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Esercizio con violino e tamburo, Video di Gianni Godi, musica di Antonio Amendola, Poesia di Giorgio Linguaglossa

Ho impiegato molto più tempo del previsto per la costruzione del video, e perché nelle ultime settimane sono stato poco bene (pressione alta poi bassa bassa…). e perché dal punto di vista tecnico è stato un lavoro abbastanza complicato. Le moltissime lettere dell’alfabeto che svolazzano qua e là e tutti gli altri oggetti, non sono immagini fotografiche ma oggetti tridimensionali. Quando cadono sulla “superficie” del black hole si comportano come veri e propri oggetti fisici. Seguendo la legge gravitazionale scivolano inesorabilmente nel buco. In teoria non si dovrebbe vedere alcunché di quanto avviene nel buco, però facendo finta di stare nei pressi dell’orizzonte degli eventi e avendo una telecamera adeguata…noi abbiamo il privilegio di vedere e ascoltare i coniglietti, forse perché qualcuno, dall’aldilà del buco, ha registrato l’evento. Non lo sapremo mai!
Che Einstein e Hawking, mi perdonino.
(Gianni Godi)

Foto Belle al poker

Giorgio Linguaglossa

Esercizio con violino e tamburo

K. sbatte la porta. Resto là, sulla soglia, per qualche minuto.
Impalato. Poi mi scossi e guardai la porta aperta. [1]

Madame Hanska aprì tutte le finestre, «Sa, le finestre sono nere», disse.
E fece entrare le madamigelle con il grembiulino.

«Buonasera Cogito – esordì Hanska – le cose sono cambiate
negli ultimi tempi». Prese una forbice e un posacenere

e li posò sulla siepe di capelvenere e di acanti.

«Sa, c’è una tigre e un pianoforte… Ecco, metto la forbice
sul pianoforte, adesso Vivaldi può suonare.

Woland ha ordinato ai gatti di suonare, il Requiem, quello, sì.
Solo quello. La musica uccide gli uccelli», aggiunse.

«Lo specchio avrà la sua vendetta», disse Baudrillard,
«Non resta che reinventare il reale», aggiunse tra il serio e il faceto.

Era seduta in mezzo alla camera. La tigre sorrideva.
«Per oggi basta con la musica – disse – dovrebbe esercitarsi più spesso.

Impari a suonare piuttosto. La rappresentazione è finita.»

 

Il commissario fece un buco nel muro

Entrò il commissario. Delle uniformi grigie lo seguivano.
Fecero un buco nel muro, dietro il quadro appeso alla parete.

«Qui è nascosta la refurtiva».
«Sì, da qualche parte ci deve pur essere», mi disse.

«Ne sono certo». Annuii. Guardai il cielo color lavagna,
e mi lavai le mani.

«Chi è Yolande?»
«Si chiama Yolande, ma non so chi sia…

Un tempo è stata la mia amante», risposi.
«Yolande è piccola, porta sempre scarpe con tacchi 12

E cappelli esagerati».

Sopra il cappello c’era un ombrello.
Però, era già notte. Entrai nel bosco.

La pioggia era fitta, mista a neve.
Così, ho preso il bus notturno per arrivare più in fretta.

Erano le tre.

Glossa
[1] Le tesi Sul concetto di storia di Benjamin si concludono con una frase paradigmatica: “ogni secondo […] era [per gli ebrei] la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il Messia”. Questo significa che ogni momento di ogni giorno, in questa vita e in questo mondo, è il momento (“cairologico”) della decisione e dell’azione, il presente, e non il futuro, è il tempo della storia
*

La poesia si situa in quell’essere-in-mezzo, quello “Zwischen” di cui ci parla Heidegger. Quel frammezzo che è il vero centro dell’essere, ovvero, del nulla. Se il poeta è il vero fondatore dell’essere, è anche il vero fondatore del nulla, come ci ha insegnato Andrea Emo. La poesia è il suo progetto aperto al futuro, è il futuro aperto al presente. È il presente aperto alla Memoria del passato. È insomma quella entità che sta al mezzo delle tre dimensioni del tempo. Ed è ovvio che in questo frangente, il linguaggio della poesia non può che situarsi nello “Zwischen”, cioè in un non-luogo linguistico, in un non-luogo dell’essere. Continua a leggere

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Sul Gesto poetico, Giorgio Agamben, Commenti e Poesie di Alfonso Cataldi, Gino Rago, Carlo Livia, Mauro Pierno, Edith Dzieduszycka, Giorgio Linguaglossa, Luigi Celi, Edith Dzieduszycka, Francesca Dono, Video di Gianni Godi su testo di Mario Lunetta, Parola di Satana

Giorgio Linguaglossa

Messaggio della Signorina Anais  al dottor Cogito

dottor Cogito,

devo vedervi per una questione di grande urgenza:
il futuro della filosofia tedesca è a repentaglio.

Ho bisogno di incontrarLa al più presto,
la prego di venire al caffè Freud alle nove in punto,

domani mattina.
Sua devota estimatrice.

Anais

*
Risposta di Cogito

gentile Signorina Anais,

Frequenti più spesso l’obitorio, lì c’è qualcosa che la Musa non disdegna.
Ma ci sono anche la discariche abusive frequentate dai corvi,

dai gabbiani e dal Signor Socrate,
il quale apprezza fuori misura questo moderno peripato…

Il cruciverba mattutino dove Madame Colasson e Greta Garbo
si scambiano di posto e il rossetto.

Dove mi trovo?, sono qui, nel giardino sotto casa, annaffio le margherite,
mi creda, è un’occupazione rispettabile e ricreativa.

lo spirito ne guadagna, e così anche l’umore.
Delle questioni di filosofia, reputo, se ne occuperà qualcun altro.

Cordiali saluti.

Cogito

Gino Rago

 

sms per il dottor Cogito e per la signorina Anais

Signorina Anais, Dottor Cogito,

Herr Kommerell ha strappato il saggio su Kleist.
A nessuno interessano

i tre gradi dell’essere nel linguaggio senza parole.
Se si nomina l’enigma

i parlanti si rendono incomprensibili
anche pronunciando fiumi di parole.

Se si dice arcano
quanti sono disposti a credere che è

l’essere stesso dell’uomo,
che vive nella verità del linguaggio.

Che dire del mistero,
della pantomimica messa in scena dell’arcano.

Il poeta rimane senza parole
nel parlare,

muore al mondo per la verità del segno.
Rätsel, Geheimnis, Mysterium

siete Voi due, Dottor Cogito, Signorina Anais,
il gesto libero sul vuoto.

Paola Renzetti

15 marzo 2019 alle 14:15

Nella cultura c’è spazzatura, certamente, ma, si potrebbe obiettare – allora cultura non è. C’è ancora un sentimento dignitoso di sopravvivenza, di speranza e di memoria storica. Anche da quello si procede, unitamente alla capacità di trovare fra i resti, quel qualcosa che può fare la differenza fra la resa incondizionata al tutto-nulla equivalente (qui sta l’illusione) e la forza di essere ancora vivi. Le passeggiate appartengono all’umana debolezza. Che male possono fare? Certo possono confondere le acque (chi non è mai confuso?) ma prima o poi si torna a distinguere. È una ricerca che continua, una bella ricerca quella della nuova ontologia estetica, mi pare di capire nelle espressioni testuali e nelle scelte, aperta e varia. Sono tanti ad avere talento e a volerlo esprimere.
“Una fondamentale accuratezza d’espressione è il solo e unico principio morale della scrittura” (Ezra Pound)

Gino Rago

La critica linguaglossiana, che parte da lontano, più che sopra un coeso sistema speculativo, fatto anche di domande e di risposte, si basa su quella che direi una strategia della problematizzazione la quale si sdipana e giunge ai lettori a forza di gesti, di gesti estetici che non parlano “ai” poeti ma “con” i poeti, in una compostezza di percorso.
Non mi dilungo, ma non posso fare a meno di ricordare che proprio da Agamben, a lungo interpellato e trattato da Giorgio Linguaglossa anche in altri momenti e in altre sedi (per esempio in Critica della Ragione sufficiente del 2017, ma altresì in Dopo il Novecento del 2011) ci sono arrivati segnali non di fumo, né di vapori sfuggenti, verso ciò che è “critica” e che deve tornare a esser “critica”, a tutto vantaggio della nuova poesia.
Agamben ha da sempre indicato in Max Kommerell il maestro indiscusso della critica, affiancandogli Benjamin e anche Contini.
Linguaglossa ha non di rado guardato nella direzione di Kommerell nei suoi esercizi di ermeneutica, non negando al critico tedesco mai l’ospitalità problematica nel suo laboratorio di «calzolaio della poesia», come egli stesso ama definirsi, e della critica.

Indico soltanto pochi punti della idea di “critica” di Kommerell-Linguaglossa.
La critica ha 3 livelli, quasi 3 sfere concentriche:

– un livello filologico-ermeneutico;
– un livello fisiognomico;
– un livello gestuale.

Un livello “gestuale”.
Ecco perché nel mio pensiero rivolto all’atto ermeneutico di Giorgio Linguaglossa, anche quando fa poesia, ho parlato di “gesto”, di “gesto estetico”, un gesto senza il quale la critica è mutilata.
Ma cosa è un gesto nel livello gestuale della critica? Secondo Agamben-Kommerell-Linguaglossa il senso di questi gesti linguistici non si compie nella “comunicazione” perché per Kommerell:
«Il gesto, per quanto cogente possa essere per l’altro, non esiste mai unicamente per lui; solo, anzi, in quanto esiste anche per se stesso, può essere tanto cogente per l’altro.
Anche un volto che non ha testimoni ha la sua mimica; ed è problematico se a lasciare sulla sua superficie un’impronta più profonda siano i gesti coi quali esso s’intende con gli altri o quelli che gli sono imposti dalla solitudine o dal colloquio con se stesso.
Spesso un volto sembra narrarci la storia dei suoi momenti solitari».

“Spesso un volto sembra narrarci la storia dei suoi momenti solitari…”. È già da solo un pensiero che vale una intera poetica.
In quale gesto può essere possibile trovare la cifra autentica nella scrittura critica di Giorgio Linguaglossa? Per me risiede nella “compostezza”, una compostezza che mai si fa supponenza o metallica seriosità, ma metodo del pensiero che definirei strategia della problematizzazione. Continua a leggere

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Poesie di Alfonso Cataldi, Il disallineamento fraseologico e la contaminazione nella poesia di Alfonso Cataldi, a cura di Giorgio Linguaglossa

Alfonso Cataldi è nato a Roma, nel 1969. Lavora nel campo IT, si occupa di analisi e progettazione software. Scrive poesie dalla fine degli anni 90; nel 2007 pubblica Ci vuole un occhio lucido (Ipazia Books). Le sue prime poesie sono apparse nella raccolta Sensi Inversi (2005) edita da Giulio Perrone. Successivamente, sue poesie sono state pubblicate su diverse riviste on line tra cui Poliscritture, Patria Letteratura, il blog di poesia contemporanea di Rai news, Rosebud.

Riguardo i versi immaginifici di Marie Colasson, Pietro Montani, in Tre forme di creatività: tecnica, arte, politica (Cronopio), formula l’ipotesi che «la principale funzione del sogno sia proprio quella di affrancare l’immaginazione dalla tendenza annessionistica del linguaggio verbale». L’immaginazione tende a preservare e manutenere la sua componente intuitivo-percettiva (la irriducibile bizarreness), messa però sempre più a dura prova dalla tecnologia, capace di leggere e interpretare archivi digitali sconfinati e rendendo subalterni gli apparati organici umani. In questo scenario, Montani si augura nelle arti più coinvolte dalle innovazioni tecnologiche, una progressiva “disautomatizzazione” tendente a farle assomigliare sempre più ai sogni. La poesia contemporanea, attraverso il polittico-sogno, può recuperare dagli strati arcaici della psiche tracce remote appartenenti all’in-fans.

(Alfonso Cataldi)

Poesie di Alfonso Cataldi

Mai vista una strategia così spudorata
puntare solo sulla consapevolezza della fortuna.

Le controverse rotondità della regina di picche
vennero eterordinate dalle incredule smerigliature.

L’eterogenesi arriccia uno sbadiglio la sera di Natale
calano le perplessità acquisite dall’alta definizione

– Preferisci una mano a ramino o i tarocchi?
– Che mi smonti la plafoniera dell’androne.

Un quarto di giro antiorario. Una leva eccentrica o tre viti.
Nureyev si dilegua da una scala di servizio

troppo alta per gli agenti del Kgb
e inaccessibile, come da regolamento condominiale da scrivere

approvare, firmare e affrancare.
Il sole soffocante sul consesso non lasciava alternative.

La masnada improvvisò una risata.
Nell’ultimo trasloco è andata persa la filigrana.

La boccia fa una carezza al boccino e si allontana verso la cassiera
Gesù o Barabba libero

al minimarket non fu mai pronunciato.

***

La filantropia dietro ai nodi scorsoi
redige editoriali fluenti sulla dicotomia su Mangiafuoco.

Flussi di singolarità rovistano le prime serate.
Al Bataclan nessuno immaginava matrimoni riparatori.

Gli eventi sono più veloci delle teorie
e il pop e derivati è ancora con la testa sotto la sabbia.

Qualcuno torna a parlare agli scogli.
Ancora pochi. L’àncora filosofale.

La reception dovrà spiegare cosa sono tutti questi generali
a cavallo, appesi alle pareti.

Ferirsi o dileguarsi?
E se fossero due eccezionalità che si rincorrono?

“La Mesopotamia oggi è quasi interamente occupata dall’Iraq
da circa trent’anni assediata dalle guerre…”

«Guerre, guerre e ancora guerre… basta, non studio più.»
Sofia lancia il libro dalla parte opposta della cameretta.

Sogna il primo strato di pelle, di non alzarsi la mattina
rifiutare 80.000 € per una pratica qualunque.

****

Il cartoccio di vino rosso dell’Eurospin
partirà sotto protezione

dopo un anno di catarifrangenza dal marciapiede.
Chi poteva immaginarlo? Nessun albero è fermo

sopra l’uomo che non sa deglutire.
Aritmie alla mano ispirano racconti autobiografici

o divine commedie trascurabili nel cosmo.
«La scimmia antropomorfa ha scritto il libro zero – uno – zero

battendo a caso sulla tastiera.»
Il file dat tiene traccia degli accessi

non delle manipolazioni
mancando talent scout di manipolatori.

La mente degli hacker ricorda un bunker.
Comunque vulnerabile. Più un covo

con il disordine proporzionale alle illusioni
scoperte nelle email. Il conto alla rovescia è cominciato

Mr. Robot è distratto dagli sfondi colorati
che non concedono attenuanti, né speculazioni.

Prometeo ha patteggiato il microchip sottocutaneo
dopo quattro estenuanti ore di chat.

Giorgio Linguaglossa
Il disallineamento fraseologico e la contaminazione nella poesia di Alfonso Cataldi

Possiamo dire che la poesia di Alfonso Cataldi si nutre della différance, agisce tra gli spazi semantici, sui disallineamenti fraseologici e semantici, sulla contaminazione figurale e iconica, sul dislocamento del soggetto empirico il quale non si limita semplicemente a cambiare di «luogo» ma modifica, con la sua stessa dis-locazione, in profondità, il senso del «luogo» medesimo e il suo stesso statuto fenomenologico. Cataldi parte dalla assunzione di Derrida secondo il quale «la traccia è infatti l’origine assoluta del senso in generale. […] La traccia è la dif-ferenza che apre l’apparire e la significazione».1

Il disboscamento del senso perseguito da Cataldi con estremo rigore va a sbattere però contro il muro impermeabile della significazione che tende a ripristinare sempre di nuovo il senso nonostante tutti gli sforzi per abolirlo. Il senso è inestirpabile, in quanto agisce simultaneamente alla disparizione della traccia, è la traccia stessa che lo crea.
È il passaggio argomentativo che Derrida indica esplicitamente a proposito del rapporto traccia-origine, quando, dopo aver scritto che «la traccia è infatti l’origine assoluta del senso in generale», aggiunge subito dopo: «il che equivale a dire, ancora una volta, che non c’è origine assoluta del senso in generale».2 Il senso non avrebbe luogo senza la scrittura che contiene il progetto, la posta, la promessa, la missione, la scommessa, l’invio del secondo senso che è già lì contenuto nella fraseologia prima. Quest’ultima, la prima, si sdoppia anticipatamente. E così via. Nella variazione-ripetizione capita che dato che la seconda fraseologia abita la prima, la ripetizione aumenta e divide, spartisce anticipatamente la fraseologia che precede in un movimento di smottamenti successivi tesi a disabilitare il senso purchessia. Il discorso poetico vive così della e nella disabilitazione del senso.

La contaminazione.

Non si dà trascendentale puro in sé, ma contaminazione differenziale del trascendentale e dell’empirico. La contaminazione è il campo proprio della forma-poesia della nuova ontologia estetica. Trascendentale non è più la soggettività, ma la traccia, l’archi-scrittura, la différance. Il mondo ha bisogno di un supplemento di nulla che è nel mondo, ha bisogno di questo nulla supplementare che è il trascendentale e senza del quale nessun «mondo» potrebbe apparire. La scrittura cataldiana rivela il «nulla» del mondo e lo benedice, perché è soltanto grazie ad esso che un «mondo» può esistere.

Proprio questa rappresenta l’altra operazione fondamentale compiuta da Cataldi: decostruire la versificazione della tradizione soggettocentrica della poesia italiana implica il far emergere la contaminazione dell’empirico e del trascendentale, mostrare che il trascendentale non può essere puro ed epifanico e pienamente presente a sé, in quanto contaminato dall’empirico da cui sorge e da cui viene intaccato; l’empirico a sua volta non è «meramente empirico» nel senso tradizionale, ma è una singolarità, una contingenza che apre un senso.

Il senso è dato da nient’altro che dalla contaminazione fraseologica. È l’assetto fraseologico, l’empirico, che costituisce il soggetto trascendentale, apre ad una temporalizzazione e crea il senso.
Un atto linguistico può fallire o essere trasposto dal suo contesto originario, questa possibilità gli appartiene necessariamente e l’atto linguistico è quindi tale per cui deve poter fallire ed essere reduplicato in un contesto differente. Se una lettera può sempre non arrivare a destinazione, questa possibilità appartiene necessariamente all’essere stesso della lettera e di ogni messaggio.

La scrittura poetica di Cataldi  funziona in automatico: in assenza del mittente, del ricevente, del contesto di produzione, del messaggio, dell’epifania, del contesto storico e stilistico etc., ciò implica che questo potere, questa possibilità è sempre inscritta in essa come possibilità del funzionamento stesso della scrittura. La possibilità dell’assenza e della morte costituisce la scrittura come tale, fin dall’inizio, marcandola. Potremmo dire che la scrittura poetica di Cataldi è a-eventuale, non considera l’evento come indispensabile elemento del discorso poetico.

Perché un evento sia veramente tale, deve essere assolutamente singolare, altro, imprevedibile, inanticipabile e incondizionato. In questo senso, l’evento è l’accadere dell’impossibile, perché se fosse solo l’accadere di un possibile già pre-ordinato, pre-visto e garantito non sarebbe un evento. Ma è che l’evento nella poesia cataldiana altro non è che la variazione-ripetizione di un evento pregresso, ergo il discorso poetico si può configurare solo come il luogo di un evento sempre-uguale, non più singolare, ma generico, empiricamente caduco in quanto informazionale.

1 J. Derrida, De la grammatologie, tr. it. di R. Balzarotti, F. Bonicalzi,G. Contri, G. Dalmasso, A. C. Loaldi, Della grammatologia, a cura di G. Dalmasso, Milano, Jaca Book, p. 94
2 Ibidem, p. 97

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Video di Gianni Godi, Promenade in Zelia Nuttall Gallery, con musica di Antonio Anendola, Poesia inedita di Mario M. Gabriele, Lucio Mayoor Tosi,  la Gioconda, 2005,

Video di Gianni Godi e musica di Antonio Amendola

“Promenade in Zela Nuttall Gallery”

Un Augurio per il Nuovo Anno

 Carissimi lettoti e poeti della Rivista L’Ombra delle parole, nell’augurarvi Buon Anno e un proficuo lavoro poetico, desidero ringraziarvi tutte le volte che leggete le mie poesie, comunicandovi che  Gianni Godi, ha realizzato un video con una mia poesia, su segnalazione di Giorgio Linguaglossa. Questo per me, ha fatto lievitare i battiti cardiaci, regolarizzandoli poi con l’uso di Mini Mas. (Biancospino che supporta  la regolare funzionalità dell’apparato cardiovascolare, oltre alla compressa di Lovidon).

 Scegliere una poesia e pubblicarla in video come ha fatto Gianni Godi è Avantgarde spettacolare. Scrivere versi è tagliare un vestito da parte di un sarto, che deve stare attento alla stoffa, e qui mi viene in mente Giorgio quando si autodefinisce “calzolaio della poesia” mentre con la sua critica apre nuovi cantieri estetici sulla Rivista. Sono supporti aggiuntivi che fanno bene a noi poeti, e che rendono i versi discontinui con la tradizione. Questo è davvero un modo insolito di proporre il nuovo, privo di sperimentalismi. Una volta acquisite queste forme diventa veramente rappresentativa la Nuova Ontologia Estetica.

 Da parte mia, che provengo da diverse stagioni di poesia e di particelle linguistiche, plurisensoriali e pluriestetiche, non mi sono tirato indietro quando Giorgio mi chiese di usare il frammento e il distico nelle mie poesie, senza nulla obiettare, perché si leggevano benissimo con la nuova scrittura.. Grazie a tutti voi e soprattutto a Giorgio al quale auguro ogni bene,  così pure a Gianni Godi che ha fatto un lavoro per me eccezionale, e ad Antonio Amendola con il suo preziosissimo accompagnamento musicale.

(Mario M. Gabriele)

Giorgio Linguaglossa Zen

[poesia recitata nel video]

La nebbia aprì squarci.

Il dubbio era se il mese più corto dell’anno
avesse altre vendette.

Una solitaria tristezza prese la strada più lunga,
senza pigolii d’uccelli allo sbaraglio.

Fu un’antologia di chimismi lirici a portarci in ecstasy.
In nessun porto approdò l’hovercraft.

Ci fu al Berlitz World un memorial day
con uno spartito di Liszt dell’Accademia di Santa Cecilia.

Ogni argine è un approdo di pensieri.
Il jet lag finì con la melatonina.

Un barcaiolo aprì un varco
alle colombe in lutto.

A volte ci si incontra con i vecchi amici.
Qualcuno prepara piani di lettura.

-Per favore, sediamoci
ad ascoltare il Prefatore di questa sera!.-

-Cari signori,
vi parlo di un prologo e di un frammento
senza leggere i capitoli su Diana Ross.-

Potrebbe essere, il doberman, questa volta,
a trovare il Santo Graal.

Ma non è stato Pietro da Sant’Albano
a citare:”Historia fratris Dulcini Heresiarche”?

Wall Street mi attrae più di New York
e della tomba di Marilyn.

Che ne dici di rifare le scorsaline
per la prossima estate?

Le orchidee sono sempre tristi
come le musiche di Regondi e Pujol.

Abbiamo dovuto bere il latte
per tornare all’infanzia.

L’uragano ha lasciato le strade deserte
e i marciapiedi divelti.

Dalla finestra all’ultimo piano fino all’EuroSpin
c’è una distanza dove Jenny naviga a vista.

Lucio Mayoor Tosi La Gioconda

Lucio Mayoor Tosi, 2005, la Gioconda

Guardando questo video di Gianni Godi, mi è venuta in mente la frase di Giorgio Agamben sulla «impossibilità di parlare». Che è soprattutto una categoria dell’arte e del politico di oggi. Oggi versiamo veramente in una situazione disperata, è veramente «impossibile parlare», figurarsi fare una poesia o un quadro, con tanto di immagine «bella». Penso che ciò che muove l’arte di Lucio Mayoor Tosi, di Mario Gabriele e quella di Marie Laure Colasson sia proprio il dolore per questa «impossibilità» di fare una immagine, un ritratto di noi uomini e donne di oggi. Questa «impossibilità» attinge alla base i linguaggi artistici del Dopo il Moderno minandone la interna «possibilità» di esprimere alcunché. Continua a leggere

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Stralci di Vincenzo Vitiello, da Topologia del moderno, Poesie in distici di Giuseppe Talia, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa

 

Giuseppe Talia

Caro Germanico,

oggi il sicomoro ha fatto frutti: cachi belli e rotondi.
Teofrasto, stupito, ne ha salvato l’immagine

in uno screenshot da pubblicare su facebook.
“Una simile piantaccia polverosa ha fatto frutti?”

Immediatamente la cia, la cei, il cicap
hanno rilasciato tutti un’agenzia.

Per la cia il fenomeno è probabilmente dovuto
alla velocità dei dati delle reti 5G, all’efficienza spettrale

della velocità di trasmissione della banda larga per cui
tra la radice del sicomoro, i rami in fibra convergente

si è creato un cloud e quindi Parmenide aveva ragione:
“una che “è” e che non è possibile che non sia…”

La cei ci va cauta. Per caso i frutti sanguinano?
Qualche cachi, in verità, presenta una maturazione

precoce: gli acidi, gli zuccheri e gli aromi rilasciano
una poltiglia dall’esocarpo crepato.

Non si registrano volti wanted dell’iconografia globale
se non per quel cachi in alto a destra che pare

assomigliare a San Carpoforo.
Comunque, nel dubbio, i fedeli hanno acceso alcune candele

sotto l’albero e l’industria dei gadget è già in opera.
Il cicap sguazza nella melma scivolosa della polpa.

Ne acquisisce campioni. Il Diospyros kaki desta sospetti.
Teofrasto continua a dire: “una simile piantaccia polverosa?”

(poesia postata il 26 novembre 2018)

.
Gino Rago

Due fazzoletti al 25 aprile

Rosso-bianco-verde. Due fazzoletti.
Uno sul collo di Calamandrei

L’altro su quello di mio padre prigioniero.
Hanno spaccato le lapidi dei loculi

Sono alla testa di tutti i cortei.
Mio padre disse NO al cibo, agli scarponi,

alla divisa cucita su misura.
Rimase negli stracci, nella fame,

nei pidocchi. Partì con altri a venticinque anni.
Tornò. La giovinezza mai vissuta

per sempre alle sue spalle.
[…]
Con Calamandrei
stasera mio padre senza farsi vedere

sarà forse a Marzabotto con i fratelli Cervi.
O forse a Porta san Paolo

o alle Ardeatine.
Da anni esce dalla tomba.

Si fa fiore tra i fiori mai secchi
sotto le croci di legno

sui prati, ai bordi dei fiumi, sulle montagne.
“La libertà. Il meglio fiore… Ma vuole sempre acqua”
[…]
Calamandrei e mio padre lo dicono sempre:
“la libertà… E’ di tutti. Anche di quelli

che la negarono a tutti.”

Vincenzo Vitiello, da
Topologia del moderno, Marietti, edizione, 1992 pp. 249-251:

 

«Il segno, si è detto, rinvia ad altro. Le lancette che si muovono sul quadrante dell’orologio indicano il tempo che scorre: Il tempo dell’attesa, o il tempo della memoria; il tempo degli astri: la levata del sole; o del mezzo meccanico: la velocità dell’auto. Sempre un tempo ch’è fuori dell’orologio. Sempre le lancette indicano altro. Il linguaggio, invece, parla di sé, indica sé, presenta se stesso. Può fare ciò che gli altri segni non possono. Certo la parola nomina l’altro, l’altro da sé: il profumo di un fiore, il colore di un tramonto, il sapore di un frutto. Cosa più distante dalla parola – quella della voce e quella della scrittura – che l’olfatto, la vista, il gusto? Pure la parola nomina l’odore, il colore, il sapore: Li nomina e li evoca. Presenta l’altro. Ed insieme presenta se stessa. La parola nomina la parola.

Se il linguaggio è l’orizzonte dell’altro, questo orizzonte ha poi la particolare caratteristica di includere sé in sé, l’orizzonte nell’orizzonte. È uno spazio più grande di ogni spazio – perché autoinclusivo. Perciò è la condizione del pensiero. Del pensiero vero. Che è tale se ed in quanto è capace di accogliere sé in sé medesimo».

*

«Faccio un esempio: se dico che essenza della verità è il segno, il rimando ad altro, questa affermazione è vera solo a condizione ch’essa medesima sia tale: rimando ad altro. Se il pensiero che dice la verità, l’essere della verità, non includesse sé in se stesso, sé nell’essere della verità, resterebbe almeno una verità fuori della verità: la verità definita non sarebbe, non includerebbe la verità definiente. L’essere della verità sarebbe soltanto una verità parziale, limitata, che, non conoscendo il suo limite (dacché non include il definiente in sé, nulla sa di questo: neppure che “c’è”), non potrebbe che porsi come verità totale: come ciò che non è. Non sarebbe verità, ma errore. Solo il pensiero autoinclusivo è vero. Perciò ha bisogno del linguaggio: perché solo il linguaggio dice di sé. Di sé: dell’identità originaria. Dell’Identità che è all’origine del pensiero vero.

Il pensiero autoinclusivo è pensiero riflesso. Riflesso-riflettente. Il linguaggio che ad esso conviene è dunque il linguaggio della riflessione.
Ma si dà tutto questo – o è soltanto un’esigenza? Può ben essere che non ci sia verità se non nel pensiero e nel linguaggio autoincludentesi – ma si dà poi verità?
L’esigenza del discorso, del logo (pensiero e linguaggio) autoinclusivo cozza contro questo fatto – questo bruto, impuro fatto: che la parola che dice il linguaggio è sempre particolare, limitata. È un frammento del linguaggio, mai tutto il linguaggio. Il logo che parla, che dice, che nomina e definisce – non è mai tutto il logo. Tutto il logo che pur intende dire. L’intenzionato deborda da ogni lato, fuoriesce dall’intenzione. La riflessione spezza l’identità che è alla sua origine. L’orizzonte della riflessione si rivela troppo piccolo per accogliere in sé l’orizzonte riflesso. Il cogito non è pari al sum. Al sum del cogito, al sum cogitans.
Su questa dis-parità, su questa dis-equazione -la disparità, la disequazione tra linguaggio e parola, logo riflesso o intenzionato e logo riflettente o intenzionante – porta a meditare il pensiero di Heidegger. Il pensiero di Heidegger sull’essenza del linguaggio»

*

«Il linguaggio parla d’altro – d’altro e di sé. Normalmente d’altro: nomina ed evoca e presenta le cose – le cose del mondo, le cose nel mondo. E con le cose gli uomini – i parlanti. Ma quando parla di sé? Quando e dove?

Bisogna esser cauti nel rispondere. Non si può dire semplicemente nella poesia. Bisogna dire invece: nella poesia che parla della poesia. Se Heidegger privilegia Hölderlin è perché “Hölderlin ist uns in einem ausgezeineten Sinne der Dichter des Dichters”. Hölderlin poeta del poeta in senso eminente: perché? Perché la sua poesia ha per tema l’essenza del poetare.1]

Il linguaggio – ricorda Heidegger citando Hölderlin – è “der Guter Gefahrlichstes”. Il più pericoloso dei beni perché “wo Sprache, da ist Welt”. E solo dove è il linguaggio è il mondo: luogo di incontro dell’ente ed insieme di apparizione del non-ente; luogo di memoria dell’essere, e di oblio ed abbandono. Ora, se non è il linguaggio per l’uomo, ma l’uomo per il linguaggio – come accade, come avviene il linguaggio?

Seit ein Gesprach wir sind
Und hören können voneinander 2]

Il linguaggio avviene come dialogo. L’avvento del linguaggio è l’avvento della comunità. Della storia. Già per questo il linguaggio è essenzialmente «ascolto”. In uno scritto più tardo, su cui torneremo, Heidegger, rilevando la medesimezza di pensiero e linguaggio, e così la prossimità di Denken e Dichter, scriverà: «Ogni pensare è prima di tutto un ascoltare, un lasciarsi dire e non un interrogare».

Per ogni lato il linguaggio supera la parola. È un bene – per quanto sia più pericoloso. Un bene, e cioè: un dono. Il linguaggio è donato. Donato a chi compie la più innocente operazione: al poeta. Unschuldigste definisce Hölderlin l’occupazione del poeta: la più innocente, incolpevole dell’uomo. Perché ai poeti non si può far carico di nulla: «Der Dichter ist ausgesetz den Blitzen des Gottes”. Esposto ai fulmini del dio, il poeta accoglie quanto a lui è dato accogliere.

…und Winke sind
Von Alters her die Sprache del Götter 3]

Cenni, non parole. Il linguaggio – il linguaggio originario: degli dei – non si dà alla parola, comunica per cenni. Il fulmine di Giove illumina, per un attimo, l’oscurità del Cielo. Ed è per questa illuminazione che l’uomo scopre la sua appartenenza alla Terra. Allora veramente, propriamente dà testimonianza di sé, del suo esser-ci, quando scopre la sua intimità (Innigkeit) alla Terra, al mondo. Alle cose, che in questa intimità si rivelano come sono: in contrasto, im Widerstreit. Unite da ciò che le separa.

Ma in conflitto, im Widerstreit, non sono soltanto le cose; un più originario conflitto è all’opera nel linguaggio. Heidegger ci mette sulla traccia di questo più originario polemos già quando parla dell’essenza della poesia che Hölderlin dichter und neu stiftet. Questa essenza, nuovamente fondata sulla poesia di Hölderlin, non è – dice – zeitlos; al contrario: appartiene al tempo, e ad un determinato tempo. Alla durftige Zeit: un tempo della povertà e del bisogno, degli dei fuggiti e del dio venturo – dell’abbandono e dell’attesa.

L’appartenenza alla Terra è quindi lontananza dal Cielo. V’è un’amicizia – philìa – tra i divini e i mortali; insieme una profonda inimicizia li separa. E nel linguaggio sono entrambe, Concordia e Discordia: il lampo, Blitz, della parola che illumina e la celeste oscurità del linguaggio che ne è illuminato.

C’è da chiedersi, però, se sia storico questo conflitto, o non appartenga invece all’essenza dell’uomo e al destino dell’essere.
Con questa domanda ci inoltriamo nell’altro scritto di Heidegger cui s’è fatto cenno. Lo scritto dal titolo: L’essenza del linguaggio.»

1] Hölderlin und das Wesen der Dichtung, in EH, 33-48 (da questo testo sono tratte le citazioni da Heidegger e da Hölderlin)
2] «Da quando un dialogo noi siamo / E possiamo ascoltare l’uno dall’altro».
3] «… e cenni sono/ Dal tempo antico il linguaggio degli dei».

Giorgio Linguaglossa

Penso che la «parola» poetica scocchi al e dal «discorso» mediante una scintilla. Una scintilla che subitaneamente diventa incendio. Quello che altri chiama ispirazione, è in realtà una scintilla. Ma qui si pone un problema che è stato sfiorato sia da Michel Meyer che da Vincenzo Vitiello: come fare per giungere alla scintilla? Ecco, direi che la scintilla è un dono degli dei (non di dio, si badi); allora, non resta che propiziarci la benevolenza degli dei. La ricerca filosofica e di poetica ha questo senso, quello di procacciarci la benevolenza delle Muse, che sono delle dee particolarmente bizzose e ritrose; fuggono a gambe levate dove il poeta getta ponti levatoi per catturarle, non sopportano alcuna violenza, alcuna effrazione.

Però il poeta non può soltanto stare in posizione statica ed estatica di attesa, deve fabbricarle le condizioni affinché l’attesa divenga fruttuosa. Per dirla tutta, il poeta non deve sostare né soltanto sulla «parola», né soltanto sul «discorso»; entrambi: parola e discorso sono acerrimi avversari, sono sempre in conflitto, dove c’è l’una non c’è l’altro; infatti sono di genere opposto: femminile (la parola) e maschile (il discorso). Se il poeta cerca la parola nuova senza aver prima fabbricato ponteggi e gru per arrivare alla parola, finisce per impiegare la parola vecchia, quella già consumata dal discorso, e la Musa fuggirà a gambe levate; se invece punterà sul «discorso», sarà la «parola» a sottrarsi in quanto quel «discorso» è il discorso della tradizione, il discorso in posizione di rigor mortis.

Non c’è dubbio che il poeta si troverà così sballottato e distratto tra la «parola» e il «discorso», prigioniero castigato dall’ostilità e dalla conflittualità tra i due contendenti. Il risultato sarà la parola in rigor mortis, con la conseguenza che userà la parola come succedaneo di una tradizione (di un discorso) già nato consunto.
E allora, come fare per evitare di diventare prigioniero inerme tra questi duellanti? Dirò che il poeta deve costruirsi una casa, una abitazione che lo protegga dalle intemperie e dalle tensioni che si sprigionano dalla collisione tra la «parola» e il «discorso», dovrà munirsi anche di un buon parafulmine e di un portone blindato per impedire alle parole consunte e consumate di fare ingresso nella sua abitazione, invaderla e ottundere la stessa possibilità di adire ad una parola poetica autentica.

foto L'interruttore della luce del 1944 nella sede della famigerata Polizia Tedesca in via Tasso a Roma...cose di settantacinque anni fa ti guardano, cariche di pathos.

[l’interruttore della luce nelle stanze della tortura della Gestapo in via Tasso, Roma, 1944]

Giorgio Linguaglossa

La stanza disadorna di Cogito

Un pulsante. Un ronzio. L’interruttore della corrente elettrica.
Una stanza vuota e bianca.

Dal soffitto, una lampadina, sul tavolo tazzine
con macchie di caffè, bottiglie vuote, tovaglioli di carta.

«Egregio Cogito, gli altri cadono nel tempo,
io invece sono caduto dal tempo, una jattura, mi creda, non da poco.

Sono disperato, sì, non ho altri che Lei; dopotutto questo tempo
siamo diventati amici», disse il Signor K.

Era pensieroso, forse addirittura addolorato…
Il filosofo non si scompose.

Era già tardi però, il sole se ne era andato per i fatti suoi,
aveva deciso di disertare la bacheca del giorno.

Sull’attaccapanni era steso un asciugamani a quadretti
e una giacca risalente all’epoca della guerra fredda.

«Ella è il prodotto di coloro che l’hanno preceduta»,
disse Cogito sottovoce,

ma scacciò via quel pensiero, per disperazione,
per distrazione o, semplicemente, per dimenticanza…

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