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Poesie di Gino Rago, Mauro Pierno, Alfonso Cataldi, Guglielmo Peralta, Lettera ad un poeta di Giorgio Linguaglossa, L’oblio dell’oblio, L’oblio della memoria, Michele De Martino, L’evento dal punto di vista del soggetto, Gennaro Imbriani, Paura e angoscia in Essere e Tempo di Heidegger, L’evento, Ereignis, è in se stesso una Enteignis, Espropriazione

foto Bernardo Bertolucci

Bernardo Bertolucci – Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?

Gino Rago

Un tentativo di risposta alle 3 domande

– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?
– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?
– Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?

Gino Rago

Polittico in distici sotto forma di conversazione immaginaria
Tra John Taylor, Alfredo de Palchi, Lars Gustafsson, Giorgio Linguaglossa

Tutto comincia dalla moglie che dice al marito:
«Sei un fallito»

“Fat Man” su Nagasaki…
Stoccolma, luglio 2019,

dalla cronaca del quotidiano di Svezia:
“Oggi è morto anche il suo cane.

Prima se ne andarono il figlio e la moglie.
La casa. Un museo di cianfrusaglie,

Di rimanenze di ciò che è stato.
Il piastrellista-di-Uppsala va in pensione

Ai margini dell’esistenza.”
[…]
Il Signor A. d. P.* si è ritirato
Ai confini del vivere,

Dichiarata inappartenenza
Alla società, al mondo, alla vita.

«Uomo della possibilità»
Costretto in un mondo di congiuntivi,

di affermazioni precedute da un “forse”
Seguite da un punto interrogativo,

A. d. P.-piastrellista-poeta
Mette il vento nelle vele

Per un viaggio a ritroso
Alla ricerca di come giungere a sé stesso.

In quali luoghi è andato smarrito
Ciò che dava realtà e senso alla sua vita?

Il Signor A. d. P. accetta soltanto lavori in nero.
Nella casa dell’amico da restaurare

Entrano personaggi veri o sognati.
Il piastrellista di Uppsala-Verona li conosce tutti.

«Storia di un uomo della possibilità….»
Storia di un poeta. Di una vita nella estraneazione

Nella rivolta degli oggetti smarriti.
[…]
La sua vita disciolta nei versi…
Ci ha detto:« Con la poesia uccidete la morte.

Fatelo per la libertà di tutti.
Dello sfruttato e dello sfruttatore».

Alfredo ha attraversato un Secolo di orrori,
Il dolore di Vallejo è stato il suo dolore

Nel petto. Nel bavero. Nel pane. Nel bicchiere.
Nei versi ha dato i baci che non poteva dare,

Soltanto la morte morirà
E la formica porterà briciole

Alla bestia incatenata,
Alla sua bruta delicatezza:

«Uccidiamo la morte con i versi, solo la morte morirà».
[…]
Da una e-mail di Alfredo de Palchi
Al Direttore di Il Mangiaparole:

“Caro signor poeta,
Crede ancora al mondo dei miti?

Dal 6 agosto del 1945
Dopo “Little Boy” su Hiroshima

I vincitori e i vinti di Troia
Sono a New York con le loro donne.

Ecuba in cucina prepara marmellate,
Cassandra legge i giornali ogni mattina,

Priamo gioca in borsa.
Paride con i dreadlock

Porta il cane al Central Park.
Presso i Greci si diffonde l’Aids,

Un guerriero travestito da Clitemnestra
sgozza il Re nella vasca da bagno.

Ettore lo incontro sui 10 chilometri della Fifth Avenue
Mentre Andromaca fa acquisti da mille e una notte.

Astianatte gioca col pc. E’ sempre solo a casa.
I miti sono l’inganno d’Occidente,

“Fat Man” su Nagasaki ha cambiato il mondo…
Ma per Lei forse i miti sono l’aria.

Chi vivrebbe senz’aria…”
[…]
Lars Gustafsson: «Caro John Taylor,
Come è finita la guerra di Troia…

Nessuno lo sa. Quella guerra non è mai cominciata.
Presto ti spedirò a New York

I diari di un giudice fallimentare del Texas
E la storia di un cane.

Non smettere mai di interrogarti,
Le parole sanno più di noi,

Ciò che pensi ti precede,
Tutto quello che pensiamo

Già sa qualcosa che noi non sappiamo».
[…]
Mister J. T.** ce l’ha con la luna
Perché non mostra a nessuno il suo lato oscuro.

È lì che s’annida il mistero del vivere?
A. d. P a Lars Gustafsson:

«Caro Signor L. G***.,
L’uomo sulla bicicletta blu

Può cambiare la sua vita
In ogni momento,

I messaggi attraversano la storia
Come codici travestiti da idee.

Nella Grande Mela mi ha salvato
Lo stupore contro la banalità del quotidiano».

Una barca di vivi o di morti
Dondola sulla calma di un lago.

.
* A. d. P. è Alfredo de Palchi
* * Mister J. T. è John Taylor
*** L. G. è Lars Gustafsson

Foto Come arredare una parete bianca e noiosa

Priamo gioca in borsa./ Paride con i dreadlock//
Porta il cane al Central Park./ Presso i Greci si diffonde l’Aids,

Guglielmo Peralta

A proposito del nulla, questa mia poesia

Il volto buono del nulla

Si squarcia oltre il visibile
la caliginosa coltre
se lo sguardo trasogna
e gravido di stelle
illumina la notte
Là dove tutto tace ed ombreggia
come un sole irrompe
il pensiero e dall’assenza
sorge una forma
si distende la materia
Creare è sognare
l’Impensato
che da infinita distanza
si svela e si dona all’Aperto
Nel flusso di luce
dimora un’altra vita
si schiude nel frutto che matura
ogni essenza
e mi raccolgo e mi addentro
nell’essere delle cose
E benedicendo
l’Increato
contemplo nello specchio del mondo
il volto buono del Nulla

Mauro Pierno

un ulteriore passo. doble. un fiato enorme.
hai detto o no che è eterno il presente?

e che ci fai allora con quella lente in mano?
con questo spazio che continua, la storia

ingrandita ad arte e un microscopio puntato sopra un calco?
hai letto ancora. hai accompagnato la virgola nel gorgo,

il punto esclamativo dentro l’attico, la stanza ammaestrata
sopra un puntaspilli. disotterrato, un frego sottile che ride sopra versi.

.

Alfonso Cataldi

Una margherita spunta fuori dal cappello a cilindro
Il pubblico pagante applaude e scappa via

Nel camerino Mauro Pierno si strugge al di là del trucco
«NOE… non NOE… NOE… non NOE»

Assediata, la prima profezia
lascia i piedi fuori dalla tenda.

Le stelle sono torsoli di mela
il muso della scrofa ha gli anni luce contati.

Alla fashion week si denuda il duomo di Monreale.
Dolce&Gabbana ripiantano il carrubo sul tesoro di monete disperse.

Sofia ha scoperto i videogiochi splatter
«guarda: il sangue schizza dappertutto, con tutte le tabelline.
Domani aiuterò la maestra a darsi lo smalto sulle unghie»

La sveglia delle 20.30 segnala che la donna d’altri è rientrata in casa.
Da due anni Tomek posiziona il telescopio alla finestra.

– Si, è stato dimesso, col divieto assoluto di osservare chicchessia
è un amore calcaneale e non può essere operato.

 

Lettera di Giorgio Linguaglossa ad un giovane poeta

caro Simone Carunchio,

la metafisica del novecento è stata caratterizzata dall’oblio dell’essere, ma adesso siamo entrati in un nuovo eone, siamo entrati dentro una nuova nuvola gravida di pioggia: l’oblio dell’oblio, l’oblio della memoria. È questo l’evento fondamentale sul quale si devono misurare la nuova arte e la nuova filosofia del secondo decennio del nuovo millennio, sottovalutare, non vedere, non voler capire, evitare di prendere nota di questo iceberg vuol dire semplicemente non voler vedere, essere incapaci di prendere in carico ciò che il nuovo eone porta con sé.

Penso ad esempio che le poesie sopra postate siano la testimonianza di quanto qui si dice: l’oblio della memoria porta uno sconvolgimento totale nelle menti e nelle parole degli uomini di oggi, di qui il frammento e la de-soggettivazione dell’io e la de-fondamentalizzazione del discorso poetico. Non dobbiamo commettere l’errore di non guardare bene in faccia la fisionomia di questo ospite non gradito, dobbiamo essere consapevoli di colui che viene, della novella che ci consegna. Non voler accettare il suo messaggio, non voler vedere la gravità di questo messaggio è un atto di debolezza, della «debolezza della ragione poetica», come titolerò il mio prossimo libro di riflessioni sulla NOE che darò alle stampe l’anno entrante.

Scrive Roberto Terzi:

“Se la metafisica è stata caratterizzata dall’oblio dell’essere e dalla sottrazione di ciò che destina l’essere, quel che viene meno ora, in un certo senso, è l’oblio dell’oblio, l’oblio di questo ritrarsi dell’evento: il raccogliersi del pensiero nell’evento equivale pertanto alla fine di questa storia della sottrazione. […] Ma il velamento, il quale appartiene alla metafisica come suo limite, deve essere attribuito in proprietà all’evento stesso. Ciò vuol dire che la sottrazione […] si mostra adesso come la dimensione del velamento stesso, il quale continua ancora a velarsi, solo che adesso il pensiero vi presta attenzione.

[…] L’evento è in se stesso una Enteignis, «espropriazione»”

Ed ora la parola a Giorgio Agamben:

https://www.raiplayradio.it/audio/2019/09/quotLa-parola-che-vienequot—-Incontro-con-Giorgio-Agamben–63345dbc-9e1c-4a10-93aa-9a5cc1d38596.html?fbclid=IwAR1Il_wMGWfVq-AvpdOYYlS0tcWFI7PA6krmU5G6vUZsKpsoEfIxvnO7w6g

Michele Di Martino

L’evento dal punto di vista del soggetto

«…il suo [dell’evento, ndr.] carattere pre-soggettivo o addirittura a-soggettivo. Assieme alla metafisica, in effetti, cade anche il concetto di soggetto, che in maniera sempre più imponente da Descartes a Husserl si era fatto strada al suo interno.

È forse possibile parlare di un soggetto dell’evento, di un soggetto che di diritto precede e registra l’evento che gli accade? In un senso trascendentale certamente no, non più, è evidente. Sarebbe il sintomo lampante di un modo ragionare ancora metafisico, ancorato alla figura del fondamento stabile, immobile. Il primum è piuttosto l’evento, assolutamente libero da tutte quelle categorie, come passato-futuro o causa-effetto e così via, che trovano il loro senso unicamente in relazione al soggetto che le esperisce.

Nella misura in cui il soggetto, l’«attore», cessa di costituire la prospettiva della filosofia, è l’evento, con le categorie impersonali che porta con sé, a dettare i termini della prospettiva. Il compito dell’individuo, per parte sua, è di saper diventare«figlio dei propri eventi [o degli eventi che fa propri] e non delle proprie opere», facendosene carico, una volta che li ha incarnati. In questo senso l’evento, come singolarità assoluta, non ha nessun qui ed ora, poiché il qui ed ora è sempre in riferimento ad un soggetto.

J. Derrida, La scommessa, una prefazione, forse una trappola, prefazione a S. Petrosino, Jacques Derrida e la legge del possibile, Jaca Book, Milano, pp. 11-12. J. Derrida,
J. Derrida, Autoimmunità, suicidi reali e simbolici. Un dialogo con Jacques Derrida, p. 99

da https://www.academia.edu/29169147/Il_ritorno_dellevento

Gennaro Imbriani

“Paura” e “angoscia” in Essere e Tempo di Heidegger

Nella sua opera più nota, che inaugura alla fine degli anni Venti del Novecento l’apertura di una nuova stagione del pensiero filosofico europeo, Heidegger lavora ad una concezione dell’esistenza e della vita umana che si pone l’obiettivo di scardinare le vecchie filosofie del soggetto, descritto dalla tradizione filosofica, a giudizio dello stesso Heidegger, solamente come una sostanzialità astratta. L’intento dell’autore è invece quello di arrivare a pensare l’uomo nella sua concretezza vivente, nella sua fatticità [Faktizität], al cui interno l’esserci [Dasein], in quanto è già da sempre apertura al mondo e essere-nel-mondo In-der-Welt-sein], si trova gettato in una determinata «tonalità emotiva» [Stimmung], che ne specifica la «situazione emotiva», il «trovarsi» [Befindlichkeit] e ne determina al contempo la collocazione e lo stare al mondo.

La cifra dell’operazione di Essere e tempo (1927), che è appunto quella dell’elaborazione dell’analitica esistenziale, risiede precisamente nel tratteggiare le linee fondamentali di una «ermeneutica della fatticità», che colga l’esserci dell’uomo nelle sue dimensioni vitali più fattive, concrete, e che dunque non contempli solamente il piano della descrizione del soggetto trascendentale della tradizione neokantiana e husserliana, ma che ponga capo ad una descrizione della vita in quanto esistenza.

È all’interno di questo piano teorico che i concetti di paura e angoscia diventano dal punto di vista di Heidegger fondamentali, ovvero “esistenziali” che definiscono l’esserci nella sua dimensione reale, nella sua unità vivente. La «paura» è infatti definita in Essere e tempo come «modo della situazione emotiva [Befindlichkeit ]» [ET, p. 173]. Heidegger ne svolge il concetto secondo «tre aspetti», che vengono definiti come il«davanti-a-che [das Wovor] della paura, l’aver-paura [das Fürchten] e il per-che [das Worum] della paura» [ET, p. 173].

Seguiamo la descrizione heideggeriana del concetto in questione secondo questi tre riguardi.Il «davanti-a-che» della paura è ciò di cui concretamente si ha paura. Questo è «sempre un ente che si incontra nel mondo, sia esso un utilizzabile, una semplice-presenza o un con-esserci» [ET, p. 174], che, in ogni caso, possiede «il carattere della minacciosità [Bedrohlichkeit]».

https://www.academia.edu/35317383/PAURA_E_ANGOSCIA_NEL_PENSIER

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Anna Ventura Poesie inedite da Ventuno poesie – Premessa di Pier Aldo Rovatti, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa – Ogni linguaggio poetico ha una propria Grundstimmung (tonalità emotiva dominante) – gli «oggetti» si stanno trasformando in «cose»

 

Foto Jason Langer 1998 lo specchio

Che poi le cose, res,
divengano res gestaeres adversae
res secundae
ci interessa meno

Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a  quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la  Tabula Fati di Chieti. Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo.

È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate  in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV. Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin, traduzione di  Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 per EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013). Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Roma, Progetto Cultura, 2016)

Foto Sadness fear

L’uomo, ha detto una volta Nietzsche, rotola via dal centro verso la X. Si allontana dal proprio luogo certo, verso un luogo incerto, un’incognita

Pier Aldo Rovatti

«L’uomo, ha detto una volta Nietzsche, rotola via dal centro verso la X. Si allontana dal proprio luogo certo, verso un luogo incerto, un’incognita. Possiamo tentare di indicare, descrivere, raccontare questa incognita? […] È ipotizzabile una logica del decentramento del soggetto che riesca a descrivere, nel medesimo tempo, che cosa accade all’uomo quando si allontana dal suo centro e quale è il terreno, che innanzitutto occorre riconoscere, sul quale un nuovo “senso” può prodursi? Intanto: che altro è la perdita del centro se non la dichiarazione, la sanzione che il pensiero “forte” è ormai insostenibile? La situazione tipica del pensiero “forte” è infatti quella in cui pensante e pensato, chi pensa e cosa si pensa sono solidali: si tengono in una stretta, in una corrispondenza speculare. La situazione che Nietzsche vede è caratterizzata, invece, dalla possibilità del perdersi: l’uomo è giunto dinanzi a un limite, un passo oltre e potrà sprofondare, perdersi completamente. Il luogo in cui il senso potrà riattivarsi è avvistabile solo di qui, drammaticamente. È un luogo possibile? […] In “Umano, troppo umano” leggiamo di un “impavido spaziare al di sopra degli uomini, dei costumi, delle leggi e delle originarie valutazioni delle cose”. Un libero spaziare? Nietzsche riprenderà e correggerà continuamente questa idea di “leggerezza” e di “libertà”: l’abisso trascina in basso e la spirale della necessità continua ad annodarsi. Non è possibile librarsi in volo e liberamente spaziare come un uccello nell’aria: forse l’unica alternativa è imparare a strisciare imitando il serpente, poiché solo aderendo alla terra avremo una possibilità di sollevarci sopra di essa.

In conclusione di un suo notissimo frammento postumo (giugno 1887) Nietzsche tenta di suggerire un’immagine dell’ “oltreuomo” e si chiede: “Quali uomini si riveleranno allora i più forti?” E risponde: “I più moderati, quelli che non hanno bisogno di principi di fede estrema, quelli che non solo ammettono, ma anche amano una buona parte di caso, di assurdità, quelli che sanno pensare, riguardo all’uomo, con una notevole riduzione del suo valore senza diventare perciò piccoli e deboli […].

L’uomo è ormai abbastanza forte per apparire debole. Un paradosso? In ogni caso per Nietzsche ciò ha un significato profondo: lo “spaziare” (o lo “starsene fuori”) non può equivalere a una realizzazione compiuta e positiva collegata all’acquisizione storica di una forza, al compimento di un percorso umano, fino al punto in cui il “portar pesi” si trasforma in un “esser potenti”. […] Vi è un cammino difficile dentro il nichilismo, in cui l’uomo acquisisce la capacità di abbandonare le proprie catene. Nietzsche suggerisce che non si tratta di un indietreggiare, bensì di realizzare una potenzialità grazie alla forza che deriva proprio dall’abitare storicamente il nichilismo. Nietzsche, però, sa anche che questa forza è una capacità autodistruttiva, un rischio abissale che l’uomo avvicina a sé. […] L’immagine è quella di una situazione di equilibrio instabile su una piccola superficie d’appoggio. […] Come può una simile precarietà essere la massima forza?

Vi è una necessità che appesantisce, una forza che grava, il tornare pesante delle cose, un circolo che incatena così come ci bloccano i valori superiori, le categorie “vere” della filosofia, il fine ultimo, l’unità delle cose, il loro essere. Ma il movimento che ci incatena è duplicato da un movimento che allenta. Cosa è l’eterno ritorno se non una “diversa” necessità? […] Se la si allontana, la necessità appare pesante, ferrea. Se la si lavora all’interno, allora il nulla che siamo non è poi così terribile. La ruota del destino seguita a girare: possiamo guardarla da fuori o saltarci dentro. Possiamo arrenderci all’orrida casualità o scoprire il gioco del caso: è una scelta. Se avremo la forza per farla, scopriremo l’affermatività della debolezza. Il gioco del caso, come il gioco del fanciullo in riva al mare, è una fluttuazione, un lasciarsi prendere. Ma non è un dipendere, un essere passivi, pazienti: la necessità ha perso il suo ringhio. Caso e necessità si coniugano in due modi che sono due stili di vita. Orrida casualità e necessità che appesantisce. Necessità che alleggerisce e gioco del caso.

Il riso di Zarathustra è misterioso: né di gioia, né di dolore, forse di stupefazione».

1] (Pier Aldo Rovatti, Trasformazioni nel corso dell’esperienza, contenuto ne Il pensiero debole; a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 29-51.)

Giorgio Linguaglossa i Quattro

Fiera del Libro di Roma, 8 dicembre 2017, da sx Steven Grieco Rathgeb, Luciano Nota, Franco Di Carlo, Giorgio Linguaglossa

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

L’evento del linguaggio nella poesia di Anna Ventura, accade, non c’è nessuna «cosa» che sta «oltre», «dopo» il linguaggio. L’atto di imperio più ignominioso è quello del poeta «Nerone» nella poesia eponima, colui che crede che si possa allettare il linguaggio con la musica della cetra mentre Roma prende fuoco, è pensare che la frase possa «toccare» la cosa, possa corteggiarla in una danza apotropaica e lussureggiante; e invece la cosa si ritrae dal linguaggio ogni volta che poniamo in essere l’allestimento scenico della danza apotropaica, del corteggiamento verso la cosa. E allora la scelta giusta da fare è porre una distanza tra noi e la cosa, tra il linguaggio e la cosa, e apprendere ad abitare in questa distanza senza l’arbitrio e la tracotanza di volerla eludere o accorciare, come se la distanza fosse un pezzo di stoffa che possiamo tagliare a piacimento. L’evento del linguaggio accade sempre nella distanza, ed in essa si spegne. Il linguaggio non ha un essere, il linguaggio è nell’esistenza viva dell’essente, è il ponte sopra il quale può passeggiare l’essere, il ponte che simboleggia la distanza, sempre la distanza tra noi e le cose. Il linguaggio poetico di Anna Ventura richiama la distanza, rinuncia a violare l’intimità della cosa e delle cose, rinuncia ad «avvolgere» la cosa e le cose, ad «entrare dentro le cose», non sobilla le cose, non le vuole provocare ad allontanarsi, a sottrarsi, vuole soltanto coabitare con esse cose, trovare la giusta misura della distanza e del ritorno a casa, alla patria dell’essere che è il linguaggio poetico.

Il linguaggio poetico di Anna Ventura abita da sempre il registro simbolico, lo dà per scontato, sa che non c’è, oltre la storia, nulla che brilli come un topazio per le verità sue proprie, perché anche la verità è diventata precaria, e anche la libertà degli uomini.

Ogni linguaggio poetico ha una propria Grundstimmung (tonalità emotiva dominante).

Ogni poesia ha una propria tonalità e ogni abitante nel nostro mondo ha un proprio modo di sperimentare la propria estraneità a noi stessi e ogni poeta espropria questa estraneità per trasferirla nel linguaggio poetico. Si tratta di un esproprio dunque, e non di una riappropriazione di alcunché. Il linguaggio poetico è lo specchio che ci mostra il vero volto della nostra estraneità a noi stessi, lì non è più possibile mentire e non è più possibile dire la «verità». Forse, in questa antinomia viene ad evidenza la scaturigine profonda della metafora silente: l’impossibilità di dire la «verità». Nella metafora silente si ha l’ammutinamento di tutte le metafore e la silenzializzazione di esse, viene ad esistenza linguistica il silenziatore della verità e della menzogna, l’essere la metafora silente e le metafore tutte, fumo linguistico, un segnale di fumo e nient’altro. Il nostro «abitare spaesante» il linguaggio è la precondizione affinché vi sia linguaggio poetico, giacché non v’è possibilità di adire al linguaggio poetico senza questa pre-condizione soggettiva. C’è un esercizio dell’«abitare poeticamente il mondo» che è la precondizione affinché vi sia un linguaggio poetico, ma noi non sappiamo in cosa consista questo «abitare poeticamente il mondo» e non potremo mai scoprirlo. In questo «abitare spaesante» il linguaggio si ha un abbandono e un ritrovarsi, un trovarsi che è un abbandonarsi in ciò che non potrà mai essere né abbandonato né ritrovato, perché se lo trovassimo cesserebbe l’abbandono e se lo abbandonassimo lo potremmo sempre ritrovare per davvero e non c’è maieutica che lo possa ricondurre dalle profondità in cui questa condizione è sepolta. Non c’è maieutica che ci possa garantire l’ingresso nel portale del poetico, giacché esso non è un dato, né un darsi, ma semmai è un ritrarsi, un oscurarsi. L’entrata in questa radura di oscurità apre all’Ego la dimensione illusoria del linguaggio poetico, essendo l’illusorietà il parente più prossimo in quella linea genealogica che collega il linguaggio poetico al «dire originario» del quale abbiamo smarrito per sempre il filo. Allora, non resta che accettare tutto il peso del gravame di cui ci diceva Nietzsche per gettarlo a mare come inutile zavorra e alleggerirci alla massima potenza, accettare di impiegare i resti e gli scampoli, gli stracci e i frantumi quali elementi consentanei alla nostra condizione esperienziale.
Allora forse occorre abolire e abitare in un medesimo tempo la distanza che ci separa da noi stessi per adire ad un linguaggio più interno a noi stessi. Abitare una condizione esperienziale e abolirla subito dopo averla esperita è la risultanza paradossale del nostro essere nel mondo.

Sul comodino del soggiorno della mia casa romana, sito tra due grandi finestre che ricevono luce da via Pietro Giordani, sono poggiati alcuni oggetti: una cornice in finto argento che contiene un piccolo riquadro che ha due segni di pennarello nero tracciati da mio figlio quando era bambino, un minuscolo albero di natale con palline rosse e filamenti, una piccola zucca che si illumina dall’interno, ricordo di una serata di Hallowen, una candela a forma di piramide, una statuetta in bronzo della dea Shiva che suona il piffero, comprata su una bancarella a Jaipur, un’altra candela colorata a forma cilindrica, regalo di una donna che è scomparsa dalla mia vita, un orologio da polso che ha smesso di funzionare e una molletta di plastica bianca, di quelle che si usano per appendere i panni.

Ecco, non posso fare a meno di pensare che un tempo lontano erano «oggetti», ma adesso, lentamente, si stanno trasformando in «cose». Attendo con pazienza da alcuni anni che si verifichi questa misteriosa trasmutazione. Come essa avvenga non lo so, ma so che sta avvenendo, che un giorno sarà compiuta e tutte queste «cose» potranno entrare in un mio commento o in una mia poesia.

Ecco, gli «oggetti» si stanno trasformando in «cose», sono qui, nelle poesie di Anna Ventura. Tutti sanno della particolare attenzione che la «nuova ontologia estetica» riserva alle «cose», e Anna Ventura è stata la prima poetessa italiana che ha introdotto questa problematica nella sua poesia, fin dal 1978 con il suo libro di esordio, Brillanti di bottiglia. Ma il tema è antico. Possiamo leggere l’Odissea come il dramma del «ritorno» di Ulisse a «casa», tra le «cose» della «casa», «ritorno» presso il focolare domestico dove le «cose» sostano da sempre in attesa del suo «ritorno», sostano in «attesa» della sua autenticità. Per far ciò Ulisse deve diventare cieco, «la cecità è la condizione affinché qualcosa sia visibile» scrive Guglielmo Peralta in un saggio ancora inedito; ebbene, Ulisse può tornare soltanto perché finalmente è diventato cieco e finalmente è in grado di discernere le «cose» vere dalle false. Hic incipit vita nova. Il dramma dell’autenticità possibile è già tutto nella storia di Ulisse. Ebbene, la poesia di Anna Ventura tratta da sempre questa problematica: il «ritorno» a «casa» tra le «cose» familiari, che finalmente abbiamo imparato a vedere per la prima volta. Il «ritorno», De reditu di Rutilio Namaziano, il Prefetto pagano in fuga che sogna la riscossa della paganità contro i cristiani, opera che Anna Ventura ha tradotto. Per la nostra poetessa abitare storicamente il nichilismo significa abitare poeticamente il mondo delle «cose», ma non le cose delle res gestae, ma le cose secundae, quelle piccole, deboli, fragili che stanno lì nella nostra «casa», da sempre, in attesa del nostro «ritorno».

Foto Man Ray nudo

Man Ray, Nudo

Anna Ventura, da 21 poesie inedite

I MAESTRI

Sieste qui, maestri
Ascoltati ieri
col timore rapace
dell’ultimo dei discepoli.

Finalmente so
che cosa mi avete insegnato.
Siete nella tazza di caffè
vuota sul tavolo,
nelle carte sparse, nel cerchio
di luce della lampada.

La barbarie che è fuori la porta
Non mi fa più paura.
Attraverso un tempo lunghissimo,
oltre lo spazio stretto del reale,
oggi siete chiarissimi,
concreti. Continua a leggere

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Tomaso Kemeny, Poesie da Boomerang (2017), Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa – La problematica dell’«Incontro con la Realtà»

Gif lipstick

Sono sul marciapiede che marcisce prima del tramonto

 

Tomaso Kemeny (Budapest 1938), vive a Milano dal 1948. In qualità di anglista, professore cattedratico presso l’Università di Pavia, ha scritto libri, saggi e articoli sull’opera di Ch.Marlowe, S.T. Coleridge, P.B. Shelley, Lord Byron, Lewis Carroll, Dylan Thomas, James Joyce e Ezra Pound. Ha pubblicato undici libri di poesia tra cui Il guanto del sicario (1976), Il libro dell’Angelo (1991), La Transilvania liberata (2005), Poemetto gastronomico e altri nutrimenti (2012), 107 incontri con la prosa e la poesia (2014) e Boomerang (2017). Ha scritto libri di poetica come L’arte di non morire (2000) e Dialogo sulla poesia (con Fulvio Papi, 1997); un romanzo Don Giovanni innamorato (1993); un testo drammatico La conquista della scena e del mondo (1996).

Con Cesare Viviani ha organizzato i seminari sulla poesia degli anni ’70 presso il Club Turati di Milano (1978-79). Tra le sue curatele La dicibilità del sublime (con E.C. Ramusino, 1989), Le avventure della bellezza, 1988- 2008 (2008) . E’ tra i fondatori del movimento internazionale mitomodernista (1994) e del movimento “Poetry and Discovery”(2016) nonché della Casa della poesia di Milano (2006).

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Incontro con Dio

da Tomaso Kemeny, 107 incontri con la prosa e la poesia, Milano, edizioni del verri, 2014

Incontro con Dio

Sono sul marciapiede che marcisce prima del tramonto. Viscide vipere m’impediscono di sopravvivere ulteriormente. Dall’alto scende una carrozza d’oro-volante e mi trasporta in un campo di defunti in attesa di giudizio.
Dopo un’attesa di venti secoli, un angelo inquisitore mi stacca entrambe le braccia con una sega elettrica e nelle spalle m’inserisce ali candide perché io possa volare al di là del tempo.
Vertigine.
Entro nella luce divina.
Vorrei fermarmi a risplendere nell’armonia celeste. Ma mi sveglio al vecchio vento che mi trascina là dove c’è un altro futuro.

Incontro con Dio

Prima del tramonto affogo nel tempo
aperto a scandalose
introspezioni: mi sento Principe
dell’Ignoto, artificiere vano,
commediante ipnotizzato
dalle viscide vipere
annidate nelle profondità
per spuntare all’improvviso
in forma di parole
a dire che le cose non possono restare
così, con le porte chiuse per me
dal lieben Gott:
né mi sento destinato
alla deportazione
nel campo dei defunti
in attesa dle giudizio.
Nulla di più molesto e irritante
per me dell’Angelo Inquisitore che mi
interroga sul mio pormi
in testa ai condottieri
del piacere. La verità è
che ogni sorriso dell’Amata
m’inonda dello sfolgorio
di un Dio procreatore eterno
della bellezza certa in cielo e in terra.
Amen.

Incontro con una pagina bianca (la prima luce)

 

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Incontro di Christian con la signorina Vodka

“La signorina cento chili
con la sua trippa molliccia sommerse
le mie cosucce
a prova di donna cannone:
fu il suo alito iper-alcoolico
misto a sperma
d’ignota provenienza
a contagiarmi le tonsille
infettandomi anche l’urina.
Ma prima, con immensa foia
l’inculai sul tavolo da cucina”.

 

Mitomodernismo Tomaso Kemeny in recita a Milano

Tomaso Kemeny in azione mitomodernistica a Milano, 2016

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

La problematica dell’«Incontro con la Realtà» di Tomaso Kemeny

«La Poesia è morta? Essa ha il suo sepolcro nell’opera», scrive Guglielmo Peralta. Oggi un’opera di poesia degna di questo nome non può parlare d’altro tema che della propria morte. «Senza resurrezione». «Il solenne cenotafio» di se stessa.
La Nuova Poesia? Il Nuovo Romanzo? La Nuova Critica? – L’elefante sta bene nel salotto, è buona educazione non nominarlo, fare finta che non ci sia, prendiamo il tè in punta di spillo, con i guanti bianchi. «Andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole?», beh, come gli indigeni dell’isola di Pasqua, faremo la fine che hanno fatto loro

Sono ormai cinquanta anni che un elefante si aggira nel salotto.
Con la sua proboscide ha fracassato il vasellame, sporcificato la tappezzeria,
rovistato nei cassettoni stile liberty e post-pop,
ha mandato in pezzi anche il lampadario di Murano e la cristalleria di Boemia…

 «La realtà giunge nuda e cruda, e con un brivido, poco prima dell’alba. È la Sig.ra Tohil a chinarsi su di me, a rimettere la mia testa al suo posto e a sussurrarmi: “Tutto si può dire, anche l’impensabile, il proibito, non c’è più da avere paura, ormai non c’è speranza. Il sonno non riposa. L’acqua non disseta. L’aria sta per diventare irrespirabile. Le pesti succedono alle piaghe e la morte è oggi l’unica affermazione di vita, mentre la corruzione ci ha portati ad accettare ogni forma di accecamento Il veleno della verità mantiene la nostra civiltà in perenne agonia, stiamo per giungere all’apoteosi dell’immortalità della decadenza”.

Mi sporgo oltre l’orlo di ciò che resta di un muro del mio studio e vedo gli inquilini riunirsi nel mio salotto: chi se l’è fatta addosso per la paura; chi ha perso i guanti; chi riacquista il colorito e perde la parola e chi riacquista la parola e perde il colore. Ciò che nessuno sa dirmi dove e quando è scomparsa la Sig.ra Tohil».

 «Il mondo è un insieme caotico di frammenti»; «il mondo mi appare come la ruota della fortuna spezzata in fondo a un uovo marcio in grado di assorbire l’universo intero»; «mi apro le vie di Milano intasate da imputati per furto, altri per incendio volontario, saccheggio, di omicidio, di evasione e persino di antropofagia», scrive Tomaso Kemeny nei 107 incontri.

Non c’è dubbio che in questi ultimi due libri Kemeny abbia percorso a velocità forsennata lo spazio che passa dal mitomodernismo degli anni ottanta/novanta all’attuale nullismo o nichilismo di questi ultimi anni. È nel frattempo avvenuto che l’«Incontro con la Realtà» è diventato molto più dispendioso, «la Realtà» si è dissolta sotto i nostri occhi, si è de-moltiplicata e frammentata, si è miniaturizzata ed è definitivamente scomparsa dall’orizzonte degli eventi. Quella scrittura che ancora nei primi anni novanta era pur sempre un contenitore delle tensioni stilistiche e linguistiche, oggi risulta del tutto inidonea a suturare stilisticamente e linguisticamente quelle tensioni. Kemeny si è scontrato con questa aporia: rappresentare linguisticamente in poesia oggi «la Realtà» è come voler rappresentare il «niente», la mente si avvicina a quella zona dove la rappresentazione classica fallisce, è questo il punto.

Ed ecco spiegato il non-stile del linguaggio cosmopolitico dei due ultimi libri di Tomaso Kemeny. È che non c’erano vie di mezzo o altre strade che potessero condurre ad una «nuova» rappresentazione della «Realtà», e così è caduta la stessa idea di una rappresentazione linguistica in poesia, la stessa possibilità di una rappresentazione purchessia. «L’incontro con la Realtà» si è dimostrato più problematico che mai, e Kemeny da poeta acuto ne ha presto atto e ne ha tratto le conseguenze giungendo ad un linguaggio-ircocervo, un meta linguaggio iperteatrale, impermeabile, revulsivo in grado di conglobare in sé le istanze e le pulsioni espressionistiche e quelle mimico-realistiche. Però, pur sempre entro le coordinate della ontologia del novecento. Finalmente, nella poesia italiana ha fatto ingresso, in maniera non ortodossa e in modo massiccio, la vera questione del nostro tempo: il nichilismo, il lutto, la perdita di valore delle forme poetiche tradizionali con i riflessi che questo fenomeno ha avuto sulle scritture letterarie e, in particolare, sulla forma-poesia. Ci voleva un poeta di origine ungarica come Kemeny, nato nel 1938, per dare questo strattone scossone alla poesia maggioritaria che tuttora si continua a fare e a stampare.

 Gif As god is my witness

«Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subìto la tentazione conosce ben poco la nostra epoca […]

Che cosa mai sarebbe servito dire ai Troiani mentre i palazzi di Ilio rovinavano, che Enea avrebbe fondato un nuovo regno?

La difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere a una rappresentazione del niente. La mente si avvicina alla zona in cui dileguano sia l’intuizione sia la conoscenza, le due grandi risorse di cui essa dispone.

Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto.

Perciò il nichilismo, per quanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti, antistanti il niente, non entrerà mai in contatto con la potenza fondamentale stessa allo stesso modo si può avere esperienza del morire, non della morte». 1]

La difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere a una rappresentazione del niente.

La mente si avvicina alla zona in cui dileguano sia l’intuizione sia la conoscenza, le due grandi risorse di cui essa dispone. Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto.

 Perciò il nichilismo, per quanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti, antistanti il niente, non entrerà mai in contatto con la potenza fondamentale stessa che provoca il «niente».

1] Ernst Jünger Martin Heidegger, Oltre la linea Adelphi, 1989 p.179 € 14

Gif Kiss me as if it were the

Ecco un brano di un mio libro, Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2013. In anticipo (o in posticipo) sull’auspicabile discussione, a proposito della tesi di un ritardo storico della poesia italiana del Novecento a causa della sua «impalcatura piccolo-borghese» e della primogenitura della linea maggioritaria del minimalismo romano-milanese.

Il ritardo storico della poesia italiana. Gli Anni Dieci. Continua a leggere

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Sulla differenza tra oggetti e cose – Poesie e Commenti di Osip Mandel’štam, Eugenio Montale, Adam Zagajewski, Jorge Luis Borges, Gino Rago, Carlo Livia, Guglielmo Peralta, Luigina Bigon, Rossana Levati, Giuseppe Talia, Giorgio Linguaglossa

 

Gif Saturno

La questione è invece di capitale importanza, perché o si fa una poesia di oggetti (ricordate la formula di Anceschi per una «poesia degli oggetti»?), o si fa una poesia di «cose»

Giorgio Linguaglossa

Sulla differenza tra «oggetti» e «cose»

sulla differenza tra «oggetti» e «cose» ho già scritto un appunto poco tempo fa. Quando un «oggetto» cessa di essere mero oggetto e quanto esso oggetto diventa una «cosa»? – L’ermetismo italiano non ha mai avuto sentore di questa problematica, e neanche la poesia post-ermetica del dopo guerra, tantomeno la poesia dell’incipiente sperimentalismo ne ha avuto cognizione, come non ne ha mai avuto cognizione la poesia lombarda degli «oggetti». La questione è invece di capitale importanza, perché o si fa una poesia di oggetti (ricordate la formula di Anceschi per una «poesia degli oggetti»?), o si fa una poesia di «cose», la differenza è di capitale importanza ma bisogna ragionarci sopra, bisogna sapere di che cosa si parla. Per esempio, Saturno, che vediamo nel gif, è un «oggetto» o una «cosa»?

Ad esempio, la guerra di Troia (che entra prepotentemente nella poesia di Gino Rago) è un «oggetto» o una «cosa»? Quella «nomenclatura» che si rinviene nella poesia di Anna Ventura, quei «brillanti di bottiglia», dal titolo del libro di esordio della poetessa abruzzese del 1978, quelle povere cose che stanno come brillanti nella bottiglia, sono «oggetti» o sono «cose»? Ad esempio nella poesia di Adam Zagajevski ci sono «oggetti» o «cose»?

È inutile tentare di dribblare la questione, non se ne esce. Il problema in verità è antico, già all’inizio del Novecento era stato messo a fuoco da Osip Mandel’štam nel saggio Sulla natura della parola degli anni Dieci di cui cito un brano particolarmente significativo. Sostituite il riferimento al «simbolismo» con la nostrana «poesia degli oggetti» e troverete gli argomenti di Mandel’stam calzanti e acutissimi, in specie riguardo all’«ellenismo» del «vasellame» (leggi «cose» in linguaggio moderno) che usiamo tutti i giorni e alla polemica contro il «laboratorio di impagliatura» dei simbolisti:

[«Cose» dipinte da apprendisti pittori allievi di Lucio Mayoor Tosi durante un corso di apprendistato alla pittura]

Osip Mandel’štam

«L’ellenismo è il circondarsi consapevole dell’uomo di vasellame al posto di oggetti indifferenti, la metamorfosi di questi oggetti in vasellame, la personificazione del mondo circostante, il riscaldamento del suo sottilissimo teologico calore. L’ellenismo è ogni stufa vicino alla quale l’uomo siede apprezzandone il calore, come consanguineo al suo calore interno. Infine, l’ellenismo è il monumento sepolcrale dei defunti egiziani nel quale si mette tutto il necessario per il proseguimento del pellegrinaggio terrestre dell’uomo fino alla brocca per i profumi, allo specchietto, al pettine. L’ellenismo è il sistema, nel senso bergsoniano del termine, che l’uomo dispiega intorno a sé, come un ventaglio di avvenimenti liberati dalla dipendenza temporale e subordinati ad un legame interno attraverso l’io umano. Nella concezione ellenistica il simbolo è vasellame e, perciò, ogni oggetto coinvolto nel sacro circolo dell’uomo può diventare vasellame e, di conseguenza, anche un simbolo. Ci si chiede: dunque, è forse necessario uno speciale e premeditato simbolismo nella poesia russa? Non appare esso come un peccato di fronte alla natura ellenistica della nostra lingua che crea forme come vasellame al servizio dell’uomo? In sostanza, non c’è alcuna differenza tra la parola e la forma. La parola è già forma chiusa; non si può toccare. Essa non serve per la vita quotidiana così come nessuno si metterà ad accendere una sigaretta da una lampada. Anche queste forme chiuse sono assai necessarie. L’uomo ama il divieto, e persino il selvaggio mette una interdizione magica, un «tabù» negli oggetti noti. Ma, d’altra parte, la forma chiusa, sottratta all’uso, è ostile all’uomo, è nel suo genere un animale impagliato, uno spaventapasseri.

Tutto il contingente è soltanto immagine. Prendiamo ad esempio la rosa ed il sole, la colomba e la fanciulla. Per il simbolista nessuna di queste forme è di per sé interessante ma la rosa è immagine del sole, il sole immagine della rosa, la colomba immagine della fanciulla, la fanciulla immagine della colomba. Forme sventrate come animali impagliati e riempite di contenuto estraneo. Al posto del bosco simbolista, un laboratorio di impagliatura.

Ecco dove porta il simbolismo professionale. La percezione demoralizzata. Nulla di autentico, originale. Una terribile controdanza di «corrispondenze» che si ammiccano l’un l’altra. Un eterno strizzarsi d’occhio. Nessuna parola chiara, soltanto allusioni, reticenze. La rosa ammicca alla fanciulla, la fanciulla alla rosa. Nessuno vuole essere se stesso».

Cose Bricco

Un nuovo sguardo è già una nuova idea. Le idee le prendiamo dalle «cose». Le mutazioni del gusto già in sé sono nuove idee e le nuove idee sono le «nuove cose». Dal modo in cui usiamo gli oggetti nella nostra vita quotidiana, possiamo trarre un fascio di luce che illumina il nostro modo di utilizzare le parole, giacché le parole sono «cose» in senso fisico, spaziale. Gli oggetti, gli utensili, il vasellame si trovano nel mondo per servire l’uomo, possiamo vivere in un appartamento ammobiliato oppure in un appartamento ricco di suppellettili, di vasellame, di «cose» che abbiamo scelto e che ci accompagnano nella nostra vita quotidiana. La differenza è di vitale importanza. Quando una «cosa» ci parla o riprende a parlarci, ecco, il quel momento si ha una trasmutazione degli «oggetti» in «cose», e gli oggetti indifferenti diventano nostri consanguinei, i nostri compagni significativi. Le nuove «cose» innescano un nuovo sguardo, e noi vediamo il mondo come per la prima volta. Gli «oggetti» morti sono diventati all’improvviso vivi e significativi, sono diventati «cose».

L’«ellenismo – di cui parla Osip Mandel’štam nel saggio Sulla natura della parola – «è il circondarsi consapevole dell’uomo di vasellame al posto di oggetti indifferenti, la metamorfosi di questi oggetti in vasellame…».

Cose teiera

Gino Rago

Dopo Lilith
[Dio presenta Eva ad Adamo]

“[…]
ti sento solo, Adamo, quindi ho deciso, ecco l’altra compagna;
ma non superare la soglia,
stai molto attento…
lei esce dalla tua costola non dai tuoi piedi,
esce dal tuo fianco, un po’ più in basso del braccio
ma dal lato del cuore, un po’ più in alto,
per essere amata.
Questo ti comando
[…]” Continua a leggere

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