Archivi tag: Progetto Cultura

Giuseppe Gallo, Quattro mollette blu made in Cina, Progetto Cultura, Roma, 2022, pp. 70,€ 12, con una Nota dell’autore, Lettura di Marie Laure Colasson

Il linguaggio è “il vetro che riflette chi passa davanti e chi passa dietro”, che registra lo spettatore, il suo tempo e il suo sguardo,
proprio come gli specchi di Pistoletto che interagiscono con le ombre che osservano se stesse mentre vagano davanti ai propri
riflessi. Il linguaggio è “spectaculum” (g.g.)

Cover Giuseppe Gallo Quattro mollette blu

Giuseppe Gallo, è nato a San Pietro a Maida (Cz) il 28 luglio 1950 e vive a Roma. È stato docente di Storia e Filosofia nei licei romani. Negli anni ottanta, collabora con il gruppo di ricerca poetica “Fòsfenesi”, di Roma. Delle varie Egofonie,  elaborate dal gruppo, da segnalare Metropolis, dialogo tra la parola e le altre espressioni artistiche, rappresentata al Teatro “L’orologio” di Roma. Sue poesie sono presenti in varie pubblicazioni, tra cui Alla luce di una candela, in riva all’oceano,  a cura di Letizia Leone (2018.); Di fossato in fossato, Roma (1983); Trasiti ca vi cuntu, P.S. Edizioni, Roma, 2016, con la giornalista Rai, Marinaro Manduca Giuseppina, storia e antropologia del paese d’origine. Ha pubblicato Arringheide, Na vota quandu tutti sti paisi…, poema di 32 canti in dialetto calabrese (2018), ha pubblicato il romanzo Vi lowo tutti, (Progetto cultura, Roma, 2021). È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022. È redattore della rivista di poesia e contemporaneistica “Il Mangiaparole”. È pittore ed ha esposto in varie gallerie italiane.

.

Victor si alzò dal divano e spense il televisore.
Le parole gli piovevano addosso come una grandine di virus.
Guardò intorno. Mary in cucina,
Jerry a percuotere le pelli dei bisonti.
afferrò la prima parola che gli venne a tiro
e la spiaccicò sul piano della scrivania.
La seconda la schiacciò sul dorso dei libri allineati sullo scaffale.
— Che c’è? Gli chiese Mary dalla cucina.
— Faccio un po’ di pulizia! Le rispose Vic.
La terza la affogò nel water insieme alla carta igienica.
La quarta e la quinta le scaraventò dalla finestra sul marciapiede.
Jerry avvertì gli insoliti rumori.
— Che c’è, papi?
— Niente, Jerry. Mi preparo al…
— a cosa, papi? a che ti prepari?
— al… al…
E fu silenzio.

Giuseppe Gallo ha scritto questo libro di ex-post-liriche in questi ultimi due anni, immagino, e si vede, si può notare chiarissimamente che sotto il testo c’è un altro testo, barrato, un testo denegato e rinnegato: quello della antica poesia post-lirica del novecento, quella cosa che si chiama oggi poesia narrativa o narrativeggiata, una sorta di rospo o ircocervo che va bene un po’ per tutti i palati ma che è roba da gettare nella pattumiera. Ecco, Giuseppe Gallo proviene da un libro scritto in dialetto calabro, Arringheide (2018), di seicento pagine con annesso un vocabolarietto con la traduzione in italiano dei lemmi meno accessibili al lettore. Gallo, nato a San Pietro a Maida in Calabria nel 1950, ha attraversato il secondo novecento dallo speculum del suo dialetto, aspro ed irto che inizia così: «Na vota quando tutti sti fjumari… (Una volta quando tutte queste fiumare…)» al modo antico delle favole dove si narra una storia lontana in un tempo lontano con un idioma lontano. Questo particolarissimo angolo visuale ha consentito all’autore di avere tra le mani un parallasse, uno strumento, cioè un binocolo dal quale osservare il mondo di oggi così diverso da quello narrato appena quattro anni fa nell’opera in idioma. Soltanto per mezzo di un potentissimo straniamento si può accedere dalla poesia in dialetto alla poesia in Lingua maggiore, quell’italiano che è stato imposto agli italiani dai piemontesi ma che è stato recepito solo dagli anni sessanta del novecento quando è intervenuta la televisione che ha televisizzato le plebi meridionali come quelle settentrionali, una benemerenza non da poco per uno strumento dotato di video parlante che oggi ci appare arcaico e vetusto. Così sono nati gli italiani, quella cosa abnorme che spaventava e inorridiva Pasolini dove cantavano gli usignuoli della Chiesa cattolica, dove i letterati si accapigliavano in post-avanguardie vecchie e nuove, tutte imbelli, tutte gratuite e tutte illeggibili.

Le ginestre che divennero finestre

Si mise il pennello nell’occhio destro.
Mary lo colse sul fatto.
— Perché vuoi accecarti, Jerry mio?
Jerry rimase perplesso.
La intravedeva ancora con l’occhio sinistro.
allora prese un altro pennello e lo ficcò dentro l’occhio sinistro.
— Perché ti sei accecato, Jerry mio?
— Per vedere l’altra faccia del mondo! Le rispose Jerry
continuando a dipingere un cespuglio di finestre.

La stessa morte

Jerry era nato con la camicia.
Victor lo avvertì in sogno: — Prima o poi ti schiaccerà!
— E perché?— gli rispose Jerry. — Non pesa nemmeno!
Infatti non pesava.
E se la portò in giro, fresca d’estate e calda d’inverno.
Mary se ne accorse.
— Jerry, è un anno che indossi la stessa camicia.
Non vedi che s’è fatta nera come la morte?
Toglila che la metto in lavatrice.
E Jerry, che ubbidiva ancora,
si tolse la camicia e la poggiò nelle sue mani.
Quando la indossò di nuovo, odorosa di bucato,
Jerry si sentì soffocare.
Si piegò in due e le spalle gli schiacciarono le costole e il petto.
Il cuore gli scoppiò.
— Hai visto?— gli domandò Victor in un altro sogno.
— Che ti dicevo?
— Ma come facevi a saperlo? Lo interrogò Jerry.
— Perché quella era la mia camicia! Gli rispose Victor.

Scrive Francesco Gallo nella prefazione:

«La raccolta è uno squarcio su un album fotografico di famiglia, o meglio, una story-board: Victor è il marito di Mary, genitori di Jerry e Terry; a loro si affiancano altri pochi soggetti: lo Zio nick, la cugina Flory».

La onomastica inglese non penso stia qui ad indicare gli effetti della globalizzazione quanto una spersonalizzazione de-soggettivazione dei protagonisti che, da attori, si sono trasformati in attanti e da attanti in avatar, in Figure che abitano una zona neutra, una «zona gaming» come piace dire all’autore; e qui sta il nuovo di questo libro, che non si tratta più delle esperienze private di personaggi (veri o inventati), questo schema concettuale poteva andare bene per la poesia modernista del novecento ma non più oggi, e un poeta consapevole come Giuseppe Gallo penso utilizzi questa nominologia in quanto tale, in quanto nominologia, come dei prefissi telefonici che hanno al seguito un numero, che se fai quel numero ti risponde poi una segreteria telefonica e se parli dopo il segnale acustico, risponde un nastro registrato che ti invita a parlare ad un altro nastro magnetico che reca impressa una voce. Siamo diventati tutti delle voci che parlano ad impulso in dei nastri magnetici, siamo un po’ tutti dei nastri magnetici che ripetiamo a memoria delle parole imparate a memoria, e questa nominologia che parla mediante delle fraseologie è appunto una realtà virtuale!, in realtà nessuno di quei personaggi esiste, e noi stessi non esistiamo. E questo è kitchen, squisitamente kitchen. Senza volerlo o esserne cosciente Giuseppe Gallo, assiduo frequentatore della poesia kitchen, ha tratto dalla poesia kitchen la spinta propulsiva per allontanarsi dallo story telling della poesia di accademia, come dire: «ho avuto dei pessimi maestri ma è stata una buona scuola», tanto è vero che il linguaggio e lo stile dell’opera ne sono stati beneficiati disboscando i lessemi pleonastici e le parole intonse, lasciando soltanto le parole immediatamente utili al testo.Del resto, il titolo è squisitamente kitchen: Quattro mollette blu made in Cina.
Ma è che un linguaggio, uno stile non cambiano dall’oggi al domani, ogni cambiamento, anche quello più improvviso e sismico come la poetry kitchen va assimilato, processato, occorre del tempo di digestione, e questo tempo è stato messo bene ad usufrutto (stavo per dire usufritto) dall’autore. Un linguaggio non si cambia come cambiamo una camicia con una nuova fresca di bucato, occorre del tempo, se non altro per mettere la camicia sporca in lavatrice, avviare il congegno con un click, e stirarla ben profumata con del deodorante. Adesso la camicia è pronta per essere indossata.

Sulla stessa sedia

C’è del rosso e del blu
sulle pareti della sua camera.
Vic vi entra dopo un giorno di assenza.
Nemmeno la distanza rassicura la sua esitazione.
Si apparta nei suoi scarti,
nelle foto dei compleanni,
nei ghirigori sui fogli pastosi delle carte,
nelle pagine dei libri inframezzate
dagli attimi di inchiostro.
Si acquieta sulla sua sedia
come un vecchio ospite
in attesa d’una cortesia.
— Papi, che ci fai tu qui?
Non sa risponderle a parole.
Rigira tra le dita
le penne che ha infilato spesso nei capelli.
— Per conoscerti meglio!
Vorrebbe sorprenderla,
ma alla sua età non c’è più meraviglia.
Così continua a tacere
come se dovesse ancora chiederle
il permesso di respirare nel suo spazio.
Sui libri un velo di polvere,
sul letto lo scompiglio del disordine.
Nemmeno sua madre addomestica le sue scontentezze, e lui?
Le calze fra una scarpa e l’altra,
le mutandine sulla maniglia di ottone
i reggiseni sul cuscino,
i colliri e le creme sul bordo di marmo…
C’è anche del nero e del viola sulla parete di fondo
che fronteggia l’armadio.
I manifesti di Kurt Cobain.
Qualcuno è ripiegato su se stesso.
Com’è che sei capitata qui?
Perché adesso non ci sei?
a ripensarci, Vic dice di non averla mai raggiunta.
oppure d’essere arrivato in ritardo
come nei film americani
in cui i padri dimenticano di riprendere i figli da scuola.
Vic ruota fra le dita il cappellino bianco di paglia
che le comprò a Parigi per l’estate…
l’emozione dell’acqua ai suoi piedi,
il sentimento dell’ombra…
Che pacchia! Quando avevano la stessa età.
Tutti e quattro. Senza bisogno del perdono.
Meglio finirla qui.
Si rialza dal suo calore e allenta la cravatta.
— Papi, perché sei venuto a cercarmi?
Mi hai trovato o sono sempre assente?
Qualsiasi risposta risulterebbe goffa e fuori luogo.
— Sappi, però, che ho tappato la finestra,
che ho messo qualche like sulle tue foto,
accucciato sulla stessa sedia
e che ho gridato anch’io: Mamy! Mamy!
C’era da aspettarselo.
Che pacchia! Quando avevano la stessa età.
Tutti e quattro.
Capitolando sulla stessa sabbia. Continua a leggere

17 commenti

Archiviato in poesia italiana contemporanea

Predrag Bjelošević, Poesie da ‘Insieme con i muri’ Poesie scelte 1977-2020, Progetto Cultura, Roma, 2021, Prefazione di Giorgio Linguaglossa Ržismo è il riconoscimento del senso nella cieca oggettivazione del non senso, Traduzione di Danilo Capasso, Bjelošević ha una spiccata consapevolezza della desertificazione significazionista che ha attinto il linguaggio poetico del Dopo il Moderno e della necessità di un profondo rinnovamento della forma-poesia, sa che il linguaggio poetico è situato in un non-luogo, uno Zwischen, un frammezzo, distante dai linguaggi della comunicazione


Predrag Bjelošević

Pace ai fiori

Pace ai fiori dentro di voi e con voi
Pace ai fiori da ambedue i lati del fiume
Pace ai fiori della flora subacquea
Pace ai fiori del cielo che si celano
Dietro la nebbia delle nuvole infantili
Pace al tempo con il tempo dei giorni passati
Inanellati nel malinconico rosario dell’umanità
Pace all’universo minacciato dai sogni dei fiori
Pace in mezzo alla tosa stellare della notte nel nostro occhio
Pace allo sguardo accecato dell’essenza floreale
Pace ai vanitosi petali della folla pregni
Di profumo del bisogno di un cambiamento generale
Pace ai fiori da ambedue i lati del fiume della vita
che ancora scintilla
sulle rapide del tempo rimasto

IMPLORO UNA PAUSA, OH SIGNORE

Questo spettacolo dura troppo
Bisogna fare una pausa

Bisognerebbe fare una pausa
Per far riposare e cambiare vestiti agli attori

Bisogna fare una pausa
Così noi nel pubblico ci riposiamo e guardiamo

Almeno con un occhio
Almeno per prendere un po’ di aria

Tutto questo buio non è per niente educativo
Signore –

Tutto questo buio acceca
Non si può guardare senza una pausa

Non si capisce più
Chi ha un ruolo positivo e chi quello negativo

Chi sono i dilettanti e chi i professionisti
In questo spettacolo macabro

Il regista è un allievo superficiale di Mondrian
Ha colto l’intensità della monotonia

Persino quel puntino luminoso vagante
Nel buio assoluto del palcoscenico

Sembra buio

Questo spettacolo dura troppo
Bisogna fare una pausa

Il buio passa al pubblico
Scricchiolano le sedie il lampadario di cristallo stride

Sento che il buio di un applauso forzato
Presto smuoverà i capelli sulla testa

E le parole trasformeranno
Il discorso in un urlo atavico

IL SIGNORE DELLA LUCE

Il signore della luce
Buio
Sta fissando se stesso
Ma la faccia del buio
Non la vede

La faccia del Buio
Si nasconde nell’occhio del Buio
Intorno al Buio e nell’anima del Buio

Quando parla l’Anima
Del Buio
Si fa Giorno

Quando l’Anima del Buio
Sogna
La sua ombra fa la guardia
Su di noi

Notte

E tremola
illuminata dalle stelle

Allora il Signore della Luce
Buio
Nota le rughe stellari
Sulla sua fronte

Però le persone

Le persone
Come neanche il proprio viso
Non le ha ancora viste 

SULLE TRACCE DI RŽ

Quando mi sono avviato
Le impronte erano ancora visibili
Ma le impronte dei miei confratelli
Che si sono affrettati in avanti
Non guardando più dietro di sé

Le ho seguite come un segugio
Fiutando sulla terra disseccata
Un piede con le dita storte
Che dovrebbe proprio somigliare
A un piede della mia tribù

Ma ahimè

Le impronte simili alle mie sono state cancellate
Sotto la calca di inebriati dal Sole

E allora sconfitto ho iniziato a tornare indietro
Vestito solo di paura

Usando come indicazione
La penombra della luce

E a sinistra e a destra c’erano
Solo unghie fesse e zoccoli
Solo rinsecchite ali d’uccelli
E un buio sempre più fitto
Più mi allontanavo dagli altri

E improvvisamente ho guardato il buio
E ho visto il sole dormire
Nelle chiome di un salice piangente
E ho fatto un piffero con le radici del salice
E ho iniziato a suonare la mia tristezza

Per i fratelli che molto prima di me
Sono passati accanto al proprio sole
Non riconoscendolo nel sogno

Predrag Bjelosevic con fantoccio

RŽ IL SOGNATORE

Rž il sognatore
Non sa di sognare
I vostri sogni

Lui non c’entra
Con le visioni comuni
Di un domani migliore

Persino il passato
vede
stellato à la rž

Lui
Non è pronto
A sacrificarsi
PER
Lui
Non è così responsabile

Da essere sedotto
Anche nell’interesse
Della propria felicità

Perché lui è Rž
E non si cura di quelli che lo seguono
Né di quelli che gli hanno voltato le spalle
Bensì è conscio che ogni momento può
Farsi sentire anche in voi
Quando avete quasi perso ogni speranza

Nelle sembianze del bellissimo Rž sognatore
Che non sa di sognare
I sogni altrui

ESSERE, SEDOTTI

Forse la soluzione è un uccello
Volare volare intorno

Dappertutto

Volare volare per il Cielo
Sopra la Terra

Volare volare e cantare
Facendo dispetto al silenzio della propria ombra

Volare

Non guardando la Terra
Non alzando lo sguardo verso il Sole

Levitare

Nell’aria
Con le nuvole

Essere Nessuno o Qualcuno
Che non riguarda nessuno

Sparire o diventare irraggiungibile
Per tutti quelli Fuori
Sparire dentro Se Stessi
Dentro una Poesia
Dentro un Sogno

Sedotti
Da Quel Qualcosa in Mezzo

/T/ CHE ASSOMIGLIA A NOI STESSI

Il vostro uccello assomiglia a una /T/

ma /T/ non vola
esso corre
esso cade
come un peso di piombo dal cielo

quando perdete la fede in /S/é e nel /S/ole
lui si schianta con un grande /T/onfo sul /T/erreno
/T/ è il segnale delle /T/enebre e della /T/irannia
/T/ è il figlio delle forze terrestri
esso dimora anche nel nostro subconscio
e ci osserva come un gufo mentre dormiamo
esso spegne la candela quando con passione leggiamo la poesia
esso si fa sentire con il Tac-tac dell’interruttore
/T/ puzza di cadavere e di carogna
canzone corale delle mosche prima del buio

/T/ forse assomiglia anche a te /Uccello/
ma le vostre strade sono diametralmente differenti
mentre /T/ con il proprio fardello
piega la spina dorsale della terra
/U/ con la propria leggerezza alata
fa di tutto
per avvicinare la poesia della terra al sole
per sopraffare il fuoco con l’acqua

Rž è stato un uomo
Senza peli sulla lingua
Rž è stato un uomo coraggioso
Senza peli sulla lingua
Rž non aveva neanche la lingua
Lui aveva uno scivolo
Sul quale semplicemente volavano
Parole trasformate in oggetti
Nel mare aperto
O nelle fauci di un coccodrillo
Ugualmente
Il mare avrebbe ondeggiato
RžžžžRžžžžRžžžž
I coccodrilli si sarebbero infuriati
Rž rž Rž rž
Mentre lui stesso

Sarebbe rimasto ancora sulla riva
Come un faro
Con i segnali riempiti di piombo
Avrebbe esortato gli uccelli a un volo ragionevole
E Rž la poesia
Liberata
Dalla voce comune
E dall’emozione effimera

RŽISMO

Ržismo è il riconoscimento del senso
Nella cieca oggettivazione del non senso
Che conquista Tutto

Ržismo è
Sulle tracce dell’anima del non senso

Lui va inavvertitamente con il depilatore fluido
Della propria idea lungo i suoi peli neri
E li depila

Affinché il non senso diventi sopportabile
– Fratelli Ržisti

CIECO

Io non sono cieco
Vedo
Il buio
Nello specchio Continua a leggere

20 commenti

Archiviato in Poesia serba contemporanea

Edith Dzieduszycka, 4 poesie da Ingranaggi, Progetto Cultura, Roma, 2021, pp. 100 € 12, Piccola Antologia di poesie, Lettura di Giorgio Linguaglossa, Video poesia di Diego De Nadai

Si hanno «ingranaggi» quando tra due corpi vi sono dei punti di contatto. Sono i contatti che muovono gli «ingranaggi», quelli fisici e quelli psicologici, propriamente umani; ma negli esseri umani la questione è terribilmente più complessa perché i contatti sono per lo più inconsci, è l’inconscio che decide del quoziente di contatti che avvengono, e quindi di ingranaggi che noi mettiamo in essere. Ecco la problematica squisitamente esistenziale che Edith Dzieduszycka sviscera in questo libro. Poesia esistenziale questa della poetessa francese di adozione romana che non smette di interrogarsi e di interrogare la questione della condizione umana. A che punto è la quaestio degli «ingranaggi» oggi?, si chiede la poetessa. Accade che un eccesso o un difetto del numero di contatti può degenerare in uno stop degli «ingranaggi». La macchina umana viene vista come un complicatissimo meccanismo di ingranaggi archimedici e cibernetici fatti con buonissimi propositi ma che alla fine cagionano una implosione, un arresto, uno stop.
Giorgio Agamben pone la questione dei «contatti» in questi termini: «Giorgio Colli ha dato un’acuta definizione affermando che due punti sono a contatto quando sono separati soltanto da un vuoto di rappresentazione. Il contatto non è un punto di contatto, che in sé non può esistere, perché ogni quantità continua può essere divisa. Due enti si dicono a contatto, quando fra essi non si può inserire alcun medio, quando essi sono cioè immediati. Se fra due cose si situa una relazione di rappresentazione (ad esempio: soggetto-oggetto; marito-moglie; padrone-servo; distanza-vicinanza), essi non si diranno a contatto: ma se ogni rappresentazione viene meno, se fra di essi non vi è nulla, allora e solo allora potranno dirsi a contatto. Ciò si può anche esprimere dicendo che il contatto è irrappresentabile, che della relazione che è qui in questione non è possibile farsi una rappresentazione».1
Così, nella poesia”I pescatori” i personaggi scoprono che sono presi in un gorgo, in un medesimo «ingranaggio» che non lascia scampo, almeno fino a quando non si avrà il coraggio di dire: «Non vogliamo», come recita l’ultimo verso della poesia. E così termina la poesia, con l’ultimo verso posto come un semaforo rosso. Il colore del diniego e del rifiuto può essere la chiave di volta che apre i mondi dell’esistenza, dire «No» è molto più importante del dire «Sì», rende inoperoso il «Sì», lo debilita, lo disarma, e ci rende più umani. Il libro dunque ci racconta la storia dell’attraversamento del territorio del «No», un «Non vogliamo» in grado di spezzare gli «ingranaggi» con cui la socialità con le sue leggi implacabili ha irretito le esistenze degli uomini del nostro tempo.

(Giorgio Linguaglossa)

1 https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-filosofia-del-contatto

Quattro poesie da Ingranaggi (2021)

Signor Raggiro

Caro signor Raggiro
tra rosa fra le dita e fetido concime
tra brandelli e stracci

ma con il cuor in mano
la schiena curva dall’artrite sotto l’abito nuovo

a Lei senza timore
perfino con speranza e un grande rispetto
quest’oggi mi rivolgo

convinto di trovare
in Lei
un orecchio attento

mi dica signor Raggiro
quanti siamo scongelati
con tacchi a spille o luride ciabatte

quanti siamo a chiedere – e a chi poi? –
verso quale meccanico di quale Quartiere Generale
possiamo elevare questa preghiera ingenua?

dove quando andremo nel paese del Dopo?
Credo siamo in tanti
a provare sgomento a tale proposito

caro signor Raggiro
per favore mi dica
ha notato per caso questa cosa

un’altra che trovo io ben strana?
me la spieghi La prego
se mai ci ha pensato

si tratta di una domanda
che nessuno mai si pone
salvo pochi ingenui

sul Dopo sì va bene
facciamo ipotesi del tutto strampalate
e ci preoccupiamo

per noi cibo da vermi
inquinati frammenti
rimane però oscuro un punto da chiarire

chi ci racconterà e c’illuminerà
su quel che facevamo
alla bassa marea nel paese del Prima?

 

I pescatori

Sulla riva del fiume un bel giorno d’estate
a distanza normale – che vuol dire normale? –
s’erano sistemati su scomodi sgabelli

due pescatori

a terra il materiale
scatola per le esche mosche vermicellini
ami e mulinelli

canne grande cestino
In tuta verde loro
con capelli a visiera

mollemente distese su pieghevoli sdraie
le mogli in disparte si annoiavano
leggendo poesie forse facendo finta

più passava il tempo
meno mordeva
la preda

malgrado gli ampi gesti
da mulino a vento
per buttare l’arpione

si alzò irritato uno dei pescatori
s’avvicinò all’altro
con fronte corrucciata

mi dica – se lo sa –
da un bel po’ di tempo
mi tormenta un pensiero

forse sono venuti
il momento e il luogo
per chiederci

da dove ci arriva la Coscienza del Sé
con Libero Arbitrio
sedicente a rimorchio?

chi ci ha caricati
sulle spalle quel peso?
mi dica – se lo sa –

di quale utilità per noi
è il capire
che ora qui ci siamo

tra che cosa
e chi sa
qual altra cosa ancora?

ben presto dall’arpione
verremo acciuffati
e non ci sarà modo di dire

non vogliamo.

La crepa

In un angolo perso o distratto o nascosto
– ancora non lo so –
del mio giardino rosa
mi sono rifugiata una sera di spleen

Sarà perché mi piace la parola
-giardino –

mi suona dentro furtivo campanello
parola dondolante incerta
a metà strada fra terra acqua e cielo
festa fragrante

in fondo al mio giardino diventato selvaggio
tra invasivi rovi erbe cattive sassi
si cela una crepa
un passaggio segreto

nella materna terra ove striscianti
cadono man a mano le cose
che non so più chiamare

il mio giardino rosa blu verde o grigio
– come oggi m’appare –
a volte bianco neve che in pianto si scioglie
sulla traccia del giorno si lascia andare stanco

ha sete
il mio giardino

e si sta consumando nell’autunno che vira
e volta sulla ruota
che mi sento girare
in fondo alla pancia sulla panca di muschio

il mio giardino a volte
raramente fiorisce
è poco – voi direte –
ma non è vero niente

fiori preziosi e rari dalla melma bocciati
in me sento fiorire
semi d’ombra e fragranza. Continua a leggere

22 commenti

Archiviato in Antologia Poesia italiana

Intervista di Donatella Giancaspero a Giorgio Linguaglossa sulla sua monografia critica:  La poesia di Alfredo de Palchi. Quando la biografia diventa mito (Edizioni Progetto Cultura, Roma, pp. 144 € 12) con una selezione di poesie da Sessioni con l’analista (1967)

Alfredo de Palchi

Domanda: Chi è il poeta Alfredo de Palchi?

Risposta: Alfredo de Palchi è nato a Legnago (Verona) il 13 dicembre, 1926, e vive negli Stati Uniti a New York dove si è dedicato con infaticabile acribia alla diffusione della poesia italiana tramite la rivista di letteratura “Chelsea” e la casa editrice Chelsea Editions. Ora che abbiamo tra le mani il volume delle opere complete del poeta italiano residente negli U.S.A., a cura dell’infaticabile Roberto Bertoldo, possiamo riflettere sulla poesia depalchiana con mente sgombra e animo libero da pregiudizi. Il poeta di Paradigma (Mimesis, 2006), è senz’altro il più asintomatico del secondo Novecento. Il titolo del volume appare azzeccato per quell’alludere a un «nuovo» e «diverso» paradigma stilistico della poesia di de Palchi. Sta qui la radice della sua individualità stilistica nella poesia italiana del tardo Novecento e di questi anni. Il suo primo libro, Sessioni con l’analista, esce in Italia nel 1967, con Mondadori, grazie all’interessamento di Glauco Cambon e Vittorio Sereni; poi più niente, l’opera di de Palchi scompare dalle edizioni ufficiali italiane. Il silenzio che accompagnerà in patria l’opera di de Palchi è ancora tutto da spiegare, un destino davvero singolare ma non difficile da decifrare. Innanzitutto, la poesia di Alfredo de Palchi fin dall’opera di esordio, La buia danza di scorpione, (il manoscritto è databile dalla primavera del 1947 alla primavera del 1951 scritta nei penitenziari di Procida e Civitavecchia, anzi, scalfita sull’intonaco dei muri delle celle durante la detenzione del poeta), rivela una sostanziale estraneità stilistica e tematica rispetto alla poesia italiana del suo tempo. Estranea alle correnti letterarie allora vigenti, estranea al post-ermetismo e alla poesia neorealistica degli anni che seguiranno la seconda guerra mondiale, de Palchi non aveva alcuna possibilità di travalicare l’angusto orizzonte di attesa della intelligenza letteraria italiana, per di più il giovane poeta era visto con estremo sospetto per via della sua scelta di affiliazione, ancorché giovanissimo, tra le file della Repubblica di Salò.

Laboratorio 5 zagaroli

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Domanda: Perché una monografia critica sulla poesia di Alfredo de Palchi?

Risposta: Perché Alfredo de Palchi è un poeta asintomatico e che non è possibile irreggimentare in una corrente o una scuola o una linea correntizia della poesia italiana del Novecento. E poi direi che il maledettismo di de Palchi non è nulla di letterario, non è costruito sui libri ma è stato edificato dalla vita, come la poesia del grande Villon la cui poesia costituirà per de Palchi un modello e un costante punto di riferimento. Da una parte, dunque, la poesia depalchiana fu colpita dall’etichetta di collaborazionista e reazionaria, dall’altra non è stata mai compresa in patria dove le questioni di poetica venivano tradotte immediatamente in termini di schieramento politico-letterario. Con l’avvento dello sperimentalismo officinesco e della coeva neoavanguardia, la poesia di de Palchi venne messa in sordina come «minore» e «laterale» e quindi posta in una zona sostanzialmente extraletteraria. Esorcizzata e rimossa. Il destino poetico della poesia depalchiana era stato già deciso e segnato. Finita in fuorigioco, chiusa dagli schieramenti letterari egemoni, la poesia depalchiana uscirà definitivamente dalla attenzione delle istituzioni poetiche italiane e sopravvivrà in una sorta di ghetto, vista con sospetto e rimossa nonostante l’apprezzamento di personalità come Giuliano Manacorda e Marco Forti. In ultima analisi, quello che risultava, e risulta ancor oggi, incomprensibile e indigesta alle istituzioni poetiche nazionali, era una fattura stilistica e poetica troppo dissimile da quella letterariamente riconoscibile della tradizione secondo novecentesca. Quella particolare «identità», quella convergenza parallela di vicenda personale biografica e vicenda stilistica, era lo stigma di estraneità alla tradizione italiana. Probabilmente, la poesia di de Palchi sarebbe stata più riconoscibile se letta in una ottica «europea», come espressione adiacente alla poesia di altre esperienze linguistiche e tradizioni letterarie. Diciamo, con una formula eufemistica, che quel manufatto era allora «oggettivamente» indisponente e indigeribile da parte della società letteraria del tempo. Con questo non voglio affermare che la poesia di de Palchi sia «migliore» di quella di Laborintus o de Le ceneri di Gramsci, tanto per intenderci.

Laboratorio gezim e altri

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Domanda: Pensi che oggi i tempi siano maturi per una rilettura priva di pregiudizi ideologici della poesia di de Palchi?

Risposta: Oggi, ritengo che i tempi siano maturi per una rilettura dell’opera di de Palchi libera da pregiudizi e da apriorismi ideologici. Ad una lettura «attuale» non può non saltare agli occhi appunto la profonda originalità del percorso poetico depalchiano, un percorso che proviene dalla «periferia del mondo», per citare una dizione di Brodskij, da una entità geografica e spirituale distante mille miglia dalla madrepatria, e questo è da considerare un elemento discriminante della sua poesia, la vera novità della poesia degli anni Sessanta insieme a quella di un poeta come Amelia Rosselli che in quei medesimi anni produceva una poesia singolare ed estranea al corpo della tradizione del Novecento italiano. Per motivi legati ai movimenti di scacchiera del conflitto tra Pasolini e la nascente neoavanguardia, le poesie della Rosselli vennero pubblicate sul “Menabò” da Pasolini nel 1963 perché più comprensibili e decodificabili ed elette a modello di un proto sperimentalismo; questo almeno nelle intenzioni di Pasolini, artefice di quella operazione. Dall’altro lato della postazione, la neoavanguardia tentava di arruolare la Rosselli tra le proprie file battezzandola con l’etichetta di «irregolare». La poesia di de Palchi, invece, non era «arruolabile» per motivi politici e di politica estetica, e quindi il suo destino fu quello di venire dimenticata e rimossa come una specie di «fungo» letterario non riconoscibile e non classificabile. Per tornare all’attualità, oggi, con l’esaurimento del minimalismo e con il consolidamento della «nuova» sensibilità critica e poetica maturatasi a far luogo dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, la poesia di de Palchi può ritrovare un suo profilo di legittimazione storico-estetica e può essere considerata come uno degli esiti «laterali» più convincenti e significativi della poesia italiana della seconda metà del Novecento.

Domanda: Un capitolo della tua monografia è denominato «L’anello mancante della poesia del Novecento italiano». Vuoi spiegarci che cosa significa e perché questo titolo?

Risposta: La dizione non è mia ma di Luigi Fontanella che l’ha coniata per primo, che ritengo fortunata ed azzeccata. L’esperienza poetica del de Palchi di Sessioni con l’analista (1967) è centrale per comprendere la diversità esistenziale e stilistica della sua poesia nel contesto della poesia italiana del secondo Novecento, la irriducibilità di una esperienza poetica legata a doppio filo con la sua esperienza biografica e umana. Se si salta la poesia di de Palchi non si capisce nulla della poesia italiana degli anni Cinquanta e Sessanta. È incredibile, a confronto con la poesia depalchiana la poesia che si faceva in Italia non ha nessun punto di contatto, sembra quella di un marziano che scriva sul pianeta Marte.

Domanda: Una dichiarazione di sfiducia totale per le opere di storicizzazione.

Risposta: Sfiducia totale.

Alfredo De Palchi -7

Alfredo de Palchi

Domanda:  I sei anni di carcerazione preventiva subita dal diciottenne Alfredo de Palchi con l’accusa infamante di omicidio di un partigiano, sono anni di letture intensissime da parte del giovanissimo poeta. Scrive Luigi Fontanella:

«Gli anni nel penitenziario di Procida, duri e vessatori da un lato, ma assai ricchi di letture, di stimoli e fantasie letterarie. de Palchi divora una montagna di libri che vertiginosamente (ma anche con diligente intento cronologico) vanno dalla Bibbia, Dante (specialmente quello delle rime petrose) e Cavalcanti, fino ai moderni e contemporanei, passando attraverso qualche rinascimentale, per arrivare, appunto, ai vari Leopardi, Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Campana, Govoni, Sbarbaro, Quasimodo, Ungaretti, Montale,  l’amatissimo Cardarelli (su cui, sempre in carcere,  scriverà un breve saggio che, inviato a Cardarelli in persona, a quel tempo direttore della ‘Fiera Letteraria’, uscì su questa rivista,  suscitando scalpore e un certo dibattito),  fino ai suoi,  quasi coevi,  maestri o ‘fratelli’ maggiori: Sinisgalli, Sereni, Caproni, Erba, Zanzotto, Cattafi. Dalla lett(eratu)ra italiana passa poi a quella francese, non importa se – a quel tempo – con scarsa conoscenza di questa lingua, venendo conquistato in particolare da François Villon (non pochi eserghi tratti da questo poeta verranno poi utilizzati da de Palchi), Charles Baudelaire, Gerard de Nerval e, su tutti, Arthur Rimbaud».

Risposta: Il discorso poetico di de Palchi ha preso congedo dalle «fondamenta» pascoliane della poesia italiana del Novecento. Pascoli e D’Annunzio sono saltati di netto. È il primo poeta italiano del secondo Novecento che si libera anzitempo della zavorra stilistica pascoliana e dannunziana. In tal senso, è il poeta più realista del Novecento.

Laboratorio 4 Nuovi

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Domanda: E questo ai tuoi occhi è un distinguo importante?

Risposta: Nella mia visione dello sviluppo della poesia del Novecento questo è un punto decisivo.

Domanda: Torniamo agli anni Sessanta Settanta. Qual è a tuo avviso il distinguo dell’esperienza poetica di de Palchi rispetto alle coeve esperienze poetiche che in quegli anni si facevano in Italia?

Risposta: Nel libro, ho scritto: «Alfredo de Palchi sterza vigorosamente dalla poesia di impianto simbolistico-auratico del primo periodo montaliano, da una poesia meramente fonetico-musicale della tradizione lirica italiana dove l’io si auto conserva entro l’impianto dell’alienazione dell’«io» e del «corpo», per aderire ad una poesia dell’immaginario e della internalizzazione degli oggetti; fa una poesia afonetica, amusicale, anti auratica, fantasmatica non inscritta in alcun pentagramma melodico tonale. Un po’ in consonanza con quello che avveniva nella musica di avanguardia degli anni Sessanta da Giacinto Scelsi, John Cage a Luciano Berio, a Morton Feldman che apriranno nuove prospettive alla musica contemporanea». Non mi sembra cosa di poco conto.

Domanda: La poesia di Alfredo de Palchi come esempio di un nuovo tipo di realismo?

Risposta. Direi che non ci possono essere dubbi in proposito. Nel libro scrivo:

«Leggiamo alcuni sprazzi di «materia poetica» di de Palchi all’argento vivo, da «Un ricordo del ’45» in Sessioni con l’analista (1967):

Li seguo, dicono e non capisco
guardo case le vie, a dito m’indica
la gente – hai ucciso di uomini
ma sento questa colpa
vedo la colpa alle finestre nelle strade
nell’occhio insano dell’uomo,
i loro passi felpati;
in me cresce il rumore il volume della colpa
l’irreale vittima
[…]
e il senso diventa carne
e cammina con me, dentro di me il peso della vittima
si dibatte
accanto a me si dibatte la vittima,
fratello, bocca strappata, eguali;
trascinano il colpevole,
son io quello, e solo Meche riassume l’innocenza
che non sopporta il peso; piccioni
disertano la piazza
noi svoltiamo ed ecco la campagna la notte
la casa ci viene incontro.

Si tratta della poesia che ha consumato la più alta capacità di combustibile dagli anni del dopo guerra, un veicolo ad altissimo dispendio energetico, che non conosce il principio del risparmio di carburante, che va allo scontro frontale con l’entropia delle scritture detritiche dello sperimentalismo in auge negli anni Cinquanta e Sessanta, attraversa i decenni con una incredibile fedeltà alla propria intuizione stilistica ed arriva all’epoca della stagnazione stilistica e spirituale dei giorni nostri sempre con l’allegria del naufragio prossimo venturo».

Laboratorio quattro

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

ALFREDO DE PALCHI COVER GRIGIADomanda: Hai scritto nella monografia:  “Il primo autore che nella storia della poesia italiana del Novecento inaugura il «frammento» quale forma base della propria poesia è Alfredo de Palchi, con La buia danza di scorpione (1947-1951) e, successivamente, con Sessioni con l’analista (1947-1966), pubblicata nel 1967». Ritieni questo un punto qualificante della esperienza poetica di de Palchi?”

Risposta: Lo ritengo un punto assolutamente qualificante.

Domanda: Brodskij ha scritto: «dal modo con cui mette un aggettivo si possono capire molte cose intorno all’autore»; ma è vero anche il contrario, potrei parafrasare così: «dal modo con cui mette un sostantivo si possono capire molte cose intorno all’autore».

Risposta: Alfredo De Palchi ha un suo modo di porre in scacco sia gli aggettivi che i sostantivi: o al termine del verso, in espulsione, in esilio, o in mezzo al verso, in stato di costrizione coscrizione, subito seguiti dal loro complemento grammaticale. Che la poesia di De Palchi sia pre-sintattica, credo non ci sia ombra di dubbio: è pre-sintattica in quanto pre-grammaticale. C’è in lui un bisogno assiduo di cauterizzare il tessuto significazionista del discorso poetico introducendo, appunto, delle ustioni, delle ulcerazioni, e ciò per ordire un agguato perenne alla perenne perdita dello status significante delle parole. Ragione per cui la sua poesia è pre-sperimentale nella misura in cui è pre-storica. Ecco perché la poesia di De Palchi è sia pre che post-sperimentale, nel senso che si sottrae alla storica biforcazione cui invece supinamente si è accodata gran parte della poesia italiana del secondo Novecento. Ed è estranea anche alla topicalità del minimalismo europeo, c’è in lui il bisogno incontenibile di sottrarsi dal discorso poetico maggioritario e di sottrarlo ai luoghi, alla loro riconoscibilità (forse c’è qui la traccia dell’auto esilio cui si è sottoposto il poeta in età giovanile). Nella sua poesia non c’è mai un «luogo», semmai ci possono essere «scorci», veloci e rabbiosi su un panorama di detriti. Non è un poeta raziocinante De Palchi, vuole ghermire, strappare il velo di Maja, spezzare il vaso di Pandora.

Così la sua poesia procede a zig zag, a salti e a strappi, a scuciture, a fotogrammi psichici smagliati e smaglianti, sfalsati, sfasati, saltando spesso la copula, passando da omissioni a strappi, da soppressioni ad interdizioni.

Domanda: So  che hai letto l’ultimo libro inedito di de Palchi Eventi terminali. Che cosa mi puoi dire su questo lavoro?

Risposta: Siamo circondati dalle parole-chat: radio, televisione, internet, giornali, riviste di intrattenimento e di nicchia, simil-poesie in plastica, miliardi di parole che sciamano con un ronzio inquietante e imperioso nella nostra mente. Anche le opere letterarie sono promulgate in parole chat. Purtroppo non abbiamo altra scelta che credere fermamente in una utopia: che soltanto una grande letteratura può bucare la rarefatta atmosfera fatta di sciami di parole insulse, inutili e perniciose. Le parole sono importanti per mantenere viva e vigile la coscienza estetica di una comunità nazionale. La decadenza delle parole di un popolo è l’indice del progressivo sfacelo di un paese e di una lingua. Una lingua è una precisa concezione del mondo e una immagine della identità di una comunità linguistica. Modificando le parole cambia la lingua, muta la concezione del mondo di quella lingua e muta l’immagine riflessa della identità di una comunità.  Il senso dell’identità dell’io è una costruzione linguistica e, come insegnava Lacan,  quello che per un soggetto è il significante non coincide con quello che per il medesimo soggetto è il significato; tra significante e significato si apre una voragine. Quando l’identità di una nazione è in crisi, si offusca anche il linguaggio dei suoi poeti migliori; de Palchi con quest’ultimo lavoro inedito, Eventi terminali, avverte, come per telepatia, la grande crisi del paese Italia, e la traduce in una scrittura anche sgrammaticata, sforbiciata ma di forsennato vigore. Una scrittura che vuole bucare il linguaggio poetico maggioritario dei nostri giorni, e lo buca a suo modo, con una forza effrattiva che lascia sgomenti. È un linguaggio testamentario che qui ha luogo: de Palchi ritorna, ossessivamente, ai luoghi e ai fatti della sua prima giovinezza, deturpati e violentati, prende per il bavero il più grande poeta italiano del novecento: Eugenio Montale e lo irride mettendo a confronto la edulcorata scrittura letteraria del poeta ligure con la propria irriflessa e istintiva. È l’ultimo atto testamentario del poeta Alfredo de Palchi.

In senso teleologico, il critico ideale è il lettore ideale. Comprendere l’«esperienza» che le parole di un poeta ci offre, questo è il compito del lettore ideale e quindi del critico. Abito del critico è la dichiarazione di valore letterario di un testo. A volte, non basta il primo incontro con un testo; di frequente il lettore vigile ritorna a riflettere sull’opera. Legge e rilegge la stessa opera, magari a distanza di anni. La riflessione è il primo stadio del processo di comprensione ma, inevitabilmente, in ogni atto di lettura è implicita una valutazione. Il lettore ideale si dovrà chiedere: a chi si rivolge quest’opera? Da dove proviene? In quali rapporti sta con le altre opere sue contemporanee? Come si colloca a fronte delle opere del passato? Come si colloca nel panorama del  contemporaneo? Cos’è che rende importante un’opera nei confronti di un’altra? Qual è il rapporto che collega un’opera ad altre contemporanee? Il giudizio critico implica sempre una collocazione non solo dell’opera ma anche del lettore ideale. Ma un giudizio critico è sempre «aperto», non può essere «chiuso», altrimenti sarebbe un dogma teologico; nel giudizio rientra la ricerca del confronto con altri giudizi; ciò a cui il lettore ideale tende è un confronto con altri lettori che lo induca a riesaminare il precedente giudizio. Paradossalmente, il critico ha bisogno, più del poeta o dello scrittore, del confronto con un pubblico. Senza di esso, l’atto della lettura critica diventa un responso soggettivo. Credo che debba esistere nell’ambito della comunità una élite di lettori intelligenti in vista di un accordo sul giudizio estetico. Privo del supporto con un pubblico intelligente, il lavoro del lettore ideale diventa un fatto utopico, al pari di quello del critico. In fin dei conti, anche la scrittura di un critico è un atto testamentario, al pari di quello del poeta.

Quando una società non dispone di una letteratura in salute, l’esercizio dell’attività critica risulta dimidiata e offuscata, la comunità dorme il suo sonno ontologico. La stessa democrazia è in pericolo. La valutazione delle «cose pubbliche» della comunità non è cosa diversa e distinta dalla valutazione delle «cose private» qual è un  libro di poesia.

La difesa di un libro di poesia ha a che fare con la difesa della democrazia. Occuparsi di un’opera di poesia, difendere un buon libro di poesia, un autore è dunque un esercizio altamente «politico», è un atto da cittadino della polis, un atto che ha a che fare con la libertà individuale e collettiva. È, in definitiva, un atto pubblico.

Domanda: Un’ultima domanda, pensi che sia utile in quest’epoca di grande confusione in materia di poesia scrivere una monografia critica su un poeta vivente?

Risposta: Sono fermamente convinto che nella attuale situazione di confusione indotta dei valori poetici sia indispensabile proporre delle monografie critiche sui poeti veramente significativi. 

Laboratorio lilla

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Alfredo de Palchi, Poesie
da Sessioni con l’analista (1948 – 1966)
da Bag of flies Continua a leggere

46 commenti

Archiviato in Crisi della poesia, critica dell'estetica, critica della poesia, discorso poetico, intervista, poesia italiana, poesia italiana contemporanea, poesia italiana del novecento, Senza categoria

Compostaggi, di Mauro Pierno (Progetto Cultura, pp. 102, € 12, 2020), Immagine della cover di Marie Laure Colasson, Ciò che resta sono i materiali combusti, le scorie radioattive, il compostaggio, materiali inerti, non riciclabili, il biossido di carbonio, gli scarti della combustione, gli scarti della produzione, le parole sporcificate, Commenti di Gino Rago, Giorgio Linguaglossa

Mauro Pierno Compostaggi

Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”
.

dalla Prefazione di Gino Rago a Compostaggi (2018) di Mauro Pierno

In Compostaggi registro un mutamento radicale nel fare poetico di Mauro Pierno, un mutamento di registro stilistico-formale con approdo all’impiego del distico, come per esempio in questo componimento della sua nuova raccolta poetica:

Di ciliegio sine die
con decorazioni appese ad asciugare.

Tese alla corda orizzontali le tovaglie
rumoreggiano di primavera.

Tra il vento anche le foglie stampate
si battono indipendenti.

Quanto tempo è passato nel giardino
anche tu Raneskaja non lo rammenti più!

Segno evidente, innegabile di una evoluzione che comincia a distanziare Mauro Pierno da tutto il truismario esangue della poesia dei gregari dell’umbertosabismo diaristico, del post-serenismo minimalista, del neocrepuscolarismo dell’io sconfitto, dell’elegia del cardarellismo post-rondista.
Giorgio Linguaglossa in una nota icastica così scrive: «Mauro Pierno è un poeta in rapida evoluzione, ha mandato al macero la poesia accademica e prosegue dritto nella sua ricerca di una poesia archeologica del presente, fa una archeologia del presente, poiché il passato è stato dimenticato dalla odierna civilizzazione di massa e del futuro lui si considera un po’ un antenato, una sorta di astronauta della Terra».
Ed ecco che compare una parola-chiave del nuovo corso poetico di Compostaggi, «archeologia del presente» che nella sua apparente valenza ossimorica dice tutto di un accorto lavoro di scavo nella parola di poesia dagli strati superiori a quelli inferiori fino allo strato del grado zero del linguaggio poetico, dove una sorta di pastiche linguistico ad alta interferenza è di casa come in questi versi:

Il quadrato costruito sull’ipotenusa il teorema applicato
nella moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Nei brani sgranati si arrotolano esistenze piè
e a cena le rive si allontanano.

Ci si ammassa con forchette negli inferi precipitati.
Dalla forma più casuale un ricettario pubblico.

Una rivoluzione portatile per l’ipnosi.
Questa tua apparizione a capotavola,

Tomas, rimette tutto in ballo.
Lo sai che le farfalle son alte alte alte. 

Versi esemplari di un intreccio di geometria-Vangelo-canzonetta che nella ibridizzazione linguistica trova una nuova cifra e anche una nuova energia interna delle parole che il poeta impiega nella architettura della sua nuova poesia, frutto della lunga frequentazione dei temi della Nuova Ontologia Estetica attraverso la Rivista Internazionale di Poesia “L’Ombra delle Parole”, un lavoro di profondo, radicale rinnovamento della nostra poesia ben sostenuto da tutta la Redazione del blog di Letteratura Internazionale, a partire da questi versi di Tomas Tranströmer

le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero…
(da La lugubre gondola, Bur, 2011)

dai quali si sprigiona tutta la forza delle immagini metaforiche e/o delle metafore cinetiche della estetica tranströmeriana, cui si approssima questo ben riuscito distico di Pierno “Ci si ammassa con forchette negli inferi precipitati. Dalla forma più casuale un ricettario pubblico”, quasi a preparare i componimenti dell’altra sezione della raccolta poetica di Mauro Pierno, Cose, in distici come questi:

L’ennesima fornitura li trovò spiazzati.
Un ipermercato il punto d’incontro.

Nelle ventiquattrore si apprestarono in tanti
con peluche e mascotte.

E i cani sorrisero. Si leccarono anche,
lappavano i musi, mostravano i denti. In cambio cosa offrivano loro!?

Incalzarono, “Peluche e mascotte!?” E allora sbraitarono.
Fuggirono acquirenti e mercanti.

il poeta suggella il corso nuovo della sua ricerca poetica fondata su un lavoro efficace sul logos.

Mauro Pierno 1

[Mauro Pierno]

.

Retro di copertina di Giorgio Linguaglossa

«Ciò che resta lo fondano i poeti» ha scritto Hölderlin. E infatti, ciò che resta sono i materiali combusti, le scorie radioattive, il compostaggio, materiali inerti, non riciclabili, il biossido di carbonio, gli scarti della combustione, gli scarti della produzione, le parole sporcificate…
Le parole delle poesie di Mauro Pierno sono errori di manifattura, errori del compostaggio, errori della catena di montaggio delle parole biodegradate, fossili inutilizzabili. Sono queste parole che richiedono la distassia e la dismetria, sono le parole combuste che richiedono un nuovo abito fatto di strappi e di sudiciume. Non è Mauro Pierno il responsabile. Bandito il Cronista Ideale di un Reale Ideale, resta il cronista reale di un reale reale. Il «reale» del distico è dato dalla compresenza e complementarietà di una molteplicità di punti di vista e di interruzioni e dis-connessioni del flusso temporale-spaziale e della organizzazione sintattica e metrica. La forma-poesia della nuova poesia diventa così un distico distassico e dismetrico che contiene al suo interno una miriade di dis-allineamenti fraseologici, dis-connessioni frastiche, di interruzioni, di deviazioni sintattiche e dinamiche, di interferenze e rumori di fondo. Il distico è una gabbia metrica dinamica che contiene al suo interno le pulsioni e le tensioni che si sprigionano da decadimento chimico delle parole, che consente una sorta di compostaggio delle parole un tempo nobili e nobiliari.
È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, Mauro Pierno e i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza. «Solo i pensieri che non comprendono se stessi sono veri», ha scritto Adorno.

Mauro Pierno

da Compostaggi (2020) di Mauro Pierno Continua a leggere

20 commenti

Archiviato in poetry-kitchen

Maria Rosaria Madonna, Due poesie da Stige (1992, 2018) e Una poesia inedita di Anonimo romano (1985), Il locutore ha cessato di essere il fondatore e il fonatore, Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa Diagonalia, 2020

Marie Laure Colasson Struttura dissipativa in rettilineo 30x30 2020

[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, Diagonalia, 30×30 cm acrilic 2020]

.

poetry kitchen

L’accadere della verità dell’opera d’arte è nient’altro che l’evento del suo accadere. L’accadimento è esso stesso verità, non come adeguazione e conformità di parola e cosa, ma come indice della difformità permanente che si insinua tra la parola e la cosa. L’arte come accadere della verità significa preannuncio dell’aprirsi di orizzonti storico-destinali.
L’arte è allora quell’evento inaugurale in cui si istituiscono gli orizzonti storico-destinali dell’esperienza delle singole umanità storiche.
Le opere d’arte sono origine di esperienze di shock tali da sovvertire l’ordine costituito dei significati consolidati dalla vita di relazione. L’ovvietà del mondo diventa non-ovvietà. Nuove forme storico-sociali di vita sono di solito introdotte da opere d’arte che le hanno preannunciate. Le opere d’arte dell’ipermoderno si configurano quindi come produzione di significati in condizioni di spaesamento permanente, di sfondamento rispetto a sistemi stabiliti dei significati ossidati. Le opere d’arte oggi hanno senso soltanto se «aprono», se preannunciano nuove mondità, nuovi possibili modi di vita e forme di esistenza, altrimenti deperiscono a cosità.
(g.l.)

Maria Rosaria Madonna Cover Ombra

Maria Rosaria Madonna
Due poesie commentate

al Dominus
da Stige. Tutte le poesie (1990-2002) (Progetto Cultura, Roma,  pp. 150 €12, 2018)

.

Non adularmi per la mia misura,
se sono evanescente; tu dici «che non capisco
la lingua dei famuli…», ma «è che provengo
da un terribile digiuno…».
Tu dici che «non comprendo perché sono pagana?
Che non comprendo la lingua degli iloti?
E tu?, tu, invece, la capisci?».
«Io lo so: tu, convertito al dio dei cristiani,
intendi bene la lingua degli iloti
i tuoi simili, i devoti all’altare di Mitra
e del vostro dio dei cristiani…».
Un sonno leggero sulle mie palpebre.
Adesso sono una gemma (una stella?, una supernova?)
una stella senza profeta, sacerdote senza segreta.
«Sono la tua baldracca?, dimmi;
la tua lussuria osserva la danza araba
del mio ventre, l’ombelico che ondeggia
al suono dei sistri.
Non adularmi per la mia arrendevolezza,
è che sono evanescente e non capisco
la lingua dei servi».

(da Stige, 1992)

Notizia per i lettori.
A fine 1991 Maria Rosaria Madonna (Palermo, 1942- Parigi, 2002) mi spedì il dattiloscritto contenente le poesie che sarebbero apparse l’anno seguente, il 1992, con il titolo Stige con la sigla editoriale Scettro del Re. Con Madonna intrattenni dei rapporti epistolari per via della sua collaborazione, se pur saltuaria, al quadrimestrale di letteratura Poiesis che avevo nel frattempo messo in piedi. Fu così che presentai Stige ad Amelia Rosselli che ne firmò la prefazione. Era una donna di straordinaria cultura, sapeva di teologia e di marxismo. Solitaria, non mi accennò mai nulla della sua vita privata, non aveva figli e non era mai stata sposata. Sempre scontenta delle proprie poesie, Madonna sottoporrà quelle a suo avviso non riuscite ad una meticolosa riscrittura e cancellazione in vista di una pubblicazione che comprendesse anche la non vasta sezione degli inediti. La prematura scomparsa della poetessa nel 2002 determinò un rinvio della pubblicazione in attesa di una idonea collocazione editoriale. È quindi con dodici anni di ritardo rispetto ai tempi preventivati che trova adesso la luce uno dei poeti di maggior talento del tardo Novecento.
(g.l.)

.

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Alla lettura della poesia il senso mi sembra inequivoco: C’è il culto di Mitra, ci sono i famuli, gli iloti, ci sono i servi, c’è il dio dei cristiani, i pagani. C’è una voce femminile che parla e che si auto definisce «pagana» e il suo ricco amante, definito con sprezzo, «convertito al dio dei cristiani». È chiaro che siamo proiettati in un altro tempo e, precisamente, nel tardo impero romano. È un colloquio, con tanto di parlato e di frasi virgolettate con frasi urbane, tranquille. Chi parla è, probabilmente, una etèra, una hostess, una accompagnatrice che si rivolge, possiamo dire così, al suo ricco amante benefattore, che potrebbe essere un ricco possidente romano, un ottimate, un latifondista, o un ricco mercante siriaco, un appartenente alla classe degli ottimati, fate voi.

La prostituta che parla è istruita, raffinata e disillusa quanto basta per non credere a tutte le sciocchezze dei culti orientali che reclamano e propagandano la verginità, l’astinenza, la «menzogna»; chi parla sa che le religioni, tutte le religioni, imbastiscono un proprio discorso sulla «verità» e la «menzogna»; forse potremmo dire che la protagonista è una stoica. Dice la protagonista: la «menzogna» è propria della «lingua dei servi», dichiara senza remore al suo amante di essere «la tua baldracca». Capiamo che l’interlocutore è un ricco faccendiere della nuova ideologia della «menzogna» dalla risposta che gli dà la prostituta:

” Tu dici che «non comprendo perché sono pagana?
Che non comprendo la lingua degli iloti?
E tu?, tu, invece, la capisci?».
«Io lo so: tu, convertito al dio dei cristiani,
intendi bene la lingua degli iloti
i tuoi simili, i devoti all’altare di Mitra
e del vostro dio dei cristiani…”

In gioco c’è il problema della «menzogna» (e quindi della «verità») e della «corruzione» (quella vera, quella non da intendersi nel senso carnale ma quella intellettuale, etica, politica ed estetica); tra chi crede «nella lingua degli iloti» e chi, come i pagani, crede nella propria autenticità. È una lotta furiosa tra due ideologie: una, quella del piacere e dell’autenticità, del rifiuto delle ideologie della «verità» e della «menzogna», e l’altra, quella della «menzogna» e della «lingua dei servi», sostenuta dai servi e dai ricchi latifondisti. La poesia parteggia senza dubbio per le ragioni del mondo che sta per tramontare, un mondo senza «verità» e senza «menzogna»; è un atto d’accusa al nuovo mondo che sta per nascere, quello della «lingua degli iloti» e alla trionfante Chiesa cristiana della «menzogna».

Il pensiero del linguaggio ha finito per bucare il Linguaggio. È qui il nocciolo della geniale operazione di M.R.Madonna. La poetessa siciliana buca come un palloncino di gomma l’italiano corrente per retrocedere alla “zona d’ombra e di transito” del latino che si sta corrompendo in un primitivo e rude italiano. Madonna è costretta così a reinventarsi un latino corrotto dalla immissione di teologismi smerigliati e lavorati per farli càpere entro una struttura linguistica integralmente inventata (e «invetriata» come lei scrive). Una Lingua di vetro. Trasparente e inesistente. (L’inesistenza della trasparenza!, o la trasparenza dell’inesistenza!).

L’operazione è indubbiamente geniale, del tutto straniante, e, per la profondità nella quale va a pescare, drastica, totale nel rifiuto della Modernità (quindi rigetto di tutte le ideologie del Moderno) e delle sue rappresentanze artistiche e politiche.

In mei oculi fragmenta et ferramenta
in mei auri tormenta et placenta
in mea vagina turpitudine et abstinentia
in meae tempie rumoresque et ciarpame. Continua a leggere

18 commenti

Archiviato in poesia italiana del novecento, Senza categoria

Poesie di Edith Dzieduszycka da L’immobile volo, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2020, Un uomo, video di Diego De Nadai su poesia di Edith Dzieduszycka, La cartella clinica della grande solitudine, Lettura di Letizia Leone

edith-diario-di-un-addio-vedove

edith-dzieduszycka-diario-di-un-addio-vedove

Nota di lettura

di Letizia Leone

Se con Mario Luzi volessimo pensare  il titolo di un libro come un mantra che viene da molto lontano, L’ Immobile volo del recentissimo libro di Edith Dzieduszycka è la scatola nera di un disastro “aereo” che ci raggiunge dall’inerzia di lunghe epoche di incomunicabilità. Uomo-donna, marito-moglie, l’Io e l’Altro, ciò che la poetessa fa emergere è una critica della comunicazione, della socializzazione standardizzata.

Dalla fenomenologia del rapporto di coppia alla più generale sclerosi di ogni «etica della comunicazione», che è poi conflitto dei linguaggi in una contemporaneità cacofonica.

Il soliloquio, ‘l’io-penso’ di  due «voci monologanti», come definite da Linguaglossa, agisce  dentro la scacchiera formalizzata di un matrimonio.

Un componimento in apparenza simile al genere antico del contrasto, genere molto diffuso che nella definizione di Carlo Salinari  sviluppa una tecnica «basata sull’invenzione e sul rinfaccio tra i vari personaggi; questi non hanno un reale sviluppo psicologico, ma sono personaggi stereotipati, quasi maschere.»

Ma se il contrasto già nella letteratura latina medievale era indicato come disputatio, conflictus, altercatio, questo calco sbiadito sulla carta velina che ne fa Edith Dzieduszycka si configura quale intermittenza, interferenza, disturbo sonoro, anomalia d’onda nella linea piatta di un cronografo, sismografo o cardiogramma. Oscillazioni. Librazioni minime nell’ambito di uno scambio superficiario, affidato ai soli significanti o ai correlativi di un codice neutro (unica possibilità d’incontro tra gli “sposi”): vestito nuovo piuttosto provocante, vino bianco frizzante, le tende tirate, le note un po’ lagnose d’un tango argentino…E in una botola interiore i significati, i dubbi, l’asfissia, lo sfogo cutaneo di un profondo tedium familiare.

Per questa deriva solipsistica e narcisistica, (tutta epocale e generalizzata) Edith ritaglia i dettagli del micro-mondo, il privato più intimo della relazione matrimoniale, e poi passa all’investitura di una sotto-lingua priva di fonazione, quella del monologo muto: Cosa vuole dirmi?; Penso d’aver sbagliato la mia ipotesi; farò finta di niente; non riesco a chiederle; forse avrai capito che ti aspettavo al varco…

Come la LEI del testo, Edith imbandisce la cena su una tavola del silenzio e delle supposizioni con le pietanze avvelenate dalla diffidenza: ingredienti super raffinati per rinnovare l’ardore di un incontro erotico. E con leggera maestria registra una malattia contemporanea dello spirito in questa messa in scena, o per meglio dire «messa in cena» sullo sfondo del non-evento, del non-accadimento dialogico-comunicativo.

Ognuno per sé con i propri moti, pensieri, riflessioni, esigenze. La ricerca di un collegamento al solo fine del contatto consolatorio. La costruzione di un contesto domestico finalizzato alla propria tranquillità interiore.  Quasi come la grande piattaforma virtuale del consenso del Like o del tweet.

Ci ricorda Karl-Otto Apel che il fondamento dell’etica politica e civile della comunicazione collettiva sia socraticamente il dialogo.

Ma qui, in queste stanze, la nuda vita, due voci separate, due monadi. E si procede per lenta accumulazione, torpore, semplice ripetizione, quotidiana rotazione.

Edith Dzieduszycka L'immobile volo

Retro di copertina di L’immobile volo 

Il libro è costituito da due «voci»: una maschile e l’altra femminile, ridotte alla «nuda vita».  L’io è stato ridotto a nuda voce. Due «voci» monologanti, presumibilmente due persone conviventi o sposate dei giorni nostri di un qualsiasi luogo insignificante dell’Occidente evoluto che mettono in opera una «confessione» separata, a compartimenti stagni, in camere separate, blindate dalla incomunicabilità generale. Ciascuna «confessione» avviene nell’ambito del proprio Foro interiore, ciascuna parla a se stessa per  parlare all’altra, ciascuna parla un linguaggio che l’Altro intende benissimo ma che, proprio per questo, lo fraintende e lo equivoca. Perché ciò che aziona le «voci» è la mole invisibile dell’Inconscio. Ecco spiegato il titolo L’immobile volo, in realtà i due personaggi, le due «voci», pur legate presumibilmente da una contiguità passata e da una relazione intima pregressa, ciascuna, dicevo, è sostanzialmente «immobile», cioè incapace a superare e infrangere lo schermo del Foro interiore, la convenzione sociale della «confessione» e quant’altro. Ergo, ciascuna «voce» è  inetta e infetta,  e falsa, fortificata dalla propria falsità, falsificata dalla falsa coscienza con la quale si presenta la civiltà dell’ordine borghese dei rapporti di produzione e delle forze produttive che ubbidiscono alle regole del mercato e del capitale. I personaggi hanno un vissuto, vivono, si strappano le vesti, gridano e si dibattono nei meandri del teatro della «confessione», ma sembrano incapaci di andare oltre di essa,  impossibilitati a varcare le colonne d’Ercole del Foro interiore. L’esistenza ridotta a nuda voce, è questo il tema di questo straordinario libro di Edith Dzieduszycka.

(g.l.)

Testi da L’immobile volo

LEI


ma sì
lo so
certo che lo so
da tempo, tanto tempo
tempo che non sospetti
forse
ma forse sbaglio
come tu sai –credo –che io so
ma fai finta di nulla
come faccio anch’io
così entrambi
in livido vortice
di silenzio.

LUI

prevedo che sarà
quest’oggi
una giornata no
Mi basta il suo sguardo
obliquo
sfuggente
per capire l’umore
l’oscuro meccanismo
che di quando in quando
la pervade
la rode
rendendola straniera al decorso normale
pensa forse “banale” della vita vissuta
In questi casi
sto zitto
aspetto che le passi

LEI

sento però salire
quella voglia
malata
di aprire la botola
dall’aria rarefatta e sentori di muffa
in cui contorte strisciano
e s’aggrovigliano
sul fondo viscido e claustrofobico
come larve i pensieri
richiusi
assuefatti ormai
a quella vita grama di torpore
a quella vita che addosso
ci sta appiccicata
sempre sia quella
vita

LUI

però devo sapere
se quel mio pensiero è l’ipotesi giusta
me ne deve parlare
sono cose urgenti
non c’è tempo da perdere
Non riesco a chiederle
se quella è la causa
del suo atteggiamento
quasi colpevole
Se sarò troppo brusco
si richiuderà lei
e per un giorno
due quattro
chi sa quanti non si sbottonerà
e staremo allo stallo
Una bella fatica
sopportare le donne
tentare di capirle

LEI

una tovaglia fresca
odorosa di bucato
sul tavolo rotondo accanto alla finestra
Invece sul carrello
un vassoio di lacca con calici bottiglie
un mazzo di lillà dai sentori d’infanzia
In sordina gemevano
in preda a Metamorfosi
i ventitré violini
Ho scoperto con gioia
che anche a te piacciono
Era tutto perfetto
era stucchevole
quasi mi vergognavo
un’immagine kitsch da corriere del cuore
Prevedevo il tuo ghigno
lo davo per scontato
ma ti sei trattenuto
forse avrai capito che ti aspettavo al varco

LUI

devo però ammettere
conciata così
sei piuttosto arrapante
-quasi non ricordavo-
pure un po’ patetica
vista la cosa cruda
a mente fredda
Scommetto che nel bagno
per completare il quadro hai acceso candele
Andato a controllare
invece non ci sono
delusione! Ora ti tolgo un punto
A parte quel dettaglio
non manca proprio niente
avrai letto “Eva Nuova”
Ma mi viene un sospetto
forse il tuo scopo è prendermi in giro
recitando sulfurea
la parte dell’allumeuse?
Aspetto lo strip-tease

LEI


proprio strozzare
basta poco
davvero
per di colpo cambiarci in bestie
omicide
Credo si chiami raptus
quell’impulso violento
quasi incontrollabile
che sai di dover stringere dietro un argine
L’iter è fare finta
rimanere nel solco
perfino sprofondarci
con la mano sul freno
Così ti ho sorriso
un sorriso solare
quello delle stagioni felici della storia
sei sembrato sorpreso
forse ti aspettavi una lunga valanga
di accuse e rimproveri?

Edith Dzieduszycka immagine

Edith Dzieduszycka, immagine, fotografia

LUI

una gelida fiamma
perché nel tuo sguardo all’improvviso
cupo
ho percepito al volo
spaventato
una traccia di odio
fino ad allora ignota
Così veloce è stata
che m’è venuto il dubbio di avere sbagliato
colpa dell’ombra scesa
subdola sulla sera
Infatti subito
nella luce rosata del sole al tramonto
si è illuminato il tuo viso
-sorpresa non da poco-
in un largo sorriso
Radioso il tuo volto
all’improvviso

LEI

nel tenue chiarore che a quest’ora
filtra dalle persiane chiuse
due gisants côte à côte di marmo opalescente
i nostri due corpi
ora disintrecciati
pesante la tua testa
sul mio braccio dolente
che non oso spostare per non farti svegliare
Meno male
non fumi
rito dopo rito
invece te ne vai
in un mondo lunare
in cui non ti raggiungo
distane siderali
di nuovo
tra di noi
ad alare barriere

LUI

(Dorme)

20 commenti

Archiviato in poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Nel discorso poetico della Nuova Poesia è fondamentale il gioco stesso, non i giocatori, L’Epoca del Covid19, Una Lettera di Mario M. Gabriele a Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson Commento di Gino Rago

Marie Laure Colasson Struttura dissipativa F acrilico, 225x40

[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa F, acrilico su tavola, 25×40 cm 2020]
L’Evento di cui questa figurazione è la rappresentazione figurale  è dato da un galleggiare di forme larvali che nuotano nella processualità autofagocitatoria del linguaggio figurale. Tessere di una sequenza di RNA che nuotano nella processualità figurale di un Virus virale. Non sono propriamente delle cose quanto delle tessere, segmenti di RNA, simulacri iridescenti, accattivanti albedini di sostanze un tempo floreali diventate esiziali e virali. Da questo mondo di figure-segmenti umbratili e larvali è scomparso l’uomo e sono scomparse le cose. E ci chiediamo: Dove sono finite le cose? Dove si nasconde l’uomo? Domande forse inutili, che non ha senso più porsi dopo la fine dell’umanesimo, ma che non possiamo non continuare a porci.  «La domanda dov’è la cosa?, è inseparabile dalla domanda dov’è l’uomo? Come il feticcio, come il giocattolo, le cose non sono propriamente in nessun posto, perché il loro luogo si situa al di qua degli oggetti e al di là dell’uomo in una zona di nessuno che non è più né oggettiva né soggettiva, né personale né impersonale, né materiale né immateriale, ma dove ci troviamo improvvisamente davanti questi X in apparenza così semplici: l’uomo, la cosa».1
(Giorgio Linguaglossa)
1Giorgio Agamben Stanze, p. 69

.

Entre la lettre et le sens, entre ce que le poète a écrit
et ce qu’il a pensé , se creuse un écart, un espace, et comme tout espace,celui-ci possède une forme. On appelle cette forme une figure.
(Gérard Genette, Figures)

Mario M. Gabriele

caro Giorgio,

essere poeti, e tu lo sai, non è cosa facile nel senso che bisogna essere prima critici di se stessi e poi costruire o de-costruire il linguaggio secondo le ragioni del fare poesia. Un giorno sul Corriere della Sera di venerdì 2 Luglio 2004, apparve un breve intervento di Giuliano Gallo con il titolo: “Faziosità, il male oscuro che spacca l’Italia”. Riferendosi al volume edito dal Mulino e curato da Ernesto Galli della Loggia e Loreto Di Nucci dal titolo DUE Nazioni. Qui si percepiva veramente un’Italia spaccata in due, anche se non vi appare il potere editoriale con tutte le sue filiali autarchiche, creando una “divisività” che ha dominato decenni e decenni di storia economica e culturale. In questo libro Paolo Mieli si sofferma, con una certa tristezza, sul fatto che “non stiamo producendo niente di nuovo, consapevole che ormai tutti i paesi hanno imparato a dividersi e a schierarsi senza volersi distruggere”.

E allora come la mettiamo nell’attuale Epoca del Covid19? La scomparsa del critico e dello scrittore ha portato a esautorare un paradigma poetico alternativo al dominio imperante del 900. Cercare punti di riferimento della fine della poesia elegiaca o di fine corrente letteraria, è molto difficile.

Secondo De Sanctis il vero declino della poesia italiana comincia a delinearsi nel Cinquecento mettendo all’ombra Ariosto, Machiavelli, e Guicciardini, dando appena un’ancora di salvezza ad Alfieri e Parini, “ma la direzione del diagramma poetico restava quella della decadenza”. Allora possiamo affermare, con Enzo Siciliano, che per il poeta resta sempre il buio in sala. Qui, non vorrei dimenticare Edoardo Sanguineti, con il quale ebbi un lungo discorso in trattoria, in occasione di una edizione a Campobasso del premio di Poesia Nuovo Molise, in cui lo stesso critico confessò che non era più tempo di Avanguardia mancando fronti culturali che si contendono una spinta al cambiamento.

Basta andare in libreria. Gli scaffali non si piegano sotto il peso di libri di poesia rimasti sempre un’arte marginale nell’epoca dei consumi. Tutto questo non ha permesso ai poeti della Nuova Ontologia Estetica di neutralizzarsi dentro apparati linguistici informali e contrastanti, che se pure esistenti tracciano la via al “senso vietato” di Deleuze proiettando il verso in un principio antropico ultimo, con la speranza di svilupparsi intelligentemente verso un paradigma che contenga al suo interno il coraggio di superare la fase di stallo del Post Covid 19, che è una vera macelleria.

Giorgio Linguaglossa

caro Mario,

scrive il paleontologo Stephen Jay Gould: «riavvolgiamo la videocassetta e, accertandoci di aver cancellato tutto ciò che è accaduto, riportiamoci a un certo tempo e luogo nel passato […]. Poi giriamo di nuovo il film e vediamo se la ripetizione è uguale all’originale».

Stanza n. 3

Duchamp è con la pipa. Madame Hanska è nuda. Siedono attorno ad un tavolo.
Hanska distribuisce le carte da gioco.
Duchamp deglutisce.
«Ecco a Lei. Io adesso Le darò le carte.
Tredici carte di Picche. Le disponga in fila, non importa l’ordine.
È la fila delle cause.
Scelga poi le tredici carte di Cuori. Le mescoli bene.

Disponga in fila sotto le carte di Picche una carta di Cuori.
E solo una sotto ogni carta di Picche.
Accade che nella stessa posizione delle due file si presenti in alto
una carta di Picche e in basso una carta di Cuori
con lo stesso valore.
Due Sette in terza posizione. Due Re in decima o quel che capita».

«La relazione di concordanza è un modello formale
della relazione di causalità:
Il Sette di Picche “causa” il Sette di Cuori,
Il Re di Picche “causa” il Re di Cuori, etc.

Il principio di identità simula il principio di ragion sufficiente.
È la rappresentazione del principio eziologico.
Se c’è il Sette di Picche sopra, c’è il Sette di Cuori sotto.
Se non c’è il Sette di Picche sopra, non c’è il Sette di Cuori sotto».

[…]

L’unghia smaltata di K. agguantò al volo un calice di Campari
che oscillava negli stagni Patriarsci.
Il direttore d’orchestra depose la bacchetta, i musicisti se la filarono,
il pubblico prese a fluire.
Zlatan Ibrahimovich prese a calci un pallone e fece goal.
«C’è un agente morboso», disse K. rivolto ad Azazello.
«Se c’è, c’è il morbo», rispose quest’ultimo.
Il quale tirò fuori dal taschino della giacca un ipotocasamo nuovo di zecca,
e con quello cominciò a frinire, a fare saltelli.
«Se non c’è?», chiese amabilmente Azazello, dopo una giravolta.
«C’è la guarigione», replicò K. passeggiando rumorosamente con i mocassini nuovi
made in Italy.
Il berretto verde di K. ebbe un sussulto.
«Il cosiddetto principio di concordanza.
Sono i risultati delle tre carte, caro Cogito.
Nient’altro che un gioco di prestigio.
Tuttavia, la poesia nasce da un lancio di dadi
su un piano inclinato…
Il Covid19?, un elemento della perturbazione che concorre
con la perturbazione generale…
Quella parte del tutto che vuole costantemente il male e invece concorre
a produrre costantemente il bene…
Al di là del principio del bene e del male.
Ovviamente.»

*

Nella poesia di Mario Gabriele e, in generale, nella poesia della nuova ontologia estetica, ciò che è fondamentale è il gioco stesso, non i giocatori. La poiesis diventa il libero campo di azione del gioco del linguaggio. In tal senso, si può dire che il linguaggio si prende gioco dell’uomo, fintantoché lascia fuggire l’uomo nella vertigine delle significazioni che gli fanno obliare il rischio e la posta in gioco del suo rapporto con il linguaggio.

È nota la diffidenza che Heidegger ha sempre nutrito nei confronti del linguaggio ordinario. Le sue riflessioni sul linguaggio non coincidono con la teoria ermeneutica della «metaforicità fondamentale» del linguaggio elaborata da H.-G. Gadamer.

È nella misura in cui la poiesis riesce a prendere le distanze dal linguaggio ordinario che può ritrovare il gioco del linguaggio e, con ciò, il gioco della metonimia, della metafora e della estraneazione. Nel linguaggio compreso come Sage, il mostrare prevale sempre sull’indicare. Ora, questo privilegio del mostrare (die Zeige), implica una nuova e diversa valutazione del linguaggio non inteso soltanto in senso riduttivo come polisemia o per le sue qualità di ambiguità semantica, concetti che ci condurrebbero all’esterno del discorso critico e poietico. Proviamo a pensare il linguaggio come stazione apotropaica, evento, linguaggio come aver luogo e basta. Il pensiero essenziale, quello dell’Ereignis, è essenzialmente pluricentrico, la messa in evidenza della policentricità non significa la confessione dell’impotenza di un pensiero che avrebbe fallito a dirsi nell’univocità del concetto o nella polisemia del discorso poetico della tradizione, ma è ben di più, molto di più.

Il discorso poetico non è un in-differente, un indifferenziato, non è una proprietà neutrale del linguaggio ma ha la funzione di preparare l’incontro con quell’Inatteso («Bereitschaft für das Unvermutete» di Heidegger) che è cancellato dal linguaggio ordinario, che è interamente sussunto nel dominio dell’opinione e del «si dice». Continua a leggere

16 commenti

Archiviato in nuova ontologia estetica, Senza categoria

Gino Rago, Poesie da I platani sul Tevere diventano betulle, Progetto Cultura, Roma, 2020 pp. 176 € 12, Commento di Giorgio Linguaglossa, La forma-polittico della nuova ontologia estetica

Gif waiting_for_the_train

[Un Nemico intelligente, un Estraneo, si aggira per le nostre città, per le nostre metropolitane, per le strade, ovunque… si chiama Covid19, ovvero, Coronavirus. Si tratta di un micro organismo intelligente, scaltro, rapace che si mimetizza in alcuni umani non manifestando alcun sintomo della sua presenza, sono i cosiddetti asintomatici, è aggressivo, mutante, subdolo, è stato creato dal modo di produzione capitalistico. Paradossalmente ciò è avvenuto in un paese che si auto definisce “comunista” ma che è governato con polso di ferro da una autocrazia. Il Covid19 può prosperare soltanto in una natura che si fa incessantemente attraverso i suoi escrementi; una natura che si conosce, mediante l’accumulazione degli escrementi, dei profiterol dell’immondizia, delle merci invendute e obsolete, del trash, dello spam. La natura infatti è benigna, ci propina dei profiterol, ci prende sul serio, crede che all’homo sapiens piacciano gli escrementi e ci ha propinato l’Ebola, la Sars, il Covid19. La natura fa sul serio. Infatti, non agisce per paradosso ma per contiguità e coerenza della parte con il tutto, e delle parti con altre parti]

 

Gino Rago
Poesie da I platani sul Tevere diventano betulle, Progetto Cultura, Roma, 2020 pp. 176 € 12

 

È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.

Il poeta vede ciò che il filosofo pensa

“Cara M.me Hanska, lasci in pace il poeta delle ombre.
Herr Cogito, i gerani, la veranda, il giardino,

La copia della Gioconda, il lilla
E la Sua stanza ammobiliata possono aspettare,

Abbiamo altro da fare, per esempio
Ascoltare il canto degli uccelli

O il ronzio della Storia
Nei  bassifondi di Vienna,

Ma la gioventù negli ori della Grecia e di Troia
E quelle teste calde di Achille, Ettore e Patroclo

La smettano di fare baccano,
Coprono il canto delle allodole di tutto l’occidente.

Anche gli dei imparino a tenere il becco chiuso,
Sono sull’Olimpo grazie alla poesia.

Cara M.me Hanska,
Dalla stanza dell’insonnia sulla macelleria

il poeta vede tutto ciò che il filosofo pensa”.

Strilli Rago

Il liquido reagente

Cara Signora Jolanda W.,

Il mio Amico di Istanbul
dice che possediamo il Liquido Reagente.

Ma chi davvero svela all’Occidente l’enigma
[dell’Occidente

e il messaggio di aiuto nella bottiglia?
Lei parla con saggezza del Prodotto Interno

[della Felicità,
del fatturato della Felicità in vigore nel Butan.

Forse nel Butan era un sogno
e il rompicapo di misurare il PIF

non finiva con la luna piena.
Anche Lei conosce le cene cifrate, i segreti delle
[scarpe

che si toccano sotto il tavolo.
Sa, il motore della sofferenza dei poeti gracchia

sempre nello stesso istante del mondo,
questo mondo Lei e io lo chiamiamo “Rebus”

perché se ne infischia delle nostre domande.


Il bacio

Cara Signora Lipska,
oggi Vienna fa scintille alla Paradeplatz.

Il tram ferma la sua corsa,
dal Belvedere arrivano gli strilli di Kokoschka,

è in polemica con Schiele per« ll Bacio» di Klimt,
l’aria d’autunno si guasta.

Il mio amico* ha scritto:
«[…] due specchi si specchiano nel vuoto,

illuminano il vuoto, specchiano il vuoto che è nel loro interno […]»
Il vuoto dentro lo specchio è assenza o cruna nell’ago

verso la più alta conoscenza?
Non l’uomo ma un cane al buio sbraita alla luna.

Dal vaudeville in fondo alla locanda:
«un miliardesimo di miliardesimo della grandezza di un atomo

è già luce dello sperma siderale».
La Paradeplatz non ricorda più l’Impero, né Sissi.

Francesco Giuseppe. A  Trieste, a Piazza dell’Unita,
fin dall’alba lascia il Castello di Duino,

tracanna Campari e spritz al Caffè degli Specchi.
A Vienna la principessa balla con un uomo senza qualità.

*È Giorgio Linguaglossa

Strilli Rago1

10 – Le città

Cara Signora Jolanda,
ieri ho fermato quell’uomo che mi tormenta.

Passa da qui ogni mercoledi,
mi fissa negli occhi e prosegue:

«Chi sei? Cosa porti nella borsa?»
«Sono un poeta. Nella borsa porto il mio destino

per indirizzi ignoti, letti d’alberghi, strade spaventate.

Anch’io avevo un nome ma non lo ricordo più,
il destino ha lasciato quel nome sull’acqua del fiume.

Nei caffè di Cracovia ora tutti mi chiamano
“il-poeta-santo-bevitore”.

Questo nome ora è il mio destino».

[…]

Se non a Lei a chi potrei dire
che le città che lasciammo ci inseguono. Continua a leggere

22 commenti

Archiviato in nuova ontologia estetica, Senza categoria

Ritrovarsi in una selva oscura di significati. Stanza n 88 di Giorgio Linguaglossa e Tre poesie da Registro di bordo di Mario M. Gabriele, Lo stato di natura dei linguaggi, Irrwegen, 

Gif La porta si apre

[Nel mezzo del cammino della mia vita mi ritrovai in una selva oscura di significati, la porta dell’Hotel Astoria n. 88. Entrai.]

Giorgio Linguaglossa

Stanza n. 88

«Non sono morto?», chiesi all’ospite.
«No, sei un quasi-vivo o un quasi-morto».

«Dovrei esser morto?». K. fece una piroetta.
«Perché, dovresti essere vivo?», replicò la Figura.

«Non so, ci sarà pure una differenza,
suppongo», insinuai.

K. non replicò. Sprangò tutte le porte, le sigillò con lo scotch,
le chiuse a chiave, a doppia mandata.

Poi passò alle finestre. Le chiuse. Sprangate.
E terminò con lo scarico del water.

Si sedette sulla sedia a dondolo. Di fronte al frigorifero.
E attese.

Ero con le spalle al muro. Così, ho aperto il gas.
«Sa, preferisco una morte dolce», aggiunsi.

«L’Enel ha chiuso la corrente elettrica».
«Anche l’acqua, l’hanno interrotta…»

*
Dicevo poc’anzi: «La metafora non è l’enigma ma la soluzione dell’enigma». Ma, quale sia l’enigma io non lo so. Ad esempio, il personaggio K. delle mie poesie è una metafora, la «Stanza n. 88» è una metafora, etc. ma, se dovessi rispondere alla domanda: Qual è l’enigma?, non saprei dove andare a parare.

Penso che anche Mario Gabriele non sappia bene quale sia l’enigma delle sue poesie, però trova le metafore in quantità considerevole, sono queste ultime che illuminano quale sia l’enigma nascosto nelle profondità del nostro inconscio. Gettano un fascio di luce su quella «Cosa» che giace lì, nel fondo. Ma, non appena avviciniamo lo scandaglio della metafora, ecco che quello che ritenevamo essere il fondo si rivela uno s-fondo. E la ricerca ricomincia di nuovo.

Ma poi è così importante scoprire quale sia l’enigma nascosto? E qui la palla passa nel campo dei filosofi, sono loro che dovrebbero rispondere a questa domanda.

Penso, con Pier Aldo Rovatti, che l’enigma non ha una soluzione, può solo essere rivissuto. Penso che nella poiesis l’autore debba limitarsi ad abitare l’enigma, chiedendo con discrezione il permesso ad entrare e a prendervi dimora. Tutto qui.

Irrwegen

Stavo leggendo di un autore di poesia, un libro pubblicato in questi giorni da Mondadori (ma lo stesso discorso vale per moltissimi altri libri di poesia), e mi è venuto in mente questo pensiero: il linguaggio poetico viene pensato come se fosse uno «stato di natura» del linguaggio, come se godesse di una libertà di adozione e di fruizione di uso comune e gratuito. Quando invece quella dimensione «naturale» propria del linguaggio viene considerata da un pensatore come Giorgio Agamben in modo critico come un di­spositivo biopolitico della modernità. Viene accettato in questi autori, implicitamente e senza alcuna coscienza critica, che quel linguaggio che viene adottato in una poesia o in una narrazione, è un linguaggio del biopolitico senza alcuna riflessione critica. Voglio dire, ed è bene ripeterlo, che quel genere di linguaggio poetico altro non è che un dispositivo biopolitico proprio del Moderno, e quindi non mette conto parlarne se non come un linguaggio della biopolitica e, aggiungerei estensivamente, proprio della biopoetica.

Foto new-york-2Mario M. Gabriele

caro Giorgio,

questa mattina ho letto la tua poesia e ne sono rimasto colpito. Sei uscito come il gheriglio dalla noce, mettendo in luce la tua psiche, da tempo avvolta in un cappotto, per non mostrare agli altri, la sfera emotiva di pensieri e stati d’animo accumulati nel tempo e amministrati linguisticamente con parsimonia e vigilanza.

Ti ho visto come un bodyguard intento a non far uscire allo scoperto l’aria delle tue stanze segrete, operando in primo piano sull’esterno della realtà, degli eventi, della colliquazione delle cose e degli oggetti, sulle disfanie del mondo, come il buon “viaggiatore” di Heidegger, che tra Erfahren, Irrfahren e Erkunden svuotava con “l’esperienza del pensare” le identità oscure e misteriose della vita e della metafisica che ci sono capitate sulla noce del collo, come un colpo di machete.

Tutto un bel lavoro non c’è che dire. Nei versi che hai scritto, mi pare di intravvedere il Lichtung des Seins, come sprazzo di luce che esce allo scoperto diventando rivelamento umano, e ciò non può che essere fondamento principale della nostra condivisione come poeti e lettori.

da Registro di bordo, Progetto Cultura 2020

2

Centrum Palace: Hotel notturno
ci si arrivava in ogni ora del giorno e della notte.

Denise cercava la malinconia di Molière
tra le letterature straniere nella hall.

A Giulia dicemmo di stare alla larga dalle Epifanie
e dai giorni di Palmira.

Nel bonheur du your rimasero i fogli A 4-80
e un pamphlet mai finito.

Ludmilla ama le carezze.
Questa è una città che non ha cuore.

-Cara Evelyn, sono John, ti scrivo per dirti
che sto preparando un albero genealogico.

So che i miei nonni emigrarono negli Stati Uniti
fermandosi chi a Waterbury e chi a Boston.

Se hai altri indirizzi
scrivimi al 98 Copper Lantern Drive- U.S.A-.

Passarono i trasmigranti dell’aldilà
riconoscendo la via, il numero civico, gli abbaini.

Da tempo sono fuori onda
oltre i tuberi,oltre i vasi di terracotta.

Al Berliner Ensemble tornò Brecht
con musica di Klaus Maria Brandauer.

Una pesante leggerezza si adagiò sul divano
con la psicostasia riportata da Forbes.
3

Convegno alle 20 di sera in Alba Chiara
con i primi workshops.

Weber parlò a lungo degli organismi astratti
e delle idiosincrasie puntando su una nuova Metafisica.

C’erano appunti di Extensions del mese di maggio.
Uno si fece avanti leggendo My Story.

Kriss portò le foto del Muro di Berlino
facendo il meglio di Bresson.

C’è chi ricordò i due Peiniger del III Reich
a caccia del soldato Charlie.

Ha smesso di piovere. Usciamo all’aperto.
Non ci sono le condizioni di attendere l’azzurro.

Prendiamo lo snowboard
per arrivare a Piazza dei Miracoli.

Attacco di venti gelidi dai Balcani
mentre gustiamo infusi di zenzero e curcuma.

Bussano alla porta. -Conrad, vedi chi è?-.
-Sono Giuditta, Signore, la governante dei Conti Mineo.

-Si ricorda di me?
Prendevo con ritardo il treno Berlino-Milano.

Erano anni imprevedibili.
Non sembrano che le cose siano cambiate da allora.

Preferisco lo stile gabardine,
fino a quando ne ha voglia Nostro Signore di Acapulco-.
4

Questa sera ti farò conoscere Katia Labéque
e Viktoria Mullova, con Giovanni Sollima in B For Bang.

Ti truccherai, lo so, per il nuovo anno
alla fine dei bilanci.

Il terreno dove crescevano le nespole
è diventato arido e il tuo catino non serve più.

Riaprono i boulevards. Sembra la periferia di Parigi
quando Bennard finì di tradurre Amours Jaunes di Corbière.

Il cammino è un pensiero.
Per questo Ketty si chiude in se stessa.

L’hotel Flaubert non era il luogo più adatto
per vedere l’eclissi.

Una sera, Joelle, ci prestò la casa:
il meglio delle nostre vacanze a Roven.

Ho sfogliato il dizionario per trovare “Erfahren”
con la sola luce del comò.

Il libro di Pound si è sfilacciato
al Canto LXXXIV.
.
Clara ha un’idea di come sia il viaggio
pubblicato da Klostermann.

Non ne vuole parlare. Sa che ogni pagina
è un foglio inutile nella ricerca del poema.

Giorgio Linguaglossa

Nella poesia di Mario Gabriele e, in generale, nella poesia della nuova ontologia estetica, ciò che è fondamentale è il gioco stesso, non i giocatori. La poiesis diventa il libero campo di azione del «gioco» del linguaggio. In tal senso, si può dire che il linguaggio si prende gioco dell’uomo, fintantoché lascia fuggire l’uomo nella vertigine delle significazioni che gli fanno obliare il rischio e la posta in gioco del suo rapporto con il linguaggio.

È nota la diffidenza di Heidegger nei confronti del linguaggio ordinario. È per questa ragione che le sue riflessioni sul linguaggio non coincidono in ultima istanza con la teoria ermeneutica della «metaforicità fondamentale» del linguaggio elaborata da H.-G. Gadamer.

È nella misura in cui la poiesis riesce a prendere le distanze dal linguaggio ordinario che può ritrovare il gioco del linguaggio e con ciò il gioco della metafora. Nel linguaggio compreso come Sage, il mostrare prevale sempre sull’indicare. Ora, questo privilegio del mostrare (die Zeige) implica una nuova valutazione della polisemia. Il pensiero essenziale, quello dell’Ereignis, è essenzialmente polisemico. La messa in evidenza della polisemia non significa la confessione dell’impotenza di un pensiero che avrebbe fallito a dirsi nell’univocità del concetto o nell’univocità “canonica” di una logica.

La polisemia non è un in-differente, non è una proprietà neutrale del linguaggio ma ha la funzione di preparare a quell’Inatteso («Bereitschaft für das Unvermutete» di Heidegger) che è eliminato dal linguaggio ordinario, che da questo punto di vista, è interamente subordinato all’impero dell’opinione e del «si dice».

In una poesia devi poter avvertire lo stillicidio dello sbattere sul niente. Quello sbattere, quell’affondamento è la felicità della poesia, la sua continua incompiutezza e inadeguatezza, il suo costante periclitare e incespicare. Mario Gabriele, dopo tanti anni, corre il rischio di ritrovarsi nello stesso luogo di Marina Petrillo, di Marie Laure Colasson ed Ewa Tagher. Che quella inoperosità dovesse realizzarsi in un amplesso senza gioia di generare e dove solo il contatto, puntuale e disperato col nulla, portasse testimonianza dell’esserci qui, in questo tempo senza disperazione e senza felicità non lo avremmo mai creduto qualche anno fa.

Dopo Heidegger, nell’ipermoderno, l’ontologia si definisce non più come il fondamento del soggetto ma come una macchina linguistica, pratica e condivisa, come tessuto della praxis, ed il dispositivo ontologico come asse di ricomposizione costituente dell’operare e del linguaggio nel comune. Questa riqualificazione dell’ontologia porta a tutt’altro che al nulla. Una schiera di filosofi, da Nietzsche a Benjamin a Foucault e Agamben ha cominciato a leggere questo nuovo rapporto ontologico come decisivo sull’orizzonte dell’operare. In questa nuova accezione il nulla è nient’altro che un facere, un operare destituente, un operare decostruttivo, un operare istitutore di quel facere che è il nulla.

1 M. Heidegger, Was heisst Denken, cit., p. 83. («Se tuttavia qui è possibile parlare di gioco, il gioco non sarà un gioco di parole, perché è l’essenza del linguaggio che gioca con noi», Che cosa significa pensare II trad. it. di U. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1988, p. 15).

 

36 commenti

Archiviato in Senza categoria

Mario M. Gabriele, Poesie da Registro di bordo, Progetto Cultura, 2020, pp. 120 € 12, Commento di Giorgio Linguaglossa, La poiesis destituente in azione

Giorgio Linguaglossa

La poiesis destituente di Mario Gabriele in Registro di bordo

La poesia è un qualcosa che non ha testimoni. Nessuna sa perché è nata. Nessuno sa a che cosa serve. Non ha mittente e non ha destinatario, ha però la sua mimica; ed è problematico se a lasciare sulla sua superficie un’impronta più profonda siano i gesti linguistici coi quali essa s’intende con i suoi lettori o quelli che gli sono imposti dalla solitudine o dal colloquio con se stessa. Spesso una poesia sembra narrarci la storia dei suoi momenti solitari.

Il sistema di dominio della ratio si autocelebra nella totalità chiusa del «mondo amministrato». Penso che oggi un poeta che si rispetti debba mettere in atto una poiesis destituente, debba saper fare un passo indietro rispetto alla scrittura, saper mettere in moto la potenza destituente della poiesis rispetto ai linguaggi del «mondo amministrato». Penso che questa sia una via obbligata per una poiesis critica.

In questo suo ultimo libro mi sembra che Mario Gabriele abbia affinato un dispositivo del genere, un dispositivo destituente del soggetto per dare via libera all’affioramento delle zattere significazioniste dalla memoria dissestata, dalla memoria collettiva, dell’inconscio collettivo. Ho parlato, a proposito di questo metodo, di ladro di refurtive di altri ladri. Mario Gabriele pone in essere una trafugazione di frammenti, di rottami, di referti, di reperti, di rifiuti del mondo della civiltà cibernetica; e così compone le sue poesie, come una com-posizione, un polittico in distici, come un campionario di tessere semantiche non più significanti, uscite fuori dal periscopio della significazione. Gabriele pone in essere un metodo a-sistematico, e così compone i suoi polittici, liberamente, azionando gli scambi impazziti dei treni della significazione disarticolata dei giorni nostri. In questa accezione, considero Gabriele  un autore di punta della nuova ontologia estetica, perché pensa ed opera in modo radicale, mediante l’impiego a polittico di parole raffreddate, ibernate, di materiali a-sgnificanti, usciti fuori dal circuito della significazione del mondo amministrato.

Un pensiero meramente a-sistematico è acritico. Il concetto di totalità di cui il sistema è l’espressione filosofica ha, infatti, una duplice valenza. Il modello di totalità che si è realizzato in Occidente da un punto di vista storico-sociale è quello di una totalità agonistica e intimamente auto contraddittoria che oggi chiamiamo biopolitica, in cui il singolo corrisponde al tutto, afferma Adorno, in base ad una «disarmonia prestabilita». E, tuttavia, il concetto di totalità incamera in sé, come télos, anche il suo opposto: l’idea di una totalità conciliata è una idea utopica, nella quale l’antagonismo tra il tutto e le parti e tra le singole parti è finalmente risolto. In questo orizzonte destinale anche il sapere viene sottoposto alle esigenze della tecnica e smembrato, efficientizzato. La critica non liquida semplicemente il sistema. Semmai è il sistema che liquida la critica. Unità e armonia sono al tempo stesso le proiezioni distorte di uno stato conciliato, per una prassi della vita quotidiana che impone il dominio attraverso l’auto-controllo degli impulsi e dei pensieri più reconditi.
Scrive Adorno:

«Il frammento che non ospiti in sé un momento di compensazione rispetto a questa dinamica disgregatrice, si rivela non solo impotente, ma rischia di scadere in un cattivo particolare – per questo occorre, afferma Adorno – ricostruire l’istanza utopica che era posta nel cuore dell’esigenza di totalità dell’idealismo anche quando se ne rifiuta il concetto.
Ciò che è giusto nell’idea di sistema: non accontentarsi delle membra disiecta del sapere, bensì procedere verso il tutto, anche se il tutto si rivela essere il falso»1.

E, nella Dialettica negativa: «Solo i frammenti in quanto forma filosofica potrebbero far tornare in sé le monadi illusoriamente progettate dall’idealismo. Essi potrebbero essere rappresentazioni nel particolare della totalità irrappresentabile in quanto tale».2
La totalità adorniana viene evocata nella forma benjaminiana della costellazione:

«L’espressione dinamica della costellazione coincide quindi da un lato con la possibilità dell’oggetto di darsi, mostrando la sua eccedenza rispetto all’ente della conoscenza, e dall’altro con quella del soggetto di svilupparsi come altro dal suo essere identità che crea altre identità».3

La totalità che i frammenti intendono restituire come potenza destituente e come indice della propria costellazione non è il «positivo» o il «trascendente» della metafisica tradizionale. Positiva la totalità lo è solo nel senso di imporsi come mero factum sul particolare, e nello stesso senso essa è trascendente rispetto a questo perché non è fissabile in alcun punto come tale, e tuttavia, per lo stesso motivo, la totalità è lungi dall’essere impalpabile, è anzi, dice spesso Adorno, l’ens realissimum.

L’amministrazione da condominio del consenso amministrato delle società tecnologiche rende la prassi artistica sempre più analoga alle esperienze gastronomiche e deculturalizzate del Kitsch. Non c’è via di uscita da questa antinomia se non mettendo fuori gioco la prassi artistica, non accettare nulla gratis. Ed è quello che fa la poesia di Mario Gabriele, altrimenti si finisce nell’imbonimento del silenzio, il che segna un vantaggio considerevole per l’arte ammaestrata e gastronomica del Kitsch. La parentela tra il Kitsch culturale e il Kitsch non-culturale, vedi le poesie di Zeichen e della Lamarque, si va sempre più assottigliando: alla fin fine non si riesce più a distinguere una battuta di spirito del poeta di Fiume da una battuta da bar dello sport perché se si accetta la filosofia dello spot e della battuta di spirito, tutto pende peristalticamente verso la battuta di spirito tout court. «Tutto pende da ciò da cui dipende» diceva Michelstaedter. Se il «Totum è il Totem» (Adorno) ne discende che il «Totem è il Totum». Il Tutto è una costruzione peristaltica che sta bene alla filosofia imbonitoria e pacificatrice che vorrebbe gli uomini imbelli, sanificati dai vaccini della demagogia, proprio oggi che si parla a vanvera contro i vaccini perché colpevoli di aver salvato la vita a decine di milioni di persone, io mi sentirei di dichiarare: dissentiamo dal Totum, facciamo un’arte irriconoscibile, impenetrabile, antimbonitoria rimettiamo in piedi quello che adesso cammina sulla testa.

1 Th. W. Adorno, Vorlesung über Negative Dialektik , cit., p. 177.
2 Ibid., p. 167.
3 Th. W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 27-28

[Cover de Il Mangiaparole n. 6 dedicata a Mario M. Gabriele]

Mario M. Gabriele,

da Registro di bordo, Progetto Cultura, Roma, 2020

9

Sei rimasta come le foglie del bonsai.
Mi scrivi: – salutami Stella e le amiche di Parma. –

Esco di rado. Qualche volta mi fermo al Cabaret.
Riapre il Nasdaq di Londra con le start-up a 10 Buy.

Non lontana dai borghi
c’è la discarica delle stagioni.

Ci riserviamo le prognosi future
e le segrete stanze dell’illusione.

Rispuntano gli ologrammi.
Stasera ci fermiamo con i turisti by night.

Leggo e ripongo After Strange Gods
dopo una giornata di meteo invernale.

Qui prepariamo i bouquet
per i compleanni della famiglia.

– Signora, sono arrivati i tulipani. Glieli mando a casa
così nessuno potrà dire: per chi suona la campana! –

C’è sempre un tempo per nascere
e un tempo per morire.

A digiuno ci fermammo nella certosa
ricordando Debora e Barak.

La nostra amica americana si è sposata con la tristezza
da quando ha letto Day by Day.

.
10

Tocca a Jeffry scegliere i Gospel Singers
e non un solista tzigano.

Signora Ingeborg, cosa si aspetta da questo concerto?
È un’operetta su un ultimo mon amour!

L’uomo che si riconobbe baco da seta
oggi indossa vestiti Jersey.

Benny non badò alle spese
nei giorni di Soweto.

Nella mansarda sono rimasti i posters
e le vecchie biciclette martin-martin.

Sembrava una cineteca
con il ritratto di Bruno Ganz nel film La casa di Jack.

Padre Hubert cura il giardino di albicocche,
salva le ragazze venute da Santa Cruz.

Chris propone un open day
sulle equivalenze estetiche.

Se non ci saranno avvisi di Warning
continueremo a cercare Laura Palmer sotto i ponti.

Jodie vive di malinconia a Norwich.
Scopre le carte per trovare il Jolly.

– Qui – dice -, passo i giorni
tra il metrò e il London Eye.

La Meridian House, alle sette di sera, apre il repertorio
con il canto degli invisibili e delle rimembranze. –


11

L’inganno delle tre carte
con l’elzeviro di Janette su le Figaro.

Il giorno che peccammo non fu il primo
e neppure l’ultimo.

Musica da radio Deejay
in attesa del rapido 673.

Ci fu un attacco nel Finale di Partita
tornando alla locanda.

L’ultima neve di marzo
segnò la fine dell’inverno.

Riaprì il Teatro della Crudeltà
di Peter Brook e Charles Marowitz.

Mancavano Giuda dal ramo e Lazzaro nella tomba.
Ma i più erano uomini senza ali e passione.

Blondy ogni sera prepara le gocce di melissa
senza il Roipnol.

E non desidero altro, davvero non desidero altro
se non la crème brûlée, e la rosa canina.

E tutti i borghi che portano a Milgate
e a All Those Yesterdays.

13

Hai lasciato la dimora e il Grande Gatsby
con gli oggetti che non ti parlano più.

L’anticiclone mise in pausa l’ira dell’inverno
senza passare sulle cime dell’Adamello.

Giorni si susseguono nel ritmo dell’hukulele.
Uno verrà col fiordaliso in bocca.

Buona parte dell’anno è passata
senza effrazioni sulla pelle.

Al Biffi Hotel rimanemmo
per conoscere la varietà dell’Essere.

ora pensi a dicembre
segnando le date da riesumare.

I vestiti autunnali
li abbiamo lasciati ai ragazzi del Bahrain.

Mister Wood agita mente e anima,
non sopporta i Concerti Brandeburghesi.

Torniamo in superficie
col rumore di fondo dopo Quickly Aging Here.

Dura il mese bisestile.
Barkeley canta Crazy.

21

È tornata Milena. Mi riconcilio con Pound
e The Shorter Poems.

Suona il Jukebox di Ginsberg.
Chi ricorda Tambourine man?

Sono con te Rosmina, con te e Baby Bull.
Che dice oggi il meteo? Si può andare a Parigi?

Da un morso di serpe è nato un fiore.
Karima sa come accendere il fuoco.

Dormi se vuoi. Così ti abitui alla morte.
Adam è tornato a rivedere la barista di Fellini.

Chi scriveva ai posteri
non sapeva di mandare la lettera ai fantasmi.

Dalla roccia non esce più acqua.
Ella Fitzgerald va oltre Lady be good.

Un enorme telone di juta ritrae Picasso.
e Les demoiselles d’Avignon.

La bromelina ha ridotto l’edema.
È caduto dal muro il Bacio di Klimt.

L’osteria all’uscita da Como vendeva alcaloidi
per il lungo viaggio fino a Donnalucata.

Jang Son Bai ha di nuovo acceso un haiku.
I capricci di Buddha lo tengono in vita.

L’anima di Fred non trova posto nel Paradiso.

92

Chi lasciò gli scarti autunnali non pensò al passato.
Rimasero i posters di Georges Mathieu e Guernica.

Clara portò via i golden books col pickup
dimenticando Les fleurs du mal.

-Andiamo in giardino a gustare i sorbetti-
disse il turista venuto da Nashville.

Non bastavano le corde
a ridare suono al sestetto newyorkese.

Marisa riordinò gli arredi
lasciando al gatto Musumeci i residui di Gourmet.

L’ingresso alla Casa dei Doganieri
era senza le Guardie del Corpo.

Un’aria fredda si fermò sulla pelle dei muri
dove Banksy aveva lasciato la figura di un orsetto.

Lilly cantava la canzone dei vent’anni
nel gelo di dicembre.

Due mesi, soltanto due mesi,
e poi chiuderò con le primroses.

La bufera portò via
il capannone dei circensi.

La donna cilena si era fatto un tesoro
portando i cani nel giardinetto.

Ritrovammo la carta nautica
senza l’isola di Crusoe.

28 commenti

Archiviato in critica della poesia, nuova ontologia estetica, Senza categoria

 Letizia Leone, Poesie scelte da Viola norimberga, Progetto Cultura, Roma, 2018 pp. 100 € 10 – con una Ermeneutica di Donatella Costantina Giancaspero. La storia vista da un colore

Letizia Leone Viola Norimberga

part. di Der beste Doktor di Alfred Kubin, cover di Lucio Mayoor Tosi

Letizia Leone è nata a Roma. Si è laureata in Lettere all’università  “La Sapienza” con una tesi sulla memorialistica trecentesca e ha successivamente conseguito il perfezionamento in Linguistica con il prof. Raffaele Simone. Agli studi umanistici  ha affiancato lo studio musicale. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF organizzando corsi multidisciplinari di Educazione allo Sviluppo presso l’Università “La Sapienza”. Ha pubblicato: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008);  La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi (2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011. Nel 2015 esce Rose e detriti testo teatrale (Fusibilialibri). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (Perrone 2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da camera (Versi erotici delle maggiori poetesse italiane), Perrone Editore, 2012. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016), con il medesimo editore nel 2018 pubblica la silloge Viola norimberga. Sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia contemporanea, How The Trojan War Ended I don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019.

Allucinazione e paesaggio

Di certe pergamene che maestri profeti avevano letto solo a se stessi
di notte e nel deserto, nessun frammento aveva superato il tempo.
Ed ora l’ultima piaga:
la grande moria delle api.
Tra gli atti estremi della predazione: il saccheggio dei pollini fatati, delle api bottinatrici, dei fiori operai.
Verso l’estinzione

Bucata e piatta ormai la terra,
senza più venti
aria ferma dall’alba al tramonto. Una grossa bolla ardente
come in una stufa la vampa aveva prosciugato tutte le sorgenti.
E sebbene si fossero dimenticati i nomi di quei venti, si teneva duro in un battere i brividi nei denti.
Nilo, Alisei, Zefiri, Boree?
Nomi sacri per la carie del cielo
o per il taglio secco di un fiume.
Qualcuno si domandò:
Cosa avranno provato gli uomini quando chiamarono per la prima volta il cielo“cielo” e il mare “mare”?
Sarà sgorgato un po’ di colore azzurro? Si saranno sollevate le onde irruenti?*
Mare, Mare, Thalassa…Quale volteggio azzurro sotto la cappa di vapori e ossidi!

Estinti i sogni, il sonno degli umani così cupo intero fondente. Una scatola di buio.

Ma qualcuno scrutava i segni al fuoco di candela.
Dentro una tenda studiava come sbrogliare il groviglio colossale di tutte le materie del pianeta.
Studiava superstizioni, vacue leggende di frutti e di fiori, i felici impulsi della natura. Come porre un freno allo sgretolamento della creazione?
Necessitava una riparazione.
Inoltre in molti si erano persi e sarebbe stato difficile dirglielo.

Il campo era sovraffollato e il deserto andava loro incontro.
Se la luce è pensiero (così dissero i patriarchi) quel faro abbagliante del giorno era febbre, follia, malattia.

Troppi confidavano in lui, nella sua guida.
Chi possiede un alfabeto ha accesso a più segreti e lui era l’unico che sapeva leggere numeri e simboli.
Come un antico padre del deserto avrebbe dovuto guidarli al cospetto degli alberi maestosi,
gli animali immobili della guarigione,
le creature che costruivano giardini.
Trovare un albero sarebbe stato come trovare una cisterna d’acqua pura, una colonna di vita che avrebbe restituito protezione e nutrimento.
Ma ovunque alberi tagliati senza un fiato e senza un lamento. Abbattimento delle sequoie. Cortecce scorticate e legno per le crocifissioni.
Radure di mozziconi crudi e neri.
La mappa dei delitti ardenti. L’antico cuore del pianeta tutto brucato.

Ma a chi dire quelle cose?

Se qualcuno ricominciasse a provare pietà.
Si fermasse commosso a contemplare le sterpaglie lungo i sentieri di polvere,
a guardare il cielo tozzo che pesa sul mondo e a dire: “bello”
a indovinare le stelle oltre il coperchio opaco dell’atmosfera.

Lui allora sollecitò i gruppi a rimettersi in cammino.
Intorno onde di sabbia e gente abbattuta che dormiva nei sacchi.
Nessun animale in giro.
Le bestie, dissacrate e umiliate, erano state consumate come cibo o usate in modo feroce come giocattoli per i più deboli.
Avevano disseminato la terra di oggetti. Le scorie della Storia segnavano il cammino e orientavano chi tornava disperato sui propri passi.
Quanti utensili degli antichi popoli spensierati.

Lui si tormentava. Avrebbe dovuto confessarlo a quei disgraziati che non sapeva niente, né dove andare e tanto meno che fare. Quali boschi? Quale refrigerio di un albero? Quale antico giardino descritto nei codici miniati?
Aveva raccontato solo menzogne.
Era tutto morto intorno e loro erano in trappola dentro una brocca di tenebra. Scappavano dalla cenere.

Una folla gli si accalcò intorno “non ci puoi abbandonare! Sei l’unico che conosce la storia!”. Le donne piangevano: “La rivelazione?”
Tornare a guardare. Ricominciare a guardare oltre il filo spinato, ma da sopravvissuti.
Riportare un ricordo felice dentro le baracche,
accumulare poche forze e mettersi in marcia. Ricalcare i propri passi e raccogliere i semi curativi nei ciuffi d’erba che avevano resistito.
Sguardi di compassione.

Alcuni capi non erano d’accordo. Era questo il prodigio che aveva promesso?
Qualcuno aveva letto i libri e ne citò delle frasi.
“Ma noi abbiamo ceneri alle spalle!” gridò un altro dal fondo.

Alcuni aspettavano l’apparizione di Dio su qualche monte,
fosse anche una discarica o perfino il mucchio dei cadaveri.
In fondo erano tutti stanchi dei sentimentalismi, amore, compassione ma nessuno lo diceva.

Molti anni dopo arrivò la notizia dell’interrogatorio di Mosè, di come gli furono estorte informazioni su lettere e alfabeti.
Lui sapeva leggere e interpretare, era in grado di scrutare l’abisso che celava ogni lettera. Il loro lato in ombra,
cosa nascondesse l’Alef
o se era veramente un gancio la Jod.
Le lettere erano anche madri. Il segreto e l’essenza.
Bisognava andare a serrare le porte che erano state dissigillate, aperte, violate. Usando una sola lettera.
Semplice a dirla così.
Lo interrogarono ferocemente per cento notti.
E lui alla fine confessò che a far vibrare la vocale e ad attivarne il potere non era più compito da uomo ma da uccello.

Avrebbero dovuto ripopolare il cielo di uccelli e di insetti,
rifarlo azzurro, e poi far cantare tutti, corvi e colombe.
Il nome di Dio non era cosa per bocca umana.
Ne spettava ormai la pronuncia a disumani sospiri.
Magari alle api, le messaggere irruente degli odori.
Riallacciare i nodi arcani e segreti della natura. Ma lasciare fuori questa volta le creature pericolose. Gli uomini. Se Dio era là tra gli alberi, se Dio era un albero.

“È vero che Dio ha sigillato il mondo col suo nome di cento lettere?” lo incalzarono gli aguzzini.
I suoi ultimi pensieri furono per certe lettere misteriose che avevano il potere di suscitare la creazione…
Lo misero a capo della fila che attraversava i bagni. Il capo della rivolta.
La carne scoppiata di dolore.
“Guida il tuo popolo, Mosè”, urlavano sferrando calci, e lui sentiva urla e risate anche dalle orecchie spappolate.
Riscaldò di rosso le piastrelle bianche.
Quando le parole si scrivono col sangue diventano inesauribili.
Intanto una donna pia aveva messo quel dolore sotto vetro e ne aveva fatto conserve invernali per tutti.

Finché un giorno le prime scintille scappate fuori dal Libro dello Splendore fortificarono l’erbetta malata che brillò di pioggia mista a cenere.
Nessuno riusciva a decifrarlo quel libro di vecchie storie

ma bastava pronunciarlo
come alfabeto cantarlo
per far scappare fuori il più luminoso dei giorni.
Quando un cinguettio spaccò la sabbia.

La vita povera è ricca di sensazioni.

Uno che scriveva poesie origliò dal barattolo del dolore:
Eppure il passero ci offre un’immensa lezione: come trasfigurare la sua povertà in festa, la sua vulnerabilità in grazia*
I melograni dell’immaginazione allora glorificarono il giardino delle promesse
e il garofano abbandonato alla finestra dal giorno della deportazione
si scoprì in piena fioritura sotto il sole delicato dell’equinozio.

Mosè avrebbe voluto dire.
Lontano il campo di sterminio.

* Odisseas Elitis
* Dai Diari di Hatty Hillesum.

Ermeneutica di Donatella Costantina Giancaspero

La storia vista da un colore

 

Scrive Giorgio Linguaglossa nel retro di copertina:

« Il Processo di Norimberga iniziò il 20 novembre 1945 e durò fino al 1 ottobre 1946. Oltre ai 24 accusati avrebbero dovuto essere processati anche Adolf Hitler, cancelliere della Germania e principale responsabile di tutti i crimini, Heinrich Himmler, capo della SS e della polizia e Joseph Goebbels, il capo della propaganda nazista, ma costoro si erano suicidati già una settimana prima della fine della guerra. Nella lista degli accusati avrebbe dovuto esserci anche Adolf Eichmann e Josef Mengele, due dei massimi responsabili del genocidio degli ebrei, ma entrambi erano riusciti a fuggire in Sudamerica. Mi chiedo: perché una poetessa italiana, Letizia Leone, dà alle stampe un’opera che si ispira al famoso processo? La poetessa romana racconta con un senso di orrore e di disappunto, come una colpa, con un linguaggio irrigidito da quella immane tragedia che è diventata la tragedia dell’umanesimo europeo; in realtà, la cultura e l’arte nulla possono per fermare la mano di un assassino, è questo il punto. «Questa Storia/ Non si può scrivere a mezzogiorno», la poesia nata come canto è stata oggi derubricata a funzione accessoria non necessaria, e allora sarà la successione delle immagini, dei fotogrammi a fare la poesia, sarà unicamente il montaggio dei frammenti e dei lacerti dell’orrore. E questo comporta la conseguenza della massima spersonalizzazione dell’autore e del destinatario dinanzi al referto linguistico. Niente tridimensionalità acustica, retorizzazioni, iconologie, canto, niente commento, solo i frammenti di uno specchio rotto: ossimori, enunciati sghembi, contaminazioni lessicali, un vortice linguistico che è lo stigma dello stile. È il modo personale della Leone di erigere una barriera stilematica chiusa. Libro della piena maturità questo della Leone che osa l’inosabile, nominare l’impronunciabile.» Continua a leggere

26 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Edith Dzieduszycka, Squarci, Racconti poetici, Progetto Cultura, 2018 pp. 180 € 12 – Loro, con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa e il Video del poemetto Traversata, voce recitante Pino Censi

 

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa del libro Squarci di Edith Dzieduszycka, Progetto Cultura, 2018 pp. 180 € 12

Questi tredici racconti poetici di Squarci sono fondati sulla catena metonimica, viaggiano sullo «spostamento» più che sulla «condensazione», vogliono andare al fondo della materia infiammabile che costituisce l’inconscio. Il linguaggio dell’inconscio è metonimico per eccellenza, ha una sua strategia per aggirare ed espungere le difese dell’io. Ma l’io reagisce, passa al contrattacco, inventa «una storia», «delle vite», afferra «frammenti»:

Inventare una storia
una vita
delle vite.
Afferrare frammenti
strappati rubati sfilati ad altri
altri inconsapevoli indifesi spogliati
privati della propria pelle
dal guscio protettivo
aperti sventrati esposti agli elementi.
Tutte emanazioni macerazioni carcasse
sbranate dal becco degli avvoltoi
dal dente delle iene
dalla bocca degli sparlatori
dall’indifferenza dei saggi
dal giudizio degli stolti.

L’io vuole raggiungere la domanda ultima, quella definitiva, ma si trova in scacco, non sa chi ha scritto quella «domanda», ed è costretto a capitolare. Con un tonfo:

Ecco.
Ci siamo.
Doveva finire così.
Era scritto che finisse così.
Scritto da chi?
Bella domanda…

Il primo racconto accenna a dei misteriosi «personaggi» che «si negavano con ostinazione», che «si mantenevano allo stato larvale… nascosti nella culla del possibile»; si dice chiaramente che sono dei «fantasmi», «ectoplasmi» che stanno «immobili fermi zitti/ invisibili senza voce/ senza forma né consistenza», che sperano «di passare inosservati», di sfuggire alla «trappola».

Nel secondo racconto c’è un personaggio femminile che «non riconosceva più sua madre […] Con quella voce di metallo arrugginito/ che le sgorgava dalle budella»; «sua madre voleva intaccare il magma… inventare storie sempre più terribili», «quello che cercava ed inseguiva/ le sfuggiva si ritraeva si allontanava/ risucchiato dalla nebbia».
Il personaggio di questi racconti è l’io colto nelle vicissitudini che comporta la stabilizzazione di una identità «la paura di non essere pronta / di mancare all’appuntamento/ arrivare presto arrivare tardi/ trovare strade sbarrate…». L’io si rivela essere un isolotto circondato dal magma pulsionale di un mare inospitale che vuole espungerlo, infirmarlo, dimidiarlo. La crisi dell’io è la crisi del Logos, crisi del linguaggio, inadeguatezza del linguaggio a identificare le «cose», inadeguatezza dell’io ad identificare i suoi nemici, interni ed esterni, reali e fantasmati. Di qui la labirintite dell’io e il suo cedimento strutturale.

Nel terzo racconto la vecchia automobile Opel viene mandata dallo «sfasciacarrozze», da quel momento l’oggetto automobile viene internalizzato e prende la forma di un fantasma che ossessiona nel ricordo la mente della protagonista che passa da divagazione a divagazione, la catena metonimica che conduce l’io sull’orlo della follia… e compaiono «alcuni personaggi [che] attirano la mia attenzione», finché lungo il percorso da pendolare che il personaggio fa ogni giorno, incontra «un essere luminoso» con «lunghi capelli biondi fino alle spalle», non viene specificato il sesso di questo misterioso personaggio ma forse è un transgender in quanto per l’inconscio dell’ossessivo l’Altro non ha una identità sessuale ma soltanto una nominale, figurale. Ecco che l’Altro si ripresenta di nuovo, sul treno dei pendolari con «una grossa borsa di tela nera/ un astuccio da violino/ che non avevo notato la prima volta». Il racconto rimane in sospeso, viene interrotto nel punto più interessante quando il lettore vorrebbe saperne di più. Ma qui fa capolino l’ignoto, il mistero, l’insondabile.

Nel quarto racconto il protagonista è una «pagina immacolata/ sulla quale tutto diventa possibile/ dove tutto può succedere». «Ci sono i viziosi che si fanno le seghe/ e si masturbano sui sedili da soli o in coppia». E poi c’è Marta, la moglie del tassista protagonista, l’alter ego dell’io narrante, insipida e bigotta donna che castra le fantasie narrative del marito narrante. Il racconto va avanti fino a quando…
Nel quinto racconto, «Traversata», c’è una «porta» che si socchiude, e gli «erranti» vanno «tutti verso quel sogno». «Ombre sulla soglia./ Quattro./ Una per ognuno dei punti cardinali./ Ombre grigie silenti in attesa».

Cercavano un’uscita
una porta
una porta qualunque
alla quale bussare
una porta
socchiusa nella memoria.
Dietro la quale
impazienti
voraci
li aspettavano
dall’alba dei tempi
quattro Ombre grigie.

Nel sesto racconto, «Loro», la narrazione raggiunge il climax. I «fantasmi», gli «ectoplasmi», «Loro./ Impalpabili./ Inafferrabili./ Tu ne eri cosciente./ Sentivi che anche Loro/ sapevano/ che tu li percepivi». Qui la belligeranza tra l’io e l’inconscio raggiunge la massima intensità, l’ostilità diventa violentissima, rischia di travolgere la fragile impalcatura auto organizzatoria dell’io. «Tanti contro uno./ Loro contro di me./ I Titani in azione». Ma l’io ha un’arma segreta, segreta in quanto costituita da soldati inconsapevoli: «le mie Amazzoni e i miei Gladiatori/ fedeli e devoti/ pronti a buttarsi nel fuoco per me. Non sanno niente di Loro/ né delle mie battaglie contro di Loro./ E se per caso sanno fanno finta di niente/ ma rinserrano i ranghi/ perché hanno sempre capito/ che la mia sconfitta sarebbe anche la loro».

Il settimo racconto, «Genesi», troviamo l’io ridotto alla sua nudità autoreferenziale:

Sono io.
Solo all’interno di me stesso.
Perché?
Perché io ?
Perché ora ?
Perché qui ?
Non lo so.
Mai lo saprò.
Una cosa soltanto so.
Sono vivo.
Vivo.

Non c’è scampo per l’io che è costretto a girare a vuoto come una duchampiana macchina celibe, l’io che vive «all’interno di me stesso… nell’inferno di me stesso», non ha altri argomenti che chiedersi: «Perché tutto questo?».

L’ottavo racconto, «Desprofondis», narra dell’inarrestabile processo di cadaverizzazione dell’io. Scompare il tempo, scompare lo spazio. Ecco il finale:

Si spalancò
di fronte a lei
una porta gelatinosa
dietro alla quale regnava un nulla nero
accogliente.
Non fece in tempo a chiedersi
se si trattasse dell’inizio
o della fine di quel viaggio.
Insieme alle entità sconosciute
che l’avevano trascinata
posseduta
assorbita
digerita
scivolò via
senza neanche accorgersene.

Il racconto successivo, «Prisma», è la narrazione di una «orrida vertigine/ d’un sogno senza senso/ d’un pozzo senza fondo». Tutti i segmenti del racconto sono il resoconto stenografico di una discesa agli inferi, in un luogo senza fondo «trappola più del pozzo». Sono scomparsi anche gli «ectoplasmi» che inseguivano l’io, ormai l’io è braccato, assediato, costretto in un «pozzo» dalle pareti verticali. Sono scomparsi spazio e tempo.
Nel racconto che segue, «Ritorno», l’io è diventato una «bambina» che non distingue più «tra mito e realtà/ sogno e desideri/ fantasmi e ricordi», il tutto è un «mosaico sconnesso/ così inestricabile/ da non poterne più delimitare/ i punti d’intersezione». L’io «dava la mano a suo padre/ questo sconosciuto./ Sprofondava con lui/ nel cuore d’una foresta»; «un merlo nero dal becco giallo/ si alzava in volo un momento/ poi si posava di continuo/ per aspettarli e mostrare loro la strada».

Tutto a un tratto guardò lo sconosciuto.
E lui la guardò
facendo un passo verso di lei.
La sua mano era diventata enorme e grigia.
Sembrava l’ala spiegata di un uccello rapace.
Lei stava sull’orlo del precipizio
il piede reggendosi appena sulla terra cedevole.
Chiuse gli occhi e aspettò.

Rimase così.
Preda. Sospesa.
Vuota sul vuoto.
Un secondo
un secolo
un’eternità.

Nell’undicesimo racconto, «Piccolo», «niente di niente/ la storia si è fermata,/ inceppato il meccanismo», l’io è diventato un nano. Nel dodicesimo, una donna parla della sua vita:

Un marito l’ho avuto.
Tempo fa.
Non ricordo nemmeno quando esattamente.
Un essere tecnologico.
Non un uomo di scienza.
No.
Non ha niente a che vedere.
Un robot sarebbe più giusto come definizione.
Un robot amante dei robot.
Avrebbe dovuto sposare una bambola gonfiabile.

Siamo giunti al tredicesimo racconto: ormai è inutile interrogarsi, le domande si sono inaridite, inabissate. «La vera prima era prima./ Ma non ero in grado/ né di capire/ né di ricordare». Adesso il nodo inestricabile s’è sciolto. La soluzione è arrivata. Come sarà nella prossima vita?

Sarà come ci hanno insegnato?
Sarà tutto diverso?
Non sarà?

Se me lo chiedete gentilmente
forse verrò a raccontarvelo
una sera d’inverno…

https://youtu.be/t4rIzauiCjE

Il retro di copertina recita:

Questi  tredici racconti poetici di Squarci sono fondati sulla catena metonimica, viaggiano sullo «spostamento» più che sulla «condensazione», vogliono andare al fondo della materia infiammabile che costituisce l’inconscio. Il linguaggio dell’inconscio è metonimico per eccellenza, ha una sua strategia per aggirare ed espungere le difese dell’io. Ma l’io reagisce, passa al contrattacco, inventa «una storia», «delle vite», afferra «frammenti». L’io vuole raggiungere la domanda ultima, quella definitiva, ma si trova in scacco, non sa chi ha scritto quella «domanda», ed è costretto a capitolare. Il primo racconto accenna a dei misteriosi «personaggi» che «si negavano con ostinazione», che «si mantenevano allo stato larvale… nascosti nella culla del possibile»; si dice chiaramente che sono dei «fantasmi», «ectoplasmi» che stanno «immobili fermi zitti/ invisibili senza voce/ senza forma né consistenza», che sperano «di passare inosservati», di sfuggire alla «trappola». In questi soliloqui illocutori  di Edith Dzieduszycka la catastrofe annunciata non avviene mai, viene sempre prorogata. Con il che il discorso illocutorio riprende sempre di nuovo come il ritorno di un fantasma dell’inconscio, giacché è chiaro che i personaggi che qui «parlano», sono Figure dell’inconscio, Ombre dell’Es. La scrittura dell’inconscio è onirica, si situa tra la veglia e il sonno, nella scissura tra «senso» e «significato», in quella zona d’ombra in cui si può sviluppare un discorso finalmente «libero» sia dal senso che dal significato, libero dal sistema articolatorio dell’io. Il motto di Lacan: «Penso dove non sono e sono dove non penso»,  indica la zona occupata dall’Es e dall’inconscio.
Una poesia come questa di Edith Dzieduszycka e della «nuova ontologia estetica» non si può comprendere appieno senza tenere nel debito conto il ruolo centrale svolto dall’inconscio e dall’Es nella strutturazione del discorso poetico, un grandissimo ruolo è giocato dall’Es, dalla sua istanza linguistica effrattiva.

LORO

È ovvio.
Le cose non possono più andare in questo modo.
Devo prendere dei provvedimenti.
Devo correre ai ripari.
Proteggermi dagli attacchi concentrici
sempre più ravvicinati
che Loro stanno piano piano organizzando
per accerchiarmi
rovinarmi
annientarmi. Continua a leggere

15 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Intervista Mario M. Gabriele a Giorgio Linguaglossa sulle tesi di Critica Della Ragione Sufficiente, verso una nuova ontologia estetica, Progetto Cultura, 2018 nel nuovo contesto socio-culturale di oggi.

Critica della ragione sufficiente Cover Def

1) Domanda.

Caro Giorgio,

è appena uscito il tuo volume: Critica Della Ragione Sufficiente, (verso una nuova ontologia estetica), presso le Edizioni Progetto Cultura di Roma, 2018, pagg. 512, 21 Euro, Art-director Lucio Mayoor Tosi, volevo chiederti il senso di questo tuo nuovo lavoro critico, in risposta agli editori nazionali, più intenti a storicizzare e a periodizzare le voci dei poeti generazionali, che a riportare progetti di poesia fuori dall’elegia fenomeno tipico della poesia italiana. Per fortuna non si parla più di canoni o mini canoni, questo sembra un buon segnale.

Risposta:

Il sotto titolo del libro parla chiaro: «verso una nuova ontologia estetica», con il che si vuole intendere il percorso di pensiero che bisogna fare per introdurci dentro le categorie di una nuova ontologia. Le cose non avvengono a caso, se poeti di lungo corso come te, Anna Ventura, Steven Grieco Rathgeb, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Talia e poetesse più giovani come Letizia Leone e Chiara Catapano e altri che ci seguono: Mauro Pierno, Alfonso Cataldi, Vincenzo Petronelli, Francesca Dono… si sono riuniti attorno ad un progetto di «rottura» del conservatorismo della poesia italiana. La «rottura» era ed è necessaria, anzi, è indispensabile e inevitabile dopo un cinquantennio di sostanziale stasi del pensiero poetico. Per i «poeti», diciamo così, istituzionali, la mancanza di principio è diventata una posizione di principio. Altri poeti, invece, per esempio, Lucio Mayoor Tosi, ha preso atto dell’eclissi del principio e ne ha tratto tutte le conseguenze… E la disseminazione è diventata una ricchezza imprevista, la distassia e la dismetria sono diventate una insperata ricchezza. E il linguaggio poetico si è rivitalizzato.

In fin dei conti, ogni poeta non può fare altro che tracciare i bordi della propria mappa metafisica. Steven Grieco Rathgeb tenta in tutti i modi di tracciare i confini di questa mappa, sono più di trenta anni che ci lavora. Lui la mappa l’ha già tracciata: sono le poesie che tiene gelosamente nel cassetto. Come Kikuo Takano, Steven Grieco Rathgeb è rimasto in silenzio per tre decenni perché l’imperversare di un clima ostile alla poesia, qui in Italia e in Europa, glielo impediva. Non che adesso il clima sia mutato, ma sono venute a cadere le ragioni, le paratie, le giustificazioni che gli artisti di solito danno a se stessi e di se stessi; sono venute ad evidenza tutte quelle chiacchiere-di-poesia o poesia-chiacchiera di cui sono pieni i romanzi e le poesie che si fanno «oggi». Chiacchiere, ciarle, battute da bar dello spot, la poesia di Zeichen, di Magrelli, per fare due nomi noti, e degli odierni epigoni della masscult.

Per tanti troppi anni è stato problematico, qui in Italia, ai poeti di un certo livello tracciare la geografia della propria mappa spirituale e stilistica. Siamo stati assediati dalla anomia delle proposte di poetica pubblicitarie e dalle battute da bar dello spot, siamo stati impossibilitati a scrivere poesia… Anna Ventura, Steven Grieco, Gino Rago, Donatella Costantina Giancaspero, Letizia leone sono poeti ossessionato dalle «parole», dalla gratuità e dalla faciloneria con la quale la poesia alla moda tratta le «parole», la faciloneria con la quale si mettono le «parole» sulla carta bianca, con cui si sporca la carta bianca, e le parole diventano equivoche e ciarliere. Le parole per Steven sono simili alle «pantegane» di una sua poesia che entrano ed escono liberamente nel e dal nostro corpo… qualcuna si impiglia nella rete che il poeta predispone meticolosamente in anni di lavoro, così che può lavorare con quelle «parole» rimaste impigliate nella rete, mentre la poesia che si fa oggi assume le parole rimaste impigliate nella rete a strascico gettate dai pescatori di frodo e dai tombaroli di «parole».

La brutta poesia dei nostri giorni disgraziati è fatta con le parole della chiacchiera e della stolida, superficiale nequiziosità.

«Ciò che resta lo fondano i poeti», scriveva Hölderlin, ma si tratta di un povero reame fatto di «cose» dismesse che le persone di buon senso hanno gettato nella spazzatura; il poeta oggi raccoglie quelle «parole» inutili gettate nella discarica e le riutilizza. Non può fare altro che andare alla ricerca delle «parole» nella discarica delle parole. Anche la poesia di Gino Rago è fatta con le «parole» trafugate dalla discarica pubblica. La vera poesia del nostro tempo è fatta con queste «parole» di cui le persone per bene si vergognano e che ripudiano…

Il poeta del nostro tempo disgraziato non può che dire:

Torno dall’esilio. Torno dalla libera caduta.
Così mi racconto.
La mia lingua è un alveare.

(Gino Rago)

 

Foto Richard Serra (1939) the labirint

Richard Serra, The Labirint (1939) – ci troviamo all’interno di una nuova ontologia della forma-poesia

Mi rendo conto che mi manca il linguaggio per entrare dentro una poesia,

mi accorgo soltanto adesso che io, che provengo dal lontano Novecento, non ho più un linguaggio per fare della critica letteraria e sono costretto ad entrare in un linguaggio necessariamente filosofico. Il linguaggio della critica letteraria è diventato obsoleto, e, a volte, anche risibile. Non avendo più un linguaggio critico sono stato costretto ad andarmelo a cercare, e non è un caso che io (noi), della generazione degli anni ’40 e ’50,  io (noi) della nuova ontologia estetica, che abbiamo vissuto in pieno sulla nostra pelle la crisi di quegli anni e che quindi deteniamo la memoria storica della crisi, dicevo, io (noi) posso  (possiamo) pensare ad una via di uscita da quella crisi… trovo però che sia oltremodo difficile e problematico che autori più giovani di noi che non hanno vissuto nella propria carne e nella propria memoria storica quella crisi, possano, siano in grado di elaborare una piattaforma di rifondazione come quella che abbiamo messa in campo, cioè la nuova ontologia della forma-poesia, per il semplice fatto che, per motivi biografici, non sono i possessori-detentori di quella memoria storica.

È molto tempo che noi parliamo di un «nuovo paradigma della forma-poesia», la «nuova ontologia estetica», nella sostanza è questo: un nuovo modo di intendere le categorie fondamentali della forma-poesia. Molti interlocutori si sono spaventati e irrigiditi. Lo so, lo capisco, forse è difficile accettare di dover cambiare i significati delle parole d’ordine ai quali ci ha abituato un pensiero estetico obsoleto. Io porto molto spesso l’esempio dei fisici cosmologi, la fisica del cosmo sta facendo un balzo stratosferico, da far rabbrividire; il fisico teorico Erik Verlinde, forse il più acuto fisico teorico del mondo, ha capovolto e dissolto i concetti della fisica cui eravamo abituati e ha indicato un nuovo «modello teorico» per la lettura dell’universo; il fisico tedesco ha dichiarato candidamente che la materia oscura dell’universo non esiste mettendo in subbuglio la comunità scientifica, ne deduco che non c’è affatto da spaventarsi per il nostro modo di proporre un nuovo paradigma delle categorie estetiche della forma-poesia.

Abbiamo perduto la patria metafisica delle parole

Mi sia consentito dire che non è possibile alcun oltrepassamento della metafisica se non c’è stata una metafisica, e per metafisica intendo delle parole vere, pesanti, pensanti, una patria di parole comuni. Per tanto tempo la poesia italiana ha smarrito la sua patria metafisica delle parole, almeno, a far luogo da Le ceneri di Gramsci (1957) di Pasolini, lì le parole abitano mirabilmente un’unica patria. Se mettete in fila tutte le parole del lessico di quella raccolta, vi accorgerete che tutte quelle parole abitano una medesima Grundstimmung, una medesima tonalità emotiva dominante. Dopo di allora la poesia italiana perderà progressivamente il vocabolario della poesia; ci saranno a disposizione, utilizzabili, molte, miliardi di parole dissimili e variegate e si perderà addirittura la memoria della loro comunanza gemellare. Non dico che dopo di allora non siano apparse opere significative nella poesia italiana, dico una cosa diversa, dico che nelle opere che sono venute dopo si andrà indebolendo ciò che tiene insieme le parole comuni di un’epoca e di una lingua dentro una cornice, una rete tono simbolica, che è la cornice di una lingua e di un’epoca; qui non si tratta della cornice di un quadro di proprietà privata che può essere alienata a piacimento o che i singoli poeti possano alienare liberamente, essa è inalienabile e inalterabile, al massimo, i poeti la possono condividere quando si creano delle situazioni storiche e spirituali singolarissime, quando in taluni rari momenti della storia vengono a coincidere distinti momenti dello spirito di un’epoca, allora viene ad esistenza, diventa percettibile la struttura trascendentale di una patria linguistica.

Che ce ne facciamo di una patria sempre più lontana, estranea e indifferente, di cui non conosciamo il suo contenuto, il suo indirizzo, i suoi abitanti, una patria che ci fa sentire inidonei e inospitati ospiti della «casa dell’essere»? Quella «casa» ormai appare essere sempre meno la nostra «casa» ma un «appartamento» ammobiliato, con suppellettili a noi estranee, indifferenti, che si presenta sempre più come un luogo indisponibile, inaccessibile e irriconoscibile.

Mi sorge il sospetto che quella «casa dell’essere» sia ormai divenuta qualcosa che non sappiamo più riconoscere, che quella lingua che si parla laggiù è una lingua straniera, dai suoni imperscrutabili e incomprensibili. Mi sorge il sospetto che con quella lingua sia ormai improponibile scrivere poesia, non abbiamo più il lessico, non abbiamo più una grammatica e una sintassi che ci possa accompagnare nel nostro viaggio, mi sorge il sospetto che abbiamo perduto la nostra patria metafisica delle parole.

Foto semafori sospesi

Che cos’è una patria metafisica?

2) Domanda: Continua a leggere

63 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, intervista, nuova ontologia estetica, Senza categoria

Una favola di Mariella Colonna, Poesie di Mario M. Gabriele da In viaggio con Godot (2017) di Yang Lian e di Silvana Palazzo da La mia faccia senza trucco (2018) – Scarti, stracci e citazioni a cura di Giorgio Linguaglossa – citazioni di T.W. Adorno, Pier Aldo Rovatti, Maurizio Ferraris, Jacques Lacan, Pensieri  poesie e aforismi intorno alla Nuova Ontologia Estetica

 

gif nel sonno

Ah, Belle Epoque de la feuille d’antan,
reverie des poètes, la plus semblable a la mort
et a la nouvelle vie de l’Art!

Una favola di Mariella Colonna

Foglia e farfalla

Trascini le rosse ali fino a terra
la pozzanghera celebra la tua morte-nascita riflettendo il cielo
in una foto d’epoca.

Ah, Belle Epoque de la feuille d’antan,
reverie des poètes, la plus semblable a la mort
et a la nouvelle vie de l’Art!

Il cielo si riflette sulla foglia per terra,
è indignata la luna chissà perché, don Felipe
se inunda de paz blasfema
chupa de su cigarro de cinco céntimos
su vida de una muerte ingloriosa.

A las cinco en punto de la tarde russian lullaby para Ignacio
y al Nino Jesùs, Ninna nanna in italiano,
Ninna nanna dal Cremlino perché non pianga più.
Duerme Nino que tu madre nunca te dejarà, duerme Nino
que la luna ya te inunda de paz.

Dormi dormi Bimbo bello,
chiudi gli occhi, non vedere
com’è diventato il mondo!
La neve, appena scesa
dalla rosa bianca
numinosa, del giardino ove sei nato
garofano del cielo…

Dormi, sogna che una foglia
del tramontodoro basta per consolare
in te tutto il Creato.
Ella non sa mentire, trascina le ali
fino a terra dove la pioggia celebra la sua Morte
con la Messa da Requiem di Verdi.

Così la Morte è bella ed è uguale per tutti alla Vita,
è libera, ci libera.
Herr Cogito, confessa i tuoi limiti:
non sei capace di evocare la Primavera universale!

Meglio il Signor Nemo,
dicono che abbia creato l’Universo…
Se è vero, Nemo non è chi dice di essere!

Alleluia!*

*[poesia in corso di stampa nel volume Il Fantasma di Lacan, Progetto Cultura, collana Il dado e la Clessidra]

Foto Karel Teige_1

redigere «manifesti», organizzare «gruppi», «movimenti», «tesi», «decaloghi», «avanguardie», «retroguardie»…

Scarti, stracci e citazioni a cura di Giorgio Linguaglossa

Vorrei dire agli innumerevoli interlocutori che ci hanno accusato di redigere «manifesti», organizzare «gruppi», «movimenti», «tesi», «decaloghi», «avanguardie», «retroguardie» etc. che, di contro alla immobilità degli ultimi 50 anni della poesia italiana, per la prima volta in Italia è apparsa una pratica della poesia e una teoria della poesia e della scrittura letteraria in generale, che non è più soltanto una avanguardia» né una «retroguardia», né un «movimento», né abbiamo aperto un esercizio per la vendita al dettaglio degli affari propri e correnti, né una legge finanziaria con tanto di capitoli di spesa per prodotti all’ingrosso e al dettaglio, ma è qualcosa di diverso, è un movimento di pensiero e di azione teorica e di pratica poetica da parte di alcuni poeti di diversissima estrazione e provenienza che ha deciso di rimettere in moto il pensiero poetico, non si tratta di una vendita all’asta al miglior acquirente, né di una domiciliazione bancaria delle proprie rendite di posizione, né di una poetica pubblicitaria e di vendite promozionali come è avvenuto nel corso del secondo novecento, la nostra non è né una cosa né l’altra… contro i timorosi del «nuovo», contro i conservatori ad oltranza, contro chi reclama la conservazione della tradizione (come se essa fosse un capitale che sta in banca a produrre altro capitale parassitario ad interessi fissi), contro chi è recalcitrante alle nuove forme estetiche, contro chi pensa che scrivere poesia lo si possa fare a spese della tradizione utilmente collocata nel proprio bagaglio pret à porter, riporto qui un pensiero di Adorno:

T.W. Adorno

“Gli argomenti contro l’estetica «cupiditas rerum novarum», che così plausibilmente possono richiamarsi alla mancanza di contenuto di tale categoria, sono intrinsecamente farisaici. Il nuovo non è una categoria soggettiva: è l’obbiettiva sostanza delle opere che costringe al nuovo perché altrimenti essa non può giungere a se stessa, strappandosi all’eteronomia. Al nuovo spinge la forza del vecchio che per realizzarsi ha bisogno del nuovo… Il vecchio trova rifugio solo nella punta estrema del nuovo; ed a frammenti, non per continuità. Quel che Schömberg diceva con semplicità, «chi non cerca non trova», è una parola d’ordine del nuovo […] Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obbiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo (e ciò è esemplare per le categorie dell’arte moderna) è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale, nome per modi di comportamento artistici per i quali il nuovo è vincolante, si è conservato; esso però indica ora un elemento qualitativamente diverso… indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo”. “la categoria del nuovo è centrale a partire dalla metà del XIX secolo – dal capitalismo sviluppato -. “L’oscuramento del mondo rende razionale l’irrazionalità dell’arte: essa è la radicalmente oscurata”. “Nei termini in cui corrisponde ad un bisogno socialmente presente, l’arte è divenuta in amplissima misura un’impresa guidata dal profitto” .1]

Scrivevo tempo fa, riprendendo una affermazione di Paul Valéry secondo il quale «il mercato universale ha oggi prodotto un’arte più ottusa e meno libera», che l’Amministrazione degli Stati moderni ha imparato la lezione, è l’Amministrazione globale che gestisce la Crisi e gli oggetti della Crisi, e che la Crisi è nient’altro che il prodotto di una Stagnazione Permanente.

Pier Aldo Rovatti

«Non sarà più possibile trattare le parole nei limiti di un linguaggio oggetto, perché se da qualche parte esse fanno sentire il loro peso, sarà dalla parte del soggetto: lungi dall’eclissarsi, come molti nietzschiani vorrebbero far dire al testo di Nietzsche, il “soggetto” diviene tanto più importante come questione per tutti (e di tutti) quanto più l’uomo rotola verso la X (con la spinta che Nietzsche ci aggiunge di suo). Passivo, quasi-passivo, attivo nella passività; soggetto-di solo in quanto (e a questa condizione) di sapersi-scoprirsi soggetto-a… La frase di Nietzsche documenta, come tutte quelle che poi la ripetono, una condizione della soggettività, di cui sarebbe semplicemente da sciocchi volerci sbarazzare (sarebbe un suicidio teorico)… Ma sappiamo anche che è innanzi tutto e inevitabilmente una questione di linguaggio, e che l’effetto davanti al quale preliminarmente ci troviamo è un effetto di parola». 2]

 Maurizio Ferraris

«l’inventore della scrittura cercava un dispositivo contabile, ma con la scrittura si sono composti versi, sinfonie e leggi;, l’inventore del telefono voleva una radio, e viceversa; chi ha inventato le tazze da caffè americano non prevedeva la loro destinazione parallela a portapenne; l’inventore dell’aspirina pensava di avere scoperto un farmaco antinfiammatorio, mentre una delle sue più interessanti qualità è che sia un farmaco antiaggregante, quindi fluidificante del sangue, come sì è capito più tardi; l’inventore del web pensava a un sistema di comunicazione tra scienziati, e ha dato vita a un sistema che ha trasformato l’intera società. Lo stesso cellulare è evoluto da apparecchio per la comunicazione orale ad apparecchio per la comunicazione scritta e la registrazione, smentendo l’assunto secondo cui la comunicazione costituirebbe un bene superiore alla registrazione, e l’oralità un veicolo di scambio più gradito, naturale e addirittura appropriato della scrittura…».3]

 1] T.W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, 1970, trad. it. pp. 32,33
2] Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2007, pp. XX-XXI
3] Maurizio Ferraris, Emergenze, Einaudi, 2016 pp. 120 € 12

*

Mario M. Gabriele

da In viaggio con Godot (2017)

1
CANTOS

Un Ermitage con combine-paintings
di Rauschenberg
e un guardiano al limite degli anni
dove chi va oltre non lascia traccia;
-tanto vale restare qui,-
disse Alicia che temeva il cambio di stagione.

Non è stato facile lasciare la casa in via delle Dalie.
Giose è rimasto con Benedetta in Guysterland *
e con le piccole gocce di lacrime amare.
Quando non è nel Vermont
manda romances and poems.
Non basta un dollaro per incontrare la Bella Carnap
fatta di pelle di capra e zoccoli d’oro.

Sweeney ha oltrepassato il confine,
lasciando un Frammento di prologo
dopo aver salutato per sempre Mrs.Turner.
Abbiamo trovato serpenti nel giardino.
Una sofferenza l’ha patita la farfalla
prima di volare sul concerto
per pianoforte e orchestra di Richter.

Kafka uscì distrutto nel Processo.
Ci fu chi riferì su l’Assassinio nella Cattedrale
ma i vecchi del borgo giocavano a poker
senza fare nomi.

Donna Evelina piantò le orchidee nel giardino.
Lucy mi volle con sé a vedere l’erba sotto la pietra.
Un abate ci invitò a salvare l’anima.
-La città – disse, -è un luogo proibito
e l’azzurro è il centro dell’iride.-
Un cappellino di velluto rosso
accolse le lacrime dal cielo
come un’acquasantiera.
Alle nostre panchine tornammo
a spargere semi,
germogliando e appassendo dentro casa.

A piedi nudi ci avviammo
in un bosco di prataioli notturni.
Il freddo ci lasciò contriti,
non indietreggiò davanti ai rami
abbattuti dalla neve.
Non sapeva che da lì, a breve,
sarebbero venute le idi di marzo.

Fernandez non conosceva Caroline in Sickness.
-Buenos dias, Senior. Siamo turisti,
veniamo dal Sud per vedere Guernica
e il Ritratto con Maternità
su fondo bianco di Francoise Gilot
e dei suoi due bambini. Ne sa qualcosa?-
-Yo no tengo mucha idea de cuáles son los lugares:
más interesantes de esta zona pero me han hablado
del Teatro National-.

Sulla Swiss Air leggemmo i racconti ginevrini
e la Salamandra di Octavio Paz.
Si fa colazione insieme, questa mattina, Miriam,
dopo il saccheggio dei sogni.
La notte è ancora cuscino e coperta.
Oh, Principessa, qui davvero comincia il count down!
La stanza accumula fumi, si ridesta al mattino.
Tutto si rallegra in un Buon giorno Madame.
La terra è un braciere. Non vale discuterne ancora.
Già le cose, come sono, ci spezzano le dita.
Non c’è porto sicuro dove andare.
Aspettiamo ancora un miracolo
da Nostra Signora di Guadalupe.
Ora siamo in due a sognare una gita
non prima aver chiuso il giardino,
ritoccato il viso a Marybloom,
così non può dire che la giovinezza è sparita.

Ancora una volta l’anno è passato.
La pioggia rivuole le sue note da pianoforte.
Una musica dal sottoscala saliva al cielo.
Natalie Cole cantava: Unforgettable.
Ora i miei morti sono quelli che non ricordo.
Gli altri, figuranti nella memoria,
vivono in orizzonti stretti,
se ne stanno in silenzio, nel giardino di Klingsor.

*[Giose Rimanelli, professore di letteratura italiana e comparata all’università di Stato di New York ad Albany.Scrive in italiano e in inglese. Ha pubblicato numerose opere tra cui il romanzo Tiro al piccione Mondadori (1953), da cui fu tratto anche un film.]

2

Ci sono miracoli che non vedi.
Le lancette a mezzanotte.
Ti fermi e guardi il mondo scorrere.
Piccoli prodigi portano le ore.
I giorni di febbraio sempre più corti e amari.
E poi uno gli vien da dire perché siamo qui.
A Vienna Sigmund trovò la via.
Le mazurke d’Europa.
Sempre viaggi nei giorni dell’anno.
Fuori di casa, qualcosa verrà:
cadeau o memorie d’amore.

La pittrice Veronica Asmund
ricorda i colori di De Kooning.
L’unica cosa che piaceva a nonna Eliodora
era un collier etoile de Paris,
ma quando venne l’ora di uscire dal ghetto
volle leggere Lady Lazarus,
prima di inoltrarsi nel bosco
di ortiche e rose di maggio.

Lucy, attenta agli oroscopi,
seguiva il segno del Capricorno.
Per due mesi raccogliemmo gambi d’avena.
Marisa aprì le imposte,
donò la vecchia Singer a una ragazza del borgo.
-Resterete qui con la polvere della terra-
sentenziò una voce.

La notte ha mille ragioni per celare i segreti.
Tornammo al passato,
alle strette del cuore di Lady Caudilla
e a tutte le preghiere nel Coventry House.
Pensa tu, a ritrovarci domani
nel giardino delle mimose!

*

[Sulla Swiss Air leggemmo i racconti ginevrini
e la Salamandra di Octavio Paz.
Si fa colazione insieme, questa mattina, Miriam,
dopo il saccheggio dei sogni. M. Gabriele]

Pensieri  poesie e aforismi intorno alla Nuova Ontologia Estetica

Il soggetto è quel sorgere che, appena prima,
come soggetto, non era niente, ma che,
appena apparso, si fissa in significante. Continua a leggere

5 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, nuova ontologia estetica, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Critica della ragione sufficiente (verso una nuova ontologia estetica) Roma, Progetto Cultura, 2018, pp. 512 € 21 – Lettura critica di Mario Gabriele – Oltre il limite elegiaco e alcyonesco della poesia italiana – Poesie di Dunya Mikhail, Ewa Lipska, Mario M. Gabriele, Giorgio Linguaglossa, Traduzioni in inglese di Adeodato Piazza Nicolai

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Questo Repertorio critico dal titolo: Critica Della Ragione Sufficiente (verso una nuova ontologia estetica), Edizioni Progetto Cultura, gennaio 2018, di Giorgio Lingualossa, nasce come proposta di cambiamento del linguaggio poetico, rispetto alla palus putredinis che ha caratterizzato un lungo periodo di immobilismo estetico, fatta eccezione per le poche alternative sperimentali, che non sono andate mai al di là del loro riscatto formale. In questa situazione di stabilità linguistica, era più che logico ridiscutere sui vecchi parametri  senza proporre alternative rivoluzionarie, ma solo il distacco dalla Tradizione massonica del potere editoriale, che ha influito su generazioni intere nell’arco di un secolo: il Novecento.

Questo avanzamento critico lo si attendeva da tempo, a monte della incomprensibile staticità espressiva che ha ridotto al minimo ogni proposta innovativa del linguaggio. Trattasi di un rapporto complesso, ampiamente supportato da parametri ontologici, che introducono una  morale estetica rispetto al grande depistaggio informativo rimesso in discussione, grazie a un nuovo tracciamento ermeneutico. Un’opera dagli innumerevoli profili estetici; una chiara riconduzione agli aspetti variabili della transizione e formalizzazione del logos e dei suoi derivati, portati allo scoperto e immessi in un tempo rimodernizzato  dopo la crisi della cultura occidentale e della forma poesia.

Linguaglossa ci fornisce le coordinate per la lettura dei testi esaminati, liberando il bendaggio metaforico all’interno della parola. Il critico finisce con l’essere un produttore di materiale merceologico di diversa griffatura e peso specifico. La questione del Soggetto-Forma diventa essenziale per articolare ogni discussione sulla nuova ontologia. Dato l’ampio ventaglio critico non sembra di trovare un paragone di allineamento come le antologie poetiche in Italia, che hanno sempre avuto un ruolo omissivo, sostenuto da una critica militante con le chiamate a correo di altri antologisti come Porta, Berardinelli e Cordelli, Mengaldo, Cucchi e Giovannardi e i tanti rapporti sulla poesia sempre più  elitàri e riduttivi, che solo per ristabilire la verità si dovrebbe permettere anche agli altri il diritto di rivelare la parola negata. Cosa che ora avviene con la Critica Della Ragione Sufficiente, in opposizione  alle  mappe di semplice replay. Quando si parla di antologie, il pensiero corre subito ad un curriculum di opere e di poeti su tutto il territorio nazionale; cosa difficile a realizzare, mentre dovrebbe essere più che accettabile produrre opere innovative, in contrasto con l’atteggiamento critico e poetico, di ieri e di oggi.

 

[Lucio Mayoor Tosi, acrilico]

Nella Critica Della Ragione Sufficiente, si potrebbe dire che gli spazi dedicati alla nuova ontologia diventano dispense critiche tra Soggetto e Oggetto, Tempo Interno e Tempo Esterno, Quadridimensionalismo, Fugacità dell’Essere, e Messa in opera del Frammento, nonché le varie sezioni relative al “Concetto del reale” all’Evento”, al “Problema del linguaggio”, a “L’esserci del tempo”, al “Concetto di traccia e di metafora” e a tutte le altre categorie inerenti lo Strutturalismo. Se leggiamo questo ampio repertorio, ci si rende subito conto che l’autore innesta un discorso autoptico sulla poesia sclerotizzata. Scrive Linguaglossa:”I tempi sono talmente limacciosi che dobbiamo ritornare a pensare le cose semplici, elementari, dobbiamo raddrizzare il pensiero che è andato disperso, frangere il pensiero dell’impensato, ritornare ad una “ragione sufficiente… per una nuova ontologia estetica della forma poesia, un orientamento verso il futuro, anche se esso ci appare altamente improbabile e nuvoloso, dato che il presente non è affatto certo”.

Qui si saldano insieme ottimismo e pessimismo sulla scorta di come sono andate le cose in letteratura e nel groviglio delle proposizioni  antologiche e poetiche. La curvatura tra il vecchio linguaggio e il nuovo è evidente; diventa percezione tattile, testuale nel ricambio estetico. Scriveva Sanguineti che l’antologia “è un genere letterario anfibio, oscillante tra il museo e il manifesto”. Nulla di tutto questo è rilevabile nella nuova ontologia critica di Linguaglossa, nella quale vi si accede attraverso tangenziali di diversa diramazione per le nuove generazioni poetiche, in quanto quelle di vecchia data vivono in un museo a sé. Il progetto linguaglossiano ha la discontinuità col passato, ne traccia il limite elegiaco e alcyonesco, prende atto che l’immobilismo linguistico fa parte di una  atmosfera senza ossigeno.

Qui non si tratta di omologare l’extraletterarietà, ma un nuovo punto di sopravvivenza della poesia, e chi ne mette in dubbio ha da rivedere  il proprio modo di affiancarsi al passato rispetto alla post-modernità. Questo revisionismo intorno allo stile e alla forma, determina una epoché fenomenologica di singolare novità. Le  alternanze linguistiche che si sono susseguite dagli anni Sessanta ad oggi, sono derivate dalla necessità biologica di avere una nuova lingua, e chi ha accettato il ricambio poetico, ha lasciato sempre una traccia dalla quale poi si è venuto a determinare il protocollo del proprio tempo linguistico.

Anche nell’antologia La parola plurale (2005), il prefatore, Andrea Cortellessa, conclude che “la poesia si è confrontata con la sua storia, passata e in corso. Ha sostenuto il governo della nostra lingua in un momento nel quale nel mondo essa si è ridotta, per altri usi… l’ha fatto perché ha mantenuto sempre aperta  l’ipotesi, la – speranza – del nuovo”. Che poi le tematiche plurioggettive di ricerca sulla metafisica, sulla ricapitolarizzazione scientifica dell’Universo, sull’uso e abuso dell’oggetto-significante, e delle figure retoriche come l’allegoria, l’anacoluto, l’anafora, l’antitesi e l’anticlimax ecc. siano o meno gli attrezzi d’officina adoperati dal poeta, questo è prerogativa dell’Homo Faber e di come egli si colleghi con la realtà.

Linguaglossa  scandaglia il fondo della seconda metà del Novecento, facendone un bilancio volumetrico di opere e di autori diversi per linguaggio e sensibilità. L’operazione tende a mettere in luce un umanesimo culturale volto al ricambio estetico con la NOE (nuova ontologia estetica), come elemento di comunicazione espletato attraverso la coscienza di scrivere per arginare il declino e la democrazia totalitaria del linguaggio tradizionale. Le indicazioni di chi sta  operando un cambiamento, sono da intendere come effetto di superficie di ogni autore che ha ritenuto di riprogettare la poesia secondo una propria scala di valori. C’è, infatti, una idea che è Progetto e Forma secondo l’effetto d’urto con il mondo esterno. Ciò non toglie al lettore il diritto di rimanere vincolato alla  propria “dipendenza” estetica, di fronte a quello che gli si propone, soprattutto come aggiornamento culturale. Gli autori trattati, e qui ci si riferisce a quelli che hanno una diretta adesione alla NOE, hanno un ritratto esegetico del loro percorso.

“Il concetto di contemporaneità (come il concetto  di «nuovo» – scrive Linguaglossa -) è qualcosa che sfugge da tutte le parti, non riesci ad acciuffarlo che già è passato; legato all’attimo, esso è già sfumato non appena lo nominiamo. Questa situazione della condizione post-moderna è la situazione dalla quale ripartire. Ricominciare a pensare in termini di Discorso poetico – scrive Giorgio Linguaglossa – significa adagiarlo stabilmente entro le coordinate della sua collocazione post-moderna”; un discorso poetico che è appunto la costruzione che cementifica la molteplicità dei frammenti e li congloba in un conglomerato”. In questo caso Giorgio Linguaglossa finisce con l’essere un apripista che realizza il senso di una nuova ontologia estetica dai tratti filosofici, metalinguistici, stilistici e analitici, nel segno della vitalità corporea correlata al logos.

Sono considerazioni queste che se metabolizzate dal lettore, portano verso la dimensione intuitiva del pensiero poetante, senza azioni di frenaggio da parte di chi ha altri obiettivi. In altre parole, la poesia non deve mai rinunciare al suo sviluppo cellulare, biologico, semantico ecc. Le istanze innovative del linguaggio sono, a parità di sviluppo mentale della personalità del lettore e del poeta, l’insieme delle loro qualità, che non devono mai retrocedere a comportamenti regressivi o di semplice ideologia ostruttiva. La pietra lanciata da Giorgio Linguaglossa avrà sicuramente onde di ritorno  sulla battigia che rimane un approdo sicuro dopo il suo tour critico.

(Mario M. Gabriele)

Collana-Il-dado-e-la-clessidra-nera

[Il dado e la clessidra, simboli della omonima Collana di poesia di Progetto Cultura]

Gino Rago

Condivido pienamente la lettura critica di Mario Gabriele la nota psicofilosofica di Giorgio Linguaglossa sulla poesia di Tiziana Antonilli [del precedente post], quest’ultima davvero in grado di introdurre nella stagnazione diffusa dell’epigonismo debole un’autentica novità d’accenti nell’energia espressiva di versi che mi ricordano echi assai prossimi alla voce per me più alta della poesia europea contemporanea: Ewa Lipska, della cui poesia -del ciclo del “cara Signora Schubert” – mi sono irresistibilmente invaghito.
Invito i lettori a leggere ad alta voce le dense composizioni di Tiziana Antonilli tenendo in mente questo capolavoro di

Ewa Lipska

Il protagonista del romanzo

“Cara signora Schubert, il protagonista del mio romanzo
trascina un baule. Nel baule ci sono la madre, le sorelle, la famiglia,
la guerra, la morte. Io non sono in grado di aiutarlo.
Si tira dietro quel baule per duecentocinquanta pagine.
Non si regge più in piedi. E quando finalmente esce dal romanzo,
viene derubato di tutto. Perde la madre,
le sorelle, la famiglia, la guerra, la morte. In un forum
su internet scrivono che gli sta bene.
Forse è un ebreo o un nano? I testimoni
affermano che taceranno su questo argomento.”

 

Giorgio Linguaglossa

cara Signora Schubert

alla maniera di Ewa Lipska

Cara Signora Schubert, che dire?, la protagonista del mio romanzo
un tempo è stata carne viva, si portava sempre dietro
una borsetta con tutto il necessaire per il trucco
e la cipria per coprire le rughe del viso…

È andata in giro per l’Europa
per inseguire il suo uomo… Amsterdam, Amburgo, Vienna,
Venezia, Budapest… che dire?,
oggi lei non rimpiange nulla, perché nulla è reale,
ha amato Herr Cogito quando amare era diventato problematico,
lui non aveva avuto il tempo per ricambiare il suo amore
e così teneva la sua foto nella tasca interna della giacca,
ogni tanto la tirava fuori per ammirare
i suoi riccioli biondi, mentre viaggiava con la valigetta diplomatica
lì sul treno blindato che trasportava Lenin
verso il fronte russo…

sa, amarsi sul treno blindato non è proprio l’ideale…
così il tempo passò che alla guerra
era stato fissato…
ma poi iniziò subito dopo un’altra guerra,
e riprese ad inseguire il suo amore per le città bombardate dell’Europa…

poi anche quella guerra finì come finiscono tutte le guerre,
i soldati ritornarono alle loro case
e ritornò anche Cogito,
in un telegramma con un indirizzo: via delle ciliegie
4° edificio presso il cimitero Dorotheenstädtischer Friedhof, in Chaussestraße
alla periferia di Berlino est.
Magnolie e margherite.

Traduzione di Adeodato Piazza Nicolai

Ewa Lipska

Protagonist of the Novel

“Dear Misses Schubert, the protagonist of my novel
drags a wardrobe trunk, In it the mother, sisters, the family,
war, death. I am unable to help him.
He’s dragging that trunk for twohundred and fifty pges.
He no longer can stand on his feet. And when he finally exits the novel
they steal all he owns. Looses the mother,
the sisters, the family, the war, death. In an internet
forum they write that he deserved it all.
He’s maybe a hebrew or a midget? Witnesses
declare they will remain mute on this matter.”

Giorgio Linguaglossa

dear Misses Schubert

in the style of Ewa Lipska

Dear Misses Schubert, what can I say?, the protagonist of my noverl
was once living flesh, she always brought with her
a small bag with all necessities for make-up
and the face powder to cover her wrinkles.

She went around in Europe
to follow her man… Amsterdam Hamburg, Vienna,
Venice, Budapest … what is there to say?
today she has no regrets since nothing is real,
she loved Herr Rogito qhen loving had become problematic,
he didn’t have the time to return her love
and so kept her photo in the inside pocke of his jacket,
from time to time he pulled it out to admire
her blond curls while he travelled with his diplomatic bag
on the armoured train taking him to Lenin
toward the Russian front…

you know, loving each other on the armoured train really wasn’t the best…
thus time passed that was fixed
by the war…
but then immediately started another war,
and he began again to chase after his love in the bombed-out cities of Europe…
then also that war ended like all wars come to an end,
soldiers returned to their homes
and even Rogito came back,
in a telegram addressed to : Street of the Cherries
4th Building, next to the cemetery Dorotheenstadtischer Friedhof in Chaussestrasse
at the periphery of East Berlin
Magnolies and marguerites,

© 2018 English transltion by Adeodato Piazza Nicolai 2 poems: one by Ewa Lipska and the other by Giorgio Linguaglossa. All Rights Reserved.

Mario Gabriele da In viaggio con Godot (Progetto Cultura, 2017) Continua a leggere

26 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, nuova ontologia estetica, poesia europea, Senza categoria

Alfredo de Palchi, Testi scelti da Estetica dell’equilibrio, Milano, Mimesis Hebenon, 2017 pp. 80, € 10, con una Interpretazione di Donatella Costantina Giancaspero

foto ipermoderno La classica Neverfull Louis Vuitton

né rispetto né nobile rigore dalle azioni dell’antropoide…

Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York. Ha diretto la rivista Chelsea (chiusa nel 2007) e tuttora dirige la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto, e tuttora svolge, un’intensa attività editoriale. Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; II edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus Novi Ligure (AL): Edizioni Joker, 2010. Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a far tradurre e pubblicare in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane. Nel 2016 pubblica Nihil (Milano, Stampa9) e nel 2017 Estetica dell’equilibrio (Mimesis Hebenon).

Foto 4 femme blanche

7 aprile 1945… quattro energumeni antropoidi armati di pistole e parabellum mi si piazzano a pochi passi davanti… io adolescente antropoide in disfatta guardo i quattro musi incerti se fucilarmi in piazza addosso una vetrina di tessuti..

Nota dell’autore

Ogni mia raccolta di poesie, inclusa questa di Estetica dell’equilibrio, si formò con lo stile scelto dal soggetto in prima stesura. Anche quest’ultima raccolta, accantonata precisamente per sei mesi, l’ho revisionata.

Ciascuna delle quattro sezioni ha il titolo adatto al proprio soggetto che fa immaginare straordinari concetti abbigliati di poesia in prosa. Naturalmente per me autore sono verità rivelate dalla realtà repellente dell’uomo dai suoi primordi al presente. Ovviamente, io sono autore, soggetto, e repellente  protagonista uomo.

È poesia in prosa, stile direi ignorato dai poeti italiani, i quali, se il materiale non è in versi, è semplice prosa. Allora penso che dubitino della grandezza di poeti francesi dell’Ottocento, notevoli anche di poesia in prosa, e quelli del Novecento. Ce ne sono pure in una Italia della prima metà del Novecento, però nessuno ci crede o ci pensa.
È sconcertante che una Italia medievale sforni annualmente centinaia di illusi addetti alla vana missione di voler superare il loro maestro Petrarca. Non lo ammettono, eppure ci insistono…

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto liricoInterpretazione di Donatella Costantina Giancaspero

Credo che questi testi del nuovo libro di Alfredo de Palchi, Estetica dell’equilibrio, appaiano quantomeno singolari ed abnormi ad un lettore italiano di oggi, disabituato dal linguaggio letterario corrente dal leggere testi scritti nell’antichissimo genere dell’invettiva. Oggi in Italia non si scrivono più da decenni invettive, quasi che questa forma fosse divenuta indicibile; ma l’indicibilità è la condizione assoluta affinché vi sia linguaggio e linguaggio poetico in particolare, per l’ovvia ragione che, se tutto fosse dicibile, cesserebbe di esistere anche il linguaggio. Lacan ci informa che il linguaggio poetico è la lacerazione, lo «strappo» del linguaggio ordinario, il «trauma» del linguaggio; là dove non può giungere il linguaggio ordinario può giungere il linguaggio poetico. Ma, per far questo, per rendere possibile questo obiettivo, il linguaggio poetico deve darsi una Estetica dell’equilibrio, un luogo in cui le lacerazioni e le avulsioni della lingua di relazione trovino finalmente una giustificazione e una composizione estetica. Di solito, un poeta arriva a questo luogo in tarda età, quando le revulsioni, le avulsioni, le intemperanze e le belligeranze della giovinezza si sono acquietate: allora è qui che è possibile per il poeta tracciare una propria estetica dell’equilibrio. Ma si tratta di un equilibrio instabile, incerto, frammentato, scheggiato, momentaneo, contingente. Paradossalmente, questo «equilibrio» è il sigillo di autenticità anche dell’arte moderna, perché afferma la sua contiguità con la morte, il suo parteggiare per la stasi avverso l’entropia di tutte le cose. Ecco perché io intendo questo libro di Alfredo de Palchi, non solo come una «estetica dell’equilibrio», ma anche come una «estetica della morte», una «estetica del male», una invettiva, la più possente che sia mai stata scritta da un poeta italiano contro la sua patria, i suoi abitanti e gli abitanti del pianeta Terra. La dizione poetica di de Palchi è la più asciutta immaginabile, è il pensiero urticante e rabbioso che pensa l’«infondatezza» dell’io e della specie homo sapiens, la sua mancanza costitutiva, il suo essere male, inautenticità, menzogna; de Palchi impiega un linguaggio di «cose», usa la parola come un oggetto contundente scagliato contro il lettore interlocutore, usa un linguaggio irriconoscibile nella sua forma: né poesia né prosa; un linguaggio piegato alle esigenze della comunicazione diretta, diretta come può essere un pugno dato in pieno viso. Alfredo de Palchi non avvisa il lettore, non impiega giri di parole, non lo prepara, lo colpisce con quanta più urticante violenza può, in pieno volto.

Il poeta, al contrario del filosofo, non si chiede mai «cosa è pensare? », «cosa è l’essere?», ma si limita alle domande rivolte al lettore: «cosa sei diventato?», «cosa significa parlare?», «perché io parlo?», «chi è che parla?», «a chi parlo?». Qui è l’inconscio significante di de Palchi che parla, parla perché l’inconscio è agito da pulsioni cieche (prive di parola) che cercano una via di uscita, una scarica nel linguistico. L’inconscio pensa, ma pensa-cose. Sotto il dominio del Lustprinzip, l’inconscio non può non muovere alla scarica linguistica, ed è in questo movimento che lo spinge alla deriva, che esso trova le sue parole, incontrando il Realitätprinzip, cioè la sua dimensione propriamente linguistica. Infatti, la scrittura depalchiana assume qui la forma del poemetto in prosa, o della prosa in poesia, una struttura che garantisce una consistenza icastica e didascalica, da referto medico legale, quasi scientifica e la forma del bilanciamento tra l’istanza dell’irruzione dell’impulso «cieco» e quella della sua formalizzazione linguistica.

In conclusione, cito quanto scrive Giorgio Linguaglossa nella sua monografia su de Palchi (Quando la biografia diventa mito, Edizioni Progetto Cultura, 2016):

«C’è in de Palchi il tentativo di operare con una scrittura altamente sismica e tellurizzata e, al contempo, di erigere una sorta di sistema anti sismico. Di operare al contempo una frattura e una sutura. Si tratta di una scrittura che procede e promana da una rimozione originaria, da cui deriva la frantumazione di un universo simbolico e metaforico altamente instabile ed entropico. Del resto, de Palchi non fa alcuno sforzo per tentare di dare una costruzione stabile alle sue costruzioni poematiche, anzi, le tracce e i frammenti sono lì a dimostrarlo: cacofonici e indisciplinati, tendono all’entropia. Si entropizzano e si disperdono.

La penultima sezione de L’Estetica dell’equilibrio è titolata Genesi della mia morte. È una gigantomachia e una perorazione ultimativa, è il soliloquio in prosa poetica più diretto e frontale che sia mai stato scritto nella poesia italiana del Novecento e dei giorni nostri. Una sentenza di condanna inappellabile irrogata al genere umano. Si parte dall’ominide antropoide, si passa attraverso l’homo erectus e si arriva all’homo sapiens, l’animale sanguinario più distruttivo che madre natura abbia mai generato perché dotato di coscienza la quale moltiplica all’ennesima potenza il suo bisogno incommensurabile di carne e di distruzione. Il poemetto termina con una gigantesca esplosione «Io Antropoide simbolo del male peggiore dalla finestra guardo il “globo” scendere a Times Square di Manhattan 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1… come fa un sasso lanciato nell’acqua il fondale del pianeta esplode allargando a cerchi l’irradiazione della massiva potenza nucleare.»

de Palchi chiude così per sempre la heideggeriana questione dell’autenticità, la «dimensione pubblica» è diventata ormai un falso; la «dimensione privata» è diventata un falso; la scelta tra due opposti è un falso. La speculazione a proposito dell’«autenticità» è una cosa fasulla da gettare alle ortiche. Non ci sarà un altro Principio. E non ci sarà altra fine che questa. Con la fine del genere umano nulla cambierà, l’universo continuerà la sua folle corsa verso il raffreddamento universale e l’entropia. Davvero, un testamento spirituale di condanna del genere umano senza appello questo di de Palchi».

gif-video-di-citta

quando arrivo all’epoca Homo Erectus 1.8–1.3m suo ospite per 500mila anni mi trovo a camminare e correre in pena a schiena dritta dietro la vittima…

Testi tratti da Estetica dell’equilibrio

1

Dalla estinzione dell’epoca giurassica il pianeta riemerge in epoca seguente dal magma e dalle acque… ora rigoglioso di flora con foreste e giungle ricresciute su quelle pietrificate nel sottosuolo… diversità vigorosa di fauna in perpetua evoluzione anche nei suoi linguaggi si occupa a suddividersi in erbivora e carnivora e sopravvivere dentro le fitte foreste… l’erbivora–carnivora non rispetta la differenza, ne approfitta delle due possibilità di scelta…

7

curiosamente l’antropoide esce dalla giungla e si avventura in spazi liberi dove in mezzo a colline e montagne semidesertiche… è attratto da pietre schegge scaglie e ne raccoglie per qualche necessità… sì, intuisce che scalpellandole con sassi da una sola parte diventano oggetti taglienti… per colpire ferire e sgozzare… da una possibilità arriva a un’altra intuita immagine… con liane legare scaglie a dei rami robusti trasformati in lance… l’occasione è prossima perché mi cerca nella chiarità della savana… appena m’intravvede si avvicina colpendomi più volte con una lancia e scappa su un albero dove non lo posso raggiungere…mi lecco le ferite sapendo che può assassinarmi… Continua a leggere

22 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Silvana Palazzo  Poesie scelte da La giusta strada del ritorno (Progetto Cultura, 2016) Commento testuale di Sabino Caronia

foto-video-in-citta

parlare all’infinito senza fermarsi mai

 Silvana Palazzo, fondatrice e direttrice della rivista Nuova redazione Unical, è autrice di testi saggistici e letterari.  Nel 2003, per i tipi del Centro Editoriale e librario dell’Università della Calabria, ha dato alle stampe il volume Omicidi nel Cosentino 1998-2001. (*) altri lavori saggistici per le Edizioni Periferia di Cosenza quali L’omicidio relazionale (come coautrice), Mente Media Cervello; Grandi Processi, Catastrofi esistenziali (*), La crisi relazionale, Delitti quotidiani. altri lavori Un Centro per la Legalità sull’attività trentennale del Centro di Ricerca e Documentazione sul fenomeno mafioso e criminale dell’Università della Calabria e Un Centro per la legalità Contributi di Redazione (redazione Unical). Da segnalare altresì E adesso leggeteci tutti (Serra), Ribellismi (Falco ed.), Eros e Thanatos Delitti di relazione (pref. Giorgio Linguaglossa) (CJC), Cara Prof Diari di classe (pref. Giuseppe Greco, CJC). Per l’attività letterario-poetica: Relazione di Psiche (pref. Francesco Leonetti, Periferia), Insomnia a Barcelona (Le Nuvole, in Italiano e spagnolo), Il meme è un seme (pref. Gennaro Mercogliano, CJC), Il silenzio, audiolibro (id.), Francesco Leonetti. Il ritorno in Calabria (id.), Le stagioni della mente (pref. Maurizio Soldini, CJC), Poesie di un’estate (Manni). Ha collaborato per vari editori a varie antologie: Il rumore delle parole, L’impoetico mafioso, Seguendo Giangurgolo, Frammenti di-versi, Florilegio, Cronache di Rapa Nui, Enciclopedia degli autori di poesia dell’anno 2000, Comunità nomadi, Bustrofedica, Chorastikàhttp://www.silvanapalazzo.it; La giusta strada del ritorno (Progetto Cultura, Roma, 2016)

Layout 1

 Commento testuale di Sabino Caronia

Il motivo del tempo mentale ritorna in questo libro di Silvana Palazzo, dopo il precedente titolato Le stagioni della mente del 2013, come tempo che si incarna nel cammino della parola. René Char ha scritto: «Le parole sanno di noi ciò che noi non sappiamo di loro». Le parole ci guidano, sono esse le nostre signore, e noi siamo alla mercé della loro signoria assoluta. Le parole ci precedono, noi da sempre «siamo in un bagno di linguaggio» scriveva Lacan.

Le parole sono
cunicoli di
labirinti da
esplorare
dentro i quali

perdersi per poi
ritrovare

la giusta strada
del ritorno.

Il componimento eponimo di questo volume esprime bene la poetica di Silvana Palazzo. Non a caso la prima sezione è dedicata alla parola che «salverà il mondo o lo ucciderà». la poetessa si chiede «nasce prima/ la parola/ o il significato/ ch’essa poi/ assumerà?».
In un mondo in cui non resta che

parlare
all’infinito
senza fermarsi
mai,
Parlare all’infinito
come segreto
per non morire.

*

Un gioco crudele «in una/ sorta di ping pong/ da cui uscire/ sconfitti/ o vittoriosi».
Giustamente, il prefatore richiama un brano da Linguaggio e silenzio di George Steiner intitolato «Il silenzio e il poeta» dove è citato il Kafka di Il silenzio delle sirene a proposito di questa poetessa che ben dice di sé: «È il silenzio// la cosa che più/ m’incanta».
La poesia di Silvana Palazzo è un inventario («faccio l’inventario/ come una azienda/ pronta a chiudere/ col passato»), è La ferita del possibile che si oppone al pragmatismo della realtà.

la ferita
sanguina non
la posso rimarginare
trattengo con
le mani il
sangue

rosso come fuoco
zampillo infernale.

È una fede religiosa, una religione laica, che richiama il Goethe di Vermachtnis, la sua ultima poesia, il suo testamento spirituale («Nessun essere può risolversi in nulla… l’essere è eterno»).

È il sentire la vita che scorre che
m’induce

a pensare che tutto ciò che
sento

non può

così in un attimo finire.

Una poesia, dunque, che vuole proporre o suggerire una moderna via del ritorno che si conclude significativamente con versi pieni di misurata speranza.

Il ritorno come
recupero

di ciò che si è abbandonato. Il
ritorno come delusione di ciò

che non si è trovato.

foto il vuoto della folla

Una parola salverà il mondo o lo ucciderà

da Prefazione di Giorgio Linguaglossa

Già negli anni Sessanta un grande critico, George Steiner, scriveva:«Parliamo davvero troppo, con troppa facilità, rendendo comune ciò che è personale, fissando nei luoghi comuni di una falsa certezza ciò che era provvisorio, personale, e quindi vivo sul lato in ombra del discorso. Viviamo in una
cultura che è, sempre di più, una galleria del vento di pettegolezzi; pettegolezzi che dalla teologia e dalla politica giungono a una diffusione senza precedenti di fatti privati (il procedimento psicanalitico è la nobile retorica del pettegolezzo).
Questo mondo non finirà né con uno scoppio né con un piagnucolio, ma con una testata, uno slogan, un romanzetto d’appendice… In quanto di ciò che adesso trova espressione le parole diventano parola – e dov’è il silenzio necessario se dobbiamo udire quella metamorfosi? […] È meglio per il poeta tagliarsi la lingua piuttosto che esaltare il disumano con il suo talento o la sua noncuranza».

Ha scritto Kafka nelle sue Parabole: «adesso le sirene hanno un’arma ancor più fatale del proprio canto, cioè il silenzio.
È anche se è vero che una cosa simile non è mai accaduta, è tuttavia concepibile che qualcuno forse abbia potuto sfuggire ai loro canti; ma certo nessuno è mai sfuggito al loro silenzio».
Il problema dell’inflazione delle parole è uno dei più acuti problemi della poesia contemporanea, se non il più acuto.
Qualche anno fa un poeta romano, Luigi Manzi, aveva lanciato l’idea di una moratoria di almeno dieci anni da parte dei poeti a pubblicare libri di poesia. In pratica, uno sciopero dei poeti. Naturalmente, la proposta cadde subito del dimenticatoio. Oggi si pubblica di tutto e troppo, si scrive in tutti i modi,
parafrasando tutti gli stili, riscrivendo libri già scritti. Si chiama restyling, i più accorti lo chiamano vintage, i meno intelligenti lo chiamano new realism, i più colti post-realism.
Il fatto è che le parole, questi guardiani del senso, non sono immortali, non sono invulnerabili. Colpite nei punti vitali, soffrono e muoiono e diventano inservibili; e quando una civiltà ha fatto il pieno di parole morte, ecco che la fine si avvicina.
È per questo forse che i poeti contemporanei sono assediati dalle parole morte, dalle parole usurate. Le parole sono diventate vacue di senso e, se non ci sono più parole, non ci sono più forme, il mondo diventa illeggibile e irrappresentabile.

Scrive Silvana Palazzo che «le parole / Sono cunicoli / Di labirinti / Da esplorare», e il poeta è diventato un minatore di parole, costretto ad andare in sempre maggiori profondità nella miniera delle parole ormai esausta. È una discesa agli inferi questa delle parole morte. Silvana Palazzo non ha scampo, non ha vie di uscita, non può che proseguire con la lanterna del minatore e la piccozza, nello scavo interno della miniera morta. Il poeta è costretto ad avanzare a tentoni nel buio delle parole morte. E si chiede: « Nasce prima / La parola / o il significato / Ch’essa poi / assumerà», come se la domanda non fosse anch’essa retorica, non suonasse vuota di senso. In questa corsa a perdifiato verso le parole morte non resta altro da fare che proseguire la corsa: « Parlare / all’infinito / Senza fermarsi / Mai. / Parlare all’infinito», in un continuum che ha dell’assurdo, del folle «Come segreto / Per non morire». Un gioco crudele e insensato: « In una sorta / Di ping pong / Da cui uscire / Sconfitti / o vittoriosi».
In questo essenziale libro di nuove liriche, Silvana Palazzo ci racconta la sua personale esperienza di questa morte del linguaggio, del fallimento della parola dinanzi alla disumanizzazione del mondo e dell’arte, dell’oltraggio che colpisce anche le parole che vorrebbero significare, delle parole amputate
e doloranti che sconfinano nel silenzio, ma non il silenzio mistico, ascetico, ma un silenzio frutto avvelenato di una irrimediabile perdita di cui il poeta è costretto a far dono.

1] George Steiner Linguaggio e silenzio trad. it. 1972 Rizzoli, p. 73

gif-citta-in-nerogif-citta-animata

Da La giusta strada del ritorno.
Prima sezione: Una parola salverà il mondo o lo ucciderà

Ogni parola

ogni parola
ha un contenuto
che può toccare
l’anima
nel fondo
oppure scivolare
senza scalfire,
caderti addosso
senza rumore.

*

Sono scolpite
come in una
roccia
le parole
alta quanto
una montagna
da cui
attingere
verbi, avverbi
nomi
per comporre
il ritmo sonoro
di danze
d’autore.

*

Ti regalo
i miei pensieri
che privi
del supporto
delle parole
non sanno
da che parte
andare.
La bocca
resta chiusa,
pare aver
scordato
come fare.

*

La vita
delle parole
messe insieme
sonanti
significanti
per tutti
in assoluto
come specchi
d’acqua
nei quali
riflettere
la tua immagine
e l’altro
ch’è in te.

 

*

Nasce prima
la parola
o il significato
ch’essa poi
assumerà? Continua a leggere

3 commenti

Archiviato in critica della poesia, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Adam Vaccaro: Le questioni aperte dall’Antologia di Poesia Italiana Contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura Giorgio Linguaglossa, Roma, Progetto Cultura, 2016 pp. 352 € 18

Fiera del Libro Milano

Fiera del Libro Milano 20 aprile 2017 Presentazione Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo

Nuovi Paradigmi

Nella Prefazione all’Antologia, Come è finita la guerra di Troia non ricordo, il curatore ribadisce in forma quasi di manifesto la propria concezione della poesia, riproponendo alcune questioni cruciali. Ma, prima di entrare in queste, è bene citare il passaggio con cui Giorgio Linguaglossa dà senso al titolo della Prefazione, Il cambiamento di paradigma della forma-poesia: “Cambiamento di paradigma è dizione con cui si indica un cambiamento rivoluzionario nell’ambito della scienza”, locuzione, ricorda, “coniata da Thomas S. Kuhn” in “La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) e che Linguaglossa trasferisce in ambito letterario, ricordando l’opera Paradigm (2001) di Alfredo de Palchi”. Opera che colloca opportunamente tra forme pre-sperimentali e sperimentalismo, e esempio dei “più importanti mutamenti di paradigma della poesia italiana” che “avvengono a cavallo degli anni cinquanta e sessanta”. È peraltro un trasferimento non pacifico, in quanto lo stesso Linguaglossa ricorda con Kuhn che, rispetto allo scienziato, “’lo studioso umanista ha sempre davanti una quantità di soluzioni incommensurabili e in competizione tra loro’”. Tuttavia, anche per me, il tentativo di connettere postulati scientifici e letterari è stato ed è affascinante quanto fruttuoso, anche se Moderno e Post-moderno hanno dilatato ancor più la condizione operativa di “(im)possibilità di epistemologia della poesia” (vedi in A. Vaccaro, Parte introduttiva di “Ricerche e forme di Adiacenza”, Asefi ed, 2001).

Rilievo che poi proseguendo Linguaglossa sviluppa: “Tutto sommato lo sperimentalismo era una pratica rassicurante…introduceva delle certezze”, mentre ora siamo in un universo liquido in cui “tutte le ipotesi di poetica” sono “crollate con il crollo del Fondamento e…non si danno più certezze nell’incertezza generale né alcuna stabilità nell’instabilità generale”, “un nichilismo… diventato nuda evidenza”. “La verità è che il pensiero si è polverizzato a seguito dell’eclissi di un principio fondatore, e la sfera artistica, così come l’etica, si è trovata in balia della assenza di ogni giustificazione…è venuta meno la gerarchizzazione dei linguaggi artistici e dei linguaggi tout-court”; “e quelli poetici si sono disseminati in una pluralità degli stili”, “poetiche del frammento, della duplicazione del frammento”, anche se questo “non si può duplicare né moltiplicare”. Sono rilievi inconfutabili del punto zero in cui siamo. Ma rispetto ad esso, c’è solo la resa o c’è la possibilità di un oltre, che sappia ritornare a un paradigma rinnovato capace di risalire dalle attuali macerie? È la domanda aperta che impegna il libro e giustifica il Titolo, alla quale – come vedremo – Linguaglossa non rinuncia a cercare e a dare risposte, sia attraverso gli Autori antologizzati, sia nella stessa Prefazione, su cui qui intendiamo soffermarci.

Laboratorio 24 maggio 17-1

Laboratorio di poesia, Roma, 24 maggio 2017

 Il punto di partenza

Ma argomentazioni adeguate a tale nodo complesso implicano un confronto con le proprie. Torniamo perciò alle questioni cruciali inizialmente richiamate, a cominciare dalla primissima: “La poesia, come la filosofia, non progredisce, se intendiamo per ‘progresso’ l’accumulazione di ‘risultati’ che si susseguono gli uni agli altri”; “visione…propria di un modello di Ragione di cui siamo tutti debitori”. Tuttavia, precisa l’Autore: “Ci sono momenti in cui la poesia fiorisce, dopo un lungo sonno, e ci sono momenti in cui si riaddormenta”. “Ma…il sonno della Ragione poetica” tende a produrre “un eccesso di chiacchiera e di indifferenza…e quando le domande metafisiche si spengono alla Musa viene accordato un domandare ironico-scettico, il disincanto…che elude la questione…il vero domandare”. E cioè: “Il locutore ha cessato di essere fondatore. È questa la ragione centrale che ha impossibilizzato ogni forma-poesia che stabilisca…una referenzialità diretta con il ‘reale’.”

Ritengo questo “un punto di partenza” – per Rimbaud, decisivo per il prosieguo di ogni percorso – di notevole importanza, che da gran parte dei cultori di poesia contemporanea è semplicemente ignorato (confermando quel sonno sopra ipotizzato), e che chiede invece un confronto approfondito da parte di chi, come me, ne ha fatto un punto fondante del proprio percorso di ricerca. Non posso perciò evitare di rifare, sia pure sinteticamente, alcuni passi essenziali di tale percorso per poter meglio evidenziare quelli che, per me, costituiscono il corpo, il carattere, il valore e i limiti della posizione di Linguaglossa. Posizione che parte dal punto sopra citato, problematico e stimolante, in quanto (o proprio perché) è al tempo stesso materico, anomalo e contraddittorio. La biforcazione concettuale si evidenzia tra critica della Ragione (e relativo orientamento idealistico), accanto a richiami metafisici o ontologici. Tendono tuttavia a prevalere tensioni alla matericità e alla preesistenza della cosa-in-sé (dunque non frutto di pensiero o volontà), concreta o no e a meno che non si tratti di una realtà fondata da una azione creativa/inventiva; accenti rafforzati da locuzioni quali “Ci sono momenti…”, che rientrano più in impostazioni fenomenologiche.

tempo di libri donatella bisutti e giorgio

Fiera del Libro Milano 20 aprile 2017 Presentazione Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo

Tre questioni

Il confronto con tale impostazione è per me interessante per varie ragioni, relative alla mia visione di idee (sintetizzo) materialistica e fenomenologica. Una visione che, come già evidenziato in precedenti scambi con Linguaglossa sul Sito-Rivista “L’Ombra delle parole”, ha punti decisivi di condivisione che credo siano tra le motivazioni, sia del mio inserimento nell’Antologia, sia del mio coinvolgimento nella sua presentazione a Milano del 20 aprile scorso, nell’ambito della Prima Fiera milanese del libro.

A tale proposito, richiamando alcuni dei 27 Autori inseriti, Linguaglossa afferma che, pur nella loro diversità, hanno “consapevolezza della frammentazione dei linguaggi e della dis-locazione del soggetto poetante. Essi sanno, o intuiscono, che non sarà più possibile ripristinare le fratture che l’epoca del Moderno ha inferto alle categorie un tempo ritenute stabili quali il soggetto, i linguaggi e il reale.”

 L’analisi linguaglossiana coinvolge dunque tre questioni, intrecciate e anche per me fondanti, come è noto a coloro che hanno avuto interesse e occasione di leggere i miei saggi di analisi, sia testuale che di ricerca teorico-pratica – anche attraverso le molte iniziative di Milanocosa: 

  • Il soggetto e la sua identità
  • Il Tempo
  • La Realtà

Ognuna di tali Cose è mobile, metamorfica e molteplice. Ognuna di esse, senza le altre, cadrebbe nel nulla e tutte e tre diventano Cosa attraverso i linguaggi di cui siamo costituiti. Un nulla che non rientra in impostazioni ontologiche, o nel pensiero dell’essere “quando non è” (Severino). Per me il nulla corrisponde alla percezione della non-vita o all’impossibilità/incapacità della mente di elaborare un senso, un evento, un dato, relativi a una entità soggettiva singola o collettiva. Tale nulla riguarda, dunque, sia l’operatore sia il dato/entità operato. Anche se quest’ultimo esiste in sé, per un operatore esiste e diventa reale, solo in quanto   è capace di collocarlo in un processo relazionale e quindi di attribuirgli un senso. Senza di ciò l’oggetto rimane non-vita (per il soggetto) e lo stesso operatore precipita nel nulla di senso e di realtà rispetto alla cosa in-sé, che diventa cosa, reale, solo se diventa parte dell’universo mentale.

Un processo che può avvenire solo attraverso i linguaggi di cui gli esseri umani dispongono. E sono proprio questi linguaggi – che i linguisti tendono a ridurre ad unum, cioè a quello algoritmico fatto di segni-parola, dimenticando tutti gli altri, dei sensi, altrettanto fondamentali per rendere reale in noi questa o quella cosa – struttura di un soggetto e della sua identità. Mente e linguaggi sono quindi funzioni e software corrispondenti a l’hardware di tutto il soma e non del (solo) cervello. Funzioni di quel “cervello bagnato” di cui parla Rita Levi Montalcini, comprensivo di tutti i fasci nervosi e sensoriali, senza i quali il cervello e la mente rimarrebbero sconnessi e incapaci di dire/fare alcunché rispetto al reale.

Non a caso, il primo atto pubblico con cui ho avviato nel 2000 Milanocosa è stato il Convegno (con scrittori, poeti, artisti visivi, filosofi, giuristi, musicisti, psicoanalisti ecc) intitolato “Scritture/Realtà” (Atti, Milanocosa, Milano, 2003), nel corso del quale quanto sopra sintetizzato è stato analizzato da molteplici approcci e linguaggi, proprio in coerenza con tale punto di partenza.

Il mio intervento a tale convegno – dal titolo: “Quale tempo: tempo fermo, tempo reale e tempo mentale”, anche in Parte introduttiva, op. cit. – entrava nell’intreccio tra identità soggettiva ed elaborazione dell’oggetto spazio-tempo, nel processo interminabile di conoscenza della realtà. Con quell’analisi coinvolgevo anche la teoria dell’Autopoiesi dell’identità soggettiva, (dalle ricerche in campo biologico e neurofisiologico di Francisco Varela e Maturana), “fondata su più livelli via via più complessi: immunitario, psico-motorio e socio-linguistico. Ognuno di questi livelli si definisce solo nell’interazione con l’ambiente”. Per cui “Ripetere che ogni identità è determinata dall’Altro, che è quindi (anche) l’altro, può apparire persino banale”. Sono esempi di approcci interdisciplinari, che già nell’antichità hanno fatto intuire quell’unità mobile (poi divisa dai platonismus perennis in tanti doppi, corpo e anima, fisico e spirito ecc) di ogni identità soggettiva.

Diventa perciò “centrale la concezione del soggetto, o del rapporto tra unità e totalità. A tale proposito il modello che ho trovato più corrispondente all’Adiacenza è quello quantistico”, con cui “venne fra l’altro confermata, sin dal livello di particelle subatomiche, l’intuizione di Epicuro di 2.300 anni prima, sulla capacità di movimento spontaneo (clinamen) di ogni corpo (infimo, singolo o collettivo), il quale non ha un’energia data, ma la esalta o la deprime in relazione ai rapporti che sviluppa o meno con altro/i”.

Tutto dunque nasce dalla relazione, che si fa musica, immagine e parola, che si fa pensiero, cosa e mondo. Come ogni forma di vita, anche ogni campo espressivo o di ricerca esclude perciò “sia la totale autonomia che la completa dipendenza”. Ma è da tale possibilità di esaltare o deprimere la (propria) energia, che questa si fa autopoietica e reale, fonda la realtà. Per questo, il punto di partenza condiviso con Linguaglossa, implica, per me, che anche per la poesia l’altro extraletterario arricchisce la realtà e il valore estetico. Per il quale, senza cadere in impegni d’antan, non bastano solo analisi tecniche e formalistiche.

Laboratorio 24 maggio 17

Laboratorio di poesia 24 maggio 2017, Steven Grieco, Antonio Sagredo, Sabino Caronia

Il tempo mentale

“Dunque, senza l’attenzione all’Uno il Tutto ci sfugge, perché la pluralità dell’Uno non è che una forma della pluralità del Tutto; e l’uno molteplice implica la pluralità di senso di ogni termine, come ad esempio quello di realtà e di quelli, a quest’ultimo intrecciati, di spazio e di tempo. Entro la complessità delle varie galassie che costituiscono l’universo mentale dell’identità soggettiva, la categoria tempo è infatti percepita ed elaborata in modi completamente diversi.”

“C’è la galassia (riferibile alle modalità operative dell’Es) in cui il tempo è percepito come un immobile  lago nero…che richiama l’ossimorico oscuro chiarore di Corneille. È insomma il luogo dell’ombra che consente alla luce di essere luce. Non è solo l’inconscio, ma è il nostro accumulo di affettività e di memorie. È anche il luogo dove la soggettività sfuma in quella collettiva, nel patrimonio comune di immagini – archetipiche e no. Più che un tempo perduto è, a mio avviso, un tempo fermo” o “ruotante su di sé: sempre presente e sempre passato. Nella pluralità intra-soggettiva è l’Altro già dentro di noi, disinteressato a ogni norma morale, ma del senso del limite, quindi della necessità etica, è fonte profonda; è il referente mentale sia della nostra corporalità, materiale e immaginale insieme, sia della indefinibilità e irraggiungibilità della poesia, dell’amore e dell’odio, del sesso, dell’insieme, infine, della Cosa che è la vita nella sua totalità.”

“C’è poi la galassia (riferibile all’Io), che agisce nel presente ed elabora invece il tempo come astratta sequenza lineare: è il luogo mentale per eccellenza dell’ossimoro realtà virtuale. Ossimoro che trova dunque dentro l’universo mentale l’incrocio di un bel paradosso: l’area dominata dal passato (assente) tende a operare con modalità più materiali e reali di quella prevalentemente interessata alla realtà del presente.”

  “La quantità di stimolazioni audio-visive del mondo contemporaneo tende in sostanza a una sorta di ingorgo sensitivo mai risolto, perché non attraversa la totalità dei tempi mentali… rimane somma di meteore virtuali, che anziché aiutarci riducono la nostra capacità di vedere, e producono facilmente stati passivi di meraviglia angosciata, se non di depressione.”

Con modalità tendenti ugualmente alla temporalità lineare opera, infine, la galassia (riferibile al Superìo) volta a proiettarsi e a progettare il futuro, che ci aiuta a capire (anche) che non possiamo beatamente naufragare nel visionario, nell’onirico, in fascinose sonorità di effetti-eco, se queste fonti di piacere fruitivo di un qualunque sistema di segni non ci trasmettono una visione di idee – oltre sia il candore ingenuo di una funzione salvifica e consolatoria dell’arte, sia della sua funzione catartica – capace di rafforzare una interazione adiacente che aiuti a farci sentire meno separati e alienati.

Sul punto, vedi anche: https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/09/07/adam-vaccaro-quale-tempo-tempo-fermo-tempo-reale-tempo-mentale-quale-poesia-linterazione-con-laltro-da-se-la-questione-del-so

Laboratorio 24 maggio Roma

Laboratorio di poesia 24 maggio 2017, Roma Libreria L’Altracittà via Pavia, 106

 Quali forme

 Non possiamo perciò alonare di ridicolo una Cosa che tenda alla forma di poesia, immaginando di salvare la vita (propria o di altri) con essa, ma è inevitabile che “l’area mentale del Superìo tenda a costruire un atto critico verso l’orizzonte sociale, se è vero che ‘L’orizzonte sociale è connaturato all’atto critico’ (Francesco Leonetti)”. Il che non vuol dire inventare forme di “‘politicizzazione dell’arte’”, contrapposte alla “estetizzazione della politica” (Benjamin), vuol dire porre il problema del vuoto di “progettazione alternativa”; da cui forse nasce un eccesso di tensione verso l’innovazione (solo) tecnico-formale.

“Ammal(i)arsi di nuovo può portare a stare sulla coda dell’esistente convinti di inventare, come la famosa mosca, mille movimenti di opposizione. Si finisce per immaginare che il mezzo – sia esso la penna, il computer o il linguaggio nel suo insieme – possa essere fonte magica, mezzo che diventa generatore autonomo. Come ho già detto altrove, la lingua che parla da sola è un mito visionario lacaniano, di una lingua-soggetto che non esiste. La mia ricerca è perciò fuori da ogni fuoco chiuso nell’esercizio linguistico, in autoappagati jeu de mots iperletterari, con correlativa ideologia del testo per la quale “il testo è tutto”.

Il testo è parte (della vita) che, come ogni altra cosa, non basta a se stesso. È una linea anomala e minoritaria, dantesca, rispetto a forme più consone a petrarchismi o a impostazioni ontologiche astratte, spiritualismi di qualunque tipo o separatezze insormontabili tra arte e vita.

Per me Poesia, non ha a che fare con l’Essere, che agnosticamente non conosco, ma con gli esseri che vivono o sono vissuti dando sangue, emozioni e pensieri al flusso incessante della vita. Per me il fare del poièin è qualcosa di materico e fortemente innervato nell’esperienza dolorosa-gioiosa che ognuno fa nel corso della sua esistenza. Anche la poesia non è niente di diverso da ogni processo di metamorfosi che prende e restituisce qualcosa del processo vitale. Riproporre dunque la questione del soggetto, entro una identità soggettiva stratificata, proteiforme, autopoietica e mai conclusa nella sua incessante interazione col Resto, implica superare l’incrocio Jakobson-Lacan tra Semiotica e Psicoanalisi, utilizzando col senso di galassie mentali la individuazione freudiana di tre fondamentali ambiti/spazi costituenti l’identità soggettiva. 

L’intreccio tra queste diverse modalità operative produce perciò una cosa che chiamiamo (anche) realtà (ma stesso discorso può valere per bellezza, verità, ecc.): spazio mentale fatto di tempo unitario – cioè di una percezione con-fusa e fraterna (adiacente) di passato, presente e futuro. Non può che essere una contemporaneità effimera, fatta di serie di punti di sutura del processo autopoietico, momenti di orgasmo mentale e di una casa del tempo, di spazio fatto di tempo, quale immagine mobile dell’eternità (Platone).

Il piacere del testo (di scrittura e di lettura) sta in questa esperienza di recupero di tempo mentale, quale combinazione tra tempo fermo/circolare (area dell’Es) e tempo lineare (aree dell’Io e del Superìo). Da tale combinazione non ne viene forse una forma di elicoide, quale quella delle colonne del Bernini o del DNA, quale insomma quella citata da Gio Ferri, nella sua ricerca della cosa biologica alla base o al cuore della ragione poetica? (Gio Ferri, La ragione poetica, Milano 1994).

La realtà  – e in particolare la realtà creativa o poetica – è perciò frutto di un’operatività dell’identità soggettiva, che è se costruisce adiacenza tra le varie aree dell’universo mentale. Piacere del testo e comunicazione, purché intesa come mettere in comune (Antonio Porta), sono i ponti possibili di dinamica autopoietica, senza i quali l’energia poetica si deprime e cade in una di quelle fasi di cui parla Linguaglossa all’inizio della sua Prefazione. Le dinamiche di intreccio adiacente tra le varie aree mentali non sono perciò analisi fini a se stesse, ma anche l’ante-rem, o la condizione intra-soggettiva e pre-testuale più adeguata alla costruzione di un testo che voglia tendere al massimo di comunicazione inter-soggettiva, a essere in re, luogo che esalta creatività e intreccio tra estetica e ricchezza di funzione antropologica e socioculturale, tale se vissuto da una comunità e non solo esercizio intimistico. 

Postulato ancora più rilevante in una fase di cambiamenti epocali che tendono a distruggere e a far cadere nel nulla la percezione di una comunità solidale, avvertita e persino decantata (come ad esempio dalla Thatcher) solo come somma di soggetti singoli chiusi nell’individualismo imperante.

Fiera del Libro Milano 20 apèrile 2017

Fiera del Libro Milano 20 aprile, 2017, Lucio Mayoor Tosi legge le poesie

I mondi che siamo

 Sono considerazioni che ho ritrovato in termini calzanti nell’ultimo libro della saggista multidisciplinare Eleonora Fiorani, che nel suo ultimo libro “I mondi che siamo – Nel tempo delle ritornanze” (Lupetti, Milano, 2017), dice: “Viviamo in un’epoca in cui si susseguono profonde metamorfosi e…contraddittorie trasformazioni del mondo che…credevamo di conoscere“. “Diversi sono perciò i modi di vivere il trapasso epocale della seconda modernità a una nuova epoca che non ha ancora trovato una definizione dopo quella di postmoderno di Lyotard…perché ogni nuova concezione della storia implica una visione del tempo”. Aggiunge Fiorani: “nell’intreccio dell’’adesso e del già stato’ – la definizione è di Didi-Huberman – oggetti, avvenimenti, modi d’essere, sensibilità estetiche si inabissano e scompaiono e poi ritornano”, cambiando “il loro uso, valore… statuto antropologico”, insieme al “nostro sguardo”.

Una visione del tempo…mette in campo non solo…presente-passato e futuro, ma i molti e diversi tempi che convivono e anche si intrecciano  o si oppongono in uno spazio dilatato all’intero globo”. “È…un aspetto che ci ha lasciato il Novecento nei modi in cui…ha posto come centrale la questione del tempo, della memoria e della storia, facendo emergere la sua complessità tra “presente attivo…passato reminiscente, sul tempo delle ritornanze…sulle fratture, sui processi inconsci che li accompagnano”. “Già Nietzsche, da cui è partita l’analisi della crisi dei valori nella cultura occidentale, con l’eterno ritorno aveva messo in discussione il tempo cronologico…ed era ritornato sulla circolarità del tempo e sulla ripetizione della cultura. E lo ha fatto ponendo anche il passaggio dall’ontologia all’estetica”. Con “Un nesso stretto” che “collega…Nietzsche e il disagio della civiltà di Freud. Tutto ciò ha posto implicitamente la necessità di un rinnovamento delle metodologie” di analisi “del testo visivo e della critica estetica” con i contributi di Bataille, di Leiris, di Einstein…e ora da Didi-Huberman…del potere delle immagini… intrecciando diversi ambiti disciplinari…antropologia, archeologia, estetica, filosofia perché “’in ogni oggetto storico tutti i tempi si incontrano, entrano in collisione, oppure si fondono plasticamente, si biforcano o si combinano gli uni agli altri’”. Talché “‘futuro passato’ è definizione e oggetto di analisi di Koselleck (1986) della presenza nel presente…del passato e del futuro”.

Questo fa “interrogare il corpo di carne e dei sensi e i suoi nessi con i territori e i luoghi in cui…si iscrive l’abitare”. Dunque “accanto ai concetti” il “potere delle forme e delle immagini di inabissarsi e poi riapparire sotto altra forma”, l’azione de l’”inconscio visivo”, genera “la più profonda o ampia comunione dei contemporanei, aprendo il campo al massimo di senso” attraverso “opere multimediali, di video arte, di narrazioni che intrecciano immagini, suoni, simboli, di nuovi e vecchi media…il linguaggio che tutto parla”.

È l’apertura interdisciplinare di Eleonora Fiorani la fonte di una tensione espressiva e di ricerca – anche per me fondativa – di un fare cultura, arte o poesia che non si rassegnano a ruoli ancillari, ornamentali o parnassiani, per cercare di essere strumento di ricostruzione di senso e pensiero forti, quanto più viviamo una fase epocale che li distrugge e tende a farli cadere nel nulla.

Fiorani ripropone sempre – con tutti i suoi libri e anche con questo – la necessità di rielaborare in questa epoca di decadenza una cornice proposizionale, metodologica  e visionale-concettuale, quanto più viviamo in un contesto che ci fa fare l’esperienza opposta, di una disgregazione e frammentazione socioculturale arresa alla perdita di senso, per me il fondamento del nulla. Ma anche il nulla non ha un significato univoco, può avere tanti livelli e declinazioni, con sapori magici o terrificanti e tragici, con momenti che possono essere connessi a esperienze e momenti sia d’amore che di violenze. Esperienze di attimi d’infinito (Platone) in cui possiamo annientarci o rinascere con moti di Araba Fenice. Dipende da noi – sempre ovviamente nello spazio possibile, tra depressioni e deliri di onnipotenza, di né totale dipendenza, né totale autonomia.

Fiera del Libro Milano, 20 aprile, 2017 Stand di Progetto Cultura

Fiera del Libro Milano, 20 aprile, 2017 Stand di Progetto Cultura

Conclusioni aperte

Sia il mio percorso di ricerca intorno al concetto di Adiacenza, sia le formulazioni interdisciplinari di Eleonora Fiorani hanno in comune il bisogno di ripensare il proprio fare culturale in relazione all’epoca storica che viviamo. Ed è la stessa tensione che trasmettono le proposizioni critiche di Linguaglossa, che, seppure già note, sono dis-piegate e strutturate in forma più organica  e – come ho detto, quasi di manifesto – in questa Antologia. 

Sono posizioni anomali rispetto alle tendenze prevalenti, in cui prevale una sorta di catatonìa sonnolenta e passiva (che non è solo della poesia), denunciata nelle formulazioni iniziali della Prefazione. Lo sviluppo delle argomentazioni successive, che abbiamo ripreso in alcuni nodi e passaggi essenziali, conduce a punti di arrivo che cercano anch’essi moti di risalita dallo stato delle cose.

Ogni termine o oggetto viene alla fine indagato in cerca di una apertura e moltiplicazione di sensi: “così c’è un nichilismo inconseguente e acritico che presta fede alla parvenza di un soggetto che si è eclissato, e c’è un nichilismo forte, che Roberto Bertoldo chiama ‘nullismo’, di chi ritiene che siano ancora possibili le narrazioni autentiche…Il logos di chi accetta e prende in consegna la disseminazione dei linguaggi…è il logos forte che segna una risalita dal profondo della scomparsa delle fondamenta sgretolatesi”. Possiamo aggiungere che anche il frammento non implica un senso univoco: c’è il frammento insignificante di un coccio di bottiglia, e c’è il frammento di cristallo o di diamante che apre a mille sensi e riflessi.

Se il destino del frammento tende a cadere nell’abisso della perdita del senso, la creatività poetica degna di questo nome è la sua vendetta, utilizzando e rovesciando anzi quest’ultimo, per farne il piede del Tutto. Senza la tensione ad esso, non c’è possibilità di ricostruire un senso, non il Senso ma un senso, che non è mai dato una volta per tutte, da rifare con il letto ogni mattina. Illusoriamente o meno, non ha importanza, ma senza quel gesto tutto quel che siamo non riuscirà ad alzarsi e a procedere. Il poièin sta qui e anche Linguaglossa lo dice e lo fa. Gli oggetti non attivano da soli quella interazione complessa che chiamiamo esperienza. E la Cosa si accende se condivisa in relazioni con l’Altro, e quanto più viene coinvolto il livello inconscio, talchéi l’oggetto poetico rimane progetto ignoto anche per chi lo costruisce.  

Per questo, “La forza della nuova poesia italiana sta proprio qui, in questo punto, nel prendere in consegna il testimone di una eredità infranta per ricostruire la forma artistica e riposizionarla”. È la sfida e il merito di questa proposta antologica.

9 maggio 2017

Da Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo

Renato Minore

La piuma e la biglia

1)

C’erano quattro biglie colorate pronte a partire,
ma lo sparo fu rinviato
da sempre. Da sempre le biglie
formavano un quadrato
immaginario e al centro
c’era l’invisibile punto
di convergenza di tutti
i loro colori.

La pista allungata, infinita,
era una distesa
di acqua o di sabbia,
ma senza acqua né sabbia.

2)

Rossa la prima e potevi
aver voglia di spaccarla
per trovare i semi
come dentro la melograna.
Verde la seconda come
quando saltella la capra
sopra i prati e i prati
hanno il luccichìo
della pioggia appena velata.
Bianca era la terza
ed era neve, neve
coagulata o neve sparsa
o cielo torbido che vela
le forme perché cancella
luce e ombra.
Nera la quarta ed era
specchio quasi opaco, l’immagine
riflessa era dietro
la superficie, non dentro,
come se il vuoto fosse
pieno di quel vuoto
nero nerissimo.

3)

Immobili le biglie attendevano
che dall’una venisse
la mossa per la prima partita.
Ma il silenzio
non faceva scandalo, era
il colore naturale,
rosso o verde bianco nero
come le biglie che non partivano.

Ubaldo de Robertis

Il dipinto e la realtà
Deluso dalle imitazioni, belle figure, luoghi ordinari,
forme, colori per niente naturali, un di fuori che ti assale,
fatto di segni che lo spazio modella con emozione lirica.
Il dipinto è meno di quanto si manifesta nella Natura.
Nessuna cosa è più viva di quel puntino rosso che brilla là,
nell’angolo grigio della stanza, o di quella porta
che potrebbe aprirsi, ad un tratto.
Che ti salta in mente di rivelare certe cose in poesia?
Nel silenzio si sente un tic-tac ordigno ad orologeria.
E’ il cuore.
Stranamente ha tre uscite questa stanza,
una celata dalla specchiera dà verso l’esterno,
il vuoto e lo specchio che ti guardano,
che ti scoprono la faccia, denudano la maschera
se dalla feritoia si infiltra il tenue azzurro cielo.
Che cosa altro pretendi di vedere da una finestra?
Cos’altro vuoi che appaia ancora?
La tragicità della vita si nasconde dietro l’immagine
più misteriosa e lieta. Brilla, qui, in primo piano
l’astro di Thérèse vista di spalle che indossa
la robe rose a strisce verticali argentate e un tablier noir,
lo sguardo in direzione delle case, non degli alberi
che Bazille ritrae in secondo piano.
Dramma della quiete, della serenità.
Sembra essere proprio questa la realtà.
La figura virtuale rimanda all’esistente.
Dove è dunque la poesia?
E’ nel modo con cui si divide lo sguardo
tra lo spazio racchiuso dalla cornice, Thérèse, colori, ombre,
o le cose viste nella coscienza della luce azzurra
che manifesta l’astronomia del cielo in una piccola camera?
Ma non è lì che ti senti testimone, spettatore gettato,
dimenticato
bagliore di un Sole già crudelmente
tramontato?

Alfredo de Palchi
                 a Roberto Bertoldo, alla sua onestà

Di sabato notte
scendi dall’ultimo piano
e controlli chi esce e chi rientra
sostando al piano appena sospetti
che un inquilino aspetta
la tua presenza

sdentato, biascica litanie
al crocifisso alla cabala alla mezzaluna
all’ultimo istante chiede perdono
per aver tradito tutti
e incassato ricchezze rovinando famiglie
e aziende in crisi

così alla domenica
il palazzo dorme di inquilini
reduci da Wall Street,
a mezzo giorno scendono in mutande
e salgono con il giornale per leggervi
gli annunci funerari e varie notizia
mai a corto di brutture

la sola giustizia che ho io
sei tu che lo spacci senza perdono
e senza aspettare una risposta –
te la dò io che nulla mi appartiene:
entra nei palazzi e
liberaci dal male.

20 luglio 2008

Onto Vaccaro

Adam Vaccaro Grafica di Lucio Mayoor Tosi

 Adam Vaccaro, poeta e critico nato in Molise nel 1940, vive a Milano da più di 50 anni. Ha pubblicato varie raccolte di poesie, tra le ultime: La casa sospesa, Novi Ligure 2003, e la raccolta antologica La piuma e l’artiglio, Editoria&Spettacolo, Roma 2006. Infine, Seeds, New York 2014, è la raccolta scelta da Alfredo De Palchi per Chelsea Editions, con traduzione e introduzione di Sean Mark. Tra le pubblicazioni d’arte: Spazi e tempi del fare (Studio Karon, Novara 2002) e Labirinti e capricci della passione (Milanocosa, Milano 2005) con acrilici di Romolo Calciati. Con Giuliano Zosi e altri musicisti, ha realizzato concerti di musica e poesia. Collabora a riviste e giornali con testi poetici e saggi critici. Per quest’ultimo versante, ha pubblicato Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi, Terziaria, Milano 2001.  È stato tradotto in spagnolo e in inglese. Ha fondato e presiede Milanocosa (www.milanocosa.it), Associazione con cui ha curato varie pubblicazioni, tra cui: Poesia in azione, raccolta dal Bunker Poetico, alla 49a Biennale d’Arte di Venezia 2001, Milanocosa, Milano 2002; Scritture/Realtà – Linguaggi e discipline a confronto, Atti, Milanocosa 2003; 7 parole del mondo contemporaneo, Milanocosa, Milano 2005; Milano: Storia e Immaginazione, Milanocosa, Milano 2011; Il giardiniere contro il becchino, Atti del convegno 2009 su Antonio Porta, Milanocosa, 2012. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo, Roma, Progetto Cultura, 2016. Cura la Rivista telematica Adiacenze, materiali di ricerca e informazione culturale del Sito di Milanocosa.

16 commenti

Archiviato in Antologia Poesia italiana, critica dell'estetica, critica della poesia, discorso poetico, Ontologia, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

FRANCESCA DONO – Poesie erotiche e pose plastiche da Fondamenta per lo specchio (Progetto Cultura, 2017) – Commento di Letizia Leone – Come rimodellare la lingua dell’eros?

Francesca Dono nasce a Reggio Calabria. Si laurea in Scienze Sociali poi si trasferisce a Milano dove vive e lavora. Scrive già a sei anni la sua prima poesia. Comincia a dipingere e fotografare all’età di sedici anni. La sua pittura spazia dal tradizionale al digitale. Tante le opere poetiche selezionate e inserite in varie raccolte ed antologie del panorama piccolo-editoriale nazionale.

Pubblicazioni sulla rivista «Odissea» di Angelo Gaccione – «Bibbia d’Asfalto»  e «Word Social Forum». Molti componimenti si sono classificati ai primi posti in vari concorsi tra cui: premio  internazionale Otto Milioni di Bruno Mancini,  premio internazionale “Terra di Virgilio” con critica di Enrico Ratti, premio “La Stampa ”con critica di Maurizio Cucchi, premio Speciale Presidenza  “Abbiate Coraggio di Essere Felici” di Antonella Ronzulli e Annamaria Vezio; premio “Internazionale Leopardi d’Oro” dell’Accademia Leopardiana di Reggio Calabria come  ambasciatrice  e procuratrice dell’Arte  e Letteratura Italiana nel mondo, premio MilaninSight, Concorso «Racconta la tua Milano».

Anche i dipinti sono stati inseriti in vari Cataloghi d’Arte tra cui il catalogo d’arte “ l’Elite”  anno 2013 e 2014, catalogo  d’Arte di Assisi e di Artelis di Reggio Calabria nel 2015. A Novembre 2015 edita la sua prima raccolta intitolata Tra l’Insionismo l’Inversionismo e il dialogo di Irda Edizioni”, ormai, fortunatamente introvabile. Nel 2017 pubblica con Progetto Cultura di Roma, Fondamenta per lo specchio.

Onto Francesco Dono

Francesca Dono, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Commento di Letizia Leone

I versi di Francesca Dono si situano nell’orizzonte di un pathos corporale di straripante libertà. Una poesia che assommando su di sé il carico della rimozione storica di sessualità e corporeità femminili pare  voglia   riabilitarne la presenza nuda, e autenticamente sofferta/goduta, sulla scena del verso. Sessualità nuda di tutto l’armamentario retorico del languido erotismo sentimentale, della liturgia obsoleta delle cinquanta e più sfumature che svelano ad ogni ansito il kitsch stilistico della vulgata di un genere tra i più logorati.

L’autrice senza cerimonie attacca direttamente la materia organica da trattare, il sesso e la carne, e   alla secretissima camera del cuore sostituisce lo spazio privato delle manovre erotiche, il montaggio e il rimontaggio dei primi piani carnali esibiti senza più i veli retorici delle parafrasi.  Anzi qui metafore e parafrasi, utilizzate come iperboli, servono ad amplificare le inquadrature sempre più vicine al codice pornografico. In questi versi un immaginario a luci rosse viene elevato a categoria estetica, l’osceno in tempi di pornografia di massa colonizza, al ritmo frammentato di spezzoni hard, il discorso lirico:

Ettari di clitoride. Non più lucidi.  Ogni pornocentimetro

 L’effrazione, l‘eversione di certi stereotipi si palesa in Francesca Dono anche attraverso le ingerenze linguistiche del latino dei riti liturgici, e non è un caso.

Se, infatti, volessimo metterci sulle tracce della scrittura erotica femminile (quale cammino della coscienza verso la consapevolezza di una presenza corporale nel mondo) più che nell’ambito della tradizione letteraria dovremmo rivolgerci alle voci isolate che si esprimono all’interno dell’istituzione ecclesiastica; a certe mistiche che nella penombra di celle e chiostri trovano i margini di libertà per i loro sfaldamenti interiori, ambiguità ed eccessi. Dalle nebbie medievali prima e da figure-icone della controriforma successivamente, le scritture femminili dell’estasi coincidono con quello che è stato felicemente definito “erotismo bianco”: “qui non c’è coscienza, c’è solo godimento” scrive Santa Teresa, e numerose sono le narrazioni di voluttà sacre in un linguaggio denso di immagini erotiche e sensuali.

Bastino due esempi, Angela da  Foligno ( 1248- 1309) e Santa Teresa d’Avila (1515 -1582) : “Durante le estasi era come se fossi posseduta da uno strumento che mi penetrava e si ritirava strappandomi la carne… venivo riempita d’amore e saziata di una pienezza inestimabile… le mie membra si frantumavano e si rompevano di desiderio mentre io languivo, languivo, languivo…”, Angela da Foligno è consapevole di essere preda di “un vizio che non oso nominare”, la sua concupiscenza le fa mettere come estremo rimedio “carboni ardenti sulla vagina per smorzarne le voglie”.

Stessa esperienza e stesse metafore in Teresa d’Avila: “un giorno mi apparve un angelo bello oltre ogni misura. Vidi nella sua mano una lunga lancia alla cui estremità sembrava esserci una punta di fuoco. Questa parve colpirmi più volte nel cuore, tanto da penetrare dentro di me. Il dolore era così reale che gemetti più volte ad alta voce”: una scrittura, questa, che sarà facile bersaglio di future decodificazioni psicoanalitiche. Dardi, spade, punte di ferro che penetrano la carne, simboli talmente sfacciati da far esclamare a Cioran: “Impurità della santità femminile! I santi furono dei gran perversi, così come le sante, magnifiche voluttuose. Gli uni e le altre – pazzi d’una sola idea – trasformarono la croce in vizio”.

La Dono, “magnifica voluttuosa”, osa nominare finalmente e mischia gli ingredienti, sacro e profano, liturgia e pornografia, libidine ed estasi, “acqua e combustione”, descrizioni lubriche infarcite di ogni vizio linguistico, di formule erotiche giocate però sulla scacchiera realistica della visione: “Lo scroto ripieno e amoroso”, “dio-membro nel rimbalzo eretto, La pienezza della vagina davanti ai tuoi duri testicoli…”

Il “Laudatus membrum”, la celebrazione femminile del pene messo sull’altare del piacere, ostia gioiosa, giocattolo peccaminoso, “tronco libertino” ispezionato nel particolare anatomico ha qui ormai superato la soglia femminista di ogni rivendicazione storico-sociale:

Dammi l’uccello Mr. Bloom.  Volatile l’oscurità.

Mi sciacquo con la tua sega triviale.

Finiamola_ splendido maiale.  Riempimi la bocca d’acquasanta.

Versi vibranti che disegnano una nuova mappa per la scrittura erotica. Le prove aperte con la lingua dell’eros, lingua da rimodellare, da rifare, che tenta di “risuscitare un corpo, una mentalità, una vita” come afferma la Kristeva quando svela dinamiche comuni sia allo stato erotico che alla scrittura. Soprattutto una scrittura che deve colmare un vuoto storico dai tempi in cui gruppi di uomini raffinati si riunivano nel chiuso salotto ottocentesco a contemplare l’“Origine del mondo” di  Gustave Courbet, in mancanza delle massicce dosi di “You porn”…

Una scrittura piena di forza “bruta” nello sdoganare la sessualità femminile sul palcoscenico del verso.

 

Testata politticoTestata violaFracesca Dono – Poesie Erotiche

-ascoltarti mentre infierisco-

ascoltarti mentre infierisco.
Profondamente adeguata nel piacere del tuo glande.
È tardi ? Ti mordo senza forza per vibrare.
Il mio clitoride argento.
Ora sai perché ti odio e bacio dell’ombra
ogni spasimo di foro sospirato.
Meglio il fiele che per noi infuria come un bordello.
Nulla da pronunciare. Continua a leggere

76 commenti

Archiviato in critica della poesia, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Angela Greco, POESIE SCELTE da ANAMÒRFOSI (Ed. Progetto Cultura Roma, febbraio 2017) con uno scritto di Giorgio Linguaglossa e un Commento di Mariella Colonna Filippone

citta-opera-di-edith-dzieduszycka

opera-di-edith-dzieduszycka

Angela Greco è nata il primo maggio del ‘76 a Massafra (TA). Ha pubblicato: in prosa, Ritratto di ragazza allo specchio (racconti, Lupo Editore, 2008); in poesia: A sensi congiunti (Edizioni Smasher, 2012; 2017); Arabeschi incisi dal sole (Terra d’ulivi, 2013); Personale Eden (La Vita Felice, 2015); Attraversandomi (Limina Mentis, 2015, con ciclo fotografico realizzato con Giorgio Chiantini e nota introduttiva di Nunzio Tria); Anamòrfosi (Progetto Cultura, Roma, 2017, prefazione di Giorgio Linguaglossa). Presente anche in diverse antologie e su diversi siti e blog è ideatrice e curatrice del collettivo di poesia, arte e dintorni Il sasso nello stagno di AnGre (http://ilsassonellostagno.wordpress.com/). Commenti e note critiche sono reperibili all’indirizzo https://angelagreco76.wordpress.com/

Dalla prefazione di Giorgio Linguaglossa (retro di copertina)

Quello che ora è necessario è una nuova visione di ciò che è il reale e di ciò che la poesia vuole essere. È da qui che ha inizio il lavoro poetico di Angela Greco, il suo progetto di ampliare la «forma-poesia» per creare una poesia nuova, moderna, dialogata e narrativa che sappia argomentare e presentare i suoi Personaggi, le sue Maschere. E sarà su questo punto che si disegnerà un nuovo spazio per la poesia del futuro. La poetessa pugliese riparte dal punto tracciato da Czesław Miłosz in Ars poetica del 1957, posta in epigrafe del libro, alla ricerca di uno spazio espressivo integrale che sia contenitore di una «forma» più ampia e di un «tempo» più ampio (tempus regit actum, dicevano i giuristi romani), una linea di riflessione che attraversa la poesia del secondo Novecento. Una linea di riflessione, che diventa una linea di demarcazione. Angela Greco accetta di misurarsi con una «forma più spaziosa», seguendo e traendo le conseguenze dalla impostazione che ha dato Czesław Miłosz al problema della poesia dell’avvenire. È dentro questa problematica che si situa questo lavoro della poetessa di Massafra. Il tentativo di creare un allestimento scenico per una poesia di Ombre, di Maschere, di Personaggi, che discorrono e discutono mentre il tempo scorre e la forma si solidifica; una poesia, che varca la soglia della lirica per avviarsi verso una nuova struttura sintattica e semantica.

angela-greco-bianco-e-nero

Angela Greco

Premessa dell’autrice

Anamòrfoi, in greco, è un sostantivo femminile, da ἀναμόρϕωσις «riformazione», derivato di ἀναμορϕόω «formare di nuovo». Tra le differenti accezioni del termine, secondo il dizionario, è così chiamato anche un tipo di rappresentazione pittorica realizzata secondo una deformazione prospettica, che ne consente la giusta visione da un unico punto di vista, risultando invece deformata e incomprensibile se osservata da altre posizioni. Da qui, il titolo che indica una nuova scrittura poetica (rispetto a quella utilizzata in precedenza) comprensibile da una particolare angolazione\prospettiva, dove la “visione” si rende manifesta spostando il punto di vista, piegandosi e mutando la propria posizione rispetto alla poesia a cui siamo abituati.

In pratica, mutuando una definizione ancora dal dizionario, Anamòrfosi “è il racconto di una azione che dev’essere interpretata diversamente dal suo significato apparente”. L’azione o, meglio, le azioni da leggere nei versi, oltrepassando il significato apparente, appunto, sono i passaggi che conducono alla liberazione necessaria all’atto della creazione poetica, abbandonando strada facendo quanto scritto fino a quel momento, per compiere il cambiamento di cui nel titolo. La narrazione, tra dubbi ed interrogativi, esprime l’allontanamento da tutto un consolidato mondo chiuso nella propria tradizione poetica, usurato, feroce e sempre pronto a stroncare ogni nuova voce.

Nelle varie sezioni si susseguono cambi di scena e dialoghi tra: una figura maschile – il maestro, che incarna colui che conosce la materia poetica e la sua situazione fino a quel momento, la razionalità e la concretezza, chiusa nella stanchezza e nella sfiducia -, una figura femminile – che rappresenta il discepolo, l’istinto e la creazione, che si identificherà alla fine col poeta – ed una voce, la poesia.  (A.G.)

angela-greco-ft

Angela Greco Roma, 2016 giardinetti di S. Paolo

Commento da Mariella Colonna Filippone

Entro in Anamòrfosi di Angela Greco. Si ha l’impressione di varcare la soglia di un mondo nuovissimo, appena emerso da un nulla popolato di presenze: le parole, gelide e a un tempo incandescenti, creano spazi luminosi, ambienti in cui si percepisce, sì, l’invito ad entrare, ma con cautela, per non rompere i cristalli dell’incanto espressivo e della trasparenza linguistica, che è anche e sempre trasparenza dell’essere. Ho detto “parole gelide e incandescenti” e non si tratta di un paradosso, ma di una condizione esistenziale in cui si percepisce la presenza – assenza dell’autrice, dal primo all’ultimo verso dell’opera.

Anamòrfosi è senza dubbio un punto di arrivo. Angela Greco ha compiuto un percorso, un pellegrinaggio sacro insieme al Maestro per raggiungere il Tempio della Poesia. Ma, come per tutti i percorsi avventurosi e i pellegrinaggi, il lavoro per raggiungere la meta è stato impegnativo e difficile, anche se alleggerito dalla mano del Maestro, che non sembra aver mai lasciato quella dell’Allieva. Ci sono quindi molte componenti da analizzare che si intrecciano e si perdono per poi ritrovarsi, come in un labirinto di marmo e di cristallo. In quello spazio trasparente tutto è ontologicamente posseduto dalla purezza della Poesia nuova generata in contemporanea al momento-tempo della sua nascita. Nascita che va dalla prima all’ultima parola di Anamòrfosi, come indica lo stesso titolo sintetico, ma capace di svolgersi nella spirale che dal nucleo “primordiale” si allarga verso lo spazio circostante, come nella struttura della conchiglia che tanto ha suggestionato l’arte barocca con il suo dinamismo espansivo e vibrante.

Il “gelo” è dimensione di tempo nella purezza dello spazio segnato dai movimenti dell’orologio che lo negano e lo affermano come presenza-assenza:

La figura delle 15 e 15 è ferma sulla soglia;
dall’altra parte, diametralmente all’opposto,
la figura delle diciassette e venti la osserva.
(…) Le parole e il mattino oscillano
nello spazio compreso tra due assenze

Nella Nuova Poesia, l’assenza è più importante della presenza, anche perché ad essa funzionale; analogamente, il silenzio è radice della parola che da quello nasce, come Venere dal mare. Un’altra chiave di scrittura e di lettura di quest’opera è il mistero. Così sembra dire la stessa autrice in apertura della sezione Scene e personaggi: 

Abbiamo un Amleto in comune
a cui affidare la trama e svelare una follia.
Al termine della scena si spegnerà la luce.
E si riempirà la stanza senza palcoscenico.

La conclusione precede misteriosamente la vicenda che, a fine pagina, si connota di un preciso tempo storico: il Novecento, terzo personaggio – chiave si lettura insieme al Maestro e all’Allieva. Ma criptica è questa presenza di un Novecento quale doppio oggetto del desiderio diviso in odio e amore: lo si vuole distruggere, ma lo si ama appassionatamente, perché è parte della nostra Storia, è ancora dentro di noi: non saremmo Nuovi, se non ci fosse l’Antico. Dal “gelo” della purezza comincia a nascere qualche scintilla che poi, sempre in silenzio, provocherà un grande fuoco. Siamo nel pieno di un Giallo surreale. È attraente l’idea di scoprire chi o cosa c’è dietro le mura di marmo del labirinto, nello specchio di Amleto o dentro la conchiglia di Venere, assente nel testo poetico, ma più che mai presente nell’atmosfera che si va creando. Ci accorgiamo che sul “mistero” dell’Anamòrfosi comincia a configurarsi qualche indizio:

“(…) ad ogni parola dell’uomo la dama si fa più corporea.
Fuori della cornice lei è nella sua interezza.
Un sonaglio alla caviglia segna il passo minuto e sicuro.”

Pur trattandosi di un discorso intensamente simbolico e surreale, l’Allieva si trasforma in un personaggio reale: affiora la corrispondenza tra la parola di lui e la corporeità di lei. La poesia introduce i due, Allieva e Maestro, in un mondo a parte, dove sentimenti e abitudini quotidiane non hanno più valore: la parola del Maestro esercita il suo potere su tutto, anche sulla corporeità dell’Allieva – da intendersi come metafora del suo essere poetessa e donna. La metafora nomina più eloquentemente l’assenza deducendola dalla presenza. Nei versi che seguono c’è un sonaglio alla caviglia che segna il passo minuto e sicuro di lei, la protagonista femminile. Il sonaglio è un oggetto erotico, ma, al di là di questo primo significato, il suo suono argentino accompagna a doppio filo lo sviluppo dell’incontro. La vicenda narrata è significativa perché riguarda l’Essere, ma la sovra-realtà, fitta di allegoria e simbolo, veste il reale con un linguaggio indiretto.

Esistenza e Poesia si sfidano, per poi entrare in perfetta sinergia, ma le briglie del cavallo impetuoso le stringe la Poesia:“la dama è in luce vestita di soli veli,/ la caviglia nervosa trema d’impazienza alle note che entrano…” e sta per cominciare la danza. La danza della vita o quella della Poesia?  Dell’una e dell’altra, ma ancora credo si debba dare il primato alla Poesia (che poi è vita, ma è anche “assenza” della stessa). E infatti il Maestro dice: “Dopotutto siamo solo un giro di valzer”, dove danza e valzer sembra si riferiscano alla creazione poetica.

C’è un momento che si distacca dalla fredda luce di specchi e di cristalli e introduce all’improvviso il colore, grazie all’evocazione di Van Gogh e di una sua opera,“Campo di grano con corvi”, in cui dominano il giallo e l’azzurro e i corvi neri, presenti anche in altre parti del poemetto. Il pittore è fermo di fonte all’opera, ma le sue mani lavorano febbrilmente. “La creazione è ribellione al caos” è un suo pensiero? Forse, ma non è solo un pensiero. La sequenza successiva ripropone gli stessi colori in un quadro di Hopper. Un corvo passa anche su questo cielo. In crescendo i colori della vita dipingono un’immagine di serenità: “La terra pensa di essere di maggio e accelera la fioritura dei ciliegi”. Ma ecco un nuovo colpo di scena: “Monsieur, oggi Parigi brucia.” L’atmosfera si fa cupa, “myosotis neri piovono da un cielo non diverso e volano bassi identici uccelli”. La conclusione del Maestro è: “Danziamo, non abbiamo altra salvezza”; il tema della danza evoca vita e poesia. Ma la Poesia, in ultimo, salva la coppia Maestro – Allieva, o chiunque altro sia Poeta, mentre Parigi brucia, cioè mentre tutto va in rovina.

La parentesi di Amleto riapre fulmineamente lo scrigno dove si celano i “misteri di AnGre (l’autrice)” e sembra orientarci proprio verso di lei, verso il suo specchio – labirinto personale. Lo specchio: AnGre. Amleto: il labirinto. Non esiste in letteratura personaggio più misterioso di Amleto. C’è senz’altro un legame tra la poetessa e Amleto, tenendo conto anche di un rimando ad un simile trauma all’occhio (alla visione), che la fece soffrire, di cui parla in una poesia in cui si rivolge in tono drammatico a Dio. Il paradosso di questo Amleto e di questa Angela Greco è che la sofferenza all’occhio (organo della visione in senso lato) guarisce quando nell’occhio di Amleto (e di AnGre?) si conficca una scheggia di vetro, frammento dello specchio su cui l’ira di Amleto aveva scagliato un bicchiere frantumandolo. Avrei un’interpretazione della metafora, ma “esigenze di copione” mi trattengono dal parlarne.

L’evento sembra compiersi in un clima poetico intenso e surreale, che ricorda i cieli, le nuvole e le rocce sospese in aria di Magritte, e tutto si raccoglie dentro il “vetro soffiato”: il mare, lui, lei, l’abitazione, la tigre e la Poesia. Il ribaltamento, la rivoluzione espressiva sta per accadere e la presenza della tigre è un indizio significativo. La nudità è l’essenza della vita senza ornamenti o ricami. I due personaggi sono al confronto finale, estremo: la tigre ne è il simbolo. Ed ecco la chiave offerta per comprendere: questa tigre, elemento primordiale istintivo tutto corpo, forza e slancio elegante nel salto per sbranare la preda è un tratto di penna sul foglio candido, cioè la scrittura, il mezzo per realizzare la rivoluzione poetica. Ma, per realizzare tale rivoluzione, è necessaria la lotta, “Un corpo a corpo spietato”.

L’evento è avvenuto, ma ha richiesto tutte le possibili energie dell’Allieva, il dono totale di sé, che ha qualcosa di spietato, perché, oltre a donare, bisogna anche distruggere, se si vuole ricominciare tutto da capo. Ciò che è avvenuto è avvolto nel mistero della Vita e della Poesia ed è inutile spiegare oltre: anche Anamòrfosi è un mistero bello della natura spiegato fino a dove pensiero umano può arrivare: a noi, ai lettori e ai critici resta il segno della zampata, che non potrà mai scomparire del tutto, perché le unghie della tigre scavano in profondità. Si tratta indubbiamente di un evento d’amore, come lasciano capire alcuni versi e immagini: “Il letto al centro della stanza è isola in mezzo all’oceano”, ma di un amore particolarissimo, che va al di là di ogni possibile definizione. Credo di poter dire almeno questo con certezza: è il legame che unisce due o più persone che cercano con ogni particella dell’essere la verità. Non una qualunque verità, ma quella oscura e luminosa ad un tempo, che connota la Poesia, che è creazione, ma è anche tenerezza, carezza da essere ad essere e, soprattutto, la gloria della parola (e del silenzio che la sostiene e accompagna,) scavata dentro l’anima e il corpo, capace di restituire all’uomo la bellezza di esistere e la gioia anche in mezzo alle macerie e ai mostruosi fantasmi della vita presente.  “Vivi della parola non detta” dice il Maestro e io aggiungo: “Che ancora puoi dire con il gesto della creazione, che fa di te un Poeta, un cantore della Vita.”  E ancora il Maestro:

Ogni volta che fermiamo un attimo sul bianco
siamo intere costellazioni in movimento
perseguitate dall’assenza

È su quell’assenza che cercheremo ancora e sempre la parola che nasce dal vissuto e non vissuto “nostro pane quotidiano” e che ci libera dal peso dell’esistere ricordandoci della rosa che fiorisce improvvisamente sulla strada di pietre che percorriamo a fatica: quest’anno, sulla mia strada, invece della rosa è fiorita l’Anamòrfosi di Angela Greco.

Poesie tratte da Anamòrfosi

§

Dunque Il poeta è un fingitore.
Da dove può venirgli l’autenticità?
Ride qualcuno dello sventurato.

«Tutto può essere tema dell’autenticità» – dici –
voglio credere che oltre questo tempo
dell’inganno e dell’apparenza tu abbia ragione.

Non è tangibile ciò a cui mi riferisco,
ma è la nudità della parola, quando spoglia
tenta la salita e tu la chiami Poesia.

(pag.17)

§

Westminster ogni quarto d’ora ricorda che qualcosa passa
con la sua suoneria puntuale oscilla dentro-fuori dagli occhi.
La luna piena d’ottone riflette l’angolo opposto della camera
dentro qualcuno è seduto ad una sedia dietro un tavolo.
I due fori sul quadrante si ricaricano in direzioni opposte:
tic-tac senza tregua da trent’anni tra mura tradiscono silenzio.

Ho studiato per diventare pioggia
ma la voce del tuono mi ha svegliato¹

Il pomeriggio è fatto per le preghiere e le cattive notizie.
La figura delle quindici e quindici è ferma sulla soglia;
dall’altra parte, diametralmente all’opposto,
la figura delle ore diciassette e venti la osserva.
Il silenzio pendola e nel mezzo la terza figura all’ora zero
ascolta l’aggiungersi dei rintocchi: uno, l’ora
due, la mezza e tre, un quarto alle sei. Devo svegliarmi.
Le parole ed il mattino oscillano
nello spazio compreso tra due assenze.

¹Giorgio Linguaglossa, Paradiso

(pag.19)

§

Abbiamo un Amleto in comune
a cui affidare una trama e svelare una follia.
Al termine della scena si spegnerà la luce
e si riempirà la stanza senza palcoscenico.

Entra per la stessa porta e chiudi subito.
Togli pure la maschera. Non servirà.

Racconta la vicissitudine della notte che hai ascoltato
di là da dietro il giorno, oltre la tenda, l’inganno:
hai visto quei volti bianchi di menzogna e hai riso
di inatteso stupore.

(sulla torre si fa sacra la notte al canto della civetta
e gli occhi conoscono bene il corridoio da percorrere)

Questa rappresentazione ha sortito applausi scroscianti
e preciso il tuo indice ha indicato il punto e il motivo
dove guardare, su cui scrivere, da cui fuggire.

Quel dire, però, non ha capacitato la platea
che riottosa ha lasciato il teatro nella nebbia.

(sulla torre si fa sacra la notte e la civetta è una lira
e la mano conosce bene il luogo da raggiungere)

Entra, l’attesa è conclusa. Il Novecento sta finendo
e con esso abbiamo finalmente una deriva
da accusare.

(pag.23)

§

«Monsieur oggi Parigi brucia.

Che senso ha quello che diciamo, oggi?»
L’uomo non risponde. La fissa solamente negli occhi.
Aspettava quella domanda.

Silenzio.

(la piazza adesso è un florilegio buio come la notte appena trascorsa.
Myosotis neri piovono da un cielo non diverso e volano bassi identici uccelli.
Vorrei parlare con mio fratello della terra che ha generato nostra madre,
ma questo non è più il tempo delle finestre con le tendine fiorite.)

Il lutto stringe gola e sonaglio alla caviglia
e nonostante la ferita l’uomo tende la mano alla dama:
«Danziamo. Non abbiamo altra salvezza».

(pag.33)

§

Fotografia nella cornice color ruggine:
vestiti, sorrisi e volti dietro grandi lenti da sole
ad oscurare pensiero e azione.
Fermi in posa nella grande stanza dalle tende stirate
e il pavimento lucido.
Una domanda: quanto può durare l’attimo?

Una voce si ferma lungo il tragitto dal letto alla finestra.
Lui e lei hanno interrotto la danza per ascoltarla.
La camera è una cassa armonica
e loro sono strumenti d’orchestra.

Pensi che Orfeo abbia contato i gradini?
La discesa agli inferi è un evento personale:
è pari ai giorni di cui abbiamo consapevolezza”.

(pag.40)

§

Gli inferi sono una questione strettamente personale
pochissimi sono gli accompagnatori.
Non si può ripetere il viaggio di qualcun altro.

Il tavolo di legno rettangolare sostiene
inferni bianchissimi
come ossa piante da tempo.
La sedia completa l’altare
per mani che appassionate celebrano.

La discesa nel regno degli inferi è un corpo a corpo
(in assise davanti al legno rettangolare il poeta sembra pregare)

Orfeo segna il cammino con le note che via via si assottigliano
e la mano sfiora senza esitare le nove corde della lira.

(pag.48)

§

Stamattina ho trovato la contraddizione che ti racconta.
Non ci sei, non ci sono le tue mani e non c’è il tuo volto
eppure sei qui tra questi righi che riempiono lo spazio.
Nell’atto stesso del pensare alle tue mani che altrove
si muovono, sei tu nel momento del riunirsi dei grafemi
e prendi corpo. Allora esisti anche dopo il punto e il buio.

Centottantasette giorni di discesa per ritrovare la strada:
il dito segna pagina ventinove e fiori destano il mio giardino
oltre la resina opaca di polvere la casa è ancora la stessa.
Mi guardi anche dopo le ultime pagine – che aspettano
fremendo di Jonio travolto dello scirocco – e ti chiamo.
Tu rispondi che la poesia è sempre un atto di anacronismo.
Sono certa che questo non è il nostro primo incontro.

(pag.70)

§

La mano è ferma sulla maniglia della porta
non vuole inclinare quel momento.
L’aria attraversa l’incavo della chiave
oltre l’impedimento visivo.
Una voce alle spalle rompe il silenzio:
«Di tutti i miei sensi sei il più acuto, oggi».

Un passo e un gesto basterebbero
a mandare in frantumi l’attimo.
Di quanto accade oltre la soglia
a loro non interessa. Sono al di qua,
dentro qualcosa di oscuro
che ancora sfugge.

(pag.71)

mariella-colonna-image

Mariella Colonna

Mariella Colonna.  Sperimentate le forme plastiche e del colore (pittura, creta, disegno), come scrittrice ha esordito con la raccolta  di poesie Un sasso nell’acqua. Nel 1989 ha vinto il “Premio Italia RAI” con la commedia radiofonica Un contrabbasso in cerca d’amore, musica di Franco Petracchi (con Lucia Poli e Gastone Moschin). Radiodrammi trasmessi da RAI 1: La farfalla azzurra, Quindici parole per un coltello e Il tempo di una stella. Per il IV centenario Fatebenefratelli sull’Isola Tiberina è stata coautrice del testo teatrale La follia di Giovanni (Premio Nazionale “Teatro Sacro a confronto” a Lucca), realizzato e trasmesso da RAI 3 nel 1986 come inchiesta televisiva (regia di Alfredo di Laura). Coautrice del testo e video Costellazioni, gioco dei racconti infiniti in parole e immagini (Ed.Armando/Ist.Luce) presentato, tra gli altri, da Mauro Laeng e Giampiero Gamaleri a Bologna nella Tavola Rotonda “Un nuova editoria per la civiltà del video” ha pubblicato, nella collana “Città immateriale ”Ed.Marcon, Fuga dal Paradiso. Immagine e comunicazione nella Città del futuro (corredato dalle sequenze dell’omonimo film di E.Pasculli), presentato nel 1991 a Bologna da Cesare Stevan e Sebastiano Maffettone nella tavola rotonda sul tema “Verso la città immateriale: nell’era telematica nuovi scenari per la comunicazione”. Nel 2008 ha pubblicato Guerrigliera del sole nella collana “I libri di Emil”, ediz. Odoya. Nell’ottobre 2010 ha pubblicato, con la casa editrice Albatros “Dove Dio ci nasconde”.  Nel febbraio 2011 ha pubblicato, presso la casa editrice. Guida di Napoli “Due cuori per una Regina” / una storia nella Storia, scritto insieme al marito Mario Colonna. Un suo racconto intitolato “Giallo colore dell’anima” è stato pubblicato di recente dall’editore  Giulio Perrone nell’Antologia “Ero una crepa nel muro”; nel 2013 ha pubblicato “L’innocenza del mare”, Europa edizioni; nel 2014 “Paradiso vuol dire giardino”, ed Simple; nel 2016 coautrice con il marito Mario di “Mary Mary, La vita in una favola.”

27 commenti

Archiviato in critica della poesia, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA Mario M. Gabriele: Una poesia testamentum. Inedito. Le parole con le quali è scritto questo rogito testamentario sono fantasmi linguistici, rottami, spezzoni, frammenti che un tempo hanno abitato l’universo mediatico – Il Fantasma è così al contempo un’illusione ma anche l’estrema risposta al venire a mancare della «Cosa significata», al declassamento ontologico del Soggetto parlante

gif-tagespiel

tagespiel

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura” e pubblicato diversi volumi di poesia tra cui il recente Ritratto di Signora 2014. Ha curato monografie e saggi di poeti del Secondo Novecento. Ha ottenuto il Premio Chiaravalle 1982 con il volume Carte della città segreta, con prefazione di Domenico Rea. E’ presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poetidi Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzario, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Dieci sue composizioni sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016) a cura di Giorgio Linguaglossa. Sempre nel 2016 è stata pubblicata la raccolta di poesia L’erba di Stonehenge (Progetto Cultura). Si sono interessati alla sua opera: G.B.Vicari, Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Luigi Fontanella, Giose Rimanelli, Francesco d’Episcopo, Giuliano Ladolfi,e Sebastiano Martelli. Altri Interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier. Cura il blog di poesia italiana e straniera L’isola dei poeti.

mario-gabriele-viso

Mario M. Gabriele

Mario M. Gabriele

Inedito da In viaggio con Godot
(di prossima pubblicazione nelle edizioni Progetto Cultura di Roma)

Il Decalogo è chiaro, il Codice pure.
I convenuti furono chiamati all’appello.
Chiesero perché fossero nel Tempio.
A sinistra del trono c’erano angeli e guardie del corpo.
Solo il Verbo può giudicare.
L’occhio si lega alla terra.
Non ha altro appiglio se non la rosa e la viola.
Un gendarme della RDT, lungo la Friedrichstraße,
separava la pula dal grano,
chiese a Franz se mai avesse letto Il crepuscolo degli dei.
Fermo sul binario n. 1 stava il rapido 777.
Pochi libri sul sedile. Il viso di Marilyn sul Time.
– Quella punta così in alto, che sembra la Torre Eiffel cos’è? -,
chiese un turista.
– È la mano del mondo vicina all’indice di Dio -, rispose un abatino.
Allora, che salvi Barbara Strong,
e il dottor Manson, l’abate De Bernard,
e i morti per acqua e solitudine,
e che non sia più sera e notte finché durano gli anni,
e che ci sia una sola primavera
di verdi boschi e alberi profumati,
come in un trittico di Bosch.
Ecco, ora anch’io vado perché suona il campanaccio.

Ci furono mostre di calici sugli altari,
libri di Padre Armeno e di Soledad,
e un concerto di Rostropovic.
Usciti all’aperto prendemmo motorways. .
Nella terra di miti, dove ci si scorda di nascere e di morire
c’erano cartelloni pubblicitari e blubell.
A San Marco di Castellabate
la stagione dei concerti era appena cominciata.
Il palco all’aperto aspettava il quintetto Gospel.
Si erano perse le tracce del sassofonista del Middle West.
Il primo showman raccontò la fuga d’amore di Greta con Stokowski.
Le passioni minime vennero con gli umori di Medea,
di fronte alle arti visive di Cornelis Esher.
Un relatore rimandò ad una nuova lettura
I Cent’anni di solitudine di Garcia Marquez.
Quest’anno il postino non suonerà più di tre volte.

Et c’est la nuit, Madame, la Nuit!. Je le jure, sans ironie.

.gif-girl-crying-by-ivana-and-kysli

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa.
Il declassamento ontologico del «Soggetto parlante»

  L’io è letteralmente un
oggetto – un oggetto che adempie a una certa funzione
che chiamiamo funzione immaginaria

J. Lacan – seminario XI 

Il soggetto è quel sorgere che, appena prima,
come soggetto, non era niente, ma che,
appena apparso, si fissa in significante.

J. Lacan – seminario XI

L’idea del «Soggetto parlante» è qualcosa che è in viaggio, qualcosa di inscindibile dal linguaggio, anch’esso sempre in viaggio nell’accezione mutuata dalla linguistica e in particolare da de Saussure, di un soggetto nel linguaggio, ovvero di quel soggetto colto nella sua inferenza con il significante in quanto condizione causativa del Soggetto. Questa premessa, se ricondotta nel campo psicoanalitico, implica che non vi sia ambito del desiderio, e che dunque non si possa dare propriamente parlando alcun  fenomeno dell’esistenza, se non all’interno di una dimensione che potremmo definire con Lacan «originariamente linguistica», determinata cioè dall’«Altro» come luogo della parola fondata così sulla totalità dell’ordine simbolico in quanto ordine causativo del Soggetto.

Il frasario:

«Solo il Verbo può giudicare»

indica sardonicamente il tema della poesia e della intera raccolta di Mario Gabriele, il dogma implicito del «Verbo» unico depositario del «giudizio». L’autore capovolge sardonicamente questo assunto dogmatico sul quale si è retto il potere dell’Occidente con il semplice indicare a dito il «Verbo», il vero falsario della storia degli uomini. Il soggetto quindi parla metonimicamente in quanto pronuncia una ordalia, scopre la nudità del «re», di che stoffa è fatta la sua menzogna.

Ormai non c’è più da aspettare Godot, siamo già da un pezzo in viaggio con Godot, solo che non ce ne siamo accorti; o meglio, le belle anime della poesia non ne hanno voluto prendere atto. Ormai il «Verbo» è un involucro vuoto, un significante con dentro il vuoto.

Il linguaggio, ci dice Agamben, deve necessariamente presupporre se stesso. Il linguaggio, ci dice Mario Gabriele, è fatto con la stoffa di un altro linguaggio, è linguaggio di linguaggi, frantumi di linguaggi rottamati. Non c’è meta linguaggio se non nel linguaggio. Non c’è linguaggio che non sia metalinguaggio sembra dirci Gabriele.

Gif lichtenstein peace through chemistry.jpgIl Parlante è il Soggetto declassato

il quale tiene in piedi le fila del proprio discorso rispetto all’indicibilità come condizione assoluta  della dicibilità. Non si dà indicibilità senza dicibilità. Essa dà, per così dire, figura alla «Cosa significata», le dà una struttura narrativa, una scena in cui possa apparire come oggetto perduto. Perché è il Soggetto ad essere perduto per sempre, che si è smarrito nella selva oscura della linguisticità della civiltà mediatica.

Il linguaggio del fantasma di Mario Gabriele rappresenta la finzione che dischiude la verità del soggetto come mancanza, vuoto, abisso, finzione attraverso cui si articola quell’al di là del desiderio – desiderio di nulla e nulla del desiderio al contempo – che Lacan designa, sulla scorta della nozione freudiana di istinto di morte, come «godimento», la beanza irraggiungibile della identificazione tra la parola e la cosa.

Mario Gabriele presta moltissima cura alla messa in scena del testamentum.

Una sorta di testamento. Come in un testamento che si rispetti c’è di tutto, c’è tutto l’essenziale: i beni immobili e quelli mobili, i beni materiali e quelli immateriali, il tutto riunito in una sola composizione. Un Aleph. Che brilla di luce sinistra, spettrale. Fermo restando che una poesia così è simile ad un rinvenimento di un cratere istoriato di epoca ellenistica o più antico ancora, e il critico deve vestire i panni dell’archeologo per riportare in vita una parvenza di ciò che tutti quei frammenti richiamano alla memoria. Più che lavoro di restauro (e non solo) qui occorre un lavoro di ricostruzione di tutti quei frammenti sparsi e disarticolati che un giorno lontano significavano qualcosa…

Le parole con le quali è scritto questo rogito testamentario sono quei «fantasmi» che un tempo hanno abitato l’universo linguistico mediatico e il nostro immaginario e che, in quanto tali, prendono possesso della pagina bianca.

«Il linguaggio del fantasma»

Nel «linguaggio del fantasma» noi vediamo allestita la messa in scena del venir meno del soggetto-autore di fronte al mancare della «significazione», quella sorta di estrema quanto inconscia riparazione simbolico-immaginaria a un cedimento strutturale avvenuto a livello ontologico, cedimento da cui proviene ciò che Lacan chiama, nel suo significato più generale, il «soggetto parlante». Il fantasma è così al contempo un’illusione ma anche l’estrema risposta al venire a mancare della «Cosa significata» come fondamento dell’esserci del soggetto, ma anche un «venire in presenza» di qualcosa che dimorava nel regno delle ombre dell’inconscio. Ciò che qui importa è proprio  l’aspetto scenico, il luogo retorico in cui il soggetto si ritrova come osservatore e autore (assente), regista e attore (assente) al contempo di quello che può a tutti gli effetti essere definita la  narrazione della sua mancanza. Il «fantasma» è infatti, in ultima istanza, una frase. A livello linguistico, simbolico, si presenta come una proposizione; a livello immaginario, si presenta come una scena. Il «linguaggio del fantasma» è legato a una dimensione liminale, una sorta di sipario chiuso oltre il quale resta velato quel nulla dell’infondantezza del soggetto, quel vuoto di significanti in cui si manifesta  l’abisso del metalinguaggio di Gabriele.

Siamo qui davanti ad una esemplificazione tra le più brillanti della poesia contemporanea che abbiamo definita «Nuova poesia ontologica», indicando questo tipo di poesia come appartenente alla «Nuova ontologia estetica» che stiamo investigando da qualche tempo su questa rivista.

L’inconscio del fantasma linguistico di Gabriele si manifesta, seppur attraverso il velo di sintomi, lapsus, citazioni, frammenti; il suo manifestarsi consente di avvertirne la presenza. Presenza che non si confonde mai con l’esser presente, con un darsi. Tuttavia è un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote il soggetto, o sarebbe forse meglio dire lo coglie a tergo nel suo discorso cosciente, nel suo voler-dire, nei suoi atti, nei suoi desideri, nelle sue intenzioni, lo coglie cioè in un vacillamento che non è nulla di superficiale ma lo concerne e lo coinvolge nel suo stesso, nel suo più radicale essere.

L’inconscio del fantasma linguistico di questa poesia è un inter-detto, esso non ha nulla della oscurità, dell’abissale o di una qualsiasi sorta di magma pulsionale. L’inconscio pensa cose e le pensa linguisticamente agghindate.

gif-xmas2011_keith-bates_peace_through_christmas_treeIl disorientamento

Ho scritto in altra occasione riferendomi ad alcune eccezioni sollevate da Claudio Borghi:

«comprendo molto bene il tuo «disorientamento» dinanzi alla nostra ricerca di una nuova ontologia estetica, io è dall’inizio degli anni Novanta del Novecento che tento di indagare la crisi della forma-interna della poesia, l’ho fatto con la rivista “Poiesis” che avevo fondato nel 1993 e tenuta in vita fino al 2005. Complessivamente ne sono usciti 34 numeri. Ma è accaduto che in questi ultimi 29 anni la crisi delle forme estetiche (e non solo) si è andata aggravando, la crisi ha impresso una accelerazione forsennata al crollo delle forme estetiche tradizionali, non è affatto colpa mia e dei miei compagni di strada se la crisi si è abbattuta come un maglio sulle forme estetiche che abbiamo conosciuto in poesia. Così, è avvenuto che quell’endecasillabo della tradizione che va da Bertolucci de La camera da letto al Bacchini degli ultimi libri, ormai non ha nulla da offrirci, è una forma estetica del passato e noi non possiamo restare fermi a dirci come erano belli i tempi nei quali scrivevamo e vivevamo come Attilio Bertolucci e Bacchini, con tutto il rispetto per quelle forme poetiche e la loro poesia.

Del resto, oggi, non vedo in giro in Italia ricerche alternative a questa che abbiamo messo in campo. Tenterò di spiegarmi. La «nuova ontologia estetica» è nata da una presa d’atto della crisi irreversibile della forma-poesia che abbiamo conosciuto nel secondo Novecento e in questi ultimi anni del nuovo secolo, è una risposta che è partita dai «fondamenti» della scrittura poetica, e, in particolare, da un nuovo concetto dei due elementi fondanti la forma-poesia: la «parola» e il «metro», entrambi visti non più come «contenitori» di grandezza fissa ma come entità a grandezza variabile; sia la «parola»che il «metro» sono entità elastiche, mutanti, noi percepiamo queste unità come enti dotati di tempo e di spazio «interni», non solo «esterni» come intendeva la poesia tradizionalmente novecentesca ed epigonica.

Che cosa voglio dire? Che spetta a ciascun poeta offrire una propria soluzione a questa crisi della forma-poesia e interpretazione a questi nuovi modi di intendere sia la «parola» che il «metro», e si tratta di quello che abbiamo denominato «tempo interno», che non è da intendere come un tempo interno fisso valido per tutti ma come una temporalità interna all’oggetto e al soggetto e una spazialità interna al soggetto e all’oggetto, per dire così.

Non era Tynianov che 100 anni fa ha scritto che «si può scrivere poesia anche senza una unità metrica»?

Cito a memoria. se noi accettiamo questo assioma possiamo concludere che oggi si può parlare non più di unità metrica ma di «unità metriche», ciascun poeta ha il diritto di sperimentare nuove e diverse «unità metriche», non dobbiamo farci intimidire da coloro i quali stigmatizzano che la nostra non è poesia ma prosa travestita da poesia, questi rilievi li restituiamo volentieri ai mittenti.
È di questi giorni la scoperta scientifica di una nuova forma di esistenza della materia: un «cristallo temporale» che ha una struttura atomica che cambia nel tempo: l’itterbio. Incredibile, vero? la scienza ci viene in aiuto mostrandoci che anche la materia può avere una struttura atomica mutagena. E perché non possiamo pensare allo stesso modo la poesia? Perché non possiamo pensare ad una poesia che è retta non più da una struttura atomica fissa ma da una mutabile nel tempo? (esterno ed interno?)».

Il frammento e la citazione nella poesia di Mario Gabriele rappresentano, in quanto finzione, il limite dell’ordine simbolico, un ordine simbolico che abita la zona anestetizzata dall’esistenza dell’universo mediatico.

Ecco la ragione della assoluta modernità della poesia di Gabriele.

Sul «Frammento»

Riporto un frammento di una mia riflessione già apparso su questa Rivista sulla poesia di Mario Gabriele:

“Mario Gabriele utilizza il «frammento» come una superficie riflettente, un «effetto di superficie», un «talismano magico», una immagine di caleidoscopio, un «cartellone pubblicitario»; impiega il «frammento» e la composizione in «frammenti» come principio guida della composizione poetica; ma non solo, è anche un perlustratore e un mistificatore del mistero superficiario contenuto nei «frammenti», ciascuno dei quali è portatore di un «mondo», ma solo come effetto di superficie, come specchio riflettente, surrogato di ciò che non è più presente, simulacro di un oggetto che non c’è, rivelandoci la condizione umana di vuoto permanente proprio della civiltà cibernetico-tecnologica. È una poetica del Vuoto, una poesia del Vuoto. E il Vuoto è un potentissimo detonatore che l’innesco dei «frammenti» fa esplodere. La sua poesia ha l’aspetto di un fuoco d’artificio  che si compie in superficie; si ha l’impressione, leggendola, che si tratti di una diabolica macchinazione della simulazione e della dissimulazione, ci induce al sospetto che sia la nostra condizione umana attigua a quella della simulazione e della dissimulazione: non sappiamo più quando recitiamo o siamo, non riusciamo più a distinguere la maschera dalla «vera» faccia. La poesia diventa un gelido e algebrico gioco di simulacri, di simulazioni e di dissimulazioni, una scherma di sottilissime simulazioni, citazioni, reperti fossili, lacerti del contemporaneo utilizzati come se fossero del quaternario. È una poesia che ci rivela più cose circa la nostra contemporaneità, circa la nostra dis-autenticità di quante ne possa contenere la vetrina del telemarket dell’Amministrazione globale, ed è legata da analogia e da asimmetria al telemarket, danza apotropaica di scheletri semantici viventi…

Ricevo da Ubaldo de Robertis questa citazione di Osip Mandel’stam sulla poesia. Credo che si attagli perfettamente alla poesia di Mario Gabriele e alla nostra sensibilità:

“Non chiedete alla poesia troppa concretezza, oggettività, materialità. Questa pretesa è ancora e sempre la fame rivoluzionaria: il dubbio di Tommaso. Perché voler toccare col dito? E soprattutto, perché identificare la parola con la cosa, con l’erba, con l’oggetto che indica? La cosa è forse padrona della parola? La parola è psiche. La parola viva non definisce un oggetto, ma sceglie liberamente, quasi a sua dimora, questo o quel significato oggettivo, un’esteriorità, un caro corpo. E intorno alla cosa la parola vaga liberamente come l’anima intorno al corpo abbandonato ma non dimenticato. […] I versi vivono di un’immagine interiore, di quel sonoro calco della forma che precede la poesia scritta. Non c’è ancora una sola parola, eppure i versi risuonano già. È l’immagine interiore che risuona, e l’udito del poeta la palpa.

(Osip Mandel’stam, in La parola e la cultura).

gif-roy-lichtenstein-a-parigi-la-pop-art-in-mostr-l-lxgcov.

Il treno del tempo: successione, salto in avanti, salto all’indietro, cambiamento, continuità, discontinuità, interruzione, ripresa, reversibilità, irreversibilità

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/02/23/la-nuova-ontologia-estetica-mario-m-gabriele-una-poesia-testamentum-inedito-le-parole-con-le-quali-e-scritto-questo-rogito-testamentario-sono-fantasmi-linguistici-rottami-spezzoni-frammenti-che/comment-page-1/#comment-18242

Torniamo alla lettura della poesia. Precisamente a questi versi della poesia di Mario Gabriele:

Un gendarme della RDT, lungo la Friedrichstraße,
separava la pula dal grano,
chiese a Franz se mai avesse letto Il crepuscolo degli dei.
Fermo sul binario n. 1 stava il rapido 777.
Pochi libri sul sedile. Il viso di Marilyn sul Time.

In questo testo poetico la profondità del tempo è diventata profondità dello spazio. Il treno del tempo: successione, salto in avanti, salto all’indietro, cambiamento, continuità, discontinuità, interruzione, ripresa, reversibilità, irreversibilità etc., è diventato il treno dello spazio. Il lettore nell’atto della lettura è costretto a cambiare continuamente il suo registro temporale, con l’effetto che il tempo diventa, magicamente, spazio. Il tempo si è spazializzato, ha assunto profondità spaziali. E lo spazio si è temporalizzato.

L’esperienza umana del Soggetto è scomparsa, è uscita fuori dell’orizzonte degli eventi della poesia. La poesia di Gabriele si è liberata del pesante fardello di un orizzonte di lettura unilineare e unitemporale, qui si aprono diversissime direzioni temporali che diventano direzioni spaziali. La spazializzazione del tempo è una delle caratteristiche precipue di questo tipo di poesia che io ho indicato con la denominazione di Nuova Ontologia Estetica perché i suoi assunti sono, in guise diverse da ogni autore, adottati da vari poeti che seguono questa nuova ontologia ciascuno con modalità stilistiche proprie. Così, il tempo diventa visibile attraverso lo spazio. Accostare tessere diversissime in un insieme, in un mosaico, diventa un puzzle, un Enigma che può anche non essere interpretato perché è prioritario per l’Enigma essere vissuto. Per sua essenza, l’Enigma rifugge da atti di padronanza categoriale, e rifugge da letture unidirezionali. Il «tempo interno» è nient’altro che questo processo che interviene tra l’autore e il lettore, ma è anche una caratteristica di ogni singola «tessera» o «immagine»; in fin dei conti, ogni «immagine» è analoga all’altra, c’è nell’orizzonte degli eventi del mondo e non ha bisogno di essere spiegata ma è un darsi e un moltiplicarsi di superfici riflettenti nelle quali l’uomo contemporaneo può riflettere la sua Assenza, la sua mancanza ad essere. Una problematica di carattere squisitamente esistenzialistica..

Il tempo può essere percepito ed esperito soltanto come una delle dimensioni dello spazio, ed esso spazio è la modalità con la quale l’esistenza è stata vissuta ed esperita. Dunque, l’esistenza è dentro lo spazio e dentro il tempo come una serie di scatole cinesi.

Qui siamo davanti ad un «tempo interno» che è diversissimo dalla visione retrospettiva e memoriale di un Proust, ma più simile a ciò che nel romanzo hanno fatto narratori come Salman Rushdie con i suoi romanzi Versetti satanici (1988) e Midnight’s children (1981) e Orhan Pamuk con Il mio nome è rosso (2000) e Il museo dell’innocenza (2008). L’utilizzazione dei frammenti nel romanzo moderno è una procedura assodata da tempo, in poesia l’accademismo e la tradizionalizzazione delle forme estetiche ad opera di letterati conservatori, in poesia dicevo questa nuova forma di pensare la scrittura letteraria qui in Italia è stata osteggiata e ritardata.

Platone nel Timeo parla del Tempo Cronos come di una «icona in movimento di Aion, come di una «immagine mobile dell’eternità». È singolare che Platone per indicare il «Tempo-Cronos» ricorra alla parola «immagine». Singolare ma significativo in quanto noi possiamo afferrare qualcosa intorno al «tempo» soltanto se ce lo rappresentiamo come una «immagine», cioè attraverso una figurazione spaziale.

Chi sogna ad occhi aperti sa molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto ad occhi chiusi. La poesia di Mario Gabriele è simile ad un sogno ad occhi aperti. Ne L’interpretazione dei sogni Freud ci dice che il sogno «è una messinscena originaria», anteriore alla stessa distinzione tra «soggetto» e «oggetto». Le immagini mobili che fluttuano sulla superficie riflettente degli attimi temporalizzati della poesia di Mario Gabriele sono messe in scena sostitutive di quella originaria, sono la traduzione di concetti temporali in figurazioni spaziali.

Scrive Giacomo Marramao:

«il tempo baudeleriano si è spogliato di tutte le prerogative spaziali. Per il semplice fatto di costituire una dimensione reale dell’esperienza umana, il tempo vissuto non può assolutamente darsi indipendentemente dallo spazio. Ed essendosi in tal modo spazializzato il tempo, tutta l’esperienza vissuta appare come spazializzata. Anzi: identica allo spazio. Lo stesso tempo può rendersi propriamente visibile, essere ‘sinestesicamente’ percepito ed esperito, solo come una delle dimensioni dello spazio, che viene pertanto complessivamente a coincidere con la stessa estensione dell’esistenza […] Questo movimento è esattamente un movimento prospettico “l’atto con cui, per giungere alla profondità, si apre nel campo visivo una strada che lo sguardo percorre”. Si spiega così il significato recondito delle “magiche prospettive” che Baudelaire dispone nelle sue memorabili descrizioni paesaggistiche e che fa corrispondere le sue analisi delle tele di Delacroix alle proiezioni che l’esperienza organizza nei “quadri” del suo vissuto: “evaporazione e centralizzazione (o condensazione) dell’Io: è tutto qui (Oeuvre, II, 642). evaporazione inebriante e condensazione nel ricordo e nel rimpianto rappresentano i confini, i termini estremi, di un movimento del vissuto che tende a coincidere con lo spazio. Un’esistenza spazializzata è un’esistenza evaporata in numero: “Il numero – sottolinea Baudelaire – è una traduzione dello spazio (ivi, 663). E poiché sempre di spazio vissuto si tratta, anche il numero andrà inteso nel senso di numero vissuto. Sta qui la chiave segreta dell’immagine baudeleriana di “ripetizione”: essa prospetta la virtualità di esperire una moltiplicazione dell’esistenza attraverso un’infinita estensione di campo delle sensazioni. La moltiplicazione dell’esistenza divenuta numero dipende così da quella misteriosa facoltà di ripetere il suo salto lungo tutta la superficie dell’essere: di rimbalzare come un’eco lungo la misteriosa curva di uno spazio tempo i cui confini non sono mai tracciati definitivamente. Non per nulla i versi più belli e significativi di baudelaire sono proprio quelli che esprimono il riecheggiamento:

Comme des longs éclos qui de loin se
confondent…
C’est un cri par mille sentinelle…

Non si dà, pertanto, né reale né possibile esperienza del tempo a prescindere dallo spazio. La grande intuizione baudeleriana circa la costruzione di una profondità di campo quale condizione imprescindibile per afferrare-insieme (null’altro se non questo è il significato di “comprendere”) gli eventi che ci accadono sopravanza, in questo senso, la nozione di “tempo vissuto” di Bergson: non più Spazio come morte del tempo, estinzione della sua fluente autenticità nel rigore esclusivo della misurazione cronometrica, ma spazializzazione come conditio sine qua non per poter fare esperienza…
[…]
Poiché solo all’apparire del “perturbante” si dileguano gli idoli. Exeunt simulacra».1]

*
Il nostro modo di esistenza ha prodotto la moltiplicazione degli istanti, la moltiplicazione delle temporalità, la moltiplicazione delle immagini.
Che cos’è l’immagine? L’immagine è l’istante.
Che cos’è l’istante? Per Parmenide l’istante, o meglio l’istantaneo è: «L’istante. Pare che l’istante significhi (…) ciò da cui qualche cosa muove verso l’una o l’altra delle due condizioni opposte [del Passato e del Futuro]. Non vi è mutamento infatti che si inizi dalla quiete ancora immobile né dal movimento ancora in moto, ma questa natura dell’istante è qualche cosa di assurdo [atopos] che giace fra la quiete e il moto, al di fuori di ogni tempo…» (Parm., 156d-e).

La moltiplicazione dell’esistenza tipica della nostra civiltà post-moderna ha prodotto la conseguenza di una moltiplicazione di superfici riflettenti quali sono le immagini nella civiltà telemediatica. Questo processo è esploso in questi ultimi decenni a velocità forsennata ed ha prodotto una profonda modificazione del nostro modo di percepire e recepire il mondo; il mondo si è frantumato in una miriade di spezzoni. Fare un processo al mondo per quanto accaduto non è nelle nostre intenzioni, questo della moltiplicazioni delle superfici riflettenti è un dato di fatto incontrovertibile e noi e Mario Gabriele non altro abbiamo fatto che prenderne atto e fare una poesia di superfici riflettenti. Questo processo epocale fra l’altro ha prodotto una conseguenza anche sull’idea di Soggetto e di Io (idea teologica e filosoficamente destituita di fondamento già da Freud e dal sorgere della psicanalisi). Il Soggetto è scomparso. È diventato un fonatore. Anche l’enunciato è qualcosa di diverso dal Soggetto enunciatore. Il predicato si è scollegato dal Soggetto. Si tratta di questioni che la filosofia del nostro tempo ha chiarito in modo ritengo sufficientemente credibile. Fare oggi una poesia del Soggetto che legifera nella sua sfera di influenza, è, a mio avviso, una ingenuità filosofica ed estetica. La poesia dell’Io è un falso, e una banalità.

Quanto ai concetti di armonia, di eufonia, di musica del verso musicale, di poesia e di anti poesia etc. sono concezioni tolemaiche legate ad una visione tolemaica e ingenua della poesia che ha fatto il suo tempo e verso i quali mi viene da sorridere, anzi, provo addirittura nostalgia per quell’età in cui si scriveva credendo ingenuamente in quelle categorie estetiche. La nuova ontologia estetica di cui qui si parla lascia questi concetti semplicemente come abiti dismessi sulla sedia a dondolo per chi vuole ancora dondolarsi in ozio intellettuale. Pecchiamo di arroganza? Forse. Non lo so. E neanche mi interessa.

G. Marramao Minima temporalia luca sossella ed. 2005 pp. 95 e segg.

68 commenti

Archiviato in Crisi della poesia, critica dell'estetica, critica della poesia, poesia italiana, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Gino Rago e Mario M. Gabriele sull’Antologia di Poesia dell’Epoca della stagnazione spirituale, Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016 pp.352 € 18) a cura di Giorgio Linguaglossa VERSO UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA – I poeti del Presente ablativo – con Nove poesie di Maria Rosaria Madonna. PRESENTAZIONE DELLA ANTOLOGIA Venerdì, 21 ottobre h 17.30, All’ALEPH, Vicolo del Bologna, 72 ROMA

Antologia cop come è finita la guerra di Troia non ricordo

Gino Rago

VERSO UN NUOVO PARADIGMA POETICO

La Introduzione di Giorgio Linguaglossa non lascia margini ad ulteriori dubbi: si è chiusa in modo definitivo la stagione del post-sperimentalismo novecentesco, si sono esaurite le proposte di mini canoni e di mini progetti lanciati da sponde poetiche le più diverse ma per motivi, diciamo, elettoralistici e auto pubblicitari, si sono esaurite la questione e la stagione dei «linguaggi poetici», anche di quelli finiti nel buco dell’ozono del nulla; la poesia italiana sembra essere arrivata ad un punto di gassosità e di rarefazione ultime dalle quali non sembra esservi più ritorno. Questo è il panorama se guardiamo alle pubblicazioni delle collane a diffusione nazionale, come eufemisticamente si diceva una volta nel lontano Novecento. Se invece gettiamo uno sguardo retrospettivo libero da pregiudizi sul contemporaneo al di fuori delle proposte editoriali maggioritarie, ci accorgiamo di una grande vivacità della poesia contemporanea. È questo l’aspetto più importante, credo, del rilevamento del “polso” della poesia contemporanea. Restano sul terreno  voci poetiche totalmente dissimili ma tutte portatrici di linee di ricerca originali e innovative.

Molte delle voci di poesia antologizzate vibrano, con rara consapevolezza dei propri strumenti linguistici, in quell’area denominata L’Epoca della stagnazione estetica e spirituale, che non significa riduttivamente stagnazione della poesia ma auto consapevolezza da parte dei poeti più intelligenti della necessità di intraprendere strade nuove di indagine poetica riallacciandosi alle poetiche del modernismo europeo per una «forma-poesia» sufficientemente ampia che sappia farsi portavoce delle nuove esigenze espressive della nostra epoca. Innanzitutto, il decano della nuova poesia è espressamente indicato nella persona di Alfredo de Palchi, il poeta che con Sessioni per l’analista del 1967, inaugura una poesia frammentata e proto sperimentale, una linea che, purtroppo, rimarrà priva di sviluppo nella poesia italiana del tardo Novecento ma che è bene, in questa sede, rimarcare per riallacciare un discorso interrotto. Un percorso che riprenderà Maria Rosaria Madonna con il suo libro del 1992, Stige, forse il discorso più frammentato del Novecento, dove il «frammento è l’intervento della morte dell’opera. Col distruggere l’opera, la morte ne elimina la macchia dell’apparenza»(T.W. Adorno Teoria estetica, 1970 Einaudi).

Un discorso sul «frammento» in poesia ci porterebbe lontano ma ci aiuterebbe a collocare certe opere del Novecento, come quella citata di de Palchi con l’altra di Maria Rosaria Madonna.

In un certo senso, questa Antologia vuole riallacciare un «discorso interrotto», collegare i «membra disiecta», capire le ragioni che lo hanno «interrotto» per ripartire con maggiore consapevolezza da un nuovo discorso critico della poesia del secondo Novecento. Forse adesso i tempi sono maturi per rimettere al centro della poesia italiana del secondo Novecento poeti come Alfredo de Palchi, Angelo Maria Ripellino ed Helle Busacca, ma anche Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher ingiustamente dimenticati. Ne uscirebbe una nuova mappa della poesia italiana. In fin dei conti, questa Antologia vuole essere un contributo per la rilettura della poesia del secondo Novecento.

Se c’è una unica chiave di lettura della poesia del Presente essa sta, a mio avviso, nello spartiacque rispetto alle Antologie storiche come Il pubblico della poesia del 1975 a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli che apriva ad un’epoca della «poesia-massa» e ai poeti «uomini di fede», non più «intellettuali» a tutto tondo come quelli della precedente generazione poetica. I poeti dell’epoca della stagnazione sono dei solisti e degli isolati, sanno di essere fuori mercato e fuori moda, sanno di essere dei reperti post-massa e ne accettano le conseguenze: Annamaria De Pietro, Carlo Bordini, Renato Minore, Lucio Mayoor Tosi, Alfredo Rienzi, Anna Ventura, Antonio Sagredo, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone, Steven Grieco-Ratgheb,  Edith Dzieduszycka, Mario M. Gabriele, Stefanie Golisch, Ubaldo De Robertis, Guglielmo Aprile, Flavio Almerighi, Gino Rago, Giuseppina Di Leo, Giuseppe Talìa (ex Panetta)sono autori non legati da rapporti amicali o di gruppo, personalità indipendenti che si sono mosse da tempo e si muovono ciascuna per proprio conto ma in direzione d’un eurocentrismo «critico » e dunque proiettate oltre la crisi, oltre Il postmoderno, oltre il problema dei linguaggi poetici epigonici.

Alcuni autori fanno una poesia del presente ablativo (Flavio Almerighi, Giulia Perroni, Luigi Celi, Adam Vaccaro, Antonella Zagaroli), altri adottano lo scandaglio mitico del “modernismo” europeo:  si  guarda a  narratori come Joyce con l’Ulisse, a Salman Rushdie con Versetti satanici (1998), a T.S. Eliot con La Terra Desolata, ma anche a Mandel’stam, Pasternak, Cvetaeva, agli svedesi Tomas Tranströmer , Lars Gustafsson, Kjell Espmark, ai polacchi Milosz, Herbert, Rozewicz, Szymborska, Zagajewskij, si rivisitano alcuni miti da traslare nello spirito del contemporaneo. Poesia che adotta il  metodo mitico come allegoria del tempo presente (Rossella Cerniglia, Francesca Diano, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago) con esiti notevoli. Si tratta di autori nuovi ma non più giovanissimi né nuovissimi, l’aspetto più appariscente è l’assenza dei poeti delle nuove generazioni, e questo è un elemento degno di essere sottolineato e approfondito che consegno alla riflessione dei lettori.

C’è una diffusa consapevolezza della Crisi dei linguaggi e della rappresentazione poetica quale dato di fatto da cui prendere atto e ripartire; sono i poeti «abilitati dalla consapevolezza della frammentazione dei  linguaggi e della dis-locazione del soggetto poetante» – come giustamente segnala Giorgio Linguaglossa in Prefazione – sono i poeti antologizzati che spingono il metodo mitico nella forma del «frammento», accelerando la crisi di quell’ «Io» non più centro unificante delle esperienze, né più unità di misura del reale, ma ente frantumato, disgregato della realtà nella quale una certa «coscienza» di ciò che è da considerarsi «poetico» è tramontata forse irrimediabilmente ed ha smesso d’essere luogo della sintesi. L’«io» è stato de-territorializzato definitivamente, e di questo bisogna, credo, prenderne atto e tirarne le conseguenze.

Direi che la nuova poesia guarda con interesse ai nuovi indirizzi della fisica teorica, della cosmologia, della biogenetica, in una parola pensa ad una nuova ontologia del poetico

Roma, agosto 2016

Ulteriori, importantissime notizie  possono essere attinte dalle preziose meditazioni critiche di Luigi Celi intorno a Come è finita la guerra di Troia non ricordo  su altre voci poetiche di rilievo presenti  nell’Antologia di Poesia Italiana Contemporanea, postate su L’Ombra delle Parole del 18 luglio 2016.

https://lombradelleparole.wordpress.com/?s=luigi+celi

Postilla di Giorgio Linguaglossa  VERSO UN NUOVO PARADIGMA POETICO

Cambiamento di paradigma (dizione con cui si indica un cambiamento rivoluzionario di visione nell’ambito della scienza), è l’espressione coniata da Thomas S. Kuhn nella sua importante opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) per descrivere un cambiamento nelle assunzioni basilari all’interno di una teoria scientifica dominante.

L’espressione cambiamento di paradigma, intesa come un cambiamento nella modellizzazione fondamentale degli eventi, è stata da allora applicata a molti altri campi dell’esperienza umana, per quanto lo stesso Kuhn abbia ristretto il suo uso alle scienze esatte. Secondo Kuhn «un paradigma è ciò che i membri della comunità scientifica, e soltanto loro, condividono” (La tensione essenziale, 1977). A differenza degli scienziati normali, sostiene Kuhn, «lo studioso umanista ha sempre davanti una quantità di soluzioni incommensurabili e in competizione fra di loro, soluzioni che in ultima istanza deve esaminare da sé” (La struttura delle rivoluzioni scientifiche). Quando il cambio di paradigma è completo, uno scienziato non può, ad esempio, postulare che il miasma causi le malattie o che l’etere porti la luce. Invece, un critico letterario deve scegliere fra un vasto assortimento di posizioni (es. critica marxista, decostruzionismo, critica in stile ottocentesco) più o meno di moda in un dato periodo, ma sempre riconosciute come legittime. Sessioni con l’analista, invece, invitava a cambiare il modo con cui si considerava il modo di impiego della poesia, ma i tempi non erano maturi, De Palchi era arrivato fuori tempo, in anticipo o in ritardo, ma comunque fuori tempo, e fu rimosso dalla poesia italiana. Fu ignorato in quanto fu equivocato.

Dagli anni ’60 l’espressione è stata ritenuta utile dai pensatori di numerosi contesti non scientifici nei paragoni con le forme strutturate di Zeitgeist. Dice Kuhn citando Max Planck: «Una nuova verità scientifica non trionfa quando convince e illumina i suoi avversari, ma piuttosto quando essi muoiono e arriva una nuova generazione, familiare con essa.”

Quando una disciplina completa il suo mutamento di paradigma, si definisce l’evento, nella terminologia di Kuhn, rivoluzione scientifica o cambiamento di paradigma. Nell’uso colloquiale, l’espressione cambiamento di paradigma intende la conclusione di un lungo processo che porta a un cambiamento (spesso radicale) nella visione del mondo, senza fare riferimento alle specificità dell’argomento storico di Kuhn.

Secondo Kuhn, quando un numero sufficiente di anomalie si è accumulato contro un paradigma corrente, la disciplina scientifica si trova in uno stato di crisi. Durante queste crisi nuove idee, a volte scartate in precedenza, sono messe alla prova. Infine si forma un nuovo paradigma, che conquista un suo seguito, e una battaglia intellettuale ha luogo tra i seguaci del nuovo paradigma e quelli del vecchio. Ancora a proposito della fisica del primo ‘900, la transizione tra la visione di James Clerk Maxwell dell’elettromagnetismo e le teorie relativistiche di Albert Einstein non fu istantanea e serena, ma comportò una lunga serie di attacchi da entrambi i lati. Gli attacchi erano basati su dati empirici e argomenti retorici o filosofici, e la teoria einsteiniana vinse solo nel lungo termine. Il peso delle prove e l’importanza dei nuovi dati dovette infatti passare dal setaccio della mente umana: alcuni scienziati trovarono molto convincente la semplicità delle equazioni di Einstein, mentre altri le ritennero più complicate della nozione di etere di Maxwell. Alcuni ritennero convincenti le fotografie della piegature della luce attorno al sole realizzate da Arthur Eddington, altri ne contestarono accuratezza e significato.

Possiamo dire che quell’epoca che va da L’opera aperta di Umberto Eco (1962) a Midnight’s children (1981) e Versetti satanici di Salman Rushdie (1988) si è concluso il Post-moderno e siamo entrati in una nuova dimensione. Nel romanzo di Rushdie il favoloso, il fantastico, il mitico, il reale diventano un tutt’uno, diventano lo spazio della narrazione dove non ci sono separazioni ma fluidità. Il nuovo romanzo prende tutto da tutto. Oserei dire che con la poesia di Tomas Tranströmer finisce l’epoca di una poesia lineare (lessematica e fonetica) ed  inizia una poesia topologica che integra il fattore Tempo (da intendere nel senso delle moderne teorie matematiche topologiche secondo le quali il quadrato e il cerchio sono perfettamente compatibili e scambiabili) ed il fattore Spazio. Chi non si è accorto di questo fatto, continuerà a scrivere romanzi tradizionali (del tutto rispettabili) o poesie tradizionali (basate ancora su un concetto di reale e di finzione separati), ovviamente anch’esse rispettabili; ma si tratta di opere di letteratura che non hanno l’acuta percezione, la consapevolezza che siamo entrati in un nuovo «dominio” (per dirla con un termine nuovo).

Giorgio Linguaglossa Gino Rago

G. Linguaglossa e G. Rago

Appunto di Mario M. Gabriele

La recente antologia di Giorgio Linguaglossa: Come è finita la guerra di Troia non ricordo. Poesia italiana contemporanea, Edizioni Progetto Cultura, 2016, non appartiene a nessuna di quelle pubblicate nel Secondo Novecento, in quanto ha una sua specifica particolarità, che è quella della diversità progettuale, al di là dei consueti sistemi linguistici omologati. Questa antologia ha il pregio di essere un ventaglio poetico aperto a tutto campo, rispetto alle antologie generazionali e sperimentali degli anni Settanta-Ottanta. Essa si collega, senza preclusione alcuna, nelle diverse proposte poetiche, mai ferite dal pregiudizio, e da qualsiasi altra interferenza. Il curatore ha operato un proprio sistema di “guida” per immettere la poesia nel giusto raccordo anulare. Nel Postmoderno la poesia ha cambiato il proprio cromosoma. Il locus preferito è un fondo senza fondo, dal quale risalgono  in superficie  i detriti fossili e linguistici. È forse questo il vero senso di appartenenza della poesia: essere per non essere. In questo repertorio vengono alla luce modelli diversi fra loro, per sensibilità, stile e provenienza culturale, come un laboratorio fenomenologico di spezzoni del nostro vivere quotidiano, distanziato da qualsiasi affiancamento all’emozione, fatta evaporare dalle attuali condizioni di crisi economica e mondiale, che si riflettono poi sulla poesia. Allora si può ben dire che l’operazione antologica di Linguaglossa non ha nulla a che vedere con le periodizzazioni dei vari Cortellessa e nipotini universitari, e con qualsiasi procedimento di repressione e omissione di nomi e opere, in quanto trattasi di autentico disvelamento di voci e opere poetiche che hanno ridato dignità e fiato alla parola, con un nuovo rinascimento linguistico, che non esclude l’acquisizione delle figure grammaticali percepite for its own sake and interest, (al di là e al di fuori del significato delle parole”. (Hopkins). I poeti presenti sono: Flavio Almerighi, Guglielmo Aprile, Carlo Bordini, Luigi Celi, Rossella Cerniglia, Alfredo de Palchi, Annamaria De Pietro, Ubaldo De Robertis, Francesca Diano, Giuseppina Di Leo, Edith  Dzieduszycka, Mario M.Gabriele, Stefanie Golisch, Steven Grieco-Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Maria Rosaria Madonna, Renato Minore, Giuseppe Panetta, Giulia Perroni, Gino Rago, Alfredo Rienzi, Antonio Sagredo, Lucio Mayor Tosi, Adam Vaccaro, Anna Ventura, e Antonella Zagaroli, che formano un mosaico poetico dai molteplici riflessi espressivi.

Infine, una parola sul titolo Come è finita la guerra di Troia non ricordo, ci porta all’interno della problematica dell’oblio dell’Essere e dell’oblio della Memoria, tipica della nostra civiltà tecnologica. L’Epoca della stagnazione stilistica e spirituale diventa in questa antologia l’accettazione e l’esaltazione della pluralità degli stili e dei modelli, riconquistata libertà da ogni ipotesi di forzosa omogeneizzazione stilistica per motivi che con la poesia nulla hanno a che fare. Un ventaglio di proposte poetiche di alto valore estetico che è un grande merito aver valorizzato e riunificato in una Antologia veramente plurale.

Poesie di Maria Rosaria Madonna (1940-2002) comprese nella Antologia

Sono arrivati i barbari

«Sono arrivati i barbari, Imperatore! – dice un messaggero
che è giunto da luoghi lontani – sono già
alle porte della città!».
«Sono arrivati i barbari!», gridano i cittadini nell’agorà.
«Sono arrivati, hanno lunghe barbe e spade acuminate
e sono moltitudini», dicono preoccupati i cittadini nel Foro.
«Nessuno li potrà fermare, né il timore degli dèi
né l’orgoglio del dio dei cristiani, che del resto
essi sconoscono…».
E che farà adesso l’Imperatore che i barbari sono alle porte?
Che farà il gran sacerdote di Osiride?
Che faranno i senatori che discutono in Senato
con la bianca tunica e le dande di porpora?
Che cosa chiedono i cittadini di Costantinopoli?
Chiedono salvezza?
Lo imploreranno di stipulare patti con i barbari?
«Quanto oro c’è nelle casse?»
chiede l’Imperatore al funzionario dell’erario
«E qual è la richiesta dei barbari?».
«Quanto grano c’è nelle giare?»
chiede l’Imperatore al funzionario annonario
«E qual è la richiesta dei barbari?».
«Ma i barbari non avanzano richieste, non formulano pretese»
risponde l’araldo con le insegne inastate.
«E che cosa vogliono da noi questi barbari?»,
si chiedono meravigliati i senatori.
«Chiedono che si aprano le porte della città
senza opporre resistenza»
risponde l’araldo con le insegne inastate.
«Davvero, tutto qui? – si chiedono stupiti i senatori –
e non ci sarà spargimento di sangue? Rispetteranno le nostre leggi?
Che vengano allora questi barbari, che vengano…
Forse è questa la soluzione che attendevamo.
Forse è questa».

Parlano la nostra stessa lingua i Galli?

Si sono riuniti in Senato il Console
con i Tribuni della plebe
e i Legati del Senato… c’è un via vai di toghe
scarlatte, di faccendieri
e di bianche tuniche di lino dalle dande dorate
per le vie del Foro…
Qualcuno ha riaperto il tempio di Giano,
il tempio di Vesta è stato distrutto da un incendio
alimentato dalle candide vestali,
corre voce che gli aruspici abbiano vaticinato infausti presagi
che il volo degli uccelli è volubile e instabile
e un’aquila si sia posata sulla cupola del Pantheon
che sette corvi gracchiano sul frontone del Foro…
corrono voci discordi sulle bighe del vento
trainate da bizzosi cavalli al galoppo…
che il nostro esercito sia stato distrutto.

Caro Kavafis… ma tu li hai visti in faccia i barbari?
Che aspetto hanno? Hanno lunghe barbe?
Parlano una lingua incomprensibile?

E adesso che cosa farà il Console?
Quale editto emanerà il Senato dall’alto lignaggio?
Ci chiederà di onorare i nuovi barbari?
O reclamerà l’uso della forza?
Dovremo adottare una nuova lingua
per le nostre sentenze e gli editti imperiali?
Che cosa dice il Console?
Ci ordinerà la resa o chiamerà a raccolta gli ultimi
armati a presidio delle nostre mura?
Hanno ancora senso le nostre domande?
Ha ancora senso discettare sul da farsi?
C’è, qui e adesso, qualcosa di simile a un futuro?
C’è ancora la speranza di un futuro per i nostri figli?
E le magnifiche sorti e progressive?
Che ne sarà delle magnifiche sorti e progressive?

Sono ancora riuniti in Camera di Consiglio
gli Ottimati e discutono, discutono…
ma su che cosa discutono? Su quale ordine del giorno?
Ah, che sono arrivati i barbari?
Che bussano alla grande porta di ferro della nostra città?
Ah, dice il Console che non sono dissimili da noi?
Non hanno barba alcuna?
Che parlano la nostra stessa lingua


Autodifesa dell’imperatrice Teodora

Procopio? Chi è costui? Un menagramo, un bugiardo,
un calunniatore, un furfante.
Non date retta alle calunnie di Procopio.
È un bugiardo, ama gettare fango sull’imperatrice,
schizza bile su chiunque lo disdegni; è la bile
dell’impotente, del pervertito.
Ma è grazie a lui che passerò alla storia.
Sono la bieca, crudele, dissoluta, astuta Teodora,
moglie dell’imperatore Giustiniano, la padrona
del mondo orientale.
E se anche fosse vero tutto il fango che Procopio
mi ha gettato sul volto?
Se anche tutto ciò corrispondesse al vero? Cambierebbe qualcosa?
È stata mia l’idea di inviare Belisario in Italia!
È stata mia l’idea di un codice delle leggi universali!
E di mettere a ferro e a fuoco l’Africa intera.
Soltanto i morti sono eterni, ma devono essere
morti veramente, e per l’eternità affinché siano tramandati.
Un tradimento deve essere vero e intero perché ci se ne ricordi!
Voi mi chiedete:
«Che cosa penseranno di Teodora nei secoli futuri?».
Ed io rispondo: «Credete veramente che i posteri abbiano
tempo da perdere con le calunnie e le infamie di Procopio?
Che costui ha raccolto nei retrobottega di Costantinopoli
tra i reietti e i delatori della città bassa?».
Ebbene, sì, ho calcato i postriboli di Costantinopoli,
lo confesso. E ciò cambia qualcosa nell’ordito del mondo?
Cambia qualcosa?
Il potere delle parole? Vi dirò: esso è
debole e friabile dinanzi al potere delle immagini.
Per questo ho ordinato di raffigurare l’imperatrice Teodora
nel mosaico di San Vitale a Ravenna,
nell’abside, con tutta la corte al seguito…
E per mezzo dell’arte la mia immagine travalicherà l’immortalità.
Per l’eternità.
«Valuta instabile», direte voi.
«Che dura quanto lo consente la memoria», replico.
«A dispetto delle calunnie e dell’invidia di Procopio».


La reggia che fu di Odisseo

Che cosa vogliono i proci che frequentano
la reggia che fu di Odisseo?
E che ci fa sua moglie Penelope
che di giorno tesse la tela con le sue ancelle
e di notte tradisce il suo sposo
nel letto dei giovani proci?
Sono passati dieci anni dalla guerra di Troia
e poi altri dieci.
I proci dicono che Odisseo non tornerà
e nel frattempo si godono a turno Penelope
la loro sgualdrina.
Si godono la reggia e la donna del loro re
sapendo che mai più tornerà.
Forse, Odisseo è morto in battaglia
o è naufragato in qualche isola deserta
ed è stato accoppato in un agguato.
La storia di Omero non ci convince
non è verosimile che un uomo solo
– e per di più vecchio –
abbia ucciso tutti i proci, giovani e forti.
La storia di Omero non ci convince.
Omero è un bugiardo, ha mentito,
e per la sua menzogna sarà scacciato dalla città
e migrerà in eterno in esilio
e andrà di gente in gente a raccontare
le sue fole…


Il merlo gracchiò sul frontone d’un tempio pagano

Il merlo gracchiò sul frontone d’un tempio pagano
il mare sciabordando entrò nel peristilio spumoso
e le voci fluirono nella carta assorbente
d’una acquaforte. E lì rimasero incastonate.

Due monete d’oro brillavano sul mosaico del pavimento
dove un narciso guardava nello specchio
d’un pozzo la propria immagine riflessa e un satiro
danzante muoveva il nitore degli arabeschi
e degli intarsi.

*

È un nuovo inizio. Freddo feldspato di silenzio.
Il silenzio nuota come una stella
e il mare è un aquilone che un bambino
tiene per una cordicella.
Un antico vento solfeggia per il bosco
e lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma
che rimbalza contro il muro
e torna indietro.


Alle 18 in punto il tram sferraglia

Alle 18 in punto il tram sferraglia
al centro della Marketplatz in mezzo alle aiuole;
barbagli di scintille scendono a paracadute
dal trolley sopra la ghiaia del prato.
Il buio chiede udienza alla notte daltonica.

In primo piano, una bambina corre dietro la sua ombra
col lula hoop, attraversa la strada deserta
che termina in un mare oleoso.

Il colonnato del peristilio assorbe l’ombra delle statue
e la restituisce al tramonto.
Nel fondo, puoi scorgere un folle in marcia al passo dell’oca.
È già sera, si accendono i globi dei lampioni,
la luce si scioglie come pastiglie azzurrine
nel bicchiere vuoto. Ore 18.
Il tram fa ingresso al centro della Marketplatz.
Oscurità.

41 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, poesia italiana contemporanea

Lucia Gaddo Zanovello POESIE da Asincrono scacchiere (Poesie scelte 1962-2015) Ed. Progetto Cultura 2016 pp. 200 € 12 «Ogni scrittura floreale, e sommamente quella delle rose, eleva lo sguardo ai vertici di perfezione del mondo»; «Nel retro della scrittura poetica di Gaddo Zanovello c’è un po’ di tutto ciò, del profumo benefico della gioia e della acedia, dell’ombra, della obscuritas, e della luce dell’alba, della tristitia, della gioiosa jocunditas e della cura» Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Lucia Gaddo Zanovello foto ornamento astratto azteco

ornamento astratto azteco

Lucia Gaddo Zanovello è nata a Padova nel 1951; scrive dalla prima adolescenza e dopo un periodo giovanile dedicato a  diverse attività lavorative, ha poi impegnato la maggior parte del suo percorso professionale come docente di ruolo nella scuola media.

Appassionata di ricerca storica, di letteratura, di filosofia morale e di spiritualità, ha condotto studi, fra gli altri, su Nicolò Tommaseo e sul friulano Pierviviano Zecchini, medico chirurgo laureato a Padova nel 1825, traendo dall’ombra meriti e singolarità di questo personaggio, che si distinse anche come fervente patriota e filelleno. 

Ha pubblicato le raccolte di poesia: Porto Antico, Edigam, 1978; Bramiti, La Ginestra, 1980; Da serpe amica, Padova Press Edizioni, 1987; Semiminime, Padova Press Edizioni, 1988; Per erbe piú chiare, Edizioni Dei Dioscuri, 1988; nel 1998, per le Edizioni Cleup (Cooperativa Libraria Editrice Università di Padova), la raccolta retrospettiva relativa agli anni ’88 -’98, in cinque volumi: Nóstoi (che include Fiordocuore), Fatalgía, In lúmine, La trilogia del volo, La partitura; Il sonno delle viole, Cleup, 1999; Un parlare d’acqua, Cleup, 2000; Solargento, Cleup, 2000; Memodía, Marsilio, 2003; Silentissime, Imprimenda, 2006; Ad lucem per undas, Joker, 2007; Amare serve, Cleup, 2010; Illuminillime, Cleup, 2011, Rodografie, Cleup, 2012; Buona parte del giorno (Premio Milo 2012), Incontri, 2013 e Disforia del nome, Biblioteca dei Leoni, 2014.

Nel gennaio del 2009 è uscito per le edizioni Cleup, il libro-intervista Amata Poesia: Antonio Capuzzo intervista Lucia Gaddo Zanovello.

Nel 2004 il compositore di Patrasso Sotiris Sakellaropoulos (1952-2010) ha tratto da Memodía, quarta sezione (Canto di luce) e  nel 2005 da La partitura, prima sezione,  per archi, voce e pianoforte, omonime opere musicali reperibili in CD. Nel 2010 la scrittrice Rika Mitreli ha tradotto in greco sei testi tratti da La partitura, pubblicati nel numero di maggio della Rivista “Thea” (Thèmes de Sciences Humaines) di Bruxelles, a fianco di un ampio saggio commemorativo dedicato all’opera del musicista scomparso. Nel 2016 pubblica l’antologia Asincrono scacchiere (Poesie scelte 1962-2015), Ed. Progetto Cultura.

foto vuoto con due sediePrefazione di Giorgio Linguaglossa ad Asincrono scacchiere (Poesie scelte 1962-2015) Ed. Progetto Cultura 2016 pp. 200 € 12

Il primo libro di Lucia Gaddo Zanovello risale al 1978: Porto antico, seguito da Bramiti nel 1980. Si tratta di libri ancora lirici, ma di un lirismo passato al setaccio di una vocazione autentica che in seguito la poetessa affinerà e distillerà. Viene qui presentato al lettore un percorso di circa quaranta anni durante il quale la poesia italiana ha subito profondi e irreversibili mutamenti della sua forma-interna. Dagli anni Settanta, anche il paese è cambiato, e sono mutati gli scenari interni e internazionali. È caduto il muro di Berlino, si è dato il via alla unificazione europea, nel frattempo è iniziata dal 2001 la quarta guerra mondiale ed oggi siamo entrati nella quinta guerra, quella invisibile e trasparente della competizione via internet. Nel frattempo, il capitale finanziario ha assunto la guida dell’umanità grazie ad un atto di fede nel nuovo Moloch. Mai tanti cambiamenti epocali si sono concentrati in un così breve lasso di tempo. Tuttavia, a volte la Musa sembra non accorgersene e preferisce frequentare non gli schieramenti delle fantomatiche e improbabili post-avanguardie ma i trivi e i refoli di poeti spesso perduti e dimenticati dai più. 

Sandro Montalto nella prefazione a Consapevolvenze (2015), tracciava il filo conduttore che attraversa l’intera produzione poetica di Lucia Gaddo Zanovello: «Dal punto di vista formale questa silloge ricalca sostanzialmente i moduli di tutta la produzione dell’autrice: improvvisi ed eloquenti addensamenti di rime e allitterazioni soprattutto a fine testo; vocaboli rari e preziosi; portati apparentemente opposti dal latino e dal gergo anglofono; virate ottenute grazie al cambiamento di una o due lettere; episodi aforistici; ritmo elegante ma imprevedibile; il procedere più reticolare che lineare del dettato; i momenti in cui si infittiscono i contrasti, la coesistenza dei contrari, talvolta vere e proprie sinestesie […] Si registra anche la comparsa di quelle che potremmo definire parole-feticcio, che compaiono praticamente in tutte le raccolte: “viola”, “grigio”, “oro”, “abbraccio”, “incontro”, “ombra”, “abbandono”, “sangue”. Va però sottolineato come per la poetessa il linguaggio non sia un rifugio ma piuttosto un armamentario di strumenti con i quali leggere e abitare il mondo: Gaddo Zanovello non si rinchiude dietro barriere di parole colte ma approfondisce il linguaggio per avvicinarsi il più possibile alla trama dell’esistere nel mondo. Il linguaggio è per lei gioia come lo è l’osservare i fenomeni della natura o condividere uno sguardo o scambiare un bacio […] Un amore per il linguaggio che non appare mai disgiunto dall’amore per le cose, per le persone e per la realtà quotidiana […] Infine, l’attenzione e l’amore per la natura, dalla quale imparare i cicli, l’entusiasmo della primavera e la pazienza dell’inverno […] Possiamo dire, fuori da ogni abusata e semplicistica formula critica, che, pur con le sue ovvie oscillazioni ed esplorazioni, tutta la produzione di Lucia Gaddo Zanovello (specialmente in seguito a Nostoi, della ricapitolazione in cinque volumi apparsa nel 1998) si configura come un enorme e ininterrotto poema».

Che Lucia Gaddo sia finita per approdare ad una raccolta denominata rodografie (2012), ovvero, ad un trattato sulle rose, scrittura floreale su una materia affatto floreale, a questo punto non deve sorprendere. Ecco il preambolo dell’autrice:

«Ogni scrittura floreale, e sommamente quella delle rose, eleva lo sguardo ai vertici di perfezione del mondo. L’anima s’inebria dell’ineffabile profumo di questo fiore affascinante; la forma delle sue variegate corolle, iridate dalle sfumature di colore sempre nuove… richiama per intero l’ideale di bellezza […] Ma fra gli esseri che vivono sottoposti a morte è quella umana la più tormentata e fragile delle avventure. Si viene al mondo per sottrazione dall’originario stato di compiutezza e di intangibilità nella madre, per patire subito il difetto, la vulnerabilità e l’abbandono, nella certezza di dover attraversare il dolore». Così la poesia si ritrova ad essere «un parlare d’acqua» mentre «passa la cometa di un pensiero / nel giardino delle idee», un alato alito, un effluvio di «illuminillime» (dalla omonima raccolta pubblicata nel 2011), «avverbio policorde, anche per aspetto fonico, e contraddittorio, oscilla fra un significato e il suo opposto, un minimale e un massimale insieme… Il termine riflette i toni della scala del buio e della luce, dall’apparente sua assenza (illumine, senza luce e illune, senza luna) alla sua massima brillantezza che orna il Creato che tutto illumina e riempie di grazia» (dalla nota dell’autrice al volume).

foto scala con ringhieraNella poesia di Gaddo Zanovello c’è tutta una fenomenologia di «albescenze», di «radianze», uno sfavillio di  «fiaccole», di «vivide luci», fino allo sfumare del «vespero» e, infine, si giunge alle «fiaccole stellari», alle «lunule». «È così che il brillio della volta celeste vira nell’umano prillio».

Ortega y Gasset definisce l’uomo un «animale fantastico-tecnologico» in quanto capace di modificare il mondo secondo i propri progetti, immedesimandosi e forgiando idee e immagini sul mondo per inventarsi un piano di attacco alla circostanza, per costruire, insomma, un mondo interiore. Per il filosofo spagnolo, i poeti sono i più adatti a costruire queste immagini del mondo interiore, essi sono gli esseri più fantastici e, fantasticando, contribuiscono a creare le condizioni per una più consona abitabilità del mondo. Questo è quanto di più vero si possa immaginare per la poesia di Gaddo Zanovello. La sua poesia, esemplarmente anti intellettualistica è, in realtà, un potente strumento «fantastico-tecnologico» perché apre nuove strade alla libertà della immaginazione.

Il titolo di questa Antologia, Asincrono scacchiere, riprende l’intestazione di alcuni inediti dell’ultimissima produzione poetica della poetessa di Padova, e vuole essere una metafora della vita traslata alla poesia: una scacchiera dove avvengono eventi asincronici, non legati alla freccia del tempo ma dipendenti da altre dinamiche insondabili e ancora sconosciute.

La jocunditas e la tristitia, sono il basso costante di questa poesia. Un inno alla gioia trattenuto e silenziato che si esprime in parole delicate e ombrose, in una versificazione gentile e suadente. La fantasia e la memoria sono le costanti di questa poesia, i due motori immobili che sovraintendono al discorso lirico di Lucia Gaddo Zanovello.

Acedia, tristitia, taedium vitae, desidia sono i nomi che i padri della Chiesa danno al senso della vanità che proviene dal pensiero della morte, con tutto ciò che questo pensiero induce nell’anima. E, insieme alla tristitia, l’acedia, l’heideggeriana «incuria», che poi è una traduzione letterale del termine greco, in-curia, ovvero, l’assenza di cura, quella «Tristitia-Acedia» opera del «demone meridiano» che lancia i propri strali e i suoi malefici influssi sulla Musa verbigratia che parla per Verba. Del resto, nella poesia di apertura de Le fleurs du mal, Baudelaire pone sotto il segno dell’acedia (sub specie di ennui) la sua opera poetica. Tutta la poesia di Baudelaire può essere intesa, da questa angolazione, come una lotta mortale contro l’acedia e, insieme, come tentativo di ribaltarla nel suo contrario. Il dandy rappresenta, secondo Baudelaire, il tipo perfetto di poeta, una sorta di misteriosa reincarnazione dell’accidioso. Forse, prefigurazione dell’essenza del nichilismo. Affettazione dell’essenza del dandysmo come cura suprema dell’arte dell’incuria, rivalutazione della acedia nella versificazione urticante che cade sotto il segno della malitia e del rancor, della pusillanimitas e della evagatio mentis, la distrazione che tanto infesta le menti dei poeti posti sotto il segno del demone meridiano. Nel retro della scrittura poetica di Gaddo Zanovello c’è un po’ di tutto ciò, del profumo benefico della gioia e della acedia, dell’ombra, della obscuritas, e della luce dell’alba, della tristitia, della gioiosa jocunditas e della cura. Lo spirito di questa poesia, nei suoi diapason, è colto come da un raptus sibillino e gioioso proprio di certe scritture poetiche inniche con la loro verbosa litania cantarellante sostenuta dalla anafora e dalla replicatio. Lucia Gaddo Zanovello incide con acribia su questo tasto il proprio stile e la propria verbositas acediosa e gioiosa. E la sua scrittura ne trae giovamento. Le poesie più belle di questa antologia sono quelle dove più intensamente la gioia equivale alla tristitia dell’umbra e si mesce con la dulcedo dello spirito querulo incantato sul «viride rigoglio» della vita.

Layout 1.

da Asincrono scacchiere (2016)

Da Porto Antico, 1978

L’appuntamento

Rode il sasso
un pesce senza fiume
piange
mulini vuoti
e parche mense
alla cascina
di muti sensi
che accecano la gloria.

.
Gloria

.

Quanto piú
l’inno
spande la gloria
nei riccioli
di una giornata
di foglie secche,
piú l’alito
squama le sue ali
ardenti.

.
Serale

.

Vesto di ghiaccio
intere ore d’inverno
struggendomi di noia
e di pensieri.
La lana ostile
mi raggrinza il cuore
di brividi.

Affiora un vapore disperato
come di gabbia.

Lucia Gaddo con L Troisio e Cesare Ruffato

Lucia Gaddo con L Troisio e Cesare Ruffato

Da “Ma il pensiero, no”

.
Novembre

.
Umili
inchineranno i petali
ai giardini
e piegheranno le ali albine
agli angeli
i nebbiosi nastri densi del mattino
che danzano filando sopra i fossi
piantonati dalle fruste rubre
del salix alba cinerino.

Tutto il respiro si è speso nelle attese
ed è cimato il sogno
dai solchi del passato,
argilloso incanto

bevuta vita rorida bellezza
sorbita di una felice
idea non corrisposta.

Cede la sabbia alla marina,
clessidra
del tempo filiforme,
lucente, vivida vetrina
che chiude tutta l’onda
dentro l’orizzonte.

.
Da “Muti e cresca dell’universo il fiore”

.
Auscultare

.
Sorvegliare
pieghi di libri,
fogli disgiunti
di espressi segni divisi,
messaggi in vetri tinniti,
nidi turriti, pigoli gridi

ammarati arrivi di viaggi longevi,
coltri lanose ai riposi festivi.

Lèggere frasi leggére salire
fra stormi di voli
e scoprire schiarite di amore
nei veli cilestri del cielo che apre
a tramonti sereni

e trovare che il tempio del tempo
s’intana nel mare
con tutto il colore del sole nel cuore
e di fuoco non muore.

Da Silentissime, 2006

.
Fialba

.
Sorge e sfavilla
una fiaba d’alba lilla
e il mar che vacilla
d’eterno canto scintilla

inestinguibile culla
creature incantate
dai raggi d’aurora
narrate.

Lieve si leva, chiara e canora
– sguardo teso di brezza –
onda amorosa, distesa carezza,
alta respira e beata
dai veli cilestri dei cirri.

Scorre albino il mattino
al solívago sfondo marino
sul colmo rotondo del mondo.

Foto Silenzio mutevole

Da Ad lucem per undas, 2007, “Per undas”

Volvenze d’acqua

I

Liquida lama permeando incide,
ogni terrena cavità seconda
e di specchiata luce inonda
con la ciclicità dell’onda

da fango a linfa, da falda a fonte
per vento che prosciuga a cielo che provvede,
risorgive nubi aduna lieve
e in piova filigrana riconcede

per dolci pozzi e per fiumi amari
per mari e umori
in murmure d’esistere giocondo,
per l’immenso fare e il suo gorgo
che immerso rugge, avaro sugge
e, disavveduto, illuta il mondo.

Da perenne lastra d’algida purezza
con passo che ruscella dirompente
corrente di torrente che zampilla
gesto che scintilla dorso e scaglie
al pesce che sfavilla
nel bagliore acuto del fragore
che dal tuono oscuro
lucido silenzio ridistilla

alle sitienti umane mani e alle ferine gole,
dalle radici avvinte nella tana
a steli di dovizie,
inizio sapiente e necessario
indizio che genera inudito.

II

Aqua agua anguis, liquida vena d’Eva,
sangue del mea culpa, vortice abisso avito
che stagni nel rogo desolato dell’abbandono
chi spianta dal libro della vita,
di assoluta neve vai
in segni di fronda sulla Terra,
per ebbro flutto che gli avelli arsi
delle umane zolle esonda.

Dilavi con le rapide mutanti della docilità
la nudità del travaglio che assolve e innalza
e rinnovando rivesti di tunica limpida
l’essenza che cura.

Goccia che bacia ogni piega
del deserto d’amore in dolere santo
con stille d’incanto e suono di pianto.

Polla sorgiva, in getto di Eternità
immergi profonda
e avis alba riemergi, a ridivenire,
l’umanità feconda.

Da Buona parte del giorno, 2013

foto sbarre nell'atmosfera

Ritorno

Non si trovò nulla al ritorno che fosse nel ricordo.
Un passato imperfetto si sgolava
dal cigno delle meraviglie
che solcava l’anima
remigando solo nel buio delle luci notturne
da poco regolate sull’acceso.

Un nuovo ieri si leggeva nelle cose
stravolte da chi non sa.
Poco resiste dell’ordine
che fu quotidiano corso,
evento noto, gesto abituale.

I morti parlano, ho saputo poi,
dalle righe vergate a mano
sugli oggetti consumati;
il tempo li ridona a chi recede
al tepore e alla carezza
del fanciullo che ignorava
il vólto esatto dei sarà.

Un solo istante e tutto muta il quadro

diverge e scosta
lo strappo al cuore della vita
che risale il cinghio della meta ormai raggiunta.

E fra gli astanti muti s’annoverano in tanti
che giú guardano
nel mare freddo e alto
dell’azione temeraria di esser sé,
nell’azzardo fiero di volere ancora
tener fede alla promessa
sorrisa dentro l’infinito abbraccio dell’amore.

da “Disonomíe”

De cantare

Quidam sulle cinque punte dei petali di un fiore in volo
è formidabile
si dice
la luce sembra di questo mondo ma ciò che vede
non è fermo come appare come lo mette a fuoco
non è che gioco
d’insieme
respiro di parti accordate a vivere
qui ora che va il battito del cuore centrifugo
che tiene i gravi in orbita segnatamente lei
transfuga nel loro
sorpresa d’anni molti trascorsi
sopra e dentro lei che perse molti amori strada facendo
nati a questa stessa vita
che morti le dicono sono
restino altri ancora a dire fare baciare
e sguardi attenti dettano a lei
che la stanchezza non tiene piú di sei ore
e poi riprova a camminare e a dire e a fare
giú e su per la via del campo santo dell’esistere minato
che l’ama e tiene divinamente
per mano in giro girotondo dentro questo mondo.

foto il vuotoda Asincrono scacchiere

Il silenzio dell’anima

Felicità è questa bonaccia piatta
umido grigiore che non è tempesta
mi basta questa
per non andare alla deriva
all’altra riva
un sole che aspetta
nel fermo della brezza
altra carezza
che chiede un po’ di sosta
un velo di pazienza

ma la bellezza è già nel nido
che emerge dal galleggio,
un infimo d’arpeggio
appena percepito.

Dove vada a parare
questo tratto di mare
non è dato sapere.
Godere intanto si deve
la stasi forzata, il beccheggio
che pare infinito,
scontato la barca si muova,
scelta dovuta
all’invito del vento.

7.9.14

Senza sponde

Le molte trascorse lune
oltre il monte nero della notte
scheletrita
atterrano
sugli oceani di sabbia
delle solitudini
immerse immense
in ogni nascita risolta.
Uno da due.
Cosí sempre si genera
ingenerosa vita
nei separati abbandoni
quando il fuoco del respiro
arde in gola
e prende a pulsare il sangue
nelle reti spinose delle vene.

Il buio che contiene
accende della luce i vivi
sul campo minato della gara,
tiene alto il nodo
scorsoio che regge
ma incatena
e lascia senza freni al precipizio
la sconfitta.
Facile scommessa di vittoria
al tempo inetto delle fiabe,
quando tutto azzurro pare il cielo
e dolce il centro dell’idea
che il vero non confonde;
il buono tace
e il bello serra fermo il filo
dell’amore, anche al cuore
che palpita e che teme
nel letto di neve
di promesse
e cede in sorte e al vento
le sue sponde.

18.1.13

 

29 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, Antologia Poesia italiana, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Mario M. Gabriele POESIE SCELTE da “L’Erba di Stonehenge” (Progetto Cultura, 2016) pp. 90 € 10 con un Commento di Letizia Leone “Questi suoi versi, a dir poco stranianti e sovversivi, tesi a smantellare tutto l’apparato sensistico-sentimentale, biografico-intimistico, allusivo-simbolico post-novecentesco”; “Il mondo della globalizzazione, cloaca immensa di merci e rifiuti non riciclabili, si nega alla possibilità di una narrazione/rappresentazione totalizzante ma si offre, inerte, allo sguardo feticistico del collezionista”

mario gabrieleMario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura” e pubblicato diversi volumi di poesia tra cui il recente Ritratto di Signora 2014 e L’erba di Stonehenge (2016). Ha curato monografie e saggi di poeti del Secondo Novecento. Ha ottenuto il Premio Chiaravalle 1982 con il volume Carte della città segreta, con prefazione di Domenico Rea. E’ presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzario, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Si sono interessati alla sua opera: G.B.Vicari, Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Luigi Fontanella, Giose Rimanelli, Francesco d’Episcopo, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone, Giuliano Ladolfi,e Sebastiano Martelli. Altri Interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier. Cura il blog di poesia italiana e straniera L’isola dei poeti.

Onto Mario Gabriele_2

Commento di Letizia Leone

Come collocare nello scenario poetico attuale la poesia lavata da ogni emozione di Mario Gabriele? Questi suoi versi, a dir poco stranianti e sovversivi, tesi a smantellare tutto l’apparato sensistico-sentimentale, biografico-intimistico, allusivo-simbolico post-novecentesco esulano da categorie di appartenenza, canoni o mini-canoni poetici e confinano con esperienze artistiche di matrice neo-concettuale come certi esperimenti di Anish Kapoor, si pensi alla monumentale messa in opera del vuoto delle sue sculture per esempio.
In un certo senso questa è una poesia concettuale, dal forte impianto estetico-filosofico, “metapoesia” come è stata definita e scrittura superficiaria dove “la parola non esplode, non fruga, non le è data la funzione di levarsi in armi di fronte all’oggetto per cercare nel vivo della sua sostanza un nome ambiguo che la riassuma: il linguaggio non è qui violazione di un abisso ma dispiegamento sopra un’intera superficie”: così riferisce Barthes in merito all’opera di Robbe-Grillet, con il quale Gabriele ha sicuramente almeno un punto di contatto fondamentale, la “promozione del visivo”, l’oggettività, la “resistenza ottica” del rappresentato svuotato completamente dal “focolaio di corrispondenze”:

Oh le vocali di Rimbaud: A, come Allegory,
E, come Enjambement, I,come Ipèrbato, O,come Ossimoro,
U, come Underground!
Avevo una volta, mani dolci e cuore gentile,
le azioni Generali finite male nel Mercato Globale,
gli ossi di seppia, le seppioline al sauvignon.

Versi che funzionano come grandi specchi deformanti. Rifrazioni, pulsioni, allucinazioni, Gabriele scherza, si diverte in modo sapiente accumulando sulla superficie specchiante del suo verso i frammenti della Storia, le schegge di un immenso patrimonio letterario e poetico. Ma i “frammenti-citazioni” isolati, strappati alla dialettica del racconto, diventano cassa di risonanza di una Storia che ha perso la sua funzione di magistra vitae, di messaggera dell’antichità dato che, nel momento stesso in cui ne viene negata la funzione pedagogica, smarrisce oltre all’autorevolezza della testimonianza perfino la sua aurea.
Il mondo insensato e indifferenziato della globalizzazione, cloaca immensa di merci e rifiuti non riciclabili, si nega alla possibilità di una narrazione/rappresentazione totalizzante ma si offre, inerte, allo sguardo feticistico del collezionista.
Il frammento è come l’oggetto da collezione di una società “estetizzata” che ha spezzato ogni linea di trasmissibilità con la tradizione e procede per accumulazione seriale.
La collezione infatti privando l’oggetto del suo valore d’uso, lo archivia ed espone dietro una vetrina quale numero di serie in una carrellata ottica di modelli, codici, segni.
Non a caso lo sviluppo del museo è fenomeno della modernità. I grandi poli museali contemporanei sono le nuove cattedrali per la celebrazione di un culto laico in grado di pilotare le “grandi transumanze” del turismo culturale: “Il museo guadagna terreno un po’ allo stesso modo che cresce il deserto: avanza laddove la vita si ritrae e, pirata animato da buone intenzioni, saccheggia i relitti da essa lasciati”. (Jean Clair)
Accumulazione ed enciclopedia si rivelano i termini di un estetismo atemporale ed extraterritoriale: il flusso della versificazione nei testi di Gabriele sembra, in un certo qual modo, ricalcare lo stesso sogno enciclopedico giocato sull’orlo del non-senso di Bouvard et Pécuchet (1881). In una sorta di astrazione le citazioni, quali apparizioni spettrali, assumono la valenza di segni efficaci:

…Bauli aprivano al passato.
Good Morning Mister President! Good Morning Bagdad!
I crani della storia luccicano sotto i campi di baseball,
come le cupole dorate nei giorni dell’ashura.
……………………………………………………
Burano d’arte e di vetro soffiato da guardare in silenzio
Come le stelle di Natale dai balconi dell’Occidente:
…………………………………………………………
L’occhio non andava oltre la grigia muraglia.

Onto mario Gabriele_1

Già Benjamin aveva capito il potere della citazione di “far piazza pulita, di espellere dal contesto e distruggere”, attimo di straniamento, epifania che si avvale di un meccanismo di riciclaggio degli elementi dormienti del passato come nel caso di Gabriele dove entrano in gioco tutti gli ingredienti dell’attualità in totale promiscuità.
E se ormai ci si può parlare solo per citazioni, questo ininterrotto dèjà-vu attiva una significazione secondaria, carica la scrittura di stimoli e irradiazioni atte a sollecitare un continuo feedback, una multistimolazione che richiede la partecipazione attiva del fruitore. I frammenti lanciando appelli al lettore rendono il testo un sistema aperto.
Il frammento-citazione assume il ruolo di simulacro di un nuovo feticismo culturale e promuove una vertigine di superficie dove non ci sono pieghe in cui infilare lo sguardo perché ormai l’azzeramento di ogni metafisica ha liberato l’oggetto da ogni prospettiva illusionistica, da ogni profondità legata alla percezione promuovendo l’immanenza “poliziesca dello sguardo”, il disincantamento radicale, o come direbbe Baudrillard uno “stadio cool e cibernetico che succede alla fase hot e fantasmatica”.
“Effetto di superficie” è stato definito questo stile che si avvicina molto alla tecnica dell’iperrealismo, alla “reduplicazione minuziosa del reale, di preferenza a partire da un altro medium riproduttivo – pubblicità, foto, ecc. – di medium in medium il reale si volatilizza, diventa allegoria della morte… Il progetto è già di fare il vuoto intorno al reale, di estirpare tutta la psicologia, tutta la soggettività, per restituirlo alla pura oggettività”.
L’iperrealismo, afferma Lyotard, è al di là della rappresentazione soltanto perché è completamente nella simulazione.
E se l’arte si assume il compito di liberare o straniare lo sguardo sul mondo, è pur vero che da tempo ha prefigurato questa completa “estetizzazione” della vita, una sovraesposizione dove “tutto si duplica in se stesso, anche la realtà quotidiana e banale” e tutto si confonde con l’immaginario, si spettacolarizza.
La seduzione estetica permea ogni aspetto della realtà, la “carrellata dei segni, dei media, della moda e dei modelli, dell’atmosfera cieca e brillante dei simulacri”. Iperrealismo come allucinazione estetica della realtà.

Dunque una poesia che modula la crisi della modernità, questa di Mario Gabriele. E che la poesia inoltre non potesse eludere la rivoluzione della fisica Einsteniana non era sfuggito ad Oscar Milosz: “la poesia di domani nascerà dalla trasmutazione scientifica e sociale che si sta compiendo sotto i nostri occhi”. Infatti da quando il pensiero scientifico, forte del principio di Indeterminazione di Heisenberg, ha aperto la via alle “relazioni di incertezza” un profondo cambiamento è intervenuto nell’approccio gnoseologico alla realtà. Se l’io che giudica o contempla costituisce una modificazione dell’oggetto in sé, l’intervento dell’osservatore non è più rilevante nella definizione o rappresentazione dell’oggetto, lo è invece la consapevolezza delle molteplici relazioni, dei molteplici condizionamenti che ad esso ci legano.
Ecco, la poesia di Gabriele parte proprio da questa ridefinizione dei rapporti tra soggetto ed oggetto… Heisenberg è stato molto chiaro in proposito, quando afferma che “per la prima volta nel corso della storia l’uomo ha di fronte a sé solo se stesso”.

Strilli Gabriele2 Mario M. Gabriele da “L’erba di Stonehenge” (2016)

(10)

Il riverbero delle ghirlande sulla tastiera
mise in un angolo il Cantico dei Cantici.
Ci furono sismi e allarmi nel querceto.

Uno schutzmann avvisò i fedeli nel tempio,
e quelli che costruirono palafitte
a due metri dal mare,
si accordarono con il guardiano del faro
bruciando la vita come sterpo.
Allora un sacerdote disse a noi:
-Sacrificate un agnello sull’altare di Dio-,
e chi rimase in città,
salì sui monti con il raccolto del mese.
Sulla scrivania c’erano i libri di Bauman
E l’Urlo di Ginsberg.
Abbiamo ridato corda ai violini,
ricaricati gli orologi,
verniciate le imposte.

Era così soave settembre
A pochi passi dall’autunno,
che neanche il gospel turbò la tristezza
degli amici di Praga e di Vienna.
Non di rado, ma a giorni alterni,
la madre di Joe canta: La vie en rose.

.
(15)

La casa era piena di arredi
come l’aveva lasciata la ragazza Carla.

Miriam curava le piaghe
Con l’erba mèdica e il miele d’acacia,
e ogni volta che tornava al Majestic,
gli amici del club le donavano fiori di pesco
e cioccolato allo sherry.

Angela Adònica è un dolce poema,
ma al n.5 di rue de Pigalle
i bouquinistes regalano coupon
per “Una stagione all’Inferno”.

-Ci sarà pure una dacia
o un ostello a Smolenskoe-,
disse Karima, stanca di inutili attese
e delle storie infantili di Grigorev.

Restavano i colori del Domuspark.
Ma era tutto un tacito andare
per vicoli e strade
senza sbocchi nella fioriera.

Ora nessuno può dire
che ci sia stato un disastro tra noi,
se la vita è sempre stata la stessa
mentre cresceva l’erba
nel cerchio di Stonehenge.

helmut newton modella

helmut newton modella che fuma

(17)

Finita l’aspra contesa
tornammo a Thomas Kinsella
in Un altro settembre,
senza deliri e metafisiche accensioni.
Mister God, da tempo,
non butta più acqua nei pozzi,
lascia stare le cose così come sono.

Un battito d’ala è sempre un battito d’ala,
come la preghiera di suor Evelina
che è un mistico dire.
La luna ha rinunciato a specchiarsi nel mare
lasciando le ombre attaccate alle mani.
Povera Ketty, senza lo sguardo delle mimose!
Ludmilla porterà di sicuro una nuova stagione.
La sarta ha fatto un vestito a punto-croce.
Principessa, è tempo di fermare l’autunno,
restituire agli alberi le foglie cadute.

 

(22)

La speranza giaceva nel cassetto.
Nero latte dell’alba lo beviamo la sera,
lo beviamo al meriggio, al mattino,
lo beviamo la notte,
ai tavolini de la belle Epoque a Parigi.

-Papà modan, papà Modan-, gridava Joelle
al primo allarme nel querceto,
quando scendeva le scale zittendo i suoi cani.

Al Bristol Hotel c’era gente
Venuta ad ascoltare Save the children.

Candy temeva i mesi più della bufera.

Ma questo è un altro dire, Margot,
un altro soffrire,
e so di fiumi che offuscano il cielo
e di gente alla riva che aspetta Godot.

 

helmut newton coppia che fuma

helmut newton coppia che fuma

(23)

Torna aprile sui monti innevati.
Nietzsche, perdute le scarpine,
se ne sta solo nell’aldilà
senza Cristo ed Ezechiele.

Mary nel Getsemani
cerca il pane dell’Ultima Cena.
Ma è dai Crawford che verrà la Pasqua,
quando si parlerà di Cynthia e di Karen,
passate tra le comete.

Proprio come dice padre Arnold
nella messa di fine aprile ai suoi fedeli.

Venerdì di luglio e poche astrazioni nella giornata,
se non fosse per Matisse entrato nella stanza
con il Nasturtiums With The Dance del 1912:
un secolo di croci contorte
e false primavere se mai tu le avessi viste, Dorothy,
dal tuo lettino a Farmerhouse.

.

(24)

Tardiva la tua risposta portò
il ricordo di Srebrenica e Zepa,
riformulando metafore e lessemi.

Il museumshop non era il luogo
per aprire reperti fonici,
fare da ponte ad ogni intruso della realtà,
coordinare le latitudini dei ghiacciai,
senza bussole e fischietti di richiamo,
anche se poi di tutto si può parlare
rifacendo i passi nel deserto,
fino al silenzio di Majakovskij
e “niente pettegolezzi”*
per un passaggio discreto a Novodevicij,
senza avvisi di uccellacci e uccellini.

*Frase scritta da Majakovskij su un foglietto, prima del suicidio.

.
(26)

Questa strada di industrie in disuso
non ha più profumo di alloro e ligustri.

Cacciato dal cielo, un angelo azzurro
Prese alloggio nella casa di Piera.
Ci fu un discorso su lemmi e stilemi:
carcasse di lingua sepolte nel tempo.

Spuntarono fiori nei vasi.
Biorin, uscito da un triste calvario,
si fermò davanti a un quadro di Bruegel,

La notte ci fece uguali.
Tornò Gardel con paso doble e caminito.

Violini accennarono arie discrete.
-È una cosa molto rara-, disse il concertista in prima fila.
-Ma seguiamo lo spartito-.

Nel backstage, accanto a prove di fiato e solfeggi,
tornarono di nuovo le violette di marzo.

 

helmut newton in mostra a Roma part

helmut newton in mostra a Roma, particolare

Glossario

«Uno squilibrio in ragione del quale la letteratura si assume il compito di fare vedere il mondo con occhi nuovi, di “straniare” il nostro sguardo per renderci di nuovo reali e presenti gli oggetti più banali e quotidiani». Significativamente, anche nella teorizzazione di Viktor Sklovskij tale compito viene formulato attraverso una serie di metafore visive.
Il potere dell’immagine viene qui assunto in chiave positiva, liberatoria ancora una volta, eppure…

Il sogno di un’Enciclopedia in un’era che ha perso il senso, e forse la possibilità, di una rappresentazione totalizzante:

Se Il titolo, infatti, come diceva Marcel Duchamp, è una parte fondamentale dell’opera.
Tutto ciò che è scritto è in “carenza di senso” secondo l’eccellente espressione di Levi-Strauss. Ciò non vuol dire che la produzione letteraria sia semplicemente insignificante. Essa è in “carenza di senso”. Non c’è il senso, ma c’è come un sogno del senso. È la perdita incondizionata del linguaggio che comincia. Non si scrive più per questa o quell’altra ragione, ma l’atto di scrivere è gravato dal bisogno di senso, ciò che oggi si chiama la significanza (signifiance). Non la significazione (signification) del linguaggio ma proprio la significanza.[4] [4] BARTHES Roland, Magazine littéraire, n°108, gennaio 1976.

Il citazionismo diventa accessorio citazionistico di una merce letteraria andata a male e stipata in immensi magazzini, una collezione di schegge narrative strappate alla loro funzione narrativa, versi denervati, nuda oggettività antipoetica

Il Capitale costatando che “la ricchezza delle società, nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico. 
Poetica dell’ Iperreale.

L’erba di Stonehenge è il libro della deflagrazione….

Giocando con l’immaginazione si potrebbe indovinare la risposta che darebbe Brodskij se gli si sottoponessero alcuni versi di Mario Gabriele “La periferia non è il luogo in cui finisce il mondo, – è proprio il luogo in cui il mondo si decanta”, naturalmente qui si parla di periferia poetica.

Letizia Leone diwali

Letizia Leone

Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”).
Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008); La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi ,(2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, FusibiliaLibri, 2015. Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da camera –Versi erotici delle poetesse italiane- (2012). Attualmente organizza laboratori di lettura e scrittura poetica.

29 commenti

Archiviato in Crisi della poesia, critica della poesia, poesia italiana, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Salvatore Martino (1940) UNDICI POESIE da “La fondazione di Ninive” (1977), Cinquantanni di Poesia 1962-2013 (Roma, Progetto Cultura, 2015 pp.  1000 € 25), con un Appunto dell’Autore e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

salvatore martino copertina la fondazione di ninivo
.
Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel cuore più segreto della Sicilia, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra(1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). Ha ottenuto i premi Ragusa, Pisa, Città di Arsita, Gaetano Salveti, Città di Adelfia, il premio della Giuria al Città di Penne e all’Alfonso Gatto, i premi Montale e Sikania per la poesia inedita. Nel 1980 gli à stato conferito il Davide di Michelangelo , nel 2000 il premio internazionale Ultimo Novecento- Pisa nel Mondo per la sezione Teatro e Poesia, nel 2005 il Premio della Presidenza del Consiglio. È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010  con la direzione di Sergio Campailla  e insieme a Fabio Pierangeli ha tenuto un laboratorio di scrittura  creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008, un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.
.

Salvatore Martino in pensiero

Salvatore Martino

.
Appunto di Salvatore Martino
.
Intorno alla città mitica e reale, mai distrutta nella memoria
.
Cominciai a scrivere “La fondazione di Ninive” nel 1965, in seguito alla folgorazione, quasi una via di Damasco incontrando T.S.Eliot e il suo maggior fabbro Ezra Pound. The Wast land e i Four Quartets, i Pisan Cantos abitarono la mia casa come in seguito ad uno sconvolgimento tellurico, incrociando il mio specchio, la mia anima, la mia razionalità.
Molte cose avevano preceduto questo evento, la scrittura volgeva allora verso i grandi spagnoli del ‘98 Jimenez e Machado, e a quelli della generazione del ‘27 segnatamente Lorca e Guillen.  Fogli,  lettere,  alfabeti, frammenti, tentativi lunghi e brevi, dispersi e ritrovati, abbandonati sui tavoli, e mai distrutti, ferocemente segnati, custoditi comunque in un codice della memoria. Adesso finalmente costituiscono il corpo iniziale del mio werk, “Cinquantanni di poesia”.
Cominciai a intravedere “Ninive” come ho già detto nel 1965, avendo in qualche modo chiaro il disegno di un poema in tre parti. In realtà codesta divisione era l’unica finestra in un magma materico da evocare dal letto dove dormiva da chissà quanto tempo. Sapevo soltanto che sarebbe stato un viaggio, la ricerca di una identità perduta, forse un lontano gennaio,di un anno che non possiede numeri, la resa dei conti con l’Altro. Del resto attore per vocazione di alchimista, ma anche di viandante, in ultima analisi di randagio, ho sempre viaggiato, maledicendo sempre la partenza, sperando la sosta ad ogni stazione di treni, ad ogni angolo di aeroporti, in un ciclo costante di ritorni, ma non è stata mai una fuga, solo la condizione ineluttabile dell’essere mio e dell’Altro.
E “Ninive” descrive appunto questa lunga parabola nelle tre sezioni, in cui il poema si divide: il viaggio/ la casa/ steep darkness. Un cammino che cerca un approdo, il richiamo definitivo nella speranza che la tua dimora ti  avvolga e ti possieda, ma l’itinerario scivola inesorabilmente nella ripida oscurità. Tutto ho messo di me in gioco in queste pagine, l’eros e l’assassinio, la maschera, il teatro, l’abbandono degli studi di medicina e della normalità, il disprezzo per le cose banali, la condanna politica, il senso ambiguo della storia, l’erotismo del corpo e della mente, il silenzio di Dio, le navi e l’oceano, gli eroi del mito, lo specchio che rimanda la tua immagine che a volte non sai decifrare, lo sguardo tuffato dentro il cosmo, la precarietà degli affetti, gli inganni e l’amicizia, e tante altre cose.

.

Ninive mi ha perseguitato con rabbia a volte, spesso con dolcezza, con disperazione nell’arco di undici lunghissimi anni, dilatandosi ed essiccandosi alternativamente quasi in maniera autonoma, al di là, altra da me. Dal 1976 cammina finalmente la sua strada, con fatica, ma libera, non mi appartiene più.
Mi rendo conto che i testi riprodotti in questa sede non possono minimamente raccontare tutto il poema, tra l’altro sono fra i più brevi, ma certo Linguaglossa avrà avuto le sue ragioni per sceglierli.
Voglio riportare, e mi scuso se approfitto dello spazio rubandolo, almeno la chiusa del saggio introduttivo che il grande Ruggero Jacobbi regalò al mio “La fondazione di Ninive”.
 .
Martino ha percorso questo iter rischioso, talora spaventoso, per giungere a un riscatto che egli stesso ha propiziato, in modi di verso e prosa, che non somigliano a niente d’oggi, che sono soltanto suoi e meritano dalla critica, un’attenzione senza pregiudizi, capace di illuminare la vera sostanza di questo dramma di questo romanzo di questa elegia.
.
Salvatore martino cinquantanni-di-poesia-1962-2013
.
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
.
La fondazione di Ninive riunisce poesie scritte dalla metà degli anni Sessanta fino all’anno precedente l’assassinio di Moro, il 1977, ma del gusto degli anni Sessanta-Settanta questi testi di Salvatore Martino non recano traccia alcuna; è una scrittura che soffre di aperta discronia stilistica e spirituale rispetto alla poesia del suo tempo. Questo è un dato di fatto dal quale io partirei per avvicinarmi alla poesia di Martino. Che la sua poesia non fosse in linea di consonanza con il suo tempo credo che fosse chiaro anche all’autore all’epoca della stesura delle poesie. Ma il problema è che quando un’opera manca l’appuntamento con il lettore, o meglio, con l’uditorio maggioritario, ne deriva che la sua collocazione viene a non essere riconosciuta per mancanza di simultaneità e di scambio reciproco tra l’autore e il lettore, tra cerchie letterarie e l’opera. È quello che è accaduto al secondo libro di Salvatore Martino, che si situava in un suo spazio proprio, anche linguisticamente, isolato e isolazionista, se pensiamo al taglio squisitamente retorico (di alta retorica) del lessico e della sintassi Martiniane, per quel suo desiderio di rendersi non riconoscibile, di ritrarsi in un mondo oscuro e nella penombra di una parola che era e sembrava elusiva ed allusiva, enigmatica, magmatica e che puntava molto su tali quintessenze. Questi aspetti  finivano per accentuare il fatto che il testo sembrava essere il lettore di se stesso. Un testo che rischiava di apparire «squisito», «effabile» e, quindi, «elitario» in un momento in cui la parola d’ordine l’avevano pronunciata Giovanni Giudici con La vita in versi del 1965 e Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965), per una poesia di taglio colloquiale, civile, con tematiche industriali e urbane, dove la chiarezza denominativa e l’abbassamento dei registri stilistici erano ritenuti elementi assolutamente prioritari. Insomma, Martino privilegiava la via della oscurità del tragitto esistenziale, l’esperienza erotica e dionisiaca e l’accentuazione di certo orfismo, quando i tempi invece si orientavano verso la chiarezza del nesso referenziale, l’abbassamento del lessico, l’ambientazione e i temi urbani. Martino punta ancora sulla analogia e sulla simbolizzazione, in una parola, sulla connotazione, in un periodo nel quale invece l’uditorio letterario preferiva la denotazione e la letteralizzazione. A rileggerlo oggi quel libro ci appare fuori delle aspettative dell’epoca, fuori del suo orizzonte degli eventi, e, direi, più inaspettato rispetto a quello di Giovanni Giudici. Oggi, paradossalmente, La fondazione di Ninive, ci appare più in sintonia con le esigenze della ricerca poetica odierna, e pensare che sono trascorsi cinquanta anni dalla stesura di quei testi, ma il fatto è spiegabile perché, in poesia, ciò che si pone come contemporaneo invecchia presto, mentre spesso ciò che si sottrae al contemporaneo, alla lunga, si rivela essere più moderno delle opere un tempo considerate di punta. Con il suo secondo libro il giovane Martino coglieva nel segno di un’opera nata sotto l’egida di uno smaccato anacronismo e di uno scandaloso elitarismo della soggettività. E venne subito archiviato. Forse, oggi si può cogliere con maggiore distacco e serenità la sensuosità di certi passaggi-paesaggi della poesia martiniana, forse di gusto un po’ floreale e appassionato, ma proprio per questo oggi vicini alla sensibilità del lettore moderno. Scrive Donato Di Stasi nella Introduzione al volume Cinquantanni di Poesia 1962-2013 (Roma, Progetto Cultura, 2015 pp.  1000 € 25): «Opera viscerale e cerebrale, La Fondazione di Ninive espone il grumo a cui la coscienza è stata ridotta nella postmodernità… concentra nei suoi risvolti stilistici una formidabile lotta fra il linguaggio e mondo, una partita luttuosa fra l’eros sempre in fuga dalle catene della stabilità e il nostos, sinonimo di necessità e di ritorno a un porto sicuro di significati». (Ibidem p. 135)
.

Salvatore Martino in tralice

Salvatore Martino

.
da Cinquantanni di Poesia 1962-2013 (Roma, Progetto Cultura, 2015 pp.  1000 € 25)

.

A una distanza pari dalla giungla seguendo il filo di un
airone basso nelle correnti dell’aria Disposti a seguitare
malgrado l’oroscopo straniero verso l’alto del piano dove
spirali si rincorrono e la schiera alata dei pesci Intorno
il sentiero mostrava tracce d’un’altra carovana passata
chissà in un giorno di aprile Si avanzava per gradi
lo sguardo fisso al perimetro del dolore

but if you think of a periscopal motion
of thinghs and animals

L’arsenico nel vino i segnali del passo Dalla bocca del
capanno un grido di fucili Stormi inquieti di volatili e
il rosso cremisi delle piume alla vista dei cani
Ci spingemmo avanti senza l’appiglio delle streghe
Poi avrai notizie dagli agenti del cielo Orbite e sonde
le riprese di luna e mille crateri illuminati dalla
fiamma silicea Come sciogli il granito?

A una distanza pari dalla giungla l’anima si riduce ad una
massa che invade le finestre entra nelle cantine squarcia
i vetri e le porte precipita negli alambicchi Piombo
***
Doppiata la collina si piega il tempo per cogliere il
tracciato che scende in un azzurro paese dove laghi
s’incontrano il verde meridiano e oltre la fossa il cielo

Tradito dai sicari

Ci siamo tinte le mani con bianchissima calce
coperto i sopraccigli col sudario una flora batterica
per coltivare agavi o la demenza di chi spera
al mattino un oroscopo astuto delle carte

Non c’è comparazione col metallo quello duro e temprato!
La fossa spaventosa degli inganni precipita intatte
carovane l’oro disciolto nei crogioli l’interminabile spirale
conquista il punto Ricomincia l’ascesa a gironi più fondi
Nel Maelström attorcigliati Cibele e il corpo di Attis
ritrovato una piatta famiglia di lombrichi Sirene
calamitate a riva da un canto più del loro sinistro

Siede il giovane Orfeo la lira stanca lungo il braccio
sul cavalcante Egeo stanco dell’Ade stanco dell’Olimpo
tradito dagli amici le mani di bianchissima calce e un
vuoto contro la mezzaluce balenata in pieno dormiveglia
dalla camera accanto

Dovremmo salire E gonfiare nell’azoto

Una centuria volatile

***

Se ancora disperi di vedermi e i passi si cancellano
nella veglia a mezz’aria tra desiderio e fatica

E un’ora dopo ai piedi di una lunga valle
ti prendessero per mano quasi dicendo una preghiera

Mercoledì 8 gennaio in una valle

E ti conducessero per cerchi e rottami senza una
cruda stanchezza ch’è poi attesa di non attendere

E ti prendessero quando singhiozzano i merli con una
storia da decifrare portandoti attraverso canali di metallo

Se ancora i passi si cancellano
***

A sera la camicia sporca O luna O luna come non sei!
Che il nodo sale e l’anima si spezza Che faremo a gennaio?
Darker and on other time siamo invasi di calma ora
che il tempo è entrato a far parte di noi e l’attimo
blocca le scale O luna O luna per coprirci la mano

***

Esistono giorni che vorresti partire ma per restare e
partire domani o non partire più che hai perso la
logica del partire e ogni logica di transito ch’è poi la
logica di tutto che passi la meditazione della giornata
sopra una mosca e il vento ostinato di grecale contro
l’azzurro del sole Esistono giorni che potrebbero finire
giorni come esistiamo noi senza numeri e segni

E vorresti partire non più domani nel transito di una
mosca uccisa non far niente e sparire non essere stato
non essere mai cancellare ogni presenza del tuo niente
Che niente?

***

Se poi ti addormenti il sonno ti avrà posseduto
come appartenne a te il sonno prima di essere
sonno e ancora alla fine Il miracolo cresce ha
lunghi capelli che non risentono d’influssi ormonali
il letto e il tavolo sono le due dimensioni basta con
gli inganni! Perché il letto è ancora vuoto e io che
aspetto di dormire sono un numero senza matrice il
mistero di un punto fino al finito sirena e luce Il letto
non dovrà aspettare! Ma incidere i grovigli? Gli occhi
rifiutano di vedere perché seguitare? 9/8/6/3 Si sente
un fiato che cresce fino a gonfiare l’aria E poi niente

 

salvatore martino col sigaro

salvatore martino

***

Eros il saggio si sedette sull’orlo della cisterna

A volte mi domando ed è una lunga sera di quelle che non
puoi uscire attraccato alla porta con le scarpe in mano
e una sedia per passi e la stanza prende vigore dal caldo
una cortina separata dalla strada irreale Una di queste
sere mi domando quando il canto degli alberi è rotto dal
silenzio e significa speranza il modulato avvertimento
dei pesci nell’ora della rete per tante miglia tirata da
comode barche e speranza l’assetto del cielo e le
innumeri galassie e il freddo arriva dal mare e non ha
forza e i marosi distaccano i denti incagliati nella sabbia
A volte mi domando

Il dolore è mancanza

***

Giungono d’ogni parte assassini dagli occhi di smeraldo
e la pelle assetata la barba corrosa dal libeccio

– Ma il sangue s’è appiccicato al pavimento non viene
via Non viene ! Via! Più gratto e più lo si vede –
Un garofano macchia la platea Le sventure rimangono
appiccicate a un piedistallo geometrico emergono dalle
latrine come il cotone introdotto per forza nell’esofago

Dannato colui che si perde nei cunicoli impensati
della memoria e l’altro che decifra il limbo del futuro

***

Se un giorno ci siamo amati che sia possibile intrecciare
memorie di viaggi con la candela in mano e trafiggere
le stimmate di una qualche avventura prossima ormai
alla fine e dormire con la bocca interrata in un campo
di vermi trascinando l’aratro del tuo sesso per anfratti
sovrani seminare sventure nella terra di Sisifo che sia
possibile se un giorno ci siamo amati non importa in
quale angolo di strada o piazza o camera d’albergo al
terzo piano attraverso giorni dominati dal vento che
sia possibile se molto ci siamo amati confondere
il seme e la testa l’unica memoria del viaggio

L’amore sulla pietra arenaria Perché ci legarono i sassi
Arpionati Dalla bocca a taglio dello squalo But if you
like it Se ti domando l’universo in parti disuguali
o mi trascende un segno dei tuoi capelli In tutta questa
storia ci legarono i sassi alla scoperta di sabbie
lacustri nei lunghi pomeriggi Arpionati La testa in
parti uguali I piedi che si sfaldano

***

Nell’universo quando due storie
si equivalgono restano inespresse

Attraverso chilometriche fiale
Darker the sky on the back of the mountain
Segni di un antico dominio
Sempre gli stessi libri Sbiadiscono i capelli

Quando mi dissero di lasciare la casa
lo feci senza rumore
Perché negare l’assoluto?
Presi le cose che più mi appartenevano
lasciando ad altri l’inventario e la strage
Il mondo può avere rispondenze precise
in cambio del piacere il piacere

Le storie si equivalgono
su bassa frequenza di contatti

Lo feci senza rumore come
sradicando l’albero della prima infanzia
e il petto struggente della madre

Nuvole imbiancate a calce lungo siepi giganti
calpestano fiori di loto e l’acqua solitaria dello stagno
dove il giovane bello coglie il bacio mortale

Non c’è silenzio così grande che non possa

***

Colmato è il piano Si procede a distanza dagli ultimi
vigneti per un’estate obliqua nella magia degli occhi
Si scendono pendii e bianco alla vista dei corvi
l’arsura ci unisce fino alla decima carta S’abbassano
a cerchi e intorno la sterpaglia assetata Qui riluce
il falco e si chiamano ovunque giostre di uccelli Quando
verranno a prenderti Un sibilo di piume Il gioco delle
sfere La pelle si attorciglia alla carotide Quando verranno
a prendermi Il gioco degli specchi oltre la decima carta
e il rammarico di non aver parlato e come potesse
finire un’altra sto
ria o soltanto impietrirsi nel ricordo
Quando verranno a prenderci legati a doppio anello
di menzogne quando muti verranno col freddo piede
di uccello l’unghia ritorta nella gola

37 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, Poesia italiana anni Sessanta, poesia italiana del novecento, Senza categoria