Pseudo-limerick di Guido Galdini, Giuseppe Gallo, Giorgio Linguaglossa e poesia di Alfonso Cataldi, A proposito della poetry kitchen o poesia buffet, Il Teatro delle Maschere e il collasso dell’Ordine Simbolico

Gif Sorridenti

Giorgio Linguaglossa

 A proposito della poetry kitchen o poesia buffet, Il Teatro delle Maschere e il collasso dell’Ordine Simbolico

I sistemi del capitalismo del mondo occidentale hanno posto una evidenza: il Covid19 ha reso evidente un triplice collasso: collasso economico, collasso ecologico e collasso dell’Ordine Simbolico. Le conseguenze di questo triplice collasso sono, allo stato, inimmaginabili, e non potranno non riflettersi anche sulla poiesis.

La poetry kitchen o poesia buffet, il momento più avanzato della nuova ontologia estetica, forse è una anomalia, forse una perturbazione atmosferica ed ha, nei due corni problematici, in Mario Gabriele e in Gino Rago, due rappresentanti autorevolissimi della vasta gamma di possibilità espressa dalla poetry kitchen o poesia buffet; all’interno di questa gamma c’è posto anche per il rigoroso pseudo-limerick di Guido Galdini, ovviamente condito con gli ingredienti kitchen: rosmarino, peperoncino, prezzemolo, sale e pepe, sale di montagna e mineralizzato, curcuma e cannella, aceto balsamico di Modena e vino trevigiano frizzante brut con acqua del lavabo.

Gino Rago ha preso a soggetto della sua poesia, prima una «pallottola», adesso la «gallina Nanin» della cover della Antologia di poesia, poetry kitchen; la poesia di Mario Gabriele è alle prese con il problema di «conoscere il Signor H», di qui tutte le vicissitudini dei vari personaggi che intervengono sulla scena o nella filmografia della sua poesia.

Penso che l’opportunità offerta dalla poetry kitchen sia ampia e innovativa. Questa è l’officina che sta facendo la più innovativa poesia italiana da settanta anni a questa parte. Non è una mia opinione, è un fatto che i concorrenti detrattori non riconosceranno mai.

Finché la «scena» si porrà come un «luogo» dove l’attore o gli attori si spacciano per Altro e per Altri, si creerà una prospettiva favorevole alla irruzione dell’Immaginario sulla «scena». È una poetry kitchen un po’ pirandelliana, lo ammetto. Siamo nel regno dell’Illusorio e dell’Immaginario dove torniamo per un po’ tutti bambini, dove una sedia deve fungere da aeroplano, dove viene detto chiaramente che una sedia è un aeroplano. È stato detto da Mallarmé che a teatro, sulla scena, non succede niente di reale; è vero, e noi prendiamo il detto del poeta francese alla lettera. Gli struggimenti del muscolo cardiaco dell’io ci sono indifferenti e insignificanti.

Siamo in un Teatro delle Maschere. Davanti ad una poesia kitchen dobbiamo dismettere l’abito mentale mimetico ed abbandonarci ad uno non-mimetico. Non è un problema di «credenza», non è questione di credere nelle «maschere» come illusione, crediamo nelle maschere in quanto illusione. La maschera non si spaccia per quello che non è ma ha il potere di evocare le immagini della fantasia: una maschera di lupo non ci fa paura in quanto lupo, ma come immagine del lupo che il lettore prende per verosimile. Il verosimile come garanzia della verità che non c’è. Identificarsi con una illusione è cosa ben diversa dall’essere ingannati da una illusione. Il distinguo è fondamentale. La poesia kitchen è tutta qui, in questo semplicissimo espediente. Chi lo capisce, fa poesia kitchen, chi non lo riconosce, non farà mai poesia kitchen ma qualcosa d’altro che ha a che fare con l’abito mimetico-aristotelico, con il Sublime, con il quotidiano, etc. Comunque, con un’altra cosa.

Guido Galdini

Guido Galdini (Rovato, Brescia, 1953) dopo studi di ingegneria opera nel campo dell’informatica. Ha pubblicato le raccolte Il disordine delle stanze (PuntoaCapo, 2012), Gli altri (LietoColle, 2017), Leggere tra le righe (Macabor 2019) e Appunti precolombiani (Arcipelago Itaca 2019). Alcuni suoi componimenti sono apparsi in opere collettive degli editori CFR e LietoColle. Ha pubblicato inoltre l’opera di informatica aziendale in due volumi: La ricchezza degli oggetti: Parte prima – Le idee (Franco Angeli 2017) e Parte seconda – Le applicazioni per la produzione (Franco Angeli 2018).

quasi-limerick

c’era una pastasciutta al ragù di Corfù
che di essere divorata non ne poteva proprio più
così si è messa a incendiare il suo ragù
come l’avesse cotto Belzebù
quella pastasciutta rovente di Corfù.

Per i miei quasi-limerick io mi sono inventato le regole, e quindi posso tranquillamente trasgredirle, dato che tra le regole ce n’è una che prevede la trasgressione di tutte le altre.
Mi ricordo, nella mia vita di informatico, che quando ho chiesto a un programmatore di una ditta cliente quali standard seguivano, mi ha risposto imperterrito: “Il nostro standard è di non seguire nessun standard”, che è uno standard come un altro.

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Per la poesia pubblica nel 1992 pubblica Uccelli (Scettro del Re) e nel 2000 Paradiso (Libreria Croce). Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi tra cui Nelly Sachs e alcune poesie di Georg Trakl. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle). Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 esce la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma) e nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue nella ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia positiva della filosofia di oggi,  cioè un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia all’altezza del capitalismo globale di oggi, delle società signorili di massa che teorizza la implosione dell’io, l’enunciato poetico nella forma del frammento e del polittico. La poetry kitchen o poesia buffet.

 pseudo-limerick

La balena ha i denti bianchi.
Il corvo è nero perché parla.
Tu avevi un piede sulla luna che stava sotto alla ringhiera,
c’era il lampione, la luce gialla tra i palazzi illuminati
e i fili elettrici, le antenne delle tv, il cielo violetto, la luna lillà,
io sto di qua, tu di là,
la parola non sa dove andrà, nell’aldilà, nell’aldiqua,
nessuno lo sa…

*

il treno sulla sopraelevata passa e va via…
una car, un pedone, una striscia bianca, il fumo bianco, la ferrovia…
la balena bianca ha i denti bianchi,
la balena rossa ha i denti rossi,
la biancheria è bianca e bianca è la felicità,
chissà chi lo sa…
la pagina della felicità
è il treno che passa sulla biancheria bianca,
sulla banca bianca, sulla tromba bianca, sulla colomba bianca…
chissà,
mi chiedo,
dove andrà quel treno là…

*

…c’era questa poesia nascosta nell’oblò:
una casetta in Perù, una cadillac, un frac,
il fiume azzurro, il mare che se ne va,
la rana canticchia sul cocuzzolo,
di là, le nuvole lillà e la luna di qua prendono il tram
per la felicità.
Felci azzurre in quantità. Mirabilie e morbidità.

*

Mi ero invaghito di una bambola di gomma al caucciù.
Abitava a Lima, in Perù, sul cucù
zzolo di una montagna,
io la accarezzavo sul bubù
ogni sera prima di andare a letto,
ora non più.
La baciavo mangiando pasta al ragù di Corfù.

Il cane in cortile abbaiava: baù baù

Ovviamente, non ho rispettato le complesse regole del limerick inglese, e nemmeno mi interessava farlo. Quello che mi interessava è portare questo genere poetico dal non-sense al fuori-senso e al fuori-significato, il che è cosa ben diversa. In quanto fuori-senso, ci troviamo catapultati nella poetry kitchen. Ed è quello che ho cercato di fare.
Anche la poesia sulla «gallina Nanin» di Gino Rago corrisponde al genere poetico del fuori-senso. Il che non significa affatto che si tratta di un non-sense. Il senso c’è, eccome, soltanto che si tratta di un senso fuori-senso.
È un esercizio che suggerirei a tutti di fare.

Giuseppe Gallo

Giuseppe Gallo, nato a San Pietro a Maida (Cz) il 28 luglio 1950 e vive a Roma. È stato docente di Storia e Filosofia nei licei romani. Negli anni ottanta, collabora con il gruppo di ricerca poetica “Fòsfenesi”, di Roma. Delle varie Egofonie, elaborate dal gruppo, da segnalare Metropolis, dialogo tra la parola e le altre espressioni artistiche, rappresentata al Teatro “L’orologio” di Roma.
Sue poesie sono presenti in varie pubblicazioni, tra cui Alla luce di una candela, in riva all’oceano, a cura di Letizia Leone (2018.); Di fossato in fossato, Roma (1983); Trasiti ca vi cuntu, P.S. Edizioni, Roma, 2016, con la giornalista Rai, Marinaro Manduca Giuseppina, storia e antropologia del paese d’origine. Ha pubblicato Arringheide, Na vota quandu tutti sti paisi…, poema di 32 canti in dialetto calabrese (2018). È redattore della rivista di poesia “Il Mangiaparole”. È pittore ed ha esposto in varie gallerie italiane.

Era un giorno d’ottobre a Roma
anche i colombi stavano in coma
ma sul balcone il pappagallo
era, invece, verde e giallo.
Oh, quel giorno, che bello assioma!

Poi una mattina vennero i Nas
mi disse, allora, la bombola a gas:
Stringimi! Spegnimi!
Ma io che avevo solo millesimi
senza più attendere bruciai ogni fax.

Sempre qui a Roma, in via Giordani,
c’è un ermeneuta a quattro mani.
Trascrive, investiga,
al dunque leviga.
Forse è una costola dei Venusiani.

Alfonso Cataldi

Alfonso Cataldi è nato a Roma, nel 1969. Lavora nel campo IT, si occupa di analisi e progettazione software. Nel 2007 pubblica Ci vuole un occhio lucido (Ipazia Books). Le sue prime poesie sono apparse nella raccolta Sensi Inversi (2005) edita da Giulio Perrone. Successivamente, sue poesie sono state pubblicate su diverse riviste on line tra cui Poliscritture, Omaggio contemporaneo Patria Letteratura, il blog di poesia contemporanea di Rai news, Rosebud.

Io non volevo nascere call center
«Come hai trascorso le ferie?»
«Ho sventato un tentativo di suicidio.»
Hai messo su la trapuntina pure tu, Luna?
Io non volevo nascere call center.
Superato il cameratismo, il buon senso non è più tornato alla scrivania
la segue come un fantasma. Cieco.
Le scimmie urlatrici nella gabbia neuronale hanno la spontaneità chimica
e chi le può fermare?
Sei così bravo che vorresti essere tuo allievo
e ti faresti lezione a distanza o in presenza?
Dipende dal fotogramma irrisolto dell’infermiera Ratched
qualcuno giura di averla vista manovrare il Mose per salvare i baci perugina.

33 commenti

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33 risposte a “Pseudo-limerick di Guido Galdini, Giuseppe Gallo, Giorgio Linguaglossa e poesia di Alfonso Cataldi, A proposito della poetry kitchen o poesia buffet, Il Teatro delle Maschere e il collasso dell’Ordine Simbolico

  1. Un pensiero

    «Ciò che nel linguaggio si rispecchia, il linguaggio non lo può rappresentare».1]

    È questa l’aporia del linguaggio. La tautologia e la contraddizione mostrano che esse si trovano, convergono, nella metafora, la quale contiene in sé sia la tautologia (il non-identico è lo stesso che l’identico) che la contraddizione (il non-identico non è l’identico). Da ciò se ne può dedurre che nella metafora convergono tutte le aporie del linguaggio, il lato effabile e il lato ineffabile, il dicibile e l’indicibile.
    Talché voler estromettere la metafora dal discorso poetico è come voler aggiustare Procuste mettendolo sul letto di Procuste.
    Il discorso poetico tende «naturalmente» alla metafora.

    La Madonna con il volto di Hegel.

    Una vecchia bambola riposta in soffitta.
    Un cavalluccio a dondolo ridotto in cenere
    .

    Sono versi di Ewa Lipska tratti da Il lettore di impronte digitali, Donzelli, 2017 a cura di Marina Ciccarini.
    Si tratta di un modo di mettere insieme le parole alla maniera della nuova ontologia estetica. Nulla di nuovo quindi. È tutto molto semplice. Si tratta di immagini. L’immagine è una metafora con caratteristiche prettamente visive. Se volete distinguere una poesia della nuova fenomenologia poetica da una poesia tradizionale potete contare quante immagini sono contenute nell’una e nell’altra e avrete la risposta.

    Cogito apre ogni giorno
    la materia oscura della pagina bianca.

    Sono due miei versi.
    Questa invece è una poesia sempre di

    Ewa Lipska:

    La storia

    Fermati. Non fuggire via.
    Non provocarla.
    Non fare movimenti bruschi.
    Non voltarti di scatto.

    Non ti farà nulla di male
    finché non le toglierai
    la ciotola con il cibo.

    1. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, 1979 p. 33

  2. L’ha ripubblicato su RIDONDANZEe ha commentato:
    Galdini,Gallo, Cataldi
    la gallina fa coccode!
    Poesia, poetry kitchen

  3. La cariatide del dolore.
    Si somministra nelle cave.
    L’orario poco importa, è inopportuno. Chi?
    Le gocce che pian piano risalgono rugiada,
    la pioggia individuale lungo il parco.
    Il pineto errante, con un accappatoio nero.
    Le brache scucite, un ammanco nelle casse.
    La sostituzione facile.
    Rimettere e rimontare.
    Una cosa vale l’altra. Tra le carcasse
    a riconoscere miseri frammenti,
    il collo di una bottiglia,
    una pallina ammaccata da ping pong,
    un accendino, tre cotton fioc.
    La vasca, la vasca con Marat!

    ALÉ OMBRA. (La Nanin alla corrida.)
    Grazie Ombra.

  4. Tomasi di Lampedusa ha imparato a parlare come l’Azzeccagarbugli Fontana governatore della Lombardia che adesso si è convertito al coprifuoco dalle 23 alle 5 del mattino. In marzo era per aprire tutto e libertà di movimento. Adesso chiude tutto. Choc, lockdown, trauma e miracoli fanno parte dell’universo concettuale degli azzeccagarbugli psicomaniaci dei nostri giorni. Psicopatologici narcisisti patologici che parlano come un bigliettaio del tram e pensano come un vetturino della metro.
    C’è materia per gli pseudo limerick, in abbondanza!

  5. è stato calcolato il valore in dollari di un asteroide in viaggio nel sistema solare:

    16 Psiche è uno degli asteroidi più massicci della fascia degli asteroidi. È fatto di oro, platino, nichel … Il suo valore è stimato in 700.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000 di dollari

      • Io significa “la persona che enuncia l’attuale situazione di discorso contenente io”.
        È nel linguaggio e mediante il linguaggio che l’uomo si costituisce come soggetto: poiché solo il linguaggio fonda nella realtà, nella sua realtà che è quella dell’essere, il conceto di “ego”. La “soggettività” […] è la capacità del parlante di porsi come “soggetto”.

        (Benveniste)

        un significante è ciò che rappresenta il soggeto per un altro significante.
        (Lacan)

        La lingua è semplicemente fascista; il fascismo, infatti, non è impedire didire, ma obbligare a dire.

        (Roland Barthes, Lezione)

        La natura fornisce, diciamo il termine, dei significanti, e questi significanti organizzano in modo inaugurale i rapporti umani, ne forniscono le strutture e li modellano.

        (Jacques Lacan, Seminario XI)

        Per Lacan «La Cosa è ciò che del reale primordiale patisce del significante». Essa ha dunque a che fare con un pathos, un patimento, patimento di un corpo sempre in perdita di godimento, sempre mancante, sempre svuotato di qualCosa.
        È ciò che Le Clézio definisce «il dramma del transito linguistico»:

        «Abbiamo voluto dimenticare: il fatto che il mondo linguistico è un mondo totale, totalmente chiuso; non ammette compromessi, non ammette condivisione. Dal momento in cui vi siamo penetrati, non ci è più possibile tornare indietro – verso quell’altro mondo, quello del silenzio».1

        Il mondo linguistico è chiuso, come il Reale è chiuso. Il Reale è ciò che il nostro universo Simbolico ci dice di essere, ma in sé è inafferrabile, insondabile, ma non perché sia un in sé kantiano quanto perché il Reale sconfina con il Nulla. È il nulla. Il mondo Simbolico è il sistema linguistico, è quest’ultimo che ci consente il «transito», dal linguaggio al linguaggio. E infatti ricadiamo nel linguaggio da cui eravamo partiti, senza possibilità di scampo.

        Non ci resta che Ingehaltenheit in das Nichts. (Mantenerci nel Nulla di Heidegger)

        Se la lingua c’è, e c’è a prescindere dai parlanti, allora la semantica non dipende da quello che i parlanti pensano o credono di fare con la lingua. In particolare, la lingua non c’è per permettere di parlare degli oggetti del mondo: «fondamentalmente anche le parole o i concetti più semplici del linguaggio e del pensiero umani sono privi della relazione con entità indipendenti dalla mente, che a quanto pare è una caratteristica della comunicazione animale» (Berwick & Chomsky 2016 p. 86). La semantica, in fondo, non si occupa d’altro che della stessa lingua, non del mondo non linguistico: l’uso dei «simboli del linguaggio e del pensiero degli esseri umani […] non è ancorato automaticamente agli stati emotivi», così come questi stessi simboli «non selezionano nel mondo esterno oggetti o eventi indipendenti dalla mente. Per il linguaggio e il pensiero degli esseri umani non sembra esistere una relazione di riferimento » (p. 86 ). Conclusione: il parlante non sa nulla della lingua che parla. La parla, ma senza avere la minima idea di come sia possibile parlare, né di quello che succede realmente quando parla. Di fatto non sa nemmeno di che parla, quando crede di parlare di qualcosa.
        […]
        I segni linguistici non si riferiscono a cose, bensì si riferiscono a, e si differenziano da, altri segni linguistici. Un’operazione del genere non sembra avere nessuna ragione d’essere biologica. Infatti nessuna specie animale, a parte l’homo sapiens, ha bisogno di un sistema così complicato per sopravvivere in modo efficace. Conseguenza finale di questa premessa, una volta scartata l’ipotesi comunicativa (secondo la quale il linguaggio serve per comunicare) ne discende che non esiste una spiegazione adattativa per l’esistenza del linguaggio e delle lingue*

        (Felice Cimatti)

        Sassure chiama con vari nomi: «anagramma», «ipogramma» ,«paragramma», «logogramma», «antigramma» la facoltà delle parole di fondersi e di riprodursi in altre parole; l’incertezza terminologica è la prova della difficoltà da parte di Sassure di afferrare la radice il fenomeno; la lingua non ha nessuno schema intenzionale ma è, al contrario, un dispositivo dalla «regolarità veramente implacabile» che agisce in modo dispotico ed autonomo all’interno del linguaggio. In tale accezione, il limerick o meglio lo pseudo limerick conferma a pieno titolo questa processualità autonoma del linguaggio, questo gioco di nuclei fonetici che si riproducono e restano in relazione gli uni con gli altri.

        J.M.G. Le Clézio, La torre di Blabele, in P. Barbetta, E. Valtellina (a cura di), Louis Wolfson. Cronache da un pianeta infernale, Manifestolibri, Roma 2014, p. 101
        * https://www.academia.edu/38581057/La_lingua_c_%C3%A8_Saussure_Chomsky_e_Lacan?email_work_card=title

      • Guido Galdini

        Ancora meglio, per noi veterani di Alto Gradimento:
        chiappala, chiappala!
        Nel nonsense bisogna sprofondare: le sabbie immobili non servono a niente.

  6. tiziana antonilli

    Una pratica che può portare ‘ dal non-sense al fuori significato ‘, come auspica Giorgio Linguaglossa, è quella delle cut-up poems che propongo sempre ai miei studenti e che riscuote un enorme successo, forse perché gli adolescenti sono più vicini al gusto della sperimentazione. Si tratta di una tecnica Dada : si ritagliano parole o spezzoni di frasi, o addirittura sillabe, li si assembla quasi a caso. In apparenza non-sense, in realtà, e inaspettatamente, significato. .Provare per credere..

  7. La Krisis del Covid19

    La scrittrice Naomi Klein, autrice di culto della sinistra radicale globale, in un intervento su “Intercept”, ha detto che “solo una crisi produce un vero cambiamento”. Di fronte al baratro, idee che fino a poco tempo fa era considerate troppo radicali, impossibili da realizzare, diventano improvvisamente realistiche. Se non addirittura le uniche possibili per uscire dalla crisi e prevenire nuove emergenze. Klein si riferisce all’intervento pubblico nell’economia e a un grande piano di riconversione ambientale della produzione. Ricordando che “se c’è una cosa che la storia ci insegna è che i momenti di shock sono profondamente volatili. Possiamo perdere un bel pezzo di terreno, essere derubati dalle élite e pagare il prezzo per decenni, oppure possiamo ottenere progressi che erano inimmaginabili”.

    Questo è uno di quei momenti. Almeno, a giudicare dalla quantità di ipotesi, interventi, invettive, figurazioni che sono state proposte. La pandemia ha mobilitato l’immaginazione degli scrittori e le riflessioni degli intellettuali sul mondo che verrà.

  8. Carlo Livia

    LIAISONS DANGEREUSES

    Allo sbocciare della schiava, il Padrone oscura la scena.
    Tutte le strade portano allo stesso strapiombo.
    Lotto col profeta che precipita.
    Ferito a morte uccido il corpo glorioso.
    C’è il muro di nuvole nere a cui chiedo amore.
    La rosa mistica nuota e sorride nell’ampolla psichica.
    Il Nulla agitato urla dal fondo.

    La Bestia, appena risorta, mi indica il davanzale dei miracoli.
    Miliardi di Pink Floyd e un solo Principe buffo.
    Sguardi ipotetici coi gemiti dell’arciduca giallo.
    Il seme selvatico pensa: le sante Inquisizioni detergono cianfrusaglie.
    In fondo al violoncello il culmine della creazione: la donna nuda sul ciglio della scogliera.

    La grande balancoire dans le ciel.
    O le belle cariocinesi sfumate in lunghi porporati.

    Una battaglia di coleotteri travestiti da Dei.
    Io sotterro le aureole. Spargo sull’erba la madrina infelice.
    La Croce impassibile in mezzo al nubifragio.
    È un grande orfanotrofio in attesa, cullato dal canto delle galassie.
    Io e la Vergine folle, nascosti nel bosco. Un cedro lunatico ci insegue.
    È il morbo innamorato, che sfida l’Evento.

    La fonte tace, nel giardino di Petrarca. È il segno della partenza.
    Ancora un valzer e mi perderò nel tuo mistero bruno, nel tuo sguardo senza nessuno.

    Le reve du placard jaune seme des lunes malades.
    Inghiotte teste ricamate in tedesco.
    Passa una vita perduta nell’incertezza dei bosoni. Non è la mia.

    Sono tutti fuggiti nell’aldilà, tranne me.
    I linger on your pale blue eyes, and…

    /…/

    La Dea madre è Lilith nel sotterraneo.
    Occhi brumosi sul confine. Bevono il mio dolore.

    La supplica oscena dal folto delle vallate.
    Il cenno dell’Eterno si snoda al crimine.
    Sempre più triste e morbido il dirupo.

    Nuda e affranta l’acquasantiera alleva pochi rettili.
    Tutto si capovolge spirando sul legno. Diventa beato, invano.
    Io porto in salvo la sabbia rosa. Rubo l’amore infranto nella cerimonia.
    Dal santuario sconsacrato dipingo in cielo l’arsura delle femmine.

    Sempre invisibile, ci scruta da un balcone di candide serpi.
    Ci chiama Colpa, dimenticando che è il nome della sorella che ha ucciso.
    Nudità malate di silenzio.
    L’angelo divora l’estasi di plastica dal bagaglio della sposa annuvolata.

    Dal segreto di Chopin mi affaccio sui Revelata.
    La grande guerra fra elefanti di sonno.
    Primi amori stritolati dal Macchinario.
    Brezze strabiche alle finestre delle nozze.

    Tutti i pensieri defunti nell’anticamera. Accanto al fulmine in piedi.
    La fanciulla e la morte, abbracciate nel sottoscala.

    Così scompaio, senza favola.

  9. caro Carlo,

    io ho scritto in un commento sopra postato che «voler estromettere la metafora dal discorso poetico è come voler aggiustare Procuste mettendolo sul letto di Procuste.
    Il discorso poetico tende naturalmente alla metafora.

    La Madonna con il volto di Hegel.

    Una vecchia bambola riposta in soffitta.
    Un cavalluccio a dondolo ridotto in cenere
    .

    Sono versi di Ewa Lipska tratti da Il lettore di impronte digitali, Donzelli, 2017 a cura di Marina Ciccarini.»

    Nella Lipska la metafora è sempre oggettiva, è priva di “io” (che con la metafora non c’entra nulla).
    La tua poesia è affollata di “io”, un “io” che cerca una via di uscita tra il Sublime e l’Osceno (con ricorrenza costante di figure: l’angelo, la fanciulla, la morte, l’acquasantiera, la vergine, la Dea madre etc.) alla maniera quasi di ipogrammi disseminati. Alla fine la tua poesia giunge ad essere un paragramma continuato e diffuso.
    Sicuramente la tua poesia rivela la tua grande capacità fantasmatica, è ricca di immaginazione ma, a mio avviso, rivela un recursus di medesimi stilemi (Sublimi e Osceni) che rischiano di caricare il dettato poetico di tratti sovrasegmentali, di un sovrappiù di colori plumbei.
    Io ad esempio quei due tuoi versi:

    La grande guerra fra elefanti di sonno.
    Primi amori stritolati dal Macchinario
    .

    li modificherei così:

    La grande guerra fra elefanti di sonno.
    Primi attori stritolati dal Macchinario.

    introdurrei il «fuori-senso» e il «fuori-significato». Penso che la tua poesia ne guadagnerebbe. Non so, questa è la mia impressione, ma forse sbaglio. Chiederei il parere dei lettori.
    Grazie per la tua pazienza.

  10. Ripropongo un mio scritto:

    Nella lezione 31 di Introduzione alla psicoanalisi, Freud pronuncia le celeberrime parole «Wo Es war, soll Ich werden». La traduzione del testo sarà luogo di scontro che vedrà contrapposte da una parte la corrente dei post-freudiani, per cui «dove era l’Es, deve subentrare l’Io»1 – se non addirittura «Le moi doit dèloger le ça. L’Io deve sloggiare l’Es»2 nella traduzione francese – , dall’altra la psicoanalisi lacaniana, che nasce e si fonda sulla critica drastica di qualunque ortopedia dell’Io: «Là dove c’était, possiamo dire, là dove s’était, s’era, vorremmo far sì che s’intendesse, è mio dovere ch’io venga ad essere».3

    Il problema di un dover essere là dove in principio si era, nel luogo in cui una traccia si è impressa e da cui solo posteriormente avrà origine il movimento del senso, rimanda immediatamente alla questione dell’etica dell’essere e dell’etica del linguaggio, ovvero, se il linguaggio sia depositario di un’etica.

    All’origine dell’economia libidica c’è il linguaggio con le sue leggi strutturanti, quindi all’origine del rapporto problematico e conflittuale dell’Io col suo godimento, ci sarebbe una traccia impersonale, sempre linguistica, una scena di nessuno e per nessuno ma che pure si registra in una memoria a-soggettiva. È in questa sottile terra di nessuno che precede la costituzione dell’Io e del linguaggio strutturato che si situa il linguaggio poetico della poetry kitchen.
    Se non c’è un apparato significante pronto a supportare la colonizzazione del mondo da parte del senso, cessa anche, di colpo, la necessità di presupporre un Io che guarda il mondo con gli occhi del senso e dell’apparato significante. Tutto ciò che rimane sono intuizioni cieche, percezioni prive di linguaggio, registrazioni prive di parole.4

    Il simbolico, come apparato umano è l’attività all’ombra della quale resta la Cosa. Potremmo anche pensare il simbolico e il reale come le due facce della stessa medaglia, nel senso che entrambi i registri avvengono contemporaneamente, come dice Freud illustrando il complesso del Nebenmensch, e quando c’è uno non può esserci l’altro, o meglio, se c’è Das Ding non può esserci il soggetto della rappresentazione; il soggetto – inteso come soggetto della percezione e della rappresentazione – in presenza di Das Ding si eclissa, perduto e confuso in prossimità di essa. La realtà è sempre un discorso, è sempre tradotta dal linguaggio, ma la Cosa non può essere mortificata dal simbolico. Il lavoro che il simbolico fa sulla Cosa è un allontanamento, una velatura, una sutura, un evitamento. In questo senso, il rapporto soggettivo tra simbolico e Das Ding, tra il possibile e l’impossibile, ci informa già della struttura del soggetto. Dunque la questione che si pone è: che rapporto può avere il soggetto con la propria estraneità più intima? Se tutto il movimento della rappresentazione conduce sempre a un impossibile, inizia e termina in un nocciolo duro inafferrabile dal senso, che ruolo può avere il fuori-senso per l’umano?

    La poetry kitchen ha sempre a che fare con l’irrappresentabile, con ciò che non può essere organizzato secondo l’algebra del senso del linguaggio codificato. La poetry kitchen vuole giungere in prossimità della Cosa; dire che la Cosa è l’irrappresentabile è didatticamente utile ma fuorviante, esiste una sola rappresentazione possibile di essa: il vuoto, il vuoto è l’unica forma (im)possibile con cui si dà la Das Ding. Il significante interviene sul reale, sulla compattezza e pienezza di un reale che non manca di nulla, vi scava un vuoto di essere; il significante incide il reale e la ferita del soggetto di questa mitica iniziazione la definiamo «la Cosa». Das Ding è una scatola vuota scavata dal significante al centro del reale.

    Il fatto è che il mondo della poetry kitchen è un mondo totale, totalmente aperto, totalmente bucato; sfugge alla legge del terzo escluso e al principio di non contraddizione, così come al principio di ragion sufficiente, ammette la concordanza e la discordanza, il pari e il dispari, la contraddizione e l’auto contraddittorietà, non ammette compromessi, ma consente a chiunque la condivisione. Dal momento in cui entriamo in questo regno incantato del possibile e del compossibile, non ci è più consentito tornare indietro verso quell’altro mondo, quello del silenzio, ma dobbiamo andare avanti, verso il rumore delle parole, quello assordante del nostro modo di vita.

    1 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni) (1932), in Opere, cit., vol. 11, p. 190.
    2 J. Lacan, La cosa freudiana. Senso del ritorno a Freud in psicoanalisi (1955), in Id. Scritti, a cura di Contri G.B.,Einaudi, Torino 2002, vol. 1, p. 408.
    3 Ibidem.
    4 Ibidem. In Lacan Das Ding è il termine estraneo attorno a cui ruota il gioco delle rappresentazioni, «ciò che del reale primordiale patisce l’effetto del significante», questa la definizione classica del Seminario VII. Dunque abbiamo un reale primordiale e qualcosa che interviene in questa globalità indifferenziata con un taglio, una separazione che produce una differenziazione. Se il mondo umano è ordinato dalla legge del significante, se cioè la pura immanenza reale della vita deve necessariamente passare, trascendere al simbolico, questa operazione produce un resto non simbolizzabile, che nel Seminario VII prende il nome di Das Ding.

  11. La conoscenza un gas. Esilarante.
    Come si contraddice la politica. Un fumetto
    quest’estasi di consenso. In altalena, Salvini vs Fontana.
    Nella parte superiore della scaletta.
    Sarebbe stato meglio la caletta. Queste oasi di commenti, le lingue che arrancano nel limbo.
    Nel limbo?!
    L’inverno nelle strutture molecolari,
    il freddo dei termosifoni spenti,
    il marmo. Sarebbe stato peggio che ammarare.
    Sfrecciano monopattini sul lungomare.
    Attento che caschi!

    (Come se nelle molecole più profonde si fosse arenata una memoria e lo sciabordio dell’onda inesorabile pian piano ce ne svelasse il fondo. Restano i “fossili”delle parole che non comunicano più niente..”La Croce impassibile in mezzo al nubifragio “… il dolore di Carlo Livia…ha questa consapevolezza. ..” un grande orfanotrofio in attesa, cullato dal canto delle galassie.”
    “Nuda e affranta l’acquasantiera alleva pochi rettili.”
    Quante suppellettili.

    Grazie OMBRA.
    (Un saluto particolare a Carlo Livia.
    (Sembro la Bettarini…Un abbraccio.)

  12. Carlo Livia

    Caro Giorgio, in nessuno dei molti blog di poesia che seguo è possibile proporre un testo inedito e ricevere subito una risposta analitica attenta e qualificata come la tua. Questo rende il tuo lavoro prezioso e insostituibile.
    Forse hai ragione nel rilevare una tendenza a riprodurre sempre le stesse rappresentazioni metaforiche nei miei scritti, ma questo per me è segno della autenticità nello scandaglio dell’inconscio, in cui icone e plessi semantici, legati alla libido governata dal super-io, costituiscono una muraglia invalicabile alla coscienza razionale, che solo la tensione onirica-catartica della libera creazione artistica riesce a sfiorare e rendere parzialmente rappresentabile. Sono gli archetipi collettivi, che, secondo Jung, ereditiamo geneticamente, presenti quasi identici in tutte le mitologie sacre e profane ( la Vergine, la Colpa, il Dio che muore e risorge, ecc.). Lo stesso accade nelle mitologie introiettate e individualizzate delle scenografie poetiche della modernità post-metafisica, come quelle di Kafka, Beckett, Celan, Rosselli, ( si parva licet) in cui le ossessioni private si trasfigurano in costanti e immutabili plessi semantici, che ruotano sempre attorno agli stessi grovigli e aporemi irrisolti.
    Si tratta di essere fedeli alle profonde istanze soteriologiche che dettano la creazione di scenari dirompenti e incogniti, seguendo le dinamiche dell’inconscio che, come osserva anche Freud, sono ferreamente determinate dalle pulsioni libidine sotterrate e immobilizzate dall’istanza morale, non da casuali eventi di superficie. Tradotto in lessico formale, scrivere per ritrovare integrazione fra logos e pathos, non per produrre giochi intellettualistici in cui si frammentano e ricompongono ad effetto, senza risonanze emozionali, immagini e sequenze frastiche e narrative prive di risultanza, svincolate dal legame con la dimensione inconscia o trascendente.
    Il fatto essenziale, secondo me, è che tu provi disagio nella dimensione emotiva da me evocata, e nelle implicazioni ideologiche retrostanti, data la formazione atea e materialista che ti rende estraneo o intollerabile lo scenario mistico e apocalittico in cui vengo costantemente avviluppato da dogmi e mitologemi interiorizzati dall’infanzia. È quello che accadeva a Lukacs leggendo Kafka, o a Croce con Rimbaud.
    Grazie per l’attenzione. Un caro saluto a Mauro.

  13. caro Carlo,

    se tu parli di «archetipi collettivi» ereditati «geneticamente», riconosco di non avere più nulla da dire, la mia formazione culturale è estranea a questa ideologia e terminologia che penso che abbia a che fare più con le religioni che con la poesia.
    In veste di ermeneuta di letteratura ammetto di non avere nulla da dire sugli «archetipi collettivi»… Poi, essere ateo non credo che sia una limitazione… ed io non farei una distinzione tra atei e credenti, credo superata dalla cultura laica dell’Europa… Se tu parli di «genetica» ogni discorso critico sarà vano, genetico è il predeterminato a cui nulla e nessuno può sfuggire, io credo invece che nell’uomo ci sia anche il non-determinato, la cultura vs natura, la storia. Siamo esseri culturali e storici non solo genetici, altrimenti saremmo tutti uguali.
    Qui nell’Ombra siamo impegnati da molti anni nella ricerca di una nuova ontologia o fenomenologia della poiesis, attualmente definita poetry kitchen…

  14. qualcosa di determinante è cambiato

    Zizek ne Il soggetto scabroso, del 2003, scrive: «questo universo da incubo non è pura fantasia ma, al contrario, ciò che rimane della realtà dopo che la realtà è stata privata del suo sostegno nel fantasma».1

    La catastrofe in cui è precipitato il mondo a causa del Covid19 ha reso evidente che non soltanto il soggetto è diventato «scabroso» per via delle sue illusioni ideologiche, ma anche che il mondo si è rivelato per quello che è: «scabroso» e «osceno». Se è vero che dieci famiglie nel mondo detengono le ricchezze possedute da quattro miliardi e mezzo di persone, ci rendiamo conto che il mondo è diventato «scabroso», inabitabile, vergognoso.
    A mio avviso, anche la poiesis è diventata «scabrosa» e «oscena», dobbiamo prenderne atto. Il mondo sta cambiando. Rischia di cambiare in peggio: i ricchi diventano ogni giorno più ricchi e i poveri ogni giorno più poveri, se questo squilibrio non verrà corretto e invertito, presto il mondo collasserà sotto il peso dei conflitti e delle guerre che sorgeranno ovunque. Non occorre essere marxisti o atei per capire questo punto, è solo questione di tempo. E certo, io penso che non si può più scrivere poesia come prima del Covid19, qualcosa di determinante è cambiato.
    L’ordine del giorno del mondo richiede anche alla poesia una mutazione, un cambiamento radicale, non si possono più scrivere poesie elegiache o sperimentali come si faceva prima del Covid19. Qualcosa è cambiato, e non si può più tornare indietro.

    1 S. Zizek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, tr. it. a cura di D. Cantone e L. Chiesa,Cortina, Milano 2003, pp. 63-64

  15. SPINNING

    Numeri dai ciliegi.
    Chele all’uscita degli empori.

    <<Ho attraversato Andromeda.
    Con la proboscide risucchiato una bianchina.

    Piantai un asintoto a piazza Mercantile,
    per unire Harlem al San Paolo. “

    Scorreva la Via Lattea sul Lungomare.
    :-una sera d’ottobre sarete liberi.

    Sbarcarono millesimi dall’Impero
    torsi come vele d’ Isabella.

    Occorrono medici e professori a Kampuchea,
    nervi e terreno fertile che collabori coi Khmer.

    Alla lezione sul metro lineare
    una lira di Vittorio Emanuele.

    Gronda sangue perché il cappio tende al midollo
    ma l’osso del collo non conosce il limite.

    L’esattezza sale su un tram, saluta Crollalanza.
    Batista è già oltre gli squali delle Bermude.

    Ha molte cifre pendenti e scappa come un calcolo biliare
    lanciando molotov contro il duodeno,

    Genio di un Dio che ha visto chiaro.
    In TV la famiglia di Lot, il sale da cucina.

    Ci vorrà un millennio per convincere
    un bigattino a rendere il boccone.

    Piovono zeri sugli ombrelli, si sciolgono i passanti.
    Belle anime in giubbe di visone.

    :-Grandine grossa, acqua tinta e neve…

    Numeri si riproducono negli interspazi
    : una favilla sfugge al ghiaccio

    musica di ciocco sotto i pattini
    gambe a girare un vento che si ingrossa.

    Dedalo e Ulisse dai polmoni,
    su per la faringe all’ufficio sinistri

    (Francesco Paolo Intini)

    • Il tramonto dell’arte come categoria moderna, può essere interpretato in due modi. In senso forte e utopico esso significa l’avvento dell’estetizzazione della cultura di massa, in cui l’arte autentica si dà rinnegando la fruibilità immediata di tipo “gastronomico” e scegliendo il silenzio come forma autentica di comunicazione (Cfr l’opera musicale di John Cage); in tal senso l’arte è una forma di protesta contro l’esistente e di prefigurazione di un mondo vero, conciliato, reintegrato, sempre però di là da venire.
      In senso debole, o reale, quello verso cui propende l’ontologia del declino o ontologia debole di Vattimo, secondo il quale l’opera presenta i caratteri dell’essere heideggeriano: l’arte si dà come ciò che si sottrae a una completa e definitiva esplicitazione, come ciò che si manifesta in essa e nulla più, al di fuori di ogni storicizzazione o apertura di mondi storico-destinali.

      L’arte per la poetry kitchen di Francesco Paolo Intini è ciò che si offre gastronomicamente ma con segno invertito, alla delibazione e degustazione dei palati, come una decorazione sbagliata, una medaglia male appiccata sul petto, piuttosto come ciò che «chiude» la possibilità dell’aprirsi di mondi storico-destinali. La poesia di Intini è «chiusura» di mondi storico-destinali, ciò che si sottrae alle sirene dell’Avanguardia e ciò che si sottrae alle malie di una Retroguardia. È il «I prefer not to» di Bartleby di Melville ripetuto e reiterato all’infinito cpme possibilità dell’impossibile.

  16. caro Carlo,

    il «fuori senso» e il «fuori significato» costituiscono l’ossatura centrale del nuovo scheletro della poesia che stiamo cercando. Non c’è un metaa linguaggio, non c’è un Altro dell’Altro, ci insegna Lacan. Il mondo sta cambiando, è cambiato, non possiamo più scrivere come scrivevamo anche un anno fa. La poiesis non può rimanere immobile, le cose scorrono nel tempo, è il tempo che resta sempre eguale a se stesso ma le cose, no. Di solito avviene che un romanziere e un poeta raggiunto un linguaggio si adagino su di esso, al massimo si occupano di piccole varianti. Così quel poeta, quel narratore muore, il linguaggio lo abbandona mentre lui continua a scrivere come trenta anni prima, e così firma la sua fine. Così, il tempo ci passa sopra e lo dimentica.

    Marie Laure Colasson che ha letto le cose che scrivevo nel 1992, il mio libro di esordio, Uccelli, mi ha detto che non mi riconosce, non riesce a riconoscere la mia scrittura di adesso da quella di allora. Io le ho risposto che è bene, che è un fattore positivo il fatto che la mia scrittura di oggi sia diversissima da quella del mio libro di esordio, perché la mia ricerca nel frattempo è andata avanti, è progredita, si è evoluta. Insomma, in questi ultimi trenta anni il mondo è cambiato come non si vedeva l’uguale negli ultimi trecento anni, e forse anche di più.
    Qualche anno fa un amico scrittore mi ha detto che il mio libro migliore, a suo avviso, era Uccelli del 1992, e che i libri venuti dopo segnavano uno smarrimento della identità stilistica e uno scadimento stilistico. Un altro mi ha detto che il mio libro migliore è stato Paradiso del 2000; un altro ancora che il mio libro migliore è stato Blumenbilder (natura morta con fiori), del 2013, scritta però 28 anni prima della data della sua pubblicazione, cioè attorno al 1988.

    Vero. Verissimo. Può darsi. Io non lo saprei valutare. Fatto sta che il mondo nel frattempo è cambiato, la lingua anche, e non vedo perché non avrei dovuto cambiare anche il mio linguaggio poetico. I miei «archetipi» (come tu li chiami con una parola che io non riconosco in quanto di matrice psicologica e junghiana) sono rimasti ovviamente gli stessi, ma il linguaggio e lo stile sono nel frattempo mutati.

    Io non credo che Francesco Paolo Intini trenta anni fa scrivesse allo stesso modo di oggi. Oggi il suo stile si è formato perché ha saputo cogliere, adattandoli alla sua poesia, gli spunti e le spinte che gli provenivano da altri mondi poetici e stili di scrittura. Cambiare stile di scrittura non significa cambiare i propri «archetipi».
    Sarei curioso conoscere il parere dei lettori su questo punto.

    • Guido Galdini

      Forse la cosa migliore è fare qualche esempio.

      Attorno alla metà degli anni Settanta ho scritto una manciata di limerick, perfettamente regolari (numero di versi, di accenti e di rime), stringati e scialbi come hanno da essere i componimenti di questo tipo.
      Eccone uno:

      c’era una madama di Siena
      che voleva vedersi di schiena
      si voltò lesta
      ma si svitò la testa
      che cadde sul suolo di Siena.

      Ogni tanto ne scrivevo un paio, ma incominciavo a sentirmi stretto dentro le regole: volevo che uscisse qualche scintilla, e ho iniziato a tradire qualche regola (in questo caso i due accenti le terzo e quarto verso).
      Questo lo dovrei aver scritto attorno al duemila.

      c’era una fata di Macerata
      che soffriva per non esserci mai stata
      ogni incantesimo che provava con pazienza
      la riportava sempre al punto di partenza
      quella fata spaesata di Macerata.

      Due anni fa ho avuto un ritorno di fiamma e ne ho scritti un bel po’, senza più nessuna regola, nel tentativo di mettere a prova la mia abilità artigianale, troppo spesso, a mio giudizio, trascurata nel fare poetico.
      In questo limerick, ho provato, ad esempio, a tirare all’estremo l’utilizzo della rima e della assonanza, perché ne sortisse una sorta di fuoco di artificio linguistico.

      c’era un guastafeste di Trieste
      che non poneva freno alle sue conquiste
      metteva sale e pepe dentro le paste
      stappava le bottiglie a casa dell’oste
      nascondeva i coperchi sotto le ceste
      cancellava dal calendario tutte le feste
      e non si concedeva mai sviste né soste
      lo scatenato guastafeste di Trieste.

      Un limerick è diventato una filastrocca.
      Ha fatto carriera

      • Gli esempi riportati da Guido Galdini di quasi-limerick provano che la ricerca muta la struttura del ricercato, un genere poetico si trasforma, come qualsiasi altra cosa. E poi penso che sia utilissimo esercitarsi ad esempio nel quasi-limerick pur di trovare una via per allontanarsi dal significato e dal senso prestabiliti del linguaggio di relazione. È un esercizio utilissimo, basta avere un po’ di coraggio e di accettazione del rischio, sperimentare nuove possibilità espressive.
        È giusto che ciascuno di noi cerchi la propria strada in questo percorso difficilissimo e ad ostacoli qual è la poetry kitchen, o, se non vi piace questa dizione, verso una poesia del fuori-significato, del fuori-senso.
        In fin dei conti, tutto quel che occorre è un po’ di coraggio e di curiosità.

        La top-pop-poesia, la poetry-kitchen, la poesia pop-corn

        è una spettrografia, un’azione ibridante di simulacri e avatar, di luoghi, personaggi e situazioni disparati. La spettrografia è la condizione irriducibile della singolarità vivente umana giunta al punto della esistenza meramente bio-logica, un dispositivo di registrazione e trasmissione a distanza di qualcosa che non può più essere un messaggio, fors’anche in bottiglia.

        La morfologia di questo tipo di scrittura spazia entro un’ampia gamma di sottogeneri:
        journal intime in forma epistolare, autoritratto, autobiografema, autobiologia, témoignage fictif, dialogue fictiv, intervista biografica, commento di cronaca e ready made, video documentario, testo testimoniale. Ma è anche vero che tutte queste sono categorie già codificate dagli specialisti del “genere”, ma è che qui si trovano a dover coabitare tutte insieme. È vero anche che si tratta di uno stile frammentato, densamente popolato di rinvii, di momenti cripto-autobiografici, di notizie di cronaca, di maschere, di auto-correzioni, di tentativi di autocritica, di iperboli cioè tutte articolazioni che limitano la presentazione di sé entro un’estetica del mero montaggio e che rinviano ad una struttura testuale che inaugura la discontinuità del tempo narrativo e dello spazio. Si tratta, in fondo di una scrittura frattale. Essa è strutturalmente molteplice e pluristilistica, capace di ospitare più autobiografismi di nuovo conio dentro una stratigrafia cronachistica, fantasmatica e autobiografica.

        L’ibridizzazione, la privatizzazione, la tribalizzazione generano un nuovo dispositivo testuale, denotabile come finzionale/testimoniale. Qui l’autentico, l’inautentico, l’in-autenticabile, il falso, il simulacro, il similoro, il gioco di specchi, l’entanglement, l’interferenza, la peritropè, la catacresi e la metafora sono costantemente intrecciati, organicamente incorporati nell’orditura del testo, guidato da una forma di spiccata artificialità. La continuità del testo è costantemente interrotta dalle interferenze di formazioni enunciative di tipo teoretico, da enunciati consunti della pubblicità, frasi fatte, descrizioni di fotogrammi di film o di fotografie. «Una scrittura senza modello e senza destinatario garantito».

        Per finire: una Stimmung apatica che si esterna in politonie caratterizza lo stile di questo nuovo tipo di scrittura che è anche un nuovo concetto del reale che implica la massima perentoria di dover «reinventare il reale» (Baudrillard) e che misura la distanza che è intercorsa «dal postmoderno alla postverità», la quale altro non è che «la popolarizzazione del principio capitale del postmoderno (ossia la versione più radicale dell’ermeneutica), quello appunto secondo cui “non ci sono fatti, solo interpretazioni […] Le strutture ideologiche postmoderne, sviluppate dopo la fine delle grandi narrazioni, rappresentano una privatizzazione o tribalizzazione della verità (vale la pena di osservare che la fine dei grandi racconti coincide – in forma del tutto coerente con la creazioni di “razionalità regionali” – con i primi casi di negazionismo».1

        1 M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, Bologna, 2017, p. 113

      • Guido Galdini

        Ho appena letto che oggi (23 ottobre) è il centenario della nascita di Gianni Rodari, il maestro di tutte queste cose.

      • milaure colasson

        caro Guido Galdini,

        i tuoi quasi limerick o pseudo limerick sono esilaranti, vivi e vividi. Penso che si questa la tua personalissima strada che ti porterà verso la poesia da cucina, o poesia buffet.
        Il tuo è un limerick guastafeste.

    • Verissimo caro Giorgio. Ecco due poesie datate anni ottanta , dove la questione dell’Io è connessa a quella di un senso e questo a quella di una poesia che per me è ” il passato” .
      Quale lo stile?
      Se avessi cercato il successo, forse sarebbe bastato perfezionare la comprensibilità e sulla incisività delle metafore per renderle più stringenti alle tematiche, lavorare sulla metrica, cercare di rendere i miei versi più musicali etc. Sistemare tutti quegli accorgimenti che fanno di un brano qualcosa di commestibile, da gustare nel dopo pranzo per addolcirsi l’anima o stare insieme in un salotto dove non si bestemmia ma si progetta la salvezza della propria anima o dell’umanità.
      Ma tutto ciò non mi è mai interessato.
      Quando lentamente si è risvegliata la poesia, a vent’anni da questi versi, prima di pervenire all’Ombra ho viaggiato per diversi blog e molto di me è ancora dove lo lasciai, firmandomi fintipa2 o cripaf.
      Il percorso non è stato facile né indolore…
      Mi interessava invece qualcosa di nuovo, meno corpuscolare senza il peso del senso e capace di avvolgere gli ostacoli e il mai detto, tirare fuori la luce dei frammenti (sostituendo a qualche fotone un protone o un proiettile) dei tic, dei rottami, di tutto ciò che si trova in cucina compreso il metano che brucia streghe ed eretici mentre scioglie i suoi legami con l’esattezza di un istante dopo l’altro, ciascuna cosa con la sua frequenza in un’un’unica portante che conduca il verso a possibilità inaspettate, fuori significato, nel non seminato e assurdo della nostra epoca dove sembra un sacrificio di Cristo mettere la mascherina anche sul naso, oltre che sulla bocca.

      P.s.
      Un caro saluto a Nunzia, poetessa di raro valore e talento, che rivedo con immenso piacere su queste pagine

      I GIORNI FUTURI (1980)

      Che sa fare questo cervello? Solo costruisce d’anima i giorni futuri.
      E’ vero, ci fu un Tempo! Ma l’impeto è finito, la rivolta sedata,
      Le api sono tornate, versano con disciplina il miele azzurro
      Ciascuno nel suo privato.

      E c’è un piacere in questo, chi l’avrebbe detto.
      Come un tempo si prega in silenzio:
      Costruisci i giorni futuri: mattoni + rose+merda+ordine nel tuo cervello.

      Eroina! Eroina! Eroina!

      Mi porge in questa mano un simbolo finale
      Sopra i fogli strisciati d’inchiostro senza nemmeno insegnarmi come\cosa
      A viso scoperto un demonio che si masturba in una campana.

      E’ notte, pensa a che fare delle parole credute indispensabili
      come scongiurare il mondo da metafore universali
      e come è più facile farsi ora nel buio

      Una stella, accartocciata in un giornale, una puttana…
      Sa di alba, fradicia, mi da un bacio ……è fredda sulla gamba.
      Alba per chi\che?

      Sono il verde che si stende sulle ortiche
      Si accuccia il sole, paladino:
      -Caca per primo vecchio Giove,
      la tua merda la chiamano luce
      E poi balza, felice ragazzo, venerato dagli uccelli!

      Fumo una sigaretta
      Ho altro per la testa che stupide disperazioni
      Ho altro a cui pensare prima dell’alba:
      Eroina? No grazie.

      Prima che mi colga il rosa
      e mi scopra pallido, uomo
      deformo la mia voce.

      Esigo la mia parte, ci fu un Tempo, non lo sapete?
      Un passo dalla rivoluzione, proprio niente ci separava dal gran colpo finale
      Poi il colera.. la bandiera gialla
      Non l’ardimento, non la forza è mancata ma come un veleno era già nelle braccia.

      Incontro i miei occhi, sudati, sputtanati, irridenti.
      Quale rivoluzione?
      Se avessimo disposto di iene forse
      Odio i lunghi discorsi con sconosciuti.

      Il mio privato?

      L’era metafisica è cominciata:
      Che sa fare questa mente impietosa
      Se non muovere guerre a cartocci di parole?

      DELIRIO DI UNA FORMICA (1982)

      Chiusa in una bottiglia, trasportata da correnti,
      Ho attraversato l’oceano.
      Così anche una formica è diventata marinaio
      E non è stato facile, no davvero:
      Una dura prova per la forza nelle braccia.

      Quante volte al cospetto della luna
      La nostalgia, il ricordo dell’umido nido
      Operaia al lavoro
      Avrei voluto se potuto tornare indietro.

      Ma oggi il nuovo giorno
      Annuncia che il viaggio è finito
      L’onda mi consegna alla sabbia chiara
      Di un altro continente.
      Chissà che non sia stato un brutto sogno
      Chissà se scendendo tra granelli di sabbia
      Non ritrovi un vecchio compagno
      Qualcuno che restituisca uguale
      la mia identità.

      Ma dove, quando è iniziato questo viaggio
      Chissà se altri prima o con me
      hanno vissuto questo viaggio
      Chiusi in un guscio di vetro
      Circondati d’incubi,
      Figure strane emergenti dall’ombra
      Forme sempre in movimento.

      Il passato fonde la mia voce
      Con voci d’altri
      Scheletri di progetti perduti
      Nella forza dell’oceano.

      Il passato riempie tutta la mia anima
      Come una stiva marcia che nessun
      Altro viaggio potrà affrontare.

      (Francesco Paolo Intini)

  17. La verità, diceva Nietzsche, è diventata «precaria».

    Il «fantasma», il revenant che così spesso appare nella poesia della «nuova ontologia estetica», si presenta sotto un aspetto scenico. È il Personaggio che va in cerca dei suoi attori. Nello spazio in cui l’io manca, si presenta il «fantasma».
    Dal punto di vista simbolico, è una sceneggiatura, il «fantasma» è ciò che resta della retorizzazione del soggetto là dove il soggetto viene meno; il fantasma è ciò che resta nel linguaggio, una sorta di eccedenza simbolica che indica una mancanza.

    L’inconscio e il Ça rappresentano i due principali protagonisti della «nuova ontologia estetica». Il soggetto parlante è tale solo in quanto diviso, scisso, attraversato da una dimensione spodestante, da una extimità, come la chiama Lacan, che scava in lui la mancanza. La scrittura poetica è, appunto, la registrazione sonora e magnetica di questa mancanza. Sarebbe risibile andare a chiedere ai poeti della «nuova ontologia estetica», mettiamo, a Mario Gabriele, Francesco Paolo Intini, Gino Rago, Marie Laure Colasson che cosa significhino i loro personaggi simbolici, perché non c’è alcuna significazione che indicherebbero i fantasmi simbolici, nulla fuori del contesto linguistico. Nulla di nulla. I «fantasmi» indicano quel nulla di linguistico perché Essi non hanno ancora indossato il vestito linguistico. Sono degli scarti che la linguisticità ha escluso.

    I «fantasmi» indicano il nulla di nulla, quella istanza in cui si configura l’inconscio, quell’inconscio che appare in quella zona in cui io (ancora) non sono (o non sono più). L’essenza dell’inconscio risiede non nella pulsione, nell’essere istanza di quel serbatoio di pulsioni che vivono sotto il segno della rimozione, quanto nella dimensione dell’io non sono che viene a sostituire l’io penso cartesiano. La misura di questa dimensione è la sorpresa, l’esser colti a tergo. Tutte le formazioni dell’inconscio si manifestano attraverso questo elemento di sorpresa che coglie il soggetto alla sprovvista, che, come nel motto di spirito, apre uno spazio fra il detto e il voler-dire. Come nei sogni, dove l’io è disperso, dissolto, frammentato fra i pensieri e le rappresentazioni che lo costituiscono, così l’inconscio è quella istanza soggettiva in cui l’io sperimenta la propria mancanza. Come aveva intuito Freud: l’inconscio, dal lato dell’io non sono è un penso, un penso-cose, esso è formato da Sachevorstellung, è costituito da rappresentazioni di cose. La formula «penso dove non sono» è la formula dell’inconscio, che si rovescia in un «non sono io che penso». È come se «l’io dell’io non penso, si rovescia, si aliena anche lui in qualcosa che è un penso-cose».

    Il «fantasma», il revenant inaugura quella dimensione della mancanza che si costituisce nella struttura grammaticale priva dell’io, cioè della dimensione della parola come luogo in cui il soggetto «agisce».A questo punto apparirà chiaro quanto sia necessario un indebolimento del soggetto linguistico affinché possa sorgere il «fantasma». Nella «nuova ontologia estetica» non c’è più un soggetto padronale che agisce… nella sua struttura grammaticale l’io si è assottigliato o è scomparso. O meglio, il soggetto viene parlato da altri, incontra la propria evanescenza.

  18. “L’azione letale del significante colpisce la struttura sintattica della poesia depalchiana destrutturandone i nessi logico-proposizionali. Questo «intervento» in quanto operazione di divisione del «soggetto» condotto attraverso ciò che Lacan definisce «alienazione significante», si ha come «separazione». Separazione dal campo materno. Separazione dal desiderio materno. Separazione dal linguaggio poetico della tradizione considerato come linguaggio anestetizzato”. Giorgio Linguaglossa sett.2017

    Sembra che poesia riconduca al campo materno; e la grammatica al significato. Pertanto, chi non abbia conservato il linguaggio materno dovrà più di altri confrontarsi con la grammatica, che è grammatica del significato. Da qui la difficoltà di poter ritrovare le parole all’origine. Entra in campo una mediazione culturale, di fronte alla quale il mezzo grammaticale dimostra la sua insufficienza: forse perché funzionale al significato, la grammatica consente una innovazione semantica, raramente di linguaggio.
    Non sono un esperto linguista, ma è quanto sto osservando. il linguaggio me lo piego da me giostrando sulle procedure convenzionali del discorso. Altri vedo che fanno fatica, o vivono questo impedimento grammaticale; anche nelle recenti poesie potery kitchen noto che i versi partono dall’a-capo e finiscono diligenti al punto, in una sorta di spezzettamento dei significanti, che rasenta l’assurdo. Il frammento diligente – che per essere frammento andrebbe preso a sassate (vedi De Palchi) – se di significato o narrazione anche assurda, causa l’appropriata grammatica finirà inevitabilmente col tramutarsi in una sorta, o variante, del verso libero. Quindi formalmente un passo indietro rispetto a quanto si stava cercando.
    Penso si tratti di un percorso individualmente de-condizionante. Quindi ci si attacca ovunque sia possibile pur di restare in sella. Questo se il linguaggio materno è irrimediabilmente perduto.
    Vi è una componente che definirei terapeutica, di ricerca o anche di semplice ma totale ascolto introspettivo; che in qualche modo in questi ultimi anni abbiamo cercato, confrontandoci, di normare in altra struttura: il distico, per l’appunto, che è variante del verso libero. Libero ma compresso, cioè depurato degli elementi che a nostro giudizio invecchiano il linguaggio poetico tradizionale.

    Come per miracolo ritrovare la scrittura mirabile di Virginia Woolf nei versi di Mario M. Gabriele. La stessa cura nel dettaglio, quasi la stessa ironia, per non dire della compostezza anglosassone. Ma il romanzo può sparire in un verso, perfino ridursi a un nome.

    Carlo Livia: “le ossessioni private si trasfigurano in costanti e immutabili plessi semantici, che ruotano sempre attorno agli stessi grovigli e aporemi irrisolti”. Ma questo accade perché l’autore si affeziona al proprio disagio, e l’immaginario, forse temendo che altrimenti non scriverebbe più. Diventano archetipi le istanze scritte per essere contemplate. Figure, nulla che abbia a che vedere con lo stile nominale. Che per mio gusto sarebbe un passo ulteriore in avanti, verso l’inanimato esteriore.

    Sento urgente la questione T.interno e T. esterno (la prima completamente assente nelle poesie di Intini). Una navigazione sicura si può fare viaggiando a 360 gradi. Mettersi in gioco.

  19. https://lombradelleparole.wordpress.com/2020/10/20/pseudo-limerick-di-guido-galdini-giuseppe-gallo-giorgio-linguaglossa-e-poesia-di-alfonso-cataldi-a-proposito-della-poetry-kitchen-o-poesia-buffet-il-teatro-delle-maschere-e-il-collasso-d/comment-page-1/#comment-69437
    caro Lucio,

    penso che la nuova fenomenologia della poiesis che chiamiamo poetry kitchen rientri nel mondo epocale del Ge-Schick dell’essere di cui parla Heidegger: non più apertura di mondi storico-destinali, non più apertura di epoche, non più inaugurazione di epoche storiche nelle quali si dà l’essere, non più il susseguirsi (tras-missione, Ueber-lieferung) di aperture, di epoche, non più come ciò che viene in presenza, ma come ciò che viene in «chiusura» di un mondo storico-destinale, come inaugurazione della «chiusura». «Chiusura» che però non si dà mai come fine ma come tentativo di oltrepassamento del fine, tentativo di oltrepassamento della soglia del fine, e impossibilità di quell’oltrepassamento come superamento della metafisica della presenza e della luce che consente ed assicura quella luce, e quindi della fine della metafisica. In questo tragitto dovremo procedere con drasticità verso l’interminabile dissoluzione della presenza, che è il modo con cui si dà la presenza nell’orizzonte della metafisica, al di là della concezione metafisica del segno come ciò che «sta per» il significato, che tende a derubricare il segno scritto come ciò che sta per qualcosa che a sua volta sta per altro; procedere verso la liberazione del significante da ogni dipendenza che caratterizza oggi, nelle società mediatiche, la subordinazione del significante ai significati stabiliti dalla comunità.
    È ovvio, per chi voglia capire, che qui stiamo parlando della fine dell’arte come rappresentazione e come fine della metafisica della presenza. La «casa dell’essere», non è più il linguaggio, l’essere ha sfrattato il linguaggio dalla sua casa-custodia e adesso se ne va a ramengo per il mondo non più mondo. Il linguaggio come cristallizzazione e sedimentazione di opere classiche e iscrizione monumentale si è allontanato dalla tradizione, ha preso congedo da essa ed è rimasto orfano di senso.

    • Sono pienamente d’accordo, ma non penso esista qualcosa oltre la presenza. Il nulla verso cui procedere, il divenire, non esiste. Non resta quindi che interrogarsi sulla presenza.
      Ecco una poesia scritta nel 2013, prima che iniziassi a frequentare L’Ombra delle parole. Qualcosa è cambiato, soprattutto, mi pare, la questione estetica, la struttura dei versi; perdita della musicalità e la ricerca del ritmo. Però dai, non penso di essere cambiato tantissimo:

      Natale:  spuntano le margherite. Le mucche svizzere suonano coi loro batacchi come fa il cucchiaino su questa tazza.  Fuori c’è un sole che spacca. Preparo la borsa per la piscina scandinava, mi vesto, mi specchio, ascolto il telegiornale e penso: la voglia di morire non sta negli ospedali, viene prima, viene a vent’anni anche se oggi si vive più a lungo,  più a lungo con la voglia di morire.
      Le margherite sono piene di zucchero, preparo la borsa scandinava e ballo con la voglia di morire su questa tazza.  A natale spuntano i batacchi sul cucchiaino, fuori c’è un sole che ha voglia di morire.   Vent’anni, tanto vivono le mucche.
      Le parole del TG sono margherite scandinave. Fuori c’è un sole che spacca; lo sapevo, ieri sera c’erano stelle intermittenti.   Ho sognato che mi morivo tra le braccia perché la borsa da ballo era senza cucchiaino,  le batterie del cuore erano scariche e non avevo soldi, ne’ per comprarne di nuove ne’ per rifarmi i denti. Le stelle intermittenti erano senza batacchi e le mucche ruminavano nella tazza.
      (May – 2013)

  20. Io la vedrei così adesso, alla maniera della NOE, in distici. Ho tolto due volte l’aggettivo “scandinavo”.
    Che ne dici?

    Natale. Spuntano le margherite.
    Le mucche svizzere suonano coi loro batacchi come fa il cucchiaino su questa tazza.

    Fuori c’è un sole che spacca. Preparo la borsa per la piscina scandinava, mi vesto, mi specchio, ascolto il telegiornale e penso.

    La voglia di morire non sta negli ospedali, viene prima,
    viene a vent’anni anche se oggi si vive più a lungo, più a lungo con la voglia di morire.

    Le margherite sono piene di zucchero,
    preparo la borsa e ballo con la voglia di morire su questa tazza.

    A natale spuntano i batacchi sul cucchiaino, fuori c’è un sole che ha voglia di morire. Vent’anni, tanto vivono le mucche.

    Le parole del TG sono margherite.
    Fuori c’è un sole che spacca.

    Lo sapevo, ieri sera c’erano stelle intermittenti.
    Ho sognato che mi morivo tra le braccia perché la borsa da ballo era senza cucchiaino, le batterie del cuore erano scariche e non avevo soldi,

    né per comprarne di nuove ne’ per rifarmi i denti.
    Le stelle intermittenti erano senza batacchi e le mucche ruminavano nella tazza.

    • Grazie, la conserverò. Tante poesie sono invecchiate, per non parlare delle tantissime sciocchezze che ho scritto. Oh quante ne ho scritte, di sciocchezze… specie quando sentivo di voler dire, approfondire, comprendere grazie alla poesia qualche mistero che si affacciava, magari solo in una parola. Non mi penso intelligente, cerco di mantenermi vuoto, accogliente. Non è come per i filosofi, che se gli arriva un pensiero poi servono giorni, giorni per approfondire; e fanno bene. Come attraversare una galleria, poi ecco la luce. Non funziona così. Qui non c’è niente: tra una poesia e l’altra; se non mi prende la pittura; quindi tra una poesia, l’altra e la pittura (che quella, sì, può durare giorni), ecco, nell’intervallo, è lì che accade quel fenomeno che porta a ridere: il dentro, il fuori che sbiadisce; e diventa tutt’uno. Quindi poesia è per me uno stare qui.

    • Non so per lo “scandinavo”, ci penserò. Allora seguivo un procedimento diverso: ripercorrevo le parole scritte sopra, le portavo in altri accostamenti; per scoprire poi che il significato, o l’intenzione, non cambiava per niente, anzi.

  21. Caro Lucio,

    quanto alla nuova ontologia del poetico e alla poetry kitchen quale ultima versione della nostra ricerca, mi riallaccio alla nota teoria di Kuhn, nel celebre La struttura delle rivoluzioni scientifiche. (1962)

    Kuhn aveva sostenuto che i paradigmi scientifici dominanti nelle diverse epoche storiche si succedono in maniera discontinua, rivoluzionaria e non deduttiva; soltanto all’interno di un dato paradigma è possibile una storicità “normale”, di tipo progressivo-cumulativo, mentre tra un paradigma e l’altro non v’è successione logico-storica, ma un “salto”, una “rottura”.

    A Carlo Livia e agli altri lettori che ci leggono con le categorie vetero testamentarie, la poetry kitchen rimarrà sempre una incognita incomprensibile, perché un “salto” e una “rottura” separa la nostra poesia da quella della tradizione che si è esaurita in un epigonismo di maniera.

    1 T. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago, 1962; tr. it., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1969

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