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Il postmoderno è finito là dove comincia il Covid? A proposito di alcuni enunciati standard che abbondano nei siti web e nelle comunicazioni via web Si tratta di alcuni esempi di messaggi anisotropi, neutri, standard, impersonali, oggettivi, persuasivi, assertori, direi gentili della gentilezza di un linguaggio robotizzato, standardizzato, programmato, un linguaggio allo stato cristallino, sostanzialmente ambiguo ed eterodiretto che può essere interpretato in molti modi diversi a seconda delle sollecitazioni psichiche ed endopsichiche che intercettano, Poesie kitchen di Alfonso Cataldi, Raffaele Ciccarone, Giorgio Linguaglossa

Joseph Cornell scatola con barattoli

Joseph Cornell (1903-1972), scatola delle ombre

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Questa poesia del ’93 è un mirabile esempio di poesia rimasta senza parole:

Predrag Bjelošević

Аhi, sonetto

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(93.)

con la poesia postata sopra di Predrag Bjelošević, il poeta serbo è andato d’un colpo, al di là dell’avanguardia, l’ha scavalcata, ha ridotto il testo a una serie di crocette con segno più. E la poesia è fatta. È andato oltre per un semplice motivo: che OGGI non si dà più nessuna avanguardia e nessuna retroguardia, la sperimentazione che si fa nella poesia kitchen è FUORI da questi binari, è deragliata. Per sempre. Questo è un punto che contraddistingue la nuova poesia, comunque la si voglia nominare.
La poesia che si farà, se si farà, ne dovrà tenere conto.

(Marie Laure Colasson)

Una poesia inedita di Alfonso Cataldi

Reven è atterrata in una bolla di fieno e fiori profumati.
Scava il primo tunnel

all’uscita sorprende le velleità preindustriali della ruota.
“Cosa avrò sbagliato nella vita?”

Esterrefatta, Francesca separa i bianchi dai capi colorati.

“Non cadrà più la neve sulle agenzie immobiliari di nuova apertura”
si sbilancia il guardiano all’ingresso della città

che alza e abbassa la sbarra
su nessuno che entra e nessuno che esce.

Il massaggiatore spunta nei sottotetti esistenziali
porta con sé il lettino a valigia sempre carico

I residenti attendono la meraviglia della resa
della cecità che prepara il riscatto.

(31/12/2021)

Raffaele Ciccarone

Set 38

con le spalle rivolte
alla Fontana di Trevi
i poeti di Kitchen Poetry
lanciano monetine nella fontana
augurandosi un buon nuovo anno
un drone Kitchen dall’alto
scatta foto ricordo

Giorgio Linguaglossa

A proposito di alcuni enunciati standard

Posto qui alcuni enunciati standard che abbondano nei siti web e nelle comunicazioni via web. Si tratta di alcuni esempi di messaggi anisotropi, neutri, standard, impersonali, oggettivi, persuasivi, assertori, direi gentili della gentilezza di un linguaggio robotizzato, standardizzato, programmato. Si tratta di un linguaggio allo stato cristallino, sostanzialmente ambiguo ed eterodiretto che può essere interpretato in molti modi diversi a seconda delle sollecitazioni psichiche ed endopsichiche che intercettano.

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Così Treccani definisce la «anisotropia»:

«Proprietà per cui in una sostanza il valore di una grandezza fisica (velocità di accrescimento, indice di rifrazione, conducibilità elettrica e termica ecc.) dipende dalla direzione che si considera. Fenomeni di anisotropia naturale si manifestano nelle sostanze allo stato cristallino e mesomorfico, ma non nelle sostanze amorfe; fenomeni di a. artificiale possono prodursi in sostanze amorfe in conseguenza di determinate sollecitazioni: per es., un’a. ottica, che si manifesta nel fenomeno della birifrazione, può insorgere in alcuni vetri e in alcuni liquidi in conseguenza di sollecitazioni meccaniche o dell’azione di un campo elettrico.»

L’assimilazione di questo genere di linguaggi in un testo poetico o narrativo è un fenomeno del tutto naturale che si verifica in modo inconscio in ogni istante della nostra vita di relazione. Ovviamente, in un testo poetico plurilingue e pluristile questi linguaggi vengono, per così dire, messi in vetrina, esposti alla visibilità, cioè, esposti alla verificazione e alla falsificazione, vengono cioè demistificati nei loro contenuti ipoveritativi e meramente strumentali.

È per queste ragioni che, ad esempio, nei miei testi poetici impiego (cito) questo tipo di messaggi comunicazionali, per esporli nella loro nudità, esporli nella loro falsa coscienza.
È per queste ragioni che questo genere di enunciati si possono rintracciare in gran quantità nella poetry kitchen di vari autori.

“Lo strumento fondamentale per la manipolazione della realtà è la manipolazione delle parole. Se puoi controllare il significato delle parole, puoi controllare le persone”, ha scritto Philip K. Dick, talento visionario del romanzo fantascientifico.

L’epoca del Covid segna fine del post-moderno. Le parole imbruttite, le parole smargiasse e ipoveritative che pronunciano i politici italiani e le massaie di pordenone, le parole erranee dei filosofi italiani (Cacciari e Agamben), le parole dei cabarettisti dei media e delle televisioni a pagamento pubblicitario, le parole pubblicitarie, le parole zambracche stanno seminando una zizzania malefica e obbrobriosa. La Commedia kitchen è appena agli inizi, è appena agli indizi.

Ha scritto Umberto Eco:

«L’avanguardia storica (come modello di Modernismo) aveva cercato di regolare i conti con il passato. Al grido di Abbasso il chiaro di luna aveva distrutto il passato, lo aveva sfigurato: le Demoiselles d’Avignon erano state il gesto tipico dell’avanguardia. Poi l’avanguardia era andata oltre, dopo aver distrutto la figura l’aveva annullata, era arriva all’astratto, all’informale, alla tela bianca, alla tela lacerata, alla tela bruciata, in architettura alla condizione minima del curtain wall, all’edificio come stele, parallepipedo puro, in letteratura alla distruzione del flusso del discorso, sino al collage e infine alla pagina bianca, in musica al passaggio dall’atonalità al rumore, prima, e al silenzio assoluto poi.

Ma era arrivato il momento in cui il moderno non poteva andare oltre, perché si era ridotto al metalinguaggio che parlava dei suoi testi impossibili (l’arte concettuale). La risposta postmoderna al moderno è consistita nel riconoscere che il passato, visto che la sua distruzione portava al silenzio, doveva essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente.

Se il postmoderno è questo, è chiaro perché Sterne o Rabelais fossero postmoderni, perché lo è certamente Borges, perché in uno stesso artista possano convivere, o seguirsi a breve distanza, o alternarsi, il momento moderno e quello postmoderno. Si veda cosa accade con Joyce. Il Portrait è la storia di un tentativo moderno. I Dubliners, anche se vengono prima, sono più moderni del Portrait. Ulysses sta al limite. Finnegans Wake è già postmoderno, o almeno apre il discorso postmoderno, richiede, per essere compreso, non la negazione del già detto, ma la sua citazione ininterrotta».1

1 Umberto Eco, Di un realismo negativo, in Bentornata realtà, a cura di Mario De Caro e Maurizio Ferraris, Torino, Einaudi 2012

Chiedo: ma veramente il postmoderno è finito là dove comincia il Covid?

Con il Covid è finito il postmoderno. E con il postmoderno è finito un certo modo di considerare il passato, cioè la tradizione… ed è finito anche un certo modo di guardare il futuro. Nell’epoca presente c’è qualcosa che ci sfugge, come sfugge ai radar dei filosofi della «libertà», Cacciari e Agamben. Ebbene, la loro filosofia non è più in grado di leggere il presente, parlare del Green Pass come di un passaporto sovietico per il controllo dei cittadini mi sembra una enormità, io mi sento privato della mia libertà dal Covid, non dallo strumento di protezione denominato Green Pass. Ma se Cacciari e Agamben avessero letto un poeta come Predrag Bjelošević si sarebbero accorti che il poeta serbo da almeno venti anni parlava di «buio», tutta la sua poesia ruota intorno a questa macro metafora per spiegare il nostro presente. Viaggiamo, camminiamo, ci scambiamo strette di mani e insulti ma nel «buio», siamo semplicemente nel «buio», dove non c’è filosofia che ci possa illuminare. E la poesia non può fare altro che indicarci la necessità di un altro paio di occhiali e magari l’aiuto di una torcia elettrica: occorre vedere bene, molto bene il «buio», guardarlo bene in faccia. E la poetry kitchen, se ha ancora senso parlare di poiesis, scommette tutta la propria integrità nello scandaglio di questo «buio».

Raffaele Ciccarone, sono del 1950, ex bancario in pensione, risiedo a Milano, dipingo e scrivo. Le mie poesie sono inedite per lo più. Per un periodo ho pubblicato su una piattaforma online con uno pseudonimo, circa un centinaio di poesie, e qualche prosa. Ho partecipato a gruppi di poesia a Milano.
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Alfonso Cataldi è nato a Roma, nel 1969. Lavora nel campo IT, si occupa di analisi e progettazione software. Nel 2007 pubblica Ci vuole un occhio lucido (Ipazia Books). Le sue prime poesie sono apparse nella raccolta Sensi Inversi (2005) edita da Giulio Perrone. Successivamente, sue poesie sono state pubblicate su diverse riviste on line tra cui Poliscritture, Omaggio contemporaneo Patria Letteratura, il blog di poesia contemporanea di Rai news, Rosebud
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Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Per la poesia pubblica nel 1992 pubblica Uccelli (Scettro del Re) e nel 2000 Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).
Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 esce la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma) e nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019
Nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue nella ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia positiva della filosofia di oggi,  cioè un nuovo paradigma per una poisis che pensi una poesia all’altezza del capitalismo globale di oggi, delle società signorili di massa che teorizza la implosione dell’io, l’enunciato poetico nella forma del frammento e del polittico. La poetry kitchen, poesia buffet o kitsch poetry.

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Il montaggio è la pratica teoretica della poiesis kitchen, Poesie di Francesco Paolo Intini, Guido Galdini, L’immaginario è la fantasizzazione del reale, è la trasduzione del reale in fantasy. La fenomenologia delle odierne società delle immagini non è esperibile entro le coordinate della ermeneutica. La fantasy si è internalizzata, è diventata una adiacenza della psicopatologia, nelle società de-politicizzate anche la fantasy si è de-politicizzata

Joseph Cornell (1903-1972)scatola

Joseph Cornell (1903-1972) scatola magica

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Il montaggio è la pratica teoretica della poiesis kitchen

La poiesis essendo costituente della realtà è, in se stessa, nel senso antropologico, sempre fiction, funge da «sostegno» del Reale lacunoso. La poiesis è ciò che costituisce il Reale ma ha una consistenza insostanziale, invisibile, come invisibile è il fantasma che lo abita.

La nuova poiesis ha acuta consapevolezza del legame che sussiste tra il fantasma e il Reale, nega legittimità al mito di un significante fondamentale, di un dire originario e di una metafora fondamentale; non si dà nulla di fondamentale né di originario, e il fantasma ne è la contro prova. Ciascun essere pensante ha i propri fantasmi, la propria solitaria scena fantasmatica, se non ci fossero i fantasmi il soggetto non potrebbe sopportare il trauma dell’irruzione del Reale nell’ordine simbolico; così, la smagliatura nell’ordine simbolico ristabilisce il contatto con la realtà.

Nelle società post-democratiche del capitalismo cognitivo si assiste alla liberalizzazione del fantasma, la società è diventata fantasizzante, si ha un liberi tutti con i liberi fantasmi. E ciò è in consonanza con le istanze del liberalismo e del capitalismo cognitivo.

È nella opposizione fra fantasia e realtà che il Reale si gioca la sua «consistenza», il Reale è dal lato della fantasia e della facoltà fantasizzante. In ordine a ciò il Reale e la fantasy sono le due facce della stessa medaglia: il Reale non ha alcuna «consistenza» ontologica, è spettrale e fantasmatico, mentre la fantasy è il fantasma che interviene nella realtà; ed è traumatico l’ingresso del fantasma nella realtà e sempre spostato rispetto a se stesso – può sì fungere da sostegno, da supporto alla realtà, ma solo come cornice, come spazio vuoto ontologico intorno al simbolico, vuoto da riempire.

Non vi è nessuna formula universale che abita l’immaginario, afferma Žižek; ognuno possiede un proprio singolarissimo «Fattore» che regola e gestisce il proprio Fantasma (una donna, vista da dietro, poggiata su mani e ginocchia era il fattore dell’Uomo dei Lupi; una donna statuaria, algida, evanescente, nuda, priva di peli pubici era il fantasma di Ruskin), afferma sempre Žižek, e così via. Per il pensatore di Lubiana la mancanza di un universale comune della fantasia costituisce il tratto autenticamente universale di essa – ecco perché possiamo qui trovare un punto di contatto fra fantasy e immaginario. Si ha fantasy in quanto si ha un immaginario. E viceversa.

Il fattore F (fantasia) è diverso per ciascuno di noi, ma ogni soggetto è caratterizzato dal fatto di possederne almeno uno.

Nella singolarità della propria fantasia personale, ciascuno coltiva una propria peculiarissima fantasia. Il neoliberalismo ha sdoganato la fantasia personale. Si ha diversità in quanto la fantasia abita l’immaginario. L’immaginario è diventato plurale. Al contrario di ciò che sosteneva Jung, non c’è un inconscio collettivo delle fantasie, ciascuno possiede una propria peculiarissima fantasia che non può fare a meno di coltivare nel segreto delle stanze mentali. Questa identità nella diversità è il tratto trascendentale che unisce l’evento traumatico della fantasy (fattore F) entro le dimensioni strutturali dell’immaginario e del simbolico.

La poesia del «montaggio» è un atto teoretico, un atteggiamento mentale. L’immaginario è la fantasizzazione del reale, è la trasduzione del reale in fantasy. La fenomenologia delle odierne società delle immagini non è esperibile entro le coordinate della ermeneutica. La fantasy si è internalizzata, è diventata una adiacenza della psicopatologia, nelle società de-politicizzate anche la fantasy si è de-politicizzata: non c’è una fantasy di destra e una di sinistra, qui vige l’egualitarismo di una fantasia egalitaria. La fantasy è apparenza, prospera dietro il giubbotto anti proiettile dell’interno.

Il tema dell’immaginario de-politicizzato si inserisce come un dato da immettere nel «montaggio» del materiale poetico in quanto indizio di una inversione radicale, nella quale il pensiero poetico si disidentifica da se stesso per farsi fantasy, filmografia; la fantasy si disidentifica da se stessa, per divenire pensiero-filmografico, filmografia, truismo grafia dell’immaginario. In sé la fantasizzazione è innocua.  Questo spiega perché la pratica del «montaggio» kitchen non è inscrivibile nelle consuete estetiche novecentesche, dal detournément situazionista, alla «macchina desiderante» di Deleuze-Guattari, e chiarisce anche il motivo della importanza capitale del «montaggio dell’immaginario», della della coppia Reale immaginario/Immaginario reale.

La riduzione del Reale da trauma a spettro, e dell’Immaginario da riflesso narcisistico e scenario fantasmatico a categoria ontologica, è uno dei punti decisivi e più importanti della modalità kitchen e del suo modo di operare. In questa ottica, il fantasma che inerisce al soggetto (fantasy) differisce di molto dalla ideologia (social fantasy) delle società della rappresentazione, esempi ne sono la moda e la letteratura di intrattenimento, ma può dispiegare un livello di fantasizzazione del reale come autentica dimensione trascendentale intersoggettiva. L’immaginario è la determinazione di un momento dialettico.
Il montaggio del materiale poetico non è un mero succedaneo del momento dialettico ma è il momento dialettico stesso nel suo operare attraverso la fantasizzazione del reale.

L’immaginario è il colpo di bacchetta magica capace di trasformare il nulla della fantasy in qualcosa, in un ente: il nulla della fantasy, pur restando nulla, può produrre effetti reali diventando un sostegno del reale in quanto il reale è insufficiente a colmare le lacune del soggetto. La dialettica che si svolge nell’inconscio del soggetto comporta una implicazione decisiva: che per creare un oggetto immaginario anche il soggetto debba «irrealizzarsi», diventare immaginario.

Non c’è alcuna fantasia fondamentale perché, se ci fosse, una volta realizzata si dissolverebbe. Non è la verità fondamentale ma la menzogna fondamentale, la bugia secretata, ben nascosta, che tiene oscenamente insieme i frammenti sparsi della soggettività.

(Giorgio Linguaglossa)

Francesco Paolo Intini

GOLIA OVVERO IL BELLO DELLA MUTAZIONE

Dopo l’allontanamento il molare ritornò in sede
Troppi indicatori l’avevano corrotto.

La tonsilla prese la parola. Una ciliegia
Tra gli artigli di zanzara.

Al rhum! Al nido! Un’ idea viva
Mangiata dal significato.

Cesio sgorga dal dentifricio
e colesterolo scola in mare.

Fu come recare a Chernobyl
un mazzolin di rose e viole.

Corium finalmente, di quello bono:
crema gianduia e muscoli sul calendario.

Salta un Allende al giorno
zzzz di elicotteri dalla pipa.

Se un’intera nazione si fa piombo
Un’altra pescherà nei mari del SUD.

Statue di Cristo vagano
nelle valli dell’ orca.

Altre se ne vedono nei Cloud.

Magellano in persona spara tra i canini
Ma è colpito da Pantelleria e cade nella carie.

Pablo è morto e la moglie va in TV
Solo insalata e babbuini al posto della lingua.

*

Questa poesia di Francesco Intini è un mirabile esempio di plurilinguismo e pluristilismo kitchen. Assembla locuzioni onomatopeiche (zzzz di elicotteri), catacresi (Chernobyl/ un mazzolin di rose e viole), interiezioni di matrice plebea (Al rhum! Al nido!), locuzioni derisorie e sarcastiche (La tonsilla prese la parola. Una ciliegia/ Tra gli artigli di zanzara), enunciati ultronei e abnormi (Cesio sgorga dal dentifricio/ e colesterolo scola in mare), il tutto amalgamato in una cornice di eleganti distici che collidono con la materia verbale tipicamente plebea e infiammabile.
Qui parlare di non-senso è un errore, ci troviamo in un universo plurisenso, cioè, fuori-senso.
La dimensione dell’immaginario è propriamente la fantasy, il regno della libera fantasizzazione del reale. Il reale è laddove si presenta in forma di trauma, di trauma linguistico: la poesia è la dove il linguaggio poetico fa festa. Oggi per fare poesia occorre aver riflettuto a lungo su questi tre assunti:

1 Quali esperienze significative la poesia deve prendere in considerazione?
2 la mancanza di un «luogo»,di una polis, quali conseguenze hanno e avranno sull’avvenire e il presente della poesia?
3 è possibile la poesia in un mondo privo di metafisica?

(g.l.)

Tra le mie carte ho ritrovato questa composizione, piuttosto antica. Mi chiedo se sia cambiato qualcosa nel frattempo, da queste parti.

Francesco Paolo Intini

STA QUI IL MIO SUD (1980)

Sta qui
il mio sud
dove
il sole arde
-con fiamme d’ invidia-
talenti quasi artistici
poeti disperati, falliti, anarchici.

Pozzanghera dove pullula in miniatura
la lotta di classe.
Lotta tra amici
sotto un cielo di bolle.

Si rosicchia come tarli
la stessa porta
lo stesso gusto d’arraffare.

Reduci del ‘68
grassi e ricchi
di un ’68 mai vissuto
con ferite dentro al corpo
ma violente discussione
quelle sì
con fucili e cannoni
che sparavano sogni
frustrazioni non più represse
Rivoluzioni.

Ancora urlano
da una porta all’altra
dialettiche prese di coscienza
sensibilizzazioni di massa
ed un sangue
vernice rossa sui muri
testimonia ancora il fuoco nelle vene
di folli incazzati col potere
ora panciuti impiegati
ex intellettuali.

Teatro di gran battaglie
sul filo del suicidio sotto i treni
e d’aneddoti maliziosi
da ridacchiare insieme.
Con radio che educano all’ idiozia
nullità geniali che s’ingozzano d’avanguardia
ed il gioco della birra
a dettar legge nei partiti.
Miserabile teatro dei quattro venti
dove il sole si schifa di sorgere personalmente
partorisci imitatori
mimi
del gran baccano che chiamano

Arte, Cultura, Politica.

Sopra le antenne
vive una tribù di corvi,
qualcuno era di passaggio
ma ora è un piatto prelibato
questo paese di vive carogne.

*

Logos erchomenos, la “parola che viene”. Andrea Zanzotto si è servito più volte dell’espressione che nei Vangeli e nell’Apocalisse designa il messia, logos erchomenos, per definire il dialetto come sorgività della parola, qualcosa che viene direttamente dalla immediatezza di una pura interiorità.

Io ho sempre sospettato che dietro questa tesi si celasse un sottocosto, un prezzo aggiuntivo. L’etichetta della immediatezza mi ha sempre fatto venire l’orticaria… penso, anzi, sono convinto che non ci sia nessuna immediatezza alla base del linguaggio poetico, perché di questo passo finiremmo per divinizzare il mito della sorgività e dell’origine. E la poesia non ha niente a che vedere con questo pseudo mito.

Tanto è vero che, in un momento di rara sincerità, Zanzotto ha detto che «il mio linguaggio poetico in lingua era fasullo», pronunciando un verdetto inequivocabile di discredito sulla sua produzione poetica in italiano.

Che tu abbia potuto scrivere questa (tra l’altro molto bella poesia) nel 1980 non mi stupisce, hai fatto una poesia singolare-plurale che ha raccontato la storia di una generazione sconfitta e disillusa in pieno rigoglio e riflusso alla utopia della poesia rurale e della poesia adamitica in pieno inverdimento negli anni ottanta. Quella era una poesia con certificato vidimato di inautenticità e di programmatica falsa coscienza. La tua poesia io la leggo, oggi, come reazione a tutta quella fumisteria di buoni sentimenti e di buone intenzioni, di cuore aperto… le buone intenzioni lastricano sempre la via verso l’inferno.

Adesso capisco come la tua ultima poesia kitchen sia in un certo senso imparentata con la tua produzione degli anni ottanta, nella tua ultima poesia non c’è nulla della immediatezza, tutto è meditato e mediato dal mondo e dalla distanza che tu hai saputo mettere tra il linguaggio poetico e la tua interiorità. È stato il prezzo che hai dovuto pagare per transitare verso una poesia oggettiva, che cioè impiega le parole come oggetti linguistici e non come oggetti liturgici, quello che fa, con falsa coscienza, la poesia elegiaca.

(Giorgio Linguaglossa)

Guido Galdini

Ripasso di matematica e geometria otto

fin dal primo anno del corso di platonismo
è noto che ogni cerchio
tracciato, immaginato o sognato
è un modesto riscontro del cerchio
che dimora nell’inattingibile mondo delle idee

ripeto, è una filosofia elementare
diffusa da autori senza pretese
da prefatori la cui voce non osa
avventurarsi nella bufera dei testi
contentandosi delle note a piè pagina
dove possano esprimere il loro smorto fulgore

ma tutto il resto, le figure più sghembe
gli ovali mal riusciti, gli sgorbi tracciati
con mano tremante o indecisa
avranno anch’essi il loro timido luogo
nel mondo delle idee sopracitato?

la precisione negli occhi del volto
si ribella a quella negli occhi della mente
cospargendo di terriccio lo splendore
il muschio cresce sui muri delle case crollate
schiaffeggia le ambizioni dell’intonaco
ma non cessiamo di rovistare nello scrigno
che rinchiude i tesori e le loro vendette

siamo i gingilli della perfezione.

(2015)

La tua poesia del 2015 è ancora una poesia racconto, che vuole raccontare qualcosa che è accaduto nella storia. Anche io a quell’epoca mi muovevo nell’orbita di una poesia racconto, come tutti. Poi dev’essere cambiato qualcosa, ci siamo trovati tra le mani questa poesia della disillusione e del racconto della nostra disillusione e abbiamo capito che non potevamo ancora continuare a raccontarci una storia che già sapevamo, che non dovevamo raccontare più perché i media raccontano molto meglio di quanto possa fare un singolo. Non c’era più niente che valesse la pena di essere raccontato, perchè non c’era più una storia da raccontare…

(Giorgio Linguaglossa9

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da Andrea Zanzotto di Filò del 1976 alla poesia di Francesco Paolo Intini del 1980, Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, Baudelaire letto da Giorgio Agamben, La «nuova poesia» che stiamo facendo riprende questo assunto fondamentale, quello di «peripezia» e di «esperienza dei blablaismi» per costruire una poesia all’altezza dei tempi di oggi, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, Ad un mondo che pone il soggetto al limite, Francesco Intini contrappone un linguaggio-limite, un linguaggio monstre

Joseph Cornell scatola piena di tecnologia

Joseph Cornell, scatola magica

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Giorgio Linguaglossa

da Andrea Zanzotto di Filò del 1976 alla poesia di Francesco Paolo Intini del 1980

Si riproduce in lingua italiana parte del “Filò” di Andrea Zanzotto, riprodotto in, Andrea Zanzotto, In nessuna lingua in nessun luogo. Le poesie in dialetto 1938-2009 (Quodlibet, 2019); una edizione del “Filò. Per il Casanova di Fellini” è stata pubblicata, con prefazione di Giuliano Scabia, da Einaudi nel 2012

Vecio parlar che tu à inte’l tó saór
un s’cip del lat de la Eva,
vecio parlar che no so pi,
che me se á descunì
dì par dì ‘inte la boca (e no tu me basta);
che tu sé cambià co la me fazha
co la me pèl ano par an
(…)
Girar me fa fastidi, in médo a ‘ste masiére
De ti, de mi. Dal dent cagnin del tenp
Inte ‘l piat sivanzhi no ghén resta, e manco
De tut i zhimiteri: òe da dirte zhimithero?
Elo vero che pi no pól esserghe ‘romai
Gnessun parlar de néne-none-mame? Che fa mal
Ai fiói ‘l petel e i gran maestri lo sconsiglia?
(…)
Ma ti vecio parlar, resisti. E si anca i òmi
te desmentegarà senzha inacòrderse,
ghén sarà osèi –
do tre osèi sói magari
dai sbari e dal mazhelo zoladi via -:
doman su l’ultima rama là in cao
in cao se zhiése e pra,
osèi che te à in parà da tant
te parlarà inte’l sol, inte l’onbria.

[da Andrea Zanzotto, Filò, 1976]

Vecchio dialetto che hai nel tuo sapore
un gocciolo del latte di Eva,
vecchio dialetto che non so più,
che mi ti sei estenuato
giorno per giorno nella bocca (e non mi basti);
che sei cambiato come la mia faccia
con la mia pelle anno per anno
(…)
Girare mi dà fastidio, in mezzo a queste macerie
di te, di me. Dal dente accanito del tempo
avanzi non restano nel piatto, e meno
di tutto i cimiteri: devo dirti cimitero?
E’ vero che non può più esserci oramai
nessun parlare di néne nonne-mamme? Che fa male
ai bambini il pètel e gran maestri lo sconsigliano?
(…)
Ma tu vecchio parlare, persisti. E seppur gli uomini
ti dimenticheranno senza accorgersene,
ci saranno uccelli –
due tre uccelli soltanto magari
dagli spari e dal massacro volati via -:
domani sull’ultimo ramo là in fondo
in fondo a siepi e prati,
uccelli che ti hanno appreso da tanto tempo,
ti parleranno dentro il sole, nell’ombra.

Francesco Paolo Intini
Sta qui il mio Sud
 (1980)

Sta qui
il mio sud
dove
il sole arde
-con fiamme d’ invidia-
talenti quasi artistici
poeti disperati, falliti, anarchici.

Pozzanghera dove pullula in miniatura
la lotta di classe.
Lotta tra amici
sotto un cielo di bolle.

Si rosicchia come tarli
la stessa porta
lo stesso gusto d’arraffare.

Reduci del ‘68
grassi e ricchi
di un ’68 mai vissuto
con ferite dentro al corpo
ma violente discussione
quelle sì
con fucili e cannoni
che sparavano sogni
frustrazioni non più represse
Rivoluzioni.

Ancora urlano
da una porta all’altra
dialettiche prese di coscienza
sensibilizzazioni di massa
ed un sangue
vernice rossa sui muri
testimonia ancora il fuoco nelle vene
di folli incazzati col potere
ora panciuti impiegati
ex intellettuali.

Teatro di gran battaglie
sul filo del suicidio sotto i treni
e d’aneddoti maliziosi
da ridacchiare insieme.
Con radio che educano all’ idiozia
nullità geniali che s’ingozzano d’avanguardia
ed il gioco della birra
a dettar legge nei partiti.
Miserabile teatro dei quattro venti
dove il sole si schifa di sorgere personalmente
partorisci imitatori
mimi
del gran baccano che chiamano

Arte, Cultura, Politica.

Sopra le antenne
vive una tribù di corvi,
qualcuno era di passaggio
ma ora è un piatto prelibato
questo paese di vive carogne.

Scrive Zanzotto:

«la mia infanzia è stata ricca di emozioni anche se non felice, ricca di stimoli di ogni genere, anche culturali, e (a proposito delle lingue) essendo sempre stata la nostra una zona di emigrazione, soprattutto francese e tedesco echeggiavano facilmente. […] mi venivano frammenti di tedesco minimo dalla nonna paterna che era stata, a Vienna, cameriera di una Prinzessin austriaca… mio padre Giovanni lavorò all’estero, soprattutto in Francia; ma nella prima fase era stato anche lui emigrante in Austria, cioè a Trieste. E già il nonno Andrea e suo fratello continuavano una tradizione secolare di migrazione in Cacania e più in su».
Il dialetto zanzottiamo vive in osmosi con il francese, il tedesco e l’italiano in un conglomerato linguistico che, in quanto tale, è quanto di più lontano si possa immaginare dalla lingua materna, dalla lingua «latte di Eva» del paradiso terrestre. Zanzotto da una parte tiene ferma la lingua del latte materno, una lingua ipotetico originaria, dall’altro innesta su questa lingua lessemi scarti e sintagmi rammemorati da altre lingue, in una certa ampia misura contraddicendo l’ipostasi di una lingua edenica e materna.

Logos erchomenos, la “parola che viene”. Andrea Zanzotto si è servito più volte dell’espressione che nei Vangeli e nell’Apocalisse designa il Messia, logos erchomenos, per definire il dialetto come sorgività della parola, qualcosa che viene direttamente dalla immediatezza di una pura interiorità.

Io ho sempre sospettato che dietro questa tesi si celasse un sottocosto, un prezzo aggiuntivo. L’etichetta della «immediatezza» e del «latte materno» linguistico mi ha sempre fatto venire l’orticaria… penso, anzi, sono convinto che non ci sia nessuna immediatezza alla base del linguaggio poetico, perché di questo passo finiremmo per divinizzare e teologizzare il mito della sorgività e dell’origine. La poesia non ha niente a che vedere con questo pseudo mito.

Tanto è vero che, in un momento di rara sincerità, Zanzotto ha detto che «il mio linguaggio poetico in lingua era fasullo», pronunciando un verdetto inequivocabile di discredito sulla sua produzione poetica in italiano.

Che Francesco Paolo Intini abbia potuto scrivere questa (tra l’altro molto bella poesia) nel 1980 non mi stupisce, ha fatto una poesia singolare-plurale che ha raccontato la storia di una generazione sconfitta e disillusa in pieno rigoglio e riflusso alla utopia della poesia rurale e della poesia adamitica in pieno inverdimento negli anni ottanta. Quella era una poesia con certificato vidimato di inautenticità e di programmatica falsa coscienza. La poesia di Intini io la leggo, oggi, come reazione a tutta quella fumisteria di buoni sentimenti e di buone intenzioni, di cuore aperto… le buone intenzioni lastricano sempre la via verso l’inferno.

Adesso capisco come l’ultima poesia kitchen di Intini sia in un certo senso imparentata con la sua produzione degli anni ottanta; nella poesia ultima di Intini non c’è nulla della immediatezza, tutto è meditato e mediato dal mondo del contemporaneo e dalla distanza che lui ha saputo mettere tra il linguaggio poetico e la sua interiorità. È stato il prezzo che Intini ha dovuto pagare per transitare, trenta anni più tardi, verso una idea di poesia oggettiva, che impiega le parole come oggetti linguistici e non come oggetti liturgici o mitologici, quello che ha fatto invece, con falsa coscienza, la poesia elegiaca.

(g.l.)

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