Fondare una oggettoalgia della Memoria e dell’Oblio? Poesie di Carlo Livia, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Commenti di Michel Meyer, Lucio Mayoor Tosi, Nunzia Binetti

Il punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Fondare una oggettoalgia della Memoria e dell’Oblio?

 

Scrive Lucio Mayoor Tosi:

Non vedo l’ora di avere al governo una miss

in gabardine, che sappia il fatto suo. Una che pare uscita
dal fon ma decisiva sull’orientamento dei social. Come farsi
venire il cancro e quali rimedi.

Scrive Alfonso Cataldi:

Una cuspide infantile conficcata nel polpaccio
chiede ancora
«Tamburi, giochiamo a guardia e ladri?».

Scrive Carlo Livia:

La madre obliqua tiene al guinzaglio due amanti vegetali, oscillanti.

Scrive Mauro Pierno:

È tornata una psoriasi in cammino. Un corteo instabile con andamento lento.

Francesco Paolo Intini nel suo brillante commento nel post di oggi [n.d.r., leggi ieri], scrive:

«Si comunica per interferenze. Il pensare è costituito da figure d’interferenza.»

Prendo lo spunto da quest’ultima osservazione di Francesco Paolo Intini per osservare che per il 95% del nostro essere nel mondo noi siamo esposti continuamente alle «figure di interferenza». Quando guardiamo il televisore, ascoltiamo la radio, guardiamo lo smartphone in metropolitana, quando siamo in un autobus a Roma o a Torino o a Canicattì, quando ci troviamo in un bar affollato, quando stiamo dal barbiere a farci tagliare i capelli, quando siamo in una sala d’aspetto di uno specialista in cardio chirurgia, o nelle sale d’aspetto di un aeroporto o di una stazione ferroviaria, quando andiamo ad ascoltare un terrificante slam poetry, quando andiamo a fare la spesa al mercato, e via di questo passo, noi siamo esposti di continuo alle «figure di interferenza»; innumerevoli interferenze avvengono anche quando siamo rinserrati nella nostra solitudine negli anonimi palazzi romani a dodici piani, attraverso i muri, come ben rappresentato nelle poesie di Donatella Giancaspero. In realtà, nella nostra vita quotidiana siamo esposti a innumerevoli «figure di interferenza» e continuare a pensare la forma-poesia come un monologo di un Robinson Crusoe in un’isola deserta (come avviene nella poesia di Cucchi), è una finzione e una falsificazione del mondo reale nel quale viviamo. La poesia di uomini solitari che monologano intorno alla propria solitudine ad interrogare le stelle, è una finzione, anzi, peggio, è kitsch. La nuova poesia non può continuare ad avallare questa ridicola insulsaggine, la nuova poesia non può non accettare le condizioni poste dalla nuova civiltà telematica e globale ed assume le «figure di interferenza» come una categoria ineliminabile dalla nuova poesia e come un dato di cui non ci si può sbarazzare con un atto di bacchetta magica. Il mondo è cambiato, e, di conseguenza, anche la forma-poesia è cambiata, e la NOE non può che rappresentare, con mezzi poetici, questi cambiamenti storici ed epocali.

Scrive Michel Meyer:

«nei manuali sul linguaggio e la semantica, si studiano le proposizioni come entità logicamente autonome, e ciò è evidente. L’autonomia, tutta relativa come si è visto precedentemente, è anch’essa un prodotto, il frutto di una dinamica. Di conseguenza, non si può affrontare la questione del senso al di fuori dell’idea di discorso, e anche, per completezza, del discorso detto di finzione, Quale test migliore della letteratura, per verificare una teoria del linguaggio che vuol essere totalizzante? Allora troveremo forse nei teorici della letteratura la concezione del senso generalizzato che cerchiamo? La risposta è sfortunatamente negativa, e questo per un’eccellente ragione. Molto spesso coloro che si occupano di letteratura procedono – in nome della scienza, e dunque del rispetto dell’empirico, beninteso – analiticamente, come i nostri linguisti del capitolo precedente. Studiano delle opere isolatamente,. o degli autori. Non c’è affatto bisogno di una visione filosofica del linguaggio per operare in questo modo, no? E sempre in questo ambito, si presupporrà una metodologia della lettura che non si dovrà esplicitare, e ancor meno giustificare. Le opere non parlano forse da sé? Le cose sono senza dubbio un po’ cambiate, appunto con l’autoreferenzializzazione della letteratura di cui abbiamo già parlato prima. La letteratura si è presa sempre più come proprio oggetto e ha messo il proprio linguaggio alla ribalta della critica letteraria. E qui, è sorto un altro scoglio: quello di una teoria del linguaggio modellato sul linguaggio della finzione. Come Frege aveva in mente l’univocità e l’oggettività del linguaggio matematico-sperimentale quando parlava di logos, Derrida, a esempio, ha una concezione letteraria del logos, fondato sulla non-referenzialità del linguaggio, sulla sua natura non univoca, retorica, tropologica; figurativa, in una parola. Ma si tratta di una retorica argomentativa: i segni si rimandano indefinitamente gli uni agli altri…».1]

1] M. Meyer, De la problématologie. Philosophie, science et langage, Bruxelles, 1989, trad it. Problematologia, Parma, Pratiche editrice, 199i p. 317

Gif Vogue cover

Non vedo l’ora di avere al governo una miss/ in gabardine, che sappia il fatto suo. Una che pare uscita/ dal fon

Lucio Mayoor Tosi

17 maggio 2019 alle 12:12 

Di fatto, nella poesia NOE, e forse particolarmente nel polittico, il discorso poetico che si compie – tramite reportage, missiva, telefonata, o quant’altro – costituisce un artificio. L’intero discorso è un artificio, la cui funzione consiste nell’unire tra loro elementi casuali, distanti e discontinui. Le «interferenze».

Resta una parvenza, traccia od ombra dell’idea di discorso.

Giorgio Linguaglossa
17 maggio 2019 alle 12:15

Stanza n. 27

Sulla borchia di ottone c’è scritto:

«Girone dei morti assiderati». Entro.
Ombre bianche sono alle prese con dei simulacri.

Altissimi soffitti, corridoi ciechi, corridoi curvi,
tante lampadine appese ai fili della luce.

Un travestito cammina su alti trampoli
in giarrettiere e calze velate in compagnia di un trampoliere.

Sonnambuli camminano e si vedono camminare.
Ridono. E tornano in sé.

[…]

Simulacri prendono congedo dagli abiti.
Un Re senza testa è seduto sul trono.

Un dio raccoglie la testa del Re.

Una Regina cavalca con il cavaliere di coppe.
Un fante raccoglie la testa del Re.

Uomini entrano dentro gli specchi,
e ne escono bambini.

[…]

Gli oggetti della mia infanzia.
Lo sgabello che pensavo fosse un trono.

L’ombrello che pensavo fosse uno scettro.
L’esercito dei bottoni di madreperla.

La stanza dei giochi infantili. La finestra aperta.
La finestra chiusa.

Dalla finestra della stanza n. 27
qualcuno spara un proiettile,

il quale attraversa il muro, esce dalla porta
e colpisce alle spalle mia madre che raccoglie la cicoria.

Nunzia Binetti

17 maggio 2019 alle 17:14

Una NOE realizzata in modo lodevole. La lateralità del sé, in stanza n.27, ha prodotto versi importanti e addirittura coinvolgenti , in cui si affacciano frammenti di memoria, che definirei, sussultori. Ciò che mi domando, Giorgio, è se una forma- poesia così nuova, come la NOE, possa incontrare un gruppo di lettori in grado di comprenderne l’efficacia e la filosofia che ha contribuito a fondarne il metodo, metodo per il quale ci battiamo contro un esercito di infedeli, per non definirli ancor peggio, disseminati ovunque si volga lo sguardo. Complimenti per questi tuoi versi.

Gif Beyoncé

La Regina-dei-cartoni

Gino Rago

17 maggio 2019 alle 18.51

La Regina-dei-cartoni a Via Marsala dialoga con Giorgio Linguaglossa

[…]
Samuel Beckett: «Giunge una voce dal buio a qualcuno.
Immagini»

Una voce. Un ascoltatore. Il buio.
Il rito perduto nella caverna.

Beckett:«Evoco la mancanza del rito.
Fuoco. Musica. Danze. Parole rituali.

Dei. Cavalli o bisonti sulla roccia nella caverna.
Tutto il villaggio che danza pregando.

Totalità simbolica. Immobilità nello spazio.
La gravità. Uomini non morti

Perché uomini mai vissuti.
La voce al buio resiste,

Ritornerà l’era dei poeti,
Godot… Metà God, metà Charlot… »
[…]
Linguaglossa scambia lo sgabello per un trono:
“E’ un trono vero, non è uno sgabello…

E’ mio. E’ il trono della Regina-dei-cartoni
a Via Marsala-Stazione Termini…

Ma qui non c’è un come.
Non ci sono né un dove né un quando.

Il significante qui non ha significato.
Le parole non sono più in nessun contesto.”

Linguaglossa: “Mia Regina-dei-cartoni-a-Via-Marsala,
quale per te il senso della vita…?”

“Passare il tempo…En attandant Godot.
Ma ieri non è arrivato, oggi non arriva…”
[…]
Una foglia nuova su un albero,
Vladimiro a Estragone:

«Avresti dovuto essere un poeta».

Estragone: «Lo sono stato. Si vede, no?
Non vedi gli stracci?

Le mie parole sono state stracci».
[…]
Picasso nelle grotte:
«Dopo Altamira la pittura è solo decadenza.

Religione-Arte-Poesia. Registri entanglati.
Mescolamento di pause e silenzi.

Citazioni di teologia. Turpiloqui.
Fili metafisici. Incomunicabilità….»
[…]
Morandi fa la corte alla Regina-dei-cartoni.
A Via Marsala allinea brocche-bottiglie-tazze.

Linguaglossa di nascosto prega per un’ombra.
La Regina-dei-cartoni-a-Via Marsala:

“La vita…Passer le temp
En attendant Godot”.

Carlo Livia

Sette Rassegnazioni

Il figliastro insolubile torna dall’Enigma, eterno, senza vita. In uranio arricchito, inossidabile.

La madre obliqua tiene al guinzaglio due amanti vegetali, oscillanti.

La musica celeste, completamente nuda, gira l’angolo, il padre sventola sui fili, l’attimo indurito lotta sull’argine, acceca, ordina l’arresto.

L’erba triste sorregge il panico, io precipito dall’anestesia clericale, fasciato da minuscole domeniche sorridenti.

Dopo il diluvio la notte dei camaleonti. La parola rigonfia muore senza vergogna: non ha mai goduto.

Sguardi stranieri escono dal groviglio, avanzano le donne folli, senza corpo, spargendo feritoie, sotterranei, cieli falsi.

Col sogno avanzato dalla sposa, circondano la fine.

Fondare una oggettoalgia?

C’è una bizzarra analogia tra le Gif e la Poesia-polittico

L’io delle gif è diafano, è in realtà una diafania.

«Penso dove non sono, dunque sono dove non penso»1]

«L’io è strutturato esattamente come un sintomo. Non è altro che un sintomo privilegiato all’insegna del soggetto. È il sintomo umano per eccellenza, la malattia mentale dell’uomo».2]

Gli oggetti sono in sé una produzione di significati.

Penso che la poesia del prossimo sviluppo della nuova ontologia estetica dovrà ritornare alla memoria degli oggetti, alla capacità che gli oggetti materiali hanno per noi di fissare i significati nel tempo, di restituirli al tempo in quanto tempo condensato e solidificato, con una sorta di risarcimento postumo: restituirci il loro significato intimo di cui non ci eravamo accorti. Che però è stato anche il nostro, a nostra insaputa, nolenti e noenti, durante la nostra assenza, dove non eravamo, dove eravamo. Un individuo e un gruppo riescono a fissare il senso della loro esistenza grazie a una costellazione di oggetti che in qualche modo li hanno caratterizzati in un dato tempo. Per il tramite degli oggetti nel frattempo diventati cose noi possiamo comprendere ciò che li rendeva specifici, individuali, nostri, quando noi non eravamo, e così comprendere ciò che eravamo, e ciò che siamo diventati. Sono la spada e lo scudo di Achille che ce lo hanno consegnato nel nome del mito, gli oggetti parlano sempre nel nome e per conto di un altro, di quell’altro che eravamo senza saperlo, senza volerlo. Per questo penso che la poesia debba fondare una oggettoalgia.

Possiamo vedere realmente gli oggetti soltanto là dove non ci siamo più. Noi vediamo realmente gli oggetti solo rivedendoli. Rivedere è già capire.

Umberto Galimberti scrive:

«la poesia, di cui si alimenta il mito, è una produzione di significati, che non lascia parlare le cose come sono, ma impone alle cose il parlare dell’uomo. Questa imposizione non è l’imporsi delle cose ma ciò che l’uomo impone alle cose, la violenza poetica sul contenuto quale si dà».3]

La scrittura poetica nel senso del comune sentire della maggioranza è «una produzione di significati», un atto di im-posizione del linguaggio alle cose, quando invece la posizione del poetico dovrebbe essere un ritrarsi dal linguaggio, sostare un passo indietro, un attimo prima che la parola ci raggiunga, dall’esterno, con la sua dote di «imposizione», di Gestell avrebbe detto Heidegger; se invece andiamo oltre, se procediamo verso il linguaggio, con attese, con im-posizioni, con Gestell, ecco che quel linguaggio ci imporrà le sue regole di condotta e le sue scelte, il nostro linguaggio verrà intaccato dalla «imposizione» dei linguaggi che provengono dall’esterno, dal mondo dell’utilitarietà, dal mondo delle condotte, da ciò che è redditizio, dagli interessi in competizione, dall’interesse dell’io alla propria auto conservazione e alla propria im-posizione.

Il problema è molto complesso e non è riducibile in poche battute, ma certamente l’ideologema dell’io che impera nel mondo tecnologizzato delle società mass-mediatiche non aiuta a pensare in poesia e a scrivere buona poesia, l’io ha bisogno dei linguaggi dell’utilitarietà, della comunicazione, della im-posizione, non può farne a meno pena la sua implosione; l’io è una macchina infernale che lavora sempre per la propria sopravvivenza, lavora per i progetti di auto organizzazione dell’io, non può fare altrimenti, è un epifenomeno delle ideologie utilitaristiche che imperversano nella comunità linguistica e mediatica, non può sfuggire alla ontologia della im-posizione.

La totalità della poesia che si fa oggi nell’Occidente mediamente acculturato, anche tra i poeti più «accreditati» dagli uffici stampa degli editori più influenti, altro non è che un epifenomeno dei linguaggi mediatici, scrittura utilitaria, impositiva, progettante, narrativizzante, risolutoria, positivizzata, unidirezionale, telecomandata, quella che più volte ho chiamato scrittura assertoria, suasoria, incantatoria, che altro non è che l’altra faccia della medaglia di una scrittura definitoria, imbonitoria, da risultato che va in onda con un linguaggio imperativo, giustificato e giustificatorio.

1] J. Lacan tr. it. L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud, in Scritti, Einaudi, Torino, 1974 vol. I p.512
2] Id., Il seminario, vol. I Gli scritti tecnici di Freud, Torino, 1978, p. 20
3] U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente, Feltrinelli, 2005, pp. 407 e segg.

15 commenti

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15 risposte a “Fondare una oggettoalgia della Memoria e dell’Oblio? Poesie di Carlo Livia, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Commenti di Michel Meyer, Lucio Mayoor Tosi, Nunzia Binetti

  1. Nel corso di un colloquio-intervista con un poeta, assai noto al pubblico dal gusto raffinato de L’Ombra delle Parole, mi è stata posta anche la:

    Domanda – In poche parole come presenteresti un “Polittico poetico in distici”…?
    Ho provato dare questa:

    Risposta – In estrema sintesi direi:

    Fisica quantistica+ Civiltà musicale+ Arti Figurative+ Cronaca+ Storia+ Misticismo Barocco+ Arti plastiche+ Scontro di dive (Lisi-Dietrich) come urto fra Cinecittà e Hollywood+ Compressioni ed Espansioni dell’universo+ Letteratura+ Personaggi-poeti vivi + Personaggi-poeti non più vivi+ Tempo dilatato + Tempo compresso+ Spazi-geografie nell’indefinito e nel familiare+ Fono-prosodie con al centro immagini+ Parole entanglate come protoni nell’entenglement+ Rottura delle associazioni sostantivi-aggettivi a favore dei sostantivi+ Soppressione definitiva del piccolo Io narcisistico e perdente come illusoria misura della storia e del mondo+ Valorizzazione del sostantivo+Immissione del parlato ( in forma di monologo o di dialogo) + Altro = Polittico (o meglio, tentativo di polittico, così come lo sto intendendo).

    E’chiaro che non si approda al Polittico in distici senza l’attraversamento consapevole della esperienza poetica per “frammenti”.

    Per ora il Polittico in distici (Religione-Arte-Letteratura-Poesia) mi pare il max che si possa chiedere alla Parola di poesia se si vuole, per me, andare più in là e un po’ più in alto di dove hanno fin qui osato e ancora osano… le quaglie.

    E per non correre più il rischio in poesia di continuare a sentire dappertutto ruggiti… di agnelli, rischiando di annegare nella profondità … di una pozzanghera.

    Gino Rago
    Nuovo tentativo di un polittico poetico in distici
    La Regina-dei-cartoni a Via Marsala dialoga con Giorgio Linguaglossa

    […]
    Samuel Beckett: «Giunge una voce dal buio a qualcuno.
    Immagini»

    Una voce. Un ascoltatore. Il buio.
    Il rito perduto nella caverna.

    Beckett:«Evoco la mancanza del rito.
    Fuoco. Musica. Danze. Parole rituali.

    Dei. Cavalli o bisonti sulla roccia nella caverna.
    Tutto il villaggio che danza pregando.

    Totalità simbolica. Immobilità nello spazio.
    La gravità. Uomini non morti

    Perché uomini mai vissuti.
    La voce al buio resiste,

    Ritornerà l’era dei poeti,
    Godot… Metà God, metà Charlot… »
    […]
    Linguaglossa scambia lo sgabello per un trono:
    «E’ un trono vero, non è uno sgabello…

    E’ il trono della Regina-dei-cartoni
    a Via Marsala-Stazione Termini…

    Ma qui non c’è un come.
    Non ci sono né un dove né un quando.

    Il significante qui non ha significato.
    Le parole non sono più in nessun contesto»

    Linguaglossa: «Mia Regina-dei-cartoni-a-Via-Marsala,
    quale per te il senso della vita…?»

    «Passare il tempo…En attendant Godot.
    Ma ieri non è arrivato, oggi non arriva …»
    […]
    Una foglia nuova su un albero,
    Vladimiro a Estragone:

    «Avresti dovuto essere un poeta».
    Estragone: «Lo sono stato. Si vede, no?

    Non vedi gli stracci?
    Le mie parole sono state stracci».
    […]
    Picasso nelle grotte:
    «Dopo Altamira la pittura è solo decadenza.

    Religione-Arte-Poesia. Registri entanglati.
    Mescolamenti di silenzi e pause.

    Citazioni di teologia. Turpiloqui.
    Fili metafisici. Incomunicabilità ….»
    […]
    Morandi fa la corte alla Regina-dei-cartoni.
    A Via Marsala allinea brocche-bottiglie-tazze.

    Linguaglossa di nascosto prega per un’ombra.
    La Regina-dei-cartoni-a-Via Marsala:

    «La vita … Passer le temp
    En attendant Godot»
    […]
    A Viale Ostiense. Una finestra. Una musica.
    Donatella Costantina Giancaspero. Luigi Nono.

    Un coro. Una voce di soprano:
    «Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz.

    Il canto dell’arrivo. Il canto di Lili Tofler.
    Il canto della sopravvivenza»

    Una colonna di fumo verso Piramide Cestia.
    Una nuvola, tenebre per i carnefici,

    Luce verso la salvezza per i sommersi.
    […]
    Beckett rimprovera Proust:« La memoria involontaria…
    Si uccide la Morte se si uccide il Tempo»

    Una stella sulla strada di Gabriele e Linguaglossa
    Verso la grande casa tra gli aranci:

    «Chi sei?»
    «Flamurt, non sono più schiavo di Roma sulla trireme …

    Ho liberato me stesso dal dubbio.
    Gli schiavi sono al bar in Via Galvani»

    Lorenzo Pompeo fotografa una scarpa.
    Galleggia sul Tevere.

    Verso il mare racconta la sua storia.
    […]

    Nota.
    (Gentile Redazione de L’Ombra delle Parole, Cari poeti de L’Ombra,

    ho desiderato nel polittico in distici ” La Regina-dei-cartoni-in-via-Marsala dialoga con Giorgio Linguaglossa” fare quattro passi con l’autore irlandese perché Samuel Beckett è stato l’unico grande del Novecento letterario universale a comprendere la necessità di ripristino del legame teatro-poesia.

    Tutto il suo teatro è stato l’impegno di evocare, tragicamente, il rito (perduto) avvertendone la mancanza.

    Tornare cioè alla Origine, che è poi ciò che a suo tempo il nostro Linguaglossa, in un suo scritto, indicava come necessità di ricreare il mito-poesia, non il mito in poesia, ma la poesia stessa come mito.

    E l’ Origine in Samuel Beckett era ricordare che il teatro greco, e non soltanto, nasce nella caverna con un fuoco, un sacerdote che pronuncia le parole del rito, con l’intero villaggio che prega e danza di fronte ai tori, o ai bisonti, o ai cavalli, disegnati sulla pietra della stessa caverna:
    un rito propiziatorio nella totalità simbolica.

    Soltanto il polittico poetico in distici può aspirare a questa totalità, tornando alle origini del rapporto onnicomprensivo teatro-poesia (polittico, non componimenti lunghi o brevi in distici…) in cui Religione-Arte-Poesia riescono a essere un tutt’uno.

    (gino rago)

  2. copio e incollo da twitter di pochi minuti fa:

    Certe sere.

    di Lucio Mayoor Tosi

    Tutto sorride. Messo l’insetticida alle porte,
    salutato ragni, formiche. Combinato niente.

    Mamma. L’anima dell’autotrasporti infila
    tre monetine e aspetta. Tre notti e giorni.

    Tempo di queste parti. Brevi rotazioni
    del globo. Sua Maestà la Regina in gonna

    pallone anni 60’. La maionese in tubo.
    L’ostrica che non si apre. Batman e Robin

    in una nuvola di fumo. I misteri del mondo
    aspettano chi se li inventerà. Abbiamo

    in palio diverse bottiglie. Ma chissà dove sono
    adesso. In quale materia OSCURA. Rimini.

    Al parcheggio del viale, dove tossiscono
    gli alberi. E fa freddo.

    Nessuna apparizione. Il passato vento.
    Certe storie, quando finiscono

    anni e anni dopo che sono successe.
    E niente. Un ghiribix alla frutta.

    Va respirato. Ti fa contare le molecole.
    Come fossero vene. E gli alberi.

    Luce che si fa, in sollevato mare.

    Acrobat,
    pinna di cobalto.

  3. Gli oggetti interferiscono continuamente gli uni con gli altri e l’io è l’arbitro di una partita sconosciuta nella quale l’io assume la parvenza di un ruolo ma in realtà è assente.

    Potremmo parafrasare così: quando l’io è assente, lì compaiono gli oggetti; quando l’io è presente, lì scompaiono gli oggetti. Siamo agli antipodi di quanto asseriva nel 1952 Luciano Anceschi quando licenziava la sua prima antologia della poesia milanese degli oggetti. Nella nuova poesia gli oggetti affiorano (abreazione degli oggetti potremmo definirla) quando l’io è latente, quando l’io si assenta, quando siamo distratti perché siamo nel traffico o una amica ciarliera ci parla del tempo o altre amenità. Solo allora gli oggetti possono salire in superficie dal profondo dell’inconscio dove sono depositati da tanto tempo che ce ne eravamo dimenticati.

    Gli oggetti della memoria possono ricomparire soltanto quando il tempo dell’oggi si prende una vacanza. Gli oggetti sono carichi di tempo, sono sedimentazione del tempo, e solo il tempo può decidere quando ricomparire, e può decidere anche quando farli scomparire.

    L’ultimo verso della mia poesia postata sopra dice:

    [il proiettile] colpisce alle spalle mia madre che raccoglie la cicoria.

    Questo è un ricordo vero, stampato nella mia memoria di quando bambino avevo tre anni ed eravamo poverissimi, mio padre disoccupato, mia madre anche e la sera si cenava con la cicoria che mia madre raccoglieva nei campi. Il dopoguerra è stato terribile, l’Italia distrutta dal fascismo, mio padre che aveva fatto il soldato in Russia sempre più comunista arrabbiato, non c’era di che mangiare. Ricordo ancora il sapore meraviglioso della cicoria bollita senza olio (costava troppo!) con il pane degli sfilatini (allora era il pane dei poveri). Questo è un ricordo vero. I miei genitori io e mio fratello attorno alla tavola e si mangiava pane e cicoria. Maledetto Salvini e tutti i fascisti inconsapevoli di oggi che ci stanno portando verso una nuova e antica povertà…. maledetti tutti coloro che appoggiano il regime salviniano… bruti brutti inconsapevoli…

  4. https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/05/18/fondare-una-oggettoalgia-della-memoria-e-delloblio-poesie-di-carlo-livia-gino-rago-giorgio-linguaglossa-commenti-di-michel-meyer-lucio-mayoor-tosi-nunzia-binetti/comment-page-1/#comment-57173
    Una poesia inedita di Milaure Colasson:

    Son petit pain au chocolat
    Le matin

    Doit acheter des cigarettes
    Peut-etre résister

    Le merle chante au centre du silence
    Solitude sans silence

    Sa photo à coté du lit
    È definitivo
    Coup de poignard,

    Putride le déclin
    Convulsif le temps
    Elle tressaille engloutie
    Au fin fond de son lit

    La chambre est rouge

    *
    La sua ciambella al cioccolato
    al mattino

    Deve comprare le sigarette
    Forse resistere

    Il merlo canta al centro del silenzio
    Solitudine senza silenzio

    La sua foto accanto al letto
    E definitivo
    colpo di pugnale

    Putrido il declino
    convulsivo il tempo
    Lei rabbrividisce affondata
    Alla fine del suo letto

    La stanza è rossa

    (traduzione di Giorgio Linguaglossa)

  5. Posto qui un commento di Giorgio Stella giunto alla mia email riguardo alla mia poesia:

    Giorgio Stella
    17:50 (19 minuti fa)
    a me

    gentile linguaglossa grazie per la poesia che leggo ora… pure il civico della mia infanzia era 27.
    La sua poesia è riconosciuta, è un compmlimento lo stite o piace o nn piace è quello. Lei parte da un soggetto che per gioco di forza maggiore ha un io da affermare per arrivare ad un oggetto che sostituendolo lo riproponga nel ruolo a cui era stato assegnato in questo caso il sumulacro per effetto di causa la scissione del ruolo materno a quello perimetrale dell’oggetto che lo ricorda in una una memoria retrospettiva nella (…) tentata scommessa di ‘cronaca’; il sospetto è che il verso è afatico poichè proviene da una rappresentazione di latitanza superiore alla sintassi morfologica di un’analisi grammaticale: ‘sonnambuli camminano e si vedono camminare’ cioè i sonnambuli che camminano hanno già camminato? sono contrario all’unità di forma in poesia perchè se la trama è dettata dal verso tutto-sommato l’oracolo è l’unico raccordo storico e il prerogativo stagno è il comparto ovvio a ‘sto punto di diritto: un travestito cammina su alti trampoli’…. impossibile nella ‘stretta’ nn guadagnarsi l’assassinio del padre di pascoli ma l’inverso matriarcale associa l’integratore verbale allo stabile muto confermo ossessivo stato di raccordo minore in questo caso un vero simulacro addirittura con urgenza a se medesimo.
    *
    un mio modesto parere richiesto da lei: ho passato metà della mia vita poetica ad interrogarmi se la memoria oggettiva in versi fosse primaria a quella ontologica: lacaniamente dopo aver cambiato segno zodiacale io nn ho un punto geografico poichè la rotta è invisibile nella propria traccia… nn mi nascondo ma ritrovo solo nella clandestinità ed ad essa devo la cristallizzazione del mio battesimo con la misura che solo la distanza può registrare poesia. Vede ad esempio simulacro x eccellenza dovizia di statuto nel suo caso (diventa) è datato il 27 e io nn ci riesco più né voglio avere queste forze. Il ruolo poetico a lei assegnato è l’identico spazio che lo riferisce tale alla sua post-anagrafe… anche qui il tribunale la lascia libero di scegliere se essere condannato o liberato crisi che già nel suo PILATO a pezzi letto in rete (…) di trama avevo intuito e congestionato come appunto evaso, simulacro/evaso è uguale a ‘sto punto lessico/Paraclito …

  6. arimatlA -Appunti di caccia

    Stanco di chi non offre che parole, parole senza lingua
    Sono andato sull’isola coperta di neve
    Non ha parole il deserto.
    Le pagine bianche dilagano ovunque!
    Scopro orme di capriolo sulla neve.
    Lingua di parole.(*)

    Tutto quel vuoto per contenere un uovo
    Rutherford ne rimase sgomento

    Non pensava alla competizione accademica
    Si sarebbe perso se avesse seguito uno dei suoi dardi

    Planck fu contento
    Tranströmer pure

    Tutto questo silenzio per un capriolo
    Il resto è Scandinavia.

    ***

    (leggendo Donatella Giancaspero)

    “Onorare il piano- Esclamò l’ orologio a muro-
    Tra una nota e l’altra la passione”.

    Qualcosa arriva nel cortile.
    C’è un lucertola che mangia un gatto .

    Erba e ombra che si allungano
    fino al Gradus ad Parnassus.

    Finisce con una conta di martello.
    Due a uno per il nulla.

    Talvolta tacchi, respiri
    assomigliano ad orbitali.

    Silenzi di trent’anni salgono alla gola.
    Refrain e miagolio.

    Irruzione di treni, velocità che mischiano improvvisi.
    Pubblicità risale il palo diventando tuono.

    I cobra hanno ragioni
    per starsene sui grattacieli.

    Il piano batte secoli e smart home.
    precede e segue il piacere degli sconosciuti.

    ***
    (Te
    resa)

    Il quanto della prassi disse a Teresa:
    -Bisogna dissotterrare una tigre.

    La storia se ne sta sotto un fico
    e riempie la savana di muggiti.

    Rotolarono gli orizzonti intorno al pube
    giocando a Dio al posto dell’ Io.

    I colpi dei cacciatori rimasero affissi al soffitto
    oltre c’erano cigni che ridevano.

    Il paradiso non si lascia bucare facilmente
    l’etica è la più dura delle dee

    ma non sa cavarsela con le trame segrete
    l’intestino è invaso continuamente da chiodi .

    Teresa ha una molotov
    tra i seni.

    Non sapeva come venir fuori dall’ entropia
    lasciandosi macerare da grillotalpe.

    In fondo il miracolo è sempre incompleto
    Se lo fosse non si glorierebbe nessuno.

    La prassi ritornò nel suo giaciglio
    Nemmeno la poesia sopportò il fiato.

    Sulla metropolitana viaggiano le figure.
    Le culla cercando il sonno.

    Mandrie di avventori scaldano la bambina.
    Finirà per rimanerne schiacciata.

    ***
    (Postfatto del 2014)

    Nemmeno sa d’esistere
    eppure litigano i carcerati per uno sguardo.

    Qui è bandito chi risale il Cranio
    e la lince ha sapore donna.

    Anche i punteruoli fuggono dalle palme
    lasciando giganti a ringraziare Dio

    Solo questa ragazza va su e giù per il viale
    ignara che la bellezza brucia il desiderio dei ladri.

    Le carceri hanno bocche da sfamare
    fuochi e brande su cui deporre l’ orgia.

    Mentre la ragazza coccola la colomba del paradiso
    accendendo Venere in ogni letto.

    È’ stagione di succo d’uomo e cellulosa questa.
    A marzo i figli giocheranno per il viale

    manifesti e fichi dell’asfalto
    ignari di correre ed esistere.

    ***
    Inquieto cacciare l’ Io
    i piccoli giardini hanno respiro d’Eden

    e l’autunno ha tragedie che s’inseguono.
    Storcersi, seccarsi, accartocciarsi

    sembra non sappiano fare altro
    che somigliare al tormento.

    Anche nel delitto- ora- e l’indizio
    in un graffito sul retro del teatro

    di ailanto che mostra chi colpire
    nella mandria d’uomo.

    ***

    Dalla finestra della stanza n. 27/qualcuno spara un proiettile,/il quale attraversa il muro, esce dalla porta/ e colpisce alle spalle mia madre che raccoglie la cicoria. (Linguaglossa. Stanza N 27)

    “lo stemma sul sapone non dice la verità
    qui tutto è d’altri

    questi usano il letto come scrigno di valori
    consumano amore recitando orgasmi del dio Pan

    nessuno parla, rumore di soldi infine
    Adamo Eva tutto in fretta

    poi la donna si abbandona al pianto
    l’uomo apre la valigia consulta qualcuno

    decide la fine di un tizio
    due cifre ed un click sul notebook:

    Ci sarà un volo suicida da un grattacielo
    il destino sarà impietoso sul far del giorno

    rose rosse da un’ altra parte
    e due versi dolci”

    (*)-I versi di Tomas Tranströmer hanno per titolo “Dal marzo ‘79” e sono tratti da “POESIA DAL SILENZIO” (2011)a cura di M.C. Lombardi –Crocetti editore. Sono da considerarsi come l’inizio della caccia? Il vuoto intorno al nucleo mise in moto la creatività di scienziati dai nomi illustri. Il silenzio di Tranströmer intorno al capriolo di cui intuisce l’esistenza, potrà fare altrettanto per la poesia? Bohr, Heisenberg, De Broglie e tanti altri della schiera, scriveranno versi. Probabilmente.
    (Francesco Paolo Intini)

  7. Credo a questo punto sia opportuno verificare il significato del termine «interferenza» che sta avendo un grande ruolo nella costruzione della nuova poesia e del polittico in particolare:

    Dizionario di Italiano

    il Sabatini Coletti
    Dizionario della Lingua Italiana

    Significato di «interferenza»
    [in-ter-fe-rèn-za] s.f.
    1 fis. Sovrapposizione di fenomeni; nelle telecomunicazioni, azione esercitata da una comunicazione su un’altra con conseguente disturbo || figure d’i., quelle formate per interferenza delle radiazioni ottiche

    2 ling. Influenza esercitata da una lingua su un’altra

    3 fig. Intervento indebito, intrusione: interferenze della politica nell’informazione.

    Ecco cosa c’è scritto nella Treccani:

    interferènza s. f. [dal fr. interférence, che è dall’ingl. interference, propr. «incrocio, conflitto (di interessi, ecc.)», der. di (to) interfere: v. interferire]. – 1. Nel linguaggio scient. e tecn., il sovrapporsi di due fenomeni cooperanti e il conseguente sommarsi o elidersi dei loro effetti. In fisica, con riferimento a fenomeni vibratorî e ondulatorî: i. costruttiva, o positiva, quando gli effetti consistono in un reciproco rafforzamento; i. distruttiva, o negativa, quando si ha una riduzione reciproca dei singoli effetti (con questa accezione, anche assol. interferenza, senz’altra determinazione: i. della luce, o i. luminosa; i. di particelle). In partic.: figure d’i., le figure luminose formate per interferenza delle radiazioni ottiche; frange d’i., v. frangia, nel sign. 4. Con sign. specifici, in altre discipline: a. Nella tecnica delle telecomunicazioni, qualsiasi azione che venga esercitata su una comunicazione da un’altra comunicazione o da un segnale estraneo, dando luogo, in conseguenza, a disturbi e ad alterazioni varie nella comunicazione che interessa. b. In farmacologia, caso particolare di antagonismo, che interessa organismi molto semplici (unicellulari) e consiste nella inibizione alla penetrazione di un farmaco per la presenza di un’altra sostanza. c. In virologia, inibizione della crescita di un virus in cellule infettate da un altro virus. d. In genetica, il fenomeno per cui, nei cromosomi omologhi, non si verificano nei punti prossimi a uno scambio (crossing-over) altri scambî o si trovano con frequenza molto inferiore a quella teoricamente prevedibile. e. In matematica, la parte comune a due o più insiemi, detta anche intersezione. f. In ottica cristallografica, colori d’i., figure d’i., colori, figure prodotti da sostanze cristalline birifrangenti osservate al microscopio polarizzatore con luce, rispettivamente, parallela e convergente. g. I. aerodinamica, lo stesso che induzione aerodinamica (v. induzione, n. 3 a). h. Con sign. analogo, ma più concreto, nelle costruzioni meccaniche, la compenetrazione dei due profili di una coppia di ruote dentate; anche, la differenza tra le dimensioni delle due parti di un accoppiamento fisso (le dimensioni della parte interna sono infatti sempre superiori a quelle della parte esterna per realizzare il forzamento). 2. estens. In semantica, una delle cause delle trasformazioni di significato d’una parola, consistente nel sovrapporsi d’un secondo significato a un primo in connessione con etimologie popolari o semidotte: per es., l’uso di inedia con il sign. di «tedio, noia» è dovuto prob. a una sovrapposizione di inerzia (un altro esempio di interferenza semantica è lo stesso verbo interferire). Più generalmente, in linguistica, l’influenza che in singoli casi e come fenomeno individuale una lingua può esercitare su un’altra lingua in contatto, spec. in soggetti bilingui, portando a modificazioni fonetiche, morfologiche, sintattiche o lessicali; così, per es., a un italiano potrà accadere di dire art nouvelle per art nouveau, dando al fr. art il genere femminile dell’ital. arte; o di dire, per un erroneo calco, ma machine per ma voiture. 3. fig. Incontro di azioni, iniziative, interessi, idee diverse, per lo più discordanti, o che tendano comunque a influire l’una sull’altra determinando spesso un contrasto; più genericam., intromissione, inframmettenza: il potere giudiziario dev’essere sottratto a ogni i. del potere esecutivo; interferenze tra Chiesa e Stato, tra fatti politici e fatti economici; non tollero interferenze nei miei affari privati; la vita … era troppo oziosa perché non vi proliferassero il pettegolezzo e l’i. negli affari altrui (Primo Levi).

  8. La struttura aporetica del reale e del linguaggio poetico
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/05/18/fondare-una-oggettoalgia-della-memoria-e-delloblio-poesie-di-carlo-livia-gino-rago-giorgio-linguaglossa-commenti-di-michel-meyer-lucio-mayoor-tosi-nunzia-binetti/comment-page-1/#comment-57180
    A favore dell’interferenza nel linguaggio poetico, porta il concetto dell’uno come uno che, in quanto posto come uno, si duplica in due… e così via di rinvio in rinvio ad altro e, quindi, di duplicazione in duplicazione, essendo la struttura della duplicazione la medesima della struttura dell’uno, al modo che l’identità dell’uno viene confermata nel suo duplicarsi immediato in due e in numeri infiniti. Così, non possiamo che concludere che nell’uno c’è l’infinito, ovvero, nel finito c’è l’infinito. È questa la struttura aporetica del reale che risuona anche nel linguaggio e nel linguaggio poetico in particolare.

    «Si pensi al circolo dell’interpretazione infinita (che ancora oggi tanti adepti e continuatori guadagna alla propria causa) – tanto per fare un esempio particolarmetne significativo di tematizzazione della questione del “linguaggio” – e al suo teorizzatore: Hans Georg Gadamer.

    Egli avrebbe voluto riconsegnare al logos quella ampiezza e quella realità che sembravano destinate a un irrisolubile irrigidimento; di contro a un incontrastato dominio della filosofia del “concetto” (si pensi all’enorme influenza dell’hegelismo ottocentesco).

    Ma, in realtà, anche questo tentativo doveva essere seriamente inficiato dalla sua vera e propria infondatezza teorica. Il circolo ermeneutico è quello che è solo in quanto per esso “identità definitoria” e “proliferazione delle differenze”, non sono in alcun modo coincidenti – anzi, solo in quanto formalmente separati, si ritiene possano costringere qualsivoglia forma di “unità” a ridefinirsi all’infinito, in corrispondenza alle sempre nuove modalità che la differenza di fatto produce (indipendentemente da ogni troppo prevedibile rispetto verso nomoi già esistenti).

    Per Gadamer, infatti, “le possibilità finite della parola sono messe in rapporto con il senso che si manifesta come qualcosa che indica nella direzione di un infinito…”.1
    Un esempio particolarmente significativo di tale destino sembra essere rappresentato, agli occhi di Gadamer, dalla parola poetica.
    Già Hölderlin ha mostrato che l’invenzione del linguaggio di una poesia presuppone la dissoluzione totale di tutte le parole e le formule linguistiche consuete”.2
    Ma, se, davvero, di contro alla dialettica del concetto (e qui il referente polemico è Hegel, ossia la sua concezione dialettica), l’esperienza ermeneutica comporta che “lo sviluppo del significato totale, che è l’obiettivo della comprensione, ci mette nella necessità di formulare un’interpretazione e di ritirarla subito di nuovo”3 – se non altro in quanto, “nell’evento del linguaggio, non ha la sua sede solo ciò che permane, ma anche il mutamento delle cose”4 -, allora, sempre nell’ottica gadameriana, il compito dell’interpretare (e dunque del linguaggio da cui il medesimo è reso in qualche modo possibile), espresso in termini logico-formali, si costituirà nell’incessante ridefinizione di un inesauribile rapporto tra identità (di fatto rinviante al senso in cui l’interpretante di volta in volta si ri-troverebbe ad essere – da cui il suo esser così com’è) e differenza (eccedenza “mai esauribile” del significato – perciò strutturantesi come modo dell’in-finito -, che differenzierebbe, ab alio, quello stesso senso unitario di cui sopra… e per effetto di un’originaria azione destituente da quello costitutivamente insussumibile e dunque illegiferabile).

    Da ciò l’originarietà dell’azione reciprocamente determinante di una unità e di una molteplicità sempre non-contraddittoriamente concepite.
    Che è proprio quanto abbiamo visto venire ab origine “negato” dall’aporeticità originariamente caratterizzante la struttura del linguaggio tout court; la stessa che mai ci consente una reale esperienza di libertà (libertà, se non altro, rispetto al contesto mondano) – magari fondata sul fatto che “il rapportarsi al mondo richiede che si sia staccati da ciò che nel mondo ci viene incontro al punto da poterselo rappresentare come esso è”.

    la posizione gadameriana ha insomma ben poco a che vedere con l’aporia da noi messa in luce; anche perché, a costituirsi, in essa, è invero una palese oscillazione tra affermazioni che ribadiscono l’originaria linguisticità dell’esperienza umana, ovvero l’intrascendibilità del linguaggio (“né si può pensare di guardare dall’alto il mondo del linguaggio, giacché non c’è un punto di vista esterno all’esperienza linguistica del mondo, dal quale tale esperienza possa essere guardata oggettivamente”6) – dominio dell’identità! – e a critiche assunzioni di quella che viene riconosciuta come “apparenza immediata naturale” o “evidenza intuitiva”, e in quanto tale contrapposta all’artificiosità della costruzione linguistico-intellettuale; e valevole quindi come fonte d’esperienza tanto reale quanto quest’ultima
    […]
    Si tratterà di sottolineare piuttosto, e nel modo più risoluto, come interrogarsi intorno alla questione del “linguaggio”, non significhi affatto porsi un problema metodologico e dunque preliminare rispetto alla vera e propria ricerca metafisica od ontologica che dir si voglia – quasi ci si dovesse interrogare dapprima sulle condizioni di dicibilità, e solo in un secondo tempo (e quasi indipendentemente dagli esiti di questa indagine preliminare) porsi il problema della “verità” o del “fondamento”… magari dimentichi del fatto che i risultati della prima parte della nostra ricerca dovrebbero valere anche per quel linguaggio che, solamente, consente di esprimersi in termini di fondamento, verità ontologia, identità e differenza.

    Insomma, decidere del significato e della realtà del linguaggio è già un decidersi intorno all’essere di ciò che è, e, per quanto detto sino a questo punto, intorno al rapporto linguaggio mondo – e ciò è vero per il semplice fatto, appena ricordato, che la verità può essere detta solo nella misura in cui e nei limiti in cui il linguaggio “dica” davvero qualcosa (la verità non può essere tale se non anche in relazione a quella determinazione che chiamiamo “linguaggio” – il linguaggio, infatti, se è, è, come un tutto, secondo verità).

    Ecco, da dove la necessità di un’analisi del linguaggio in grado di concepire il linguaggio medesimo come problema eminentemente filosofico – e l’importanza dei risultati sin qui conseguiti.

    Una cosa è certa, comunque: stante che “il carattere di segno esiste qui solo connesso con qualcosa d’altro, che valendo come segno è anche qualcosa di per sé e ha quindi un suo autonomo significato, diverso da quello che ha come segno”8, allora il linguaggio (che, per quanto detto sino ad ora, coincide con ogni determinatezza, in quanto originariamente costituentesi come “significato”) non si configura come semplice struttura di “segni” (né di simboli o immagini che dir si voglia – la struttura del rimando è infatti sempre la medesima, di là dalla precisione o dalla sua più o meno consolidata univocità).
    Nessuna “relazione”, infatti, riuscirebbe a giustificarne la supposta potenza indicatoria.

    D’altro canto, l’aporia non può certo venire indicata o in qualche modo significata; per quanto non si celi né si ritragga in qualche misteriosa ascosità. Ma da sempre si articoli piuttosto nel di-segno proposizionale in cui, solamente, il non-esistere di quel che esiste può annunciarsi e palesarsi per quello che esso veramente ‘non-è’.»*

    * M. Donà, L’aporia del fondamento, Milano, Mimesis, 2008 pp.529 e segg.
    1,2,3,4,5,6,7, cit da H.G. Gadamer, Wahreit und Methode, Tubingen, 1965 pp. 444, 446, 441, 425, 419, 429, 425

  9. annaventura36@hotmail.com

    “Mia madre che raccoglie la cicoria”;mi piace , questo tuo verso, Giorgio; contiene un mondo.Non fartelo sfuggire.

    • annaventura£&çhotmail.com

      “Mia madre che raccoglie la cicoria”;mi piace, questo tuo verso, Giorgio;contiene un mondo.Non fartelo sfuggire.

  10. In armonia con uno dei temi centrali della poesia internazionale del nostro tempo, la poetica degli oggetti, più volte proposto dall’amico Linguaglossa su svariate pagine de L’Ombra delle Parole, condivido 2 poesie di Adam Zagajewski, tratte appunto dal suo libro

    “Dalla vita degli oggetti”:

    Adam Zagajewski

    Prova a cantare il mondo mutilato

    Prova a cantare il mondo mutilato.
    Ricorda le lunghe giornate di giugno
    e le fragole, le gocce di vino rosé.
    Le ortiche che metodiche ricoprivano
    le case abbandonate da chi ne fu cacciato.
    Devi cantare il mondo mutilato.
    Hai guardato navi e barche eleganti;
    attesi da un lungo viaggio,
    o soltanto da un nulla salmastro.
    Hai visto i profughi andare verso il nulla,
    hai sentito i carnefici cantare allegramente.
    Dovresti celebrare il mondo mutilato.
    Ricorda quegli attimi, quando eravate insieme
    in una stanza bianca e la tenda si mosse.
    Torna col pensiero al concerto, quando la musica esplose.
    D’autunno raccoglievi ghiande nel parco
    e le foglie volteggiavano sulle cicatrici della terra.
    Canta il mondo mutilato
    e la piccola penna grigia persa dal tordo,
    e la luce delicata che erra, svanisce
    e ritorna.

    A mezzanotte

    Parlammo a lungo nella notte, in cucina;
    alla morbida luce della lampada a petrolio
    gli oggetti, incoraggiati dalla sua delicatezza,
    spuntavano dal buio, svelando i propri
    nomi: sedia, tavolo, saliera.
    A mezzanotte dicesti: andiamo
    fuori. D’un tratto vedemmo il cielo
    ed esplosero le stelle, stelle d’agosto.
    Il pallido fuoco della notte tremava
    sopra di noi, indomito, eterno.
    Il mondo ardeva, senza voce, avvolto
    dal bianco incendio in cui dormivano i villaggi,
    le chiese e le biche di fieno profumate di menta
    e di trifoglio. Ardevano gli alberi e le torri,
    l’acqua e l’aria, il vento le fiamme.
    Cosa è il silenzio di questa notte se i vulcani
    hanno gli occhi spalancati e il passato
    è presente, minaccioso, e spunta dalla tana
    come la luna o l’arbusto di ginepro?
    Sono fresche le tue labbra e sarà fresca l’aurora,
    telo gettato su una fronte che scotta.

    da Adam Zagajewski , Dalla vita degli oggetti
    Poesie 1983-2005”, Adelphi, 2012
    (Tradotte da Krystyna Jawors)

    (gino rago)

    • “Ricorda quegli attimi, quando eravate insieme
      in una stanza bianca e la tenda si mosse.”

      Avviene tutto a nostra insaputa e quando cogliamo l’attimo,
      l’oggetto che ci sfiora, cantiamo per non perderlo. Cantiamo continuamente
      quello che non abbiamo più.
      Il ricordo stesso cantiamo. Ora in più cantiamo preventivamente. Sono troppo gli oggetti perduti e le immagini ci perseguitano.
      Interpreto il senso dell’interferenza. Uno sforzo inutile di parole
      per ricostruire un solo oggetto sfuggito. La nostra dannazione in un mondo di merci esattamente ricostruite. Che pensiero inutile la poesia.

      Una poesia di Francesco Leonetti.

      Quando io morirò mancherà il vento come il respiro
      alle mie labbra, e non avrà la terra ombra d’uccelli.
      Mi porteranno per i canneti lungo il fiume, come un grido
      tutta la vita passata sarà l’ansia di cadere
      senza memoria e attendere alle labbra il margine del mare.

      Abbraccio Gino Rago, Grazie OMBRA.

  11. I poeti come Mauro Pierno sanno che ( come Zagajewski tradotto in italiano da Krystina Jawors) tutti noi …Abitiamo nella nostalgia e che nei sogni si aprono chiavistelli e serrature. E chi non trova rifugio in ciò che appare vasto,
    cerchi il suo rifugio nel piccolo…

  12. Carlo Del Nero
    08:38 (1 ora fa)
    a me

    Trovo grandiosa questa immagine, che ha anche in sé un indiscutibile affascinante movimento :

    Uomini entrano dentro gli specchi,
    e ne escono bambini.

    Mi sembra però che questa immagine così compiuta, divida la poesia in due parti, se capisco qualcosa di quello che con competenza scrivete, la prima parte molto più NOE, la seconda più “tradizionale” con quei giochi involontariamente ready-made dell’infanzia.
    Sbaglio?
    te lo chiedo davvero, perché io vi leggo con interesse, ma come vi legge uno di un altro pianeta che cerca di capire la lingua degli indigeni (indigeni della NOE).
    Grazie
    *
    Giorgio Linguaglossa
    09:54 (0 minuti fa)
    a Carlo

    caro Carlo,
    penso che tu abbia ragione, quei due versi dividono la poesia in due parti. Figurati, non ci avevo pensato. Sai, il fatto è che la procedura di scrittura della NOE non deve essere applicata in modo meccanico e automatico altrimenti diventa un giochetto facile facile, bisogna che si faccia sempre un passo indietro e lasciare che la poesia si faccia da sola. È un paradosso, lo so, ma è così, la figura autoriale è intimamente auto contraddittoria e paradossale, deve fare un passo indietro per farne due in avanti.
    Cmq gli indigeni della NOE siamo noi, siamo sempre noi che facciamo, o tentiamo di fare, la nuova poesia, con tutti i pericoli e gli inconvenienti che ne conseguono.

    Un abbraccio, Giorgio

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