[digital work, printed on canvas]
Guglielmo Aprile è nato a Napoli nel 1978. Attualmente vive a Verona, dove si è trasferito da una decina di anni circa per insegnare. È stato autore di alcune raccolte di poesia, tra le quali Il dio che vaga col vento (Puntoacapo Editrice, 2008), Nessun mattino sarà mai l’ultimo (Zone, 2008), L’assedio di Famagosta (Lietocolle, 2015); Il talento dell’equilibrista (Ladolfi, 2018); “Elleboro” (Terra d’ulivi, 2019); Il giardiniere cieco (Transeuropa, 2019); Teatro d’ombre (Nulla die, 2020); per la saggistica, ha collaborato con alcune riviste con studi su D’Annunzio, Luzi, Boccaccio e Marino, oltre che sulla poesia del Novecento.
.
I molossi abulici – un tentativo di autolettura
Il titolo che ho dato a questo esperimento (o meglio: visto che siamo noi lo strumento nelle mani del linguaggio e non viceversa, un tale titolo non sono stato io ad affibbiarlo alla raccolta, semmai mi è piovuto addosso, mi ha teso il suo agguato, mi ha puntato alla gola un coltello in un vicolo, mentre passavo al setaccio il vocabolario vedendo come andava a finire se organizzavo appuntamenti al buio fra termini in apparenza incompatibili: è stato un po’ come capita quando ci si imbatta in una scheggia di meteorite camminando in una pietraia…); questo titolo, dicevo, non fa da velo di Iside a nessun arcano da decriptare, non allude a un qualche substrato sapienziale da sviscerare dalla sua grezza scorza verbale; esso, piuttosto, testimonia e anzi fa manifesta una certa mia inclinazione ad ascessi di piromania linguistica: io ambisco, benché non sempre i mezzi espressivi di cui dispongo siano all’altezza dei miraggi che perseguono, a distillare fuoco dalle parole, ad aizzare un incendio ad alzarsi dalla pagina, a far sì che una vampa si inneschi dalla combinazione fortuita di lacerti lessicali sconnessi; e vedo nel caso l’igneo fiat vivificante che alita nella creazione, la scintilla che mette in moto la combustione, il solo deus ex machina di quella detonazione che cerco di ottenere e che infallibilmente si produce, grazie alla pratica del sabotaggio del principio di coerenza logica la cui eclissi autorizza il libero associarsi dei pensieri; e credo la poesia imparentata neanche troppo alla lontana all’alchimia, ma anche con le arti pirotecniche di quegli antichi maestri cinesi che componevano figure colorate con il fumo: e infatti giudico poetico il testo che metta il suo lettore in una condizione paragonabile a quella dei sovrani Ming di un tempo, quando assistevano ai fuochi d’artificio allestiti per il loro diletto dalle terrazze della Città Celeste.
uno squarcio zodiacale da cui iniziai a osservare i significati
Rivive forse, in questo gioco di allacciare e sciogliere i ponti delle analogie fra oggetti disparati e sensazioni inconciliabili, il piacere dell’infante che tasta gli oggetti del mondo esterno per fare esperienza manuale della loro esistenza; e quel titolo fu involontario come un inciampo, uno starnuto, un tic: fu uno squarcio zodiacale da cui iniziai a osservare i significati incrociare le loro orbite e generare le più affascinanti conflagrazioni, fu un lampo proveniente da un dominio che ancora la logica aristotelica non ha intaccato, non ha diritto a profanare, e nel cui etere astri collidono secondo leggi sottili, di attrazione e repulsione, diverse da quelle che valgono per la materia tangibile, e comete roteando stringono e sciolgono i loro volanti amplessi, docilmente obbedienti a un magnetismo che può turbare e intrigare, che spiazza e che disattende il barboso dogma della verosimiglianza e dell’attinenza al criterio della rappresentazione realistica . L’assioma della raccolta è barocco: quanto più due parole o due immagini distano reciprocamente secondo il senso comune, tanto più l’effetto scaturente dal loro repentino accostamento sortirà una stupefazione, proprio perché facente leva sull’inaspettato. Attribuire a dei molossi la qualità dell’abulia mi parve subito strano, incongruo, ingiustificabile: e fu perciò che quell’abbinamento mi conquistò, invece che indurmi a scartarlo per la sua inconsistenza semantica, e non trovai argomenti da opporre alla sua adozione come titolo di una eventuale opera ventura.
quando i “molossi” della coscienza abbassano la guardia
Può darsi che un lettore avvezzo a una più smaliziata dimestichezza con i topoi della psicanalisi classica avanzerebbe una chiave esplicativa di tale titolo: quando i “molossi” della coscienza abbassano la guardia, in quanto preda di una “abulia” che momentaneamente abolisce le loro facoltà di vigilanza e di censura, il magma fuoriesce dal pozzo dell’inconscio e straripa negli automatismi, coagulandosi in concrezioni abnormi, in erme dalla mimica intraducibile; ma io credo che si possa apprezzarlo anche di più lasciandolo alla gratuità e all’arbitrarietà che gli appartiene, e che è poi la bussola di tutti quanti i componimenti che esso incornicia: tutti percorsi dalla risata di una sirena capricciosa e umorale, lasciva e farneticante, il cui canto, dalle cadenze rapsodiche e dai barbarici accenti, ha il dono di estrapolare il nettare dell’assurdo da ogni associazione di immagini o di pensieri, e di deformare le scene in un accavallarsi di fantasie oniriche, simili al dettato allucinatorio che invade la mente durante il dormiveglia o l’ipnosi o al culmine dell’ebbrezza delfica o del furore bacchico. E per l’intera raccolta non ho fatto che abbandonarmi al flusso, lasciarmi portare senza resistenze dalla corrente sotterranea, arrendermi al richiamo levantino che mi ha persuaso a uscire dalla geografia di ogni atto comunicativo convenzionale, e che mi ha introdotto in una mia personale terra delle visioni, in scia alla stessa onda che seduceva i pionieri e li rapiva incalzandoli sulle rotte di un nuovo continente o di un naufragio.
(Guglielmo Aprile)
Poesie da I molossi abulici
Il circo magico
Penso a una voliera lasciata involontariamente socchiusa
tra le ciminiere di una città ex sovietica,
penso se i circhi liberassero per le vie
i loro più cerimoniosi discorsi inaugurali –
cavalli con tappi di champagne come zoccoli,
dromedari con gobbe come saliscendi dei circuiti di motocross,
tartarughe convalescenti che si trascinano
pagine di libri sacri appiccicate sotto le zampe,
nani che tossiscono per ore
fino a saper descrivere minuziosamente
la geografia dei crateri lunari,
macchine per provocare il sonno
o per modificare l’altezza delle nuvole;
donne in grado di spostare il proprio peso verso l’infrarosso
imitando a occhi chiusi il verso degli uccelli preistorici,
donne convinte di somigliare a madrepore
o eccessivamente golose di farmaci antipiretici
che sanno entrare e uscire con disinvoltura nel vivo di una situazione,
uomini con tamburi al posto della faccia,
uomini a cui crescono palchi di cervo sulle spalle
che tanto più in fretta rispuntano quanto maggiore è la furia con cui vengono segate.
Ogni città avrebbe abbastanza spazio
per ospitare almeno un circo:
la vita sarebbe più allegra se non le dessimo leggi,
se ci fossero fiumi senza argini
al posto dei suoi angoli occupati da scheletriche segnaletiche –
e invece moriamo di noia
sussurrando ai lamellibranchi citazioni dotte
che essi non apprezzano o verso cui non nutrono alcun interesse,
o ci facciamo guerra senza pensare ai fiori.
Dinamica dell’incidente
Appena il vento ha scosso le vetrate,
i tamburi hanno rovesciato sull’asfalto il loro distillato color ambra;
le insegne del multisala si sono voltate pronte
al primo cenno dei cavalieri del nord
che agitavano con eloquenza un fazzoletto rosso
come segno del loro arrivo,
i quadrupedi hanno preso possesso delle quattro entrate della piazza;
i dispacci ufficiali parlano
di un clistere finito male di vendemmie degenerate
in tafferugli indegni in baccanali non riferibili;
alcuni raccontano anche
(ma senza entrare troppo nei particolari)
di quantità fuori dal comune di bottoni persi
e di passanti ginocchioni
che tentavano di racimolarne più che potevano;
il ghiacciaio è calato tra le mani della folla,
le sbarre delle inferriate in parata ufficiale
pronunciano la loro nota finale la loro ultima parola,
un pesce gatto terrorizza bambini al centro commerciale,
l’aereo che trasportava il suo carico di parrucche da donna
è finito in mare o nell’occhio di una capra;
la sassaiola del biancospino nasconde quasi la città.
Io sono stato testimone di tutto questo,
posso giurarlo
su quello che folli e ubriachi solo alla luna confidano.
Falda freatica
1
Ben lontano dal centro abitato
una zona priva di prefisso telefonico;
gli abitanti seguono una dieta a base di campanelli,
rapiscono chi si smarrisce tra loro
per sottoporlo a estenuanti quesiti logici:
vogliono sapere tutto sul cartone
con cui dalle nostre parti
facciamo capire che una storia è finita,
vogliono a tutti i costi somigliare a noi
e al nostro modo di impugnare maniglie
per aprire o chiudere discorsi;
ma si innervosiscono quando ci sentono da lontano
appallottolare foglietti illustrativi
per improvvisate partitelle due contro due.
Luoghi dalla discutibile fama,
dove il sole ha un contenuto di plastica più alto del normale,
dove i conciatori fanno i conti con un umanissimo rimorso
quando devono staccare il pelame di dosso ai giovani canguri.
Non molto prudente oltre che poco discreto
aggirarsi intorno ai suoi confini, o chiedere in giro
se esista una qualche scorciatoia
per arrivarci.
2
C’è una falda freatica
di cui si fa fatica a immaginare perfino l’ampiezza,
dalle riserve incalcolabili
non di acqua ma di oro liquido,
situata
nel mai individuato punto di convergenza
fra l’ultima vertebra cervicale
e la grotta madre dello scirocco.
Grande Madre
La palma artificiale
allunga a dismisura la sua ombra sulla tenda delle palpebre:
cresce in statura si fa sempre più spessa
a scapito della bianchezza dei nostri denti.
Città diabetica Città scapola del sonno,
con le tue riserve di mocassini che si animano la notte,
con le rabbie sottostimate dei tuoi piccoli roditori,
con la scolopendra dei tuoi regolamenti,
con i tuoi memorabili esempi
di calze femminili che fluttuano nei mezzi pubblici,
con le tue vagine scolpite in forma di quasar stellari sui colonnati,
con le tue enormi teste di cavallo condotte in processione all’equinozio,
con lo scalpitare dei tuoi serragli che premono
contro una recinzione che non reggerà alla prossima piena –
noi non ti abbiamo dimenticato,
percorriamo le tue navate
con il passo di chi è consapevole che esistano misteri a cui bisogna inchinarsi;
e Tu in compenso
accoglici, offrici il pane delle tue caldaie
quando la campana lavica traboccherà dai nostri colletti stirati:
persuadici della buona fede delle creature della torbiera,
fa’ che non tremiamo
quando il vetro fuso ci inonderà la faringe
e il mare avrà cessato di battere sotto le nostre dita. Continua a leggere