

I

Le case sull’acqua avranno solidità
ma gli occhi intorno non sono umani.

tra atmosfera e atmosfera tutto si trasforma.

Un suono umano è disumano. Continua a leggere

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La Poesia Polittico di Mario M. Gabriele, Francesco Paolo Intini, Mario Sgalambro, Commenti di Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Massimo Donà, Friedrich-Wilhelm von Herrmann

Gif diavolezza cammina

Mi perdoni, Signora Swanson!
Non volevo toglierle il clip dalla memoria

Mario M. Gabriele
20 giugno 2019 alle 15:27
(in corso di pubblicazione con Progetto Cultura di Roma)

1 (Polittici)

Mi perdoni, Signora Swanson!
Non volevo toglierle il clip dalla memoria.

Alle cinque Lola vola via.
Watson la segue con l’ombrello di Mary Poppins.

Il cielo questa mattina era così triste
da lasciare acqua -fontana nei giardini.

E’ stato un lavoro delicato,da peritropé,
con aghi e fil rouge.

Pound ha provato a rimettere le scarpine.
Non credo voglia fare jogging.

Si inasprisce l’aria di mele guaste.
Gli occhi della Signora Rowinda non incantano più.

Le distanze non sono mai parallele
neanche a leggere Postkarten.

Con la tua mente puoi andare oltre il buco nero
a sintetizzare l’universo con un Haiku.

Non regalarmi Gilet.
Se ci riesci, portami le ossa di Rimbaud!

Oh, Mon Dieu! Quanti Woodoo e streghette
tolgono il profumo ai fiori di Bach!

Ci pensavo da due giorni. Questa sera vado da Ilena
e le dico di considerare la sera come il mattino.

-Abbiamo una squadra sul Calvario-, disse il Governatore.
-Basteranno due o tre chiodi per muovere il cielo!-

L’autopsia dirà chi ha ucciso la giovinezza
e in quale Ambasciata si è rifugiato l’assassino.

Ti assomiglia in positivo la gardenia.
Possibile un trasloco nell’anima.

Larry si diverte a disegnare cartoline Christmas.
La roccia non ha muschio per il presepe.

(…)

Abbiamo chiesto strofinacci per il passato.
Il tempo resiste ad ogni attacco.

Il dado si fermò sul rosso.
La memoria è un ammasso di rottami.

Diletta da Rotterdam si fermò un mese
nella Episcopal Church a parlare con gli angeli.

Michael Rottmayr è con Abele a Vienna
nella Osterreichische Galerie.

Nessuno sa quanto tempo resteremo quaggiù!
Hai visto come si sfolla il quartiere?

Il decano di Amburgo ha letto le terzine di Frost
per la conoscenza della notte.

Dormi se vuoi, così ti abitui alla morte.
Adam tornò a rivedere la barista di Fellini.

-Cara Denise, sono Duchamp e mi piacerebbe
sostare con te nel soggiorno-.

Si scivola nel metrò.
Anche Malone muore, azzerati i mitocondri.

Oh, guarda qui, Mariette! Ci sono ancora le t-shirts del 68
e una retrospettiva canora di Bessie Smith!

Le croisette de Paris nei galà dello chateau
scambiavano l’omelette per il sushi!

Chi lasciò la parola si avvicinò al Verbo
chiedendone una nuova.

Madame O’Brian mi fa compagnia la notte
in quel dolce paese che non dico.

Milena scrive da Harvard:
-neanche qui abbiamo trovato Nonna Eliodora-.

Caro Signor Bernard, spero di essere stato chiaro.
La sirenetta di Copenaghen è una donna di incontri e reviews.

(…)

Che sappiamo del Galateo in bosco?
Poesia. Zona keep out!

A Frankfurt am Main ci siamo fermati
a comprare le affinità elettive nello Skyline.

E’ destino che non ci si incontri mai.
Eppure oggi c’è il cambio di stagione!

Abbiamo trovato serpenti nel giardino.
Lucy mi volle con sé a cercare l’erba sotto la pietra.

La stanza accumula fumi, appanna lampade e vetri.
I miei morti sono quelli che non ricordo.

Miss Olson non è più tornata tra noi.
Le abbiamo mandato una chiave. Lei sa come aprire la porta.

Chi apprezzò la sera amò anche il giorno.
Il lupo è sotto le mura. Attenta, Signorina Rosemary!

Magda von Hattingherg scrisse a Rilke:
-Caro Amico, ho scoperto la Storia del buon Dio-.

-Mister Gruman- disse un bodyguard,- la folla è alle porte!-.
E Gelinda dal balcone che gridava:- dillo a me il tuo peccato-.

Mario M. Gabriele 

16 giugno 2019

Caro Giorgio,
i miei testi poetici sono come lampada a raggi fotonici, indirizzati verso chi si porta addosso il -male di vivere- e la tua critica lo rivela tutte le volte che leggi una mia poesia.
Non so scrivere altro, come divagazione estemporanea e pittorica, e quant’altro. Mi rifaccio sempre ad una decostruzione gnoseologica, di cui ogni elemento si lega autonomamente ad un discorso ontologico di orientamento heideggeriano, ma pullulante di lessemi che la società tecnologica ci ha abituati da tempo.

Ecco il motivo per cui mi avvicino al tuo brillante esame critico, quando scrivi che la mia poesia è costruita lessicamente ”alla stregua delle circolari della Agenzia delle Entrate o delle Direttive della Unione Europea”, ovviamente non per minimizzare l’assunto estetico, ma per mirare ad un modello poetico di contrapposizione contro l’edilizia linguistica che ancora oggi pervade il grande Distributore Automatico della Tradizione.
Mi sto accorgendo solo ora, che con Ritratto di Signora, (2015), L’Erba di Stonehenge (2016), La porte ètroite (2013), In viaggio con Godot (2018), e tra poco con Registro di bordo, abbia unificato un linguaggio pluriconverso, unitario e positivista,
In linguistica il concetto di struttura si è sempre diversificato da quello precedente, realizzando classificazioni diverse, sia diacroniche che sincroniche. Da Saussurre bisogna apprendere molto degli insegnamenti di questo maestro che intuì come la lingua è una forma non una sostanza dove si distinguono l’espressione, ossia quella dei significanti, e il piano del contenuto, quello dei significati.

Certamente un autore non si giudica soltanto per un post poetico apparso su Riviste e in un reading. Qui, vorrei citare Charles Mauron che volle identificare la personalità inconscia dell’Autore a partire dall’analisi dei suoi scritti.
Attraverso la sedimentazione di più testi vengono fuori fili di associazione nel rapporto tra le immagini e le multiforme figure grammaticali, (metafore, ipotiposi, ecc.) il cui richiamo consente di giungere alla ”Personalità dell’autore”, quell’ombra che ad ogni istante si stacca dal fondo del subconscio per salire in superficie.

Quanto alla moltitudine di frasari, citazioni, varia toponomastica e oggettistica anglosassone, tutte queste cose non fanno parte che di un continuo aggrovigliarsi di plurisensi, dove l’inconscio si permette qualunque mescolanza o slittamento da un significato all’altro. Per meglio coordinare quanto esposto, una eventuale trascrizione dei miei 3 polittici, farebbero da guida al lettore, a meno che tu non abbia altri progetti di connessione. Cordialmente, Mario.

Giorgio Linguaglossa
21 giugno 2019 alle 11:58

caro Mario,

è che il tuo lessico così sistemato dentro la camicia di forza del distico brilla proprio per la propria inadeguatezza ontologica a dire qualcosa che non sia meramente pleonastico e felicemente virtuale, ormai i linguaggi della nostra mondità si rivelano per quello che sono: una superficie di gelatine linguistiche dove convivono senza collidere le superfici riflettenti dell’esserci costretto alla afasia disorganizzata qual è divenuto il nostro mondo. Il tuo è il più rigoroso e compiuto linguaggio della mondità telematica, della metafisica meta stabile, del positivo significare, che è un significare disseminato e moltiplicato dalla insensatezza cui ormai sono relegati i linguaggi della mondità telematica.

A proposito del linguaggio della tua poesia, mi viene in mente quanto asserisce Giorgio Agamben quando ci parla del linguaggio poetico di oggi che non può che essere, a suo avviso, che un linguaggio «musaicamente non accordato», un linguaggio disseminato di interruzioni, di lapsus, di deviazioni, di referti di decessi di significati già avvenuti; un linguaggio fatto per le comunicazioni di breve gittata, un linguaggio di ponti interrotti e di segmenti non significativi. Con questo linguaggio non sarà più possibile mettere in piedi un qualsiasi linguaggio poetico significativo dal senso compiuto come è avvenuto per la poesia della «nobile» tradizione, non sarà possibile comunicare alcunché di comunicabile in assoluto. Ecco le ragione per cui il «polittico» è la sola casa dell’essere linguistico, la sola casa oggi possibile e abitabile, e dovremo accostumarci all’idea di dover dimorare sotto i cornicioni pericolanti di questo edificio malmesso e terremotato. Non abbiamo altra scelta che dimorare in questa mondità infirmata.

L’oblio della memoria, che tanta parte della nuova poesia occupa, è l’altro modo con cui si rende manifesto l’oblio della verità, il velamento con il quale la verità viene esposta nel linguaggio come sua custodia, una esposizione che sa di intemperie e di precarietà. Continua a leggere

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Poesia polittico di Gino Rago e Letizia Leone con Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Gino Rago

13 aprile 2019 alle 9.24

Un polittico in distici

[Il gesto estetico in Leone-Linguaglossa-Matusali-Ortona
nella fermezza di uno sguardo storico-socio-antropologico]

Emanuele Di Porto sul 404 con una scatola da 6

16 ottobre 1943 (al Ghetto di Roma la caccia agli Ebrei).
1024 anime. Senza strepiti. Senza perché.

Per alcuni neanche il tempo di cominciare a vivere.
Tornano in sedici dall’inferno dei forni.

15 uomini e una donna soltanto. E non parlano.
Tacciono per anni. Preferiscono guardare il Tevere.

Non odono da tempo voci umane.
Risentono cani che abbaiano. Soltanto cani. Nelle divise.

Dentro le svastiche. Negli stivali sempre tirati a lucido.
Non dimenticano i fili di fumo. Il cielo tagliato in due.
[…]
I migliori colori. Gli argenti sotto gli arazzi.
I ritratti. I paesaggi. Le nature morte.

Le tele di lino del Belgio alle pareti sono ricordi.
Un mondo muore quel giorno con loro.

Lasciano in eredità non oggetti senza vita ma cose.
Le cose dell’io frantumato. La coscienza calpestata.

La memoria umiliata. L’identità derisa.
La spoliazione. La musica forzata sulle fosse.

La babele di lingue.
[…]
Lasciano alla ruggine dei fili spinati brandelli di carne.
Numeri tatuati. Bandoni corrosi. Sabbie quarzifere. Carta pesta.

Segatura impastata con colla di pesce.
Stoppa. Smalti. Vernici.

Lenzuoli sovrapposti. Federe incollate.
Stoffe di tappeti. Sacchi. Cortecce. Reti di metallo.

I cenci cuciti alle intelaiature della Storia.
I materiali della disperazione. Il disastro.
[…]
Ripartono da qui l’Arte e la Poesia.
Da nuove parole di resti di stoffa.

Questi versi di scampoli,
Questi nuovi colori di scarti … I grumi di un Evento.

Su queste parole-immagini di stracci e vinavil
Pioveranno daccapo i fiori dai ciliegi.
[…]
30 settembre. Domenica. Dalle 10 alle 19
Arrivano quasi tutti, l’uno dopo l’altro.

Da Turcato a Paladino a Cascella,
Da Ontani a Guttuso a Rotella.

Allo Spazio espositivo di Piazza San Pancrazio,
Verso Villa Pamphili, N. 7,

Si appendono da soli alle pareti
Afro, Cucchi e Schifano.

Pizzi Cannella, Enotrio e Dorazio
Attendono Warhol, Capogrossi e Baj.

La fenomenologia dell’arte non tollera i ritardi.
Gillo Dorfles in un angolo al buio

Parla di Kandinsky, di Estetica, di Klee,
Di verde verticale a qualche grattacielo.
[…]
Uno schianto sull’asfalto. L’ultimo pino di Respighi,
Giosetta Fioroni bacia Goffredo Parise.

«A Via Flaminia … Stasera. Prima da Rosati,
Poi dai Fratelli Menghi. Tutti a cenare a sbafo …

Domani dalla De Donato. Al Ferro di Cavallo
Burri ed Emilio Villa regalano cartelle.

I volti narrano l’Io nei vapori,
Le storie dei momenti solitari».
[…]
A Santo Stefano del Cacco
Il dottor Ingravallo pasticcia con le lingue,

Carlo Emilio Gadda fa lo sciopero della fame,
Un vestito blu sul Piè di Marmo.

A Norimberga. Letizia Leone si veste di viola.
Un solo colore per tutto il dolore.

Il sangue. La carne. Il midollo.
I capricci di pochi. La morte del mondo.

Piazza dei Quiriti. Nei panni di Rugantino
Giulio Cesare Matusali intreccia le sue maglie,

Puro atto estetico, il gesto prima del progetto,
L’antilingua, la parola del Papa, il sonetto, il Belli.
[…]
Giorgio Linguaglossa getta monete nel Fontanone.
Cattura ombre e sole nel cavo della mano.

Wittgenstein dall’acqua:
«Gli oggetti semplici contengono l’infinito…»
[…]
Al Prenestino. Giorgio Ortona
Al tridimensionale aggiunge la Memoria,

La fermezza dello sguardo
Sugli orizzonti mobili del gusto,

Le visioni oltre il percettivo,
L’arte del giudizio, i fatti sui fattoidi.

L’Evento. L’Opera. Le mappe …
L’atto che ri-crea

Emanuele Di Porto sul 404 con una scatola da 6.

Poesie di Letizia Leone da Viola norimberga, Progetto Cultura, 2018 pp. 100 € 12

Letizia Leone 1 frase Viola nrimberga

Letizia Leone frase da Viola norimbergaLetizia Leone 2 frase Viola norimbergaLetizia Leone 4 frasi Viola norimbergaLetizia Leone Il diavolo...Giorgio Linguaglossa Continua a leggere

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 Giuseppe Gallo, Zona gaming, Poesia in distici, inedito alla maniera della nuova ontologia estetica, con un Appunto dell’Autore e il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Gif Tacchi dorati

Giuseppe Gallo, è nato a San Pietro a Maida (CZ) il 28 luglio 1950, diploma di Liceo classico, laurea in Lettere Moderne, è stato docente di Storia e Filosofia nei licei romani. Nel 1983 la sua prima raccolta di poesia, Di fossato in fossato, Lo Faro editore. L’impegno civile sul territorio lo spinge a un rapporto sempre più stretto con la poesia dialettale. Negli anni ‘80, collabora con il gruppo di ricerca poetica “Fòsfenesi”, a Roma. Delle varie “Egofonie”, “Metropolis”, dialogo tra la parola e le altre espressioni artistiche, è rappresentata al Teatro “L’orologio”.
Avvicinatosi alla pittura, l’artista si concentra sui volti e gli sguardi, mettendo in luce le piaghe della modernità: consumismo e perdita dello spirito. Negli ultimi lavori ha abolito la rappresentazione naturalistica degli oggetti per approfondire i rapporti tra colore, forma e materiali pittorici. Nel 2016, con la fotografa Marinaro Manduca Giuseppina, pubblica, Trasiti ca vi cuntu, P.S. Edizioni, storia e antropologia del Paese d’origine. Nel 2017 è risultato tra i sei finalisti del “IV Premio Mangiaparole”, sezione poesia, Haiku. Dal 2006 ha esposto a Roma, Mentana, Monterotondo, Brindisi, Lecce.

                                         Un Appunto di Giuseppe Gallo                                     

In queste poesie ho tentato di rintracciare, di mettere in linea e di far rotolare sulla pagina alcuni di quei materiali linguistici, sintagmi, frasi, perifrasi, di origine italiana o inglese, ricavati dalla pseudo comunicazione mediatica.

Forse è l’ora di prendere atto che l’infestazione di spot, promo, pubblicità, face book e letteratura a basso costo, ha varcato la soglia della Poesia. Qualcuno ha detto, ora mi sfugge il nome, che la poesia del futuro ruota intorno alla frase…

Ebbene io credo che solo tra una frase e l’altra, in questi interspazi, ci sia quel vuoto che ha bisogno di essere colmato. Ormai siamo tutti distopici e tutti complici di questo gioco al massacro. Tutti incatenati a questa postazione che è quella del game, della partita e del gioco: Zona  gaming.

Quindi, come allusione al gioco poetico, che è gioco pericoloso, includente una dimensione di rischio e di inganno, ma anche di finzione, come i giochi della play station, di Xbox, ecc., tutti giochi virtuali, allusivi, metaforici, che mimano attraverso le immagini-video storie in cui il giocatore, o il poeta, gioca alla morte, propria ed altrui.

Ebbene,  è solo attraverso questi “riporti linguistici” o in mezzo ad essi, che oggi si rischia una significazione aurorale. Anche perché  tutti questi sintagmi che sono sul punto di morire, non muoiono mai, rinascendo dalle proprie ceneri; e queste perifrasi, ricavate dall’industria e dalla tecnologia contemporanea, che ci inoculano effluvi lisergici e addomesticamenti virtuali e non virtuali, sono in continuo pericolo di diventare significanti o insignificanti, almeno come esperienze individuali e di massa.

Le nostre scelte quotidiane non sono, in parte, determinate dai desideri e dai bisogni indotti da queste immagini-parole?

Forse attraverso il loro recupero è più facile eliminare quanto ancora di retorico c’è nella versificazione abitudinaria dove l’io, ancora dominus, oppone resistenza. Ecco perché, a prima vista, in questi sei componimenti, sembra prevalere un tono gelido, da ghiaccio secco.

E  tutto questo perché?

Perché è un gioco e ogni gioco, in quanto tale va giocato, almeno credo. A meno che non si voglia abitare in un Iperuranio ologrammatico.

Rovistare nel senso, stracciarlo, stirarlo di qua e di là, rovesciandone la consistenza, dimostrandone l’inutilità, per il niente del niente, con qualche schiaffo al bel dire, alla logica riempitiva della struttura poetica, raggiungere il non senso, attraverso il senso comune e mediatico delle frasi, ecc. ecc.

Vorrei che in queste composizioni si avvertissero salti, controsalti, balzi e sobbalzi; emersioni e affondamenti, il tutto all’interno di una pretesa, quella di masticare e digerire l’inganno delle parole e la loro momentanea e brutale pregnanza. È chiaro che c’è anche un intento di ironia. Non si può giocare se si è soltanto seri. Ironia allora, prima di tutto verso me stesso e poi verso ciò che sembra e non è e verso ciò che è ma non sembra.

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Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

«Rimbalziamo sulla gomma del nulla» dice un personaggio X. Sembra di assistere a un dialogo post-beckettiano, tra Ionesco e Sartre, in bilico tra il testo teatrale e la ex-poesia, sì, giacché siamo entrati, senza accorgercene, nella ex-poesia. Ed è surreale che non ce ne eravamo accorti. La poesia se vuole sopravvivere dovrà necessariamente trovare altre forme, un altro lessico, un altro modo di esistenza, altrimenti, persa nell’universo comunicazionale delle società moderne, è destinata a perire. Giuseppe Gallo, autore di Arringheide, un poema in dialetto calabrese di oltre cinquecento pagine pubblicato quest’anno con Città del Sole costato un ventennio di ricerca, Giuseppe Gallo, dicevo, è approdato alla «gomma del nulla» con i suoi distici in stile nuova ontologia estetica. E si sa che il distico obbliga il poeta alla massima severità, al massimo dell’ordine. Il parallelismo membrorum non ammette, se non rarissimamente, deroghe o eccezioni alla sua struttura binaria. Il distico è come il binario ferroviario sul quale passano i treni, è anch’esso un binario sul quale passa il treno delle parole; se il binario non tiene, il treno rischia di deragliare; così le parole, se il distico non tiene, le parole rischiano di andarsi a schiantare contro qualche muro a centinaia di metri di distanza.

A ciascuno il proprio distico. «A ciascuno il suo», diceva Leonardo Sciascia. Il distico è scuola di severità, di precisione, di distacco dalla materia verbale, di distacco dall’io, a suo modo impone un rigore che il verso libero non ha nel suo DNA. Sostenere a lungo il distico non è affatto facile, non è una maniera, come pensano i suoi ingenui detrattori, è la forma più antica di scrittura poetica e la più difficile da mantenere malgrado le apparenze; una struttura che si perde nella notte dei tempi dell’età della parola dell’homo sapiens. E una ragione ci sarà. Per scrivere in distici bisogna pensare in distici.

Ecco cosa ne dice weschool:

Distico: «Metro della versificazione latina (dal greco dis-, “due volte” e stichos, “verso, fila”), di origine greca, composto da un esametro unito ad un pentametro, è metro caratteristico del genere dell’elegia (tra i cui autori possiamo citare Cornelio Gallo, Tibullo, Properzio, Orazio e Ovidio).

Lo schema è il seguente:

esametro:  _   _   _   _   _   _ _

pentametro:  _   _   _ | _   _   _

Spiegazione ed esempi

Il distico elegiaco viene recuperato nella metrica accentuativa italiana dell’esperimento della metrica barbara di Giosuè Carducci. Il distico elegiaco è sostituito da un doppio settenario, oppure dalla combinazione di quinario, senario o settenario (come nel testo Nella piazza di San Petronio) oppure di settenari, ottonari e novenari (come in Nevicata).»

Esaminiamo adesso un distico di Giuseppe Gallo:

Dalla Spada della Morte solo tre  gocce di fiele

la prima per me

_ _/  _ _/  _ _/  _ _/  _ _/  ‿ _ _/  ‿  /_ _

‿  _ _/ ‿ ‿

Come si può notare, Gallo rimarca la regolarità dei primi cinque piedi del primo verso per poi poter rimarcare lo stacco del piede singolo. L’indebolimento degli accenti nell’italiano moderno apre al distico di oggi grandi possibilità di variazione; l’accentuazione prosastica offre possibilità sconosciute al distico moderno, anche e soprattutto la variatio di piedi diversissimi alternati o paralleli in modo da conseguire un andamento ritmico ricchissimo e acusticamente mai prevedibile.

A questo punto, mi sembra superfluo ogni ulteriore commento, il distico è un formidabile strumento per chi lo sappia impiegare, ma non è ovviamente il solo, un poeta di rango che abbia occhio e un orecchio attento alla acustica sa quando e come impiegarlo e con quale frequenza.

Ecco due versi che contengono una parola dei nostri tempi: il «cellulare».
“Il cellulare di Suresh emise un ping.” (Dan Brown)

Non soltanto in questi testi di Gallo ci sono parole nuove ma, quello che è più importante, come hanno sottolineato Nunzia Binetti e Mauro Pierno, è che il linguaggio viene ridotto non allo stato zero ma allo stato quantico; Gallo impiega le parole nel loro stato di ebollizione quantica, nel puro stato quantico della materia verbale, e il distico ha il compito di mettere in ordine lo stato quantico delle parole che, per eccellenza, è uno stato caotico dove non si più né il tempo né lo spazio.

È ovvio che qui siamo molto distanti dall’impiego surreale o post-surreale del linguaggio poetico come pure è stato fatto (e penso alla poesia di Carlo Livia), qui cogliamo una novità importantissima di come il linguaggio poetico può essere rivitalizzato senza ricorrere alle facoltà auto organizzatorie dell’io. Ad esempio, nelle poesie di Zbigniew Herbert c’è sempre un io che tenta di fronteggiare le forze dirompenti e prepotenti della storia, in lui c’è ancora la salda convinzione di «resistenza», dove l’io è wittgensteinianamente «il limite del mondo»; in questi distici di Gallo invece l’io è stato affondato, si è aperta una gigantesca falla nel sommergibile dell’io che non potrà tornare più a galla. E questo cambia tutto, cambia il concetto del linguaggio poetico e dell’uso che se ne fa, cambia la mappa che mentalmente si ha del linguaggio. Una novità assoluta.

Nei distici di Giuseppe Gallo abbiamo un’altra importatissima conseguenza: che sono scomparsi sia il tempo che lo spazio. E questo aspetto è una novità assoluta, finora in tutti gli esperimenti apparsi sull’Ombra delle Parole, nessuno mai si era spinto tanto avanti da cancellare il tempo e lo spazio. Il risultato è molto semplice, cancellando questi due Fattori, la poesia che ne consegue assume essa stessa una ontologia meta stabile che non contempla alcuna fenomenologia. Il linguaggio poetico di Gallo è sostanzialmente un linguaggio non fenomenologico.
E questa è, a mio avviso, una ulteriore importantissima acquisizione della nuova ontologia estetica.

foto 16 selfie

Giuseppe Gallo

Zona gaming 1

E chi mai si salvò
dalla Babele della Torre?

Ogni peccato ha il proprio cielo.
Ogni sintagma il proprio sepolcro.

Dalla Spada della Morte solo tre gocce di fiele
la prima per me

la seconda è tua
la terza a chi vuoi tu.

 

Zona gaming.
Il silenzio si inginocchia alle radici.

“Perché hai ucciso il cane?”
“Perché i cani abbaiano!” ( Nick Tosches )

Qualcuno ci ha dato l’infinito
e ha fatto evadere il tempo dalla clessidra.

 

Zona gaming
Gli omicidi industriali dei desideri.

Il tran tran del treno che traina la metrica
tra la riva e le pietre.

È sempre l’ora della nostra morte!
Giocando l’azzardo d’un sorriso.

Scollando le costole del senso.
Strisciando sul guscio, sbriciolandone il calco.

Oltre i muri il pigolio, l’allucciolio, il bio
ma il mio è un Voyage privè.

 

Zona gaming
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Intervista in forma di poesia di Lucio Mayoor Tosi a Maria Rosaria Madonna (1942-2002), con un dialogo 

 

Foto fuga nel corridoio

Il distico è un’imposizione. Punto. Fattene una ragione.
Ora sei nella merda. Ma questo io non lo scriverei.

Mayoor  Lucio Tosi è nato a Gussago, vicino a Brescia, il 4 marzo dell’anno 1954. Dopo essersi diplomato all’Accademia di Brera è entrato in pubblicità. Ne è uscito nel 1990, quando è diventato sannyasin, discepolo di Osho (da qui il nome Mayoor: per esteso sw. Anand Mayoor = bliss peacock). Ha trascorso più di vent’anni facendo meditazione e sottoponendosi a ogni sorta di terapia psicanalitica: sulla nascita e l’infanzia, sul potere, sulle dipendenze affettive ecc. Di particolare importanza, per la realizzazione di Satori, sono stati alcuni ritiri zen dove ha potuto lavorare sui Koan (quesiti irrisolvibili).
Vive a Candia Lomellina (PV), nel mezzo delle risaie, dove trascorre il tempo dipingendo e scrivendo poesie.
Sue poesie sono state pubblicate on line su Poliscritture, L’Ombre delle Parole, e su alcune antologie tra cui I Quaderni di Erato. E’ tra i  finalisti al premio Opera prima 2015 di Poesia 2.0.

a Maria Rosaria Madonna

Il distico è un’imposizione. Punto. Fattene una ragione.
Ora sei nella merda. Ma questo io non lo scriverei.

«L’ennesima azione inutile. Che non mi procurerà denaro.
Che inizio e non finirò».

Devo poter leggere mentre scrivi. Non esistono prima o poi.
Non avanzare scuse.

Invece che all’aeroporto mi trovo davanti alla stazione ferroviaria
in disuso. Indosso un cappellino beige, ho trent’anni.

Oltre all’ora segnata sull’orologio della stazione, ho in mente
i numeri di molte pagine. Libri e giornali.

5,5 – Pagina 5, a metà del quinto rigo: “Infatti decisi di pubblicare
senza indugio”.

Perché di monti e nuvole non resta un’impronta. Spariscono
anche i cadaveri. Nessun treno qui arriverà mai.

Aspetterò seduta in un bar immaginario, sorseggiando
il Tè dei morti scritto da quella tua amica.

E tu sbrigati ad arrivare.

«Di chi sei figlia, e di chi sei madre?»

Del vento in arrivo all’aeroporto. Non ho valige. Ho attraversato
velocemente il piazzale dei taxi. Un gatto.

Gli occhiali da sole nel taschino del blazer. Passato, futuro
e nel mezzo una croce.

Ti vedo malmesso. Hai piombato d’oscurità il tuo destino.
Non farlo con me.

Per me respira. Io sceglierò parole profumo di fiori del cimitero.
Finte banconote ti lascerò sul comodino

affinché ti possa disperare in libertà. E tu gli ultimi papaveri
di primavera. Ma cha siano veri.

Mentre si fa le unghie solleva lo sguardo paziente. Ironica.
Le gambe accavallate, con ai piedi dei mocassini.

Amelia Rosselli si vestiva con abiti pop anni ’60, logori
e fuori tempo. Quand’era in trasferta. Mangiava niente.

Le donne della tua vita, se sono andate una volta a Parigi
fu perché ce le portasti tu.

«Oh, ma io quasi non ricordo i luoghi dove sono stato.
Non una via, il nome di una piazza…»

«Solo imparo le immagini a memoria. La pietra bianca
di Montmartre; gli scalini perché ci scrissi una poesia».

«I miei alberghi non hanno stanze, solo porte d’ingresso.
In uscita tanti Mickey Mouse».

Quando si dice che la vita è un film! Prima che ci leghi
alla lingua un filo di ferro.

«Vogliamo parlare della suora che fosti?»

Sì, mi venisti a trovare ormai sono passati vent’anni.
Ero la donna che ancora dovrà nascere.

Al quartiere Blu. Mi chiamasti mentre eri in viaggio.
Venezia Torino. Sull’Aviocar coi comandi manuali.

«Scrissi una spiritosata». Avevo appena attivato il pavimento
autopulente. Mi ero concessa una vacanza dal lavoro.

Ma ti avvisai subito: ero in contatto con Madre come si chiama,
una devota. Mi insegnò molte cose, come filare la lana

e far crescere il basilico. Ma intanto il suo corpo
fremeva d’amore. Ti avevo avvisato, sai bene che…

«Non potevo immaginare che ci fossi anche tu.
Ne scrissi, ma solo di sfuggita».

Da quant’è che parli con chi vive fuori dal tuo tempo?
«Ho iniziato con il Bardo: quando decisi di farne pratica».

«Spero sempre che questi contatti durino lo stretto necessario.
Quando non guadagno denaro provo senso di colpa».

Mettiamo insieme parole. Fa con Mi e una pennellata.
Distogliamoci sovente, da una ringhiera con dentro

l’amore ovattato di una creatura ultraterrena firmata
Bambole di terracotta, trecento aperitivi l’anno

ogni volta una sorpresa. Rosmarina. A picco sull’orizzonte.
Baci tremendi e scatolette di medicinali. Supersex.

Io solo di notte, o almeno così ho dato a intendere. Sebbene
nelle parole australi di sole, non dicendolo, ne abbia messo.

Portata ovunque perché è stato come vivere in tram
dentro città coloniali che cadevano diritte su Roma antica.

Sempre a mezzogiorno. Come per finire un dipinto a ogni costo,
nella lava che ci portava via. Il Vesuvio.

Ho ancora qui – vedi? sulle costole l’insegna dei mariti
che mi sono venduta prima di affogare.

Mai divertita tanto.

Strilli Lucio Mayoor Tosi

Composizione grafica e versi di Lucio Mayoor Tosi

«Il tempo confonde. Io scrivo per miraggi».
«Avessi studiato, avessi almeno metà della tua cultura…»

Saresti perfetto. Vai, prendi il libro. Vibratile lingua et focum fero.
Ustioni di primo grado. Il palato defunto.

Per forza una marionetta. Preso al brefotrofio e calato
in vettura da Formula 1. Ma come si fa, ma come si può!

«Sì, be’, mancano molte parole. Del resto anche la mia bocca
come vedi è sdentata».

Suor come si chiama aveva in corpo il suo vocabolario.
Tu guardami e leggi.

A che pensi? «A un formichiere con le zanne rivolte. Un facocero?
«A un astronauta che si sta mangiando dell’uva».

Come le matrone romane. Quando pioveva e non avevano da fare.
I barbari sarebbero arrivati a bordo di carrozze senza cavalli…

«E presto anche senza le ruote».

Portami a fare una passeggiata.

(continua)

*

Strilli Lucio Ricordi

Composizione grafica e versi di Lucio Mayoor Tosi

Mario M. Gabriele :
23 luglio 2018 alle 11:37 am

Qui, caro Lucio, sei un maestro del distico-frammento. Sembra una cosa da niente, ma è un lavoro di ricerca immane. Bravo!. Sono punti di ricucitura linguistica tutte le volte che si interrompe il distico per sostituirlo con un altro.. Continua a leggere

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