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Salvatore Martino, Poesie, sintesi critica su Autoantologia – Cinquantanni di poesia (Progetto Cultura, 2014, pp. 1000, € 25 ) – Presentazione critica di Mario M. Gabriele

Il Mangiaparole rivista n. 1

Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel 1940, nel cuore più segreto della Sicilia, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra (1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). Ha ottenuto i premi Ragusa, Pisa, Città di Arsita, Gaetano Salveti, Città di Adelfia, il premio della Giuria al Città di Penne e all’Alfonso Gatto, i premi Montale e Sikania per la poesia inedita. Nel 1980 gli è stato conferito il Davide di Michelangelo, nel 2000 il premio internazionale Ultimo Novecento- Pisa nel Mondo per la sezione Teatro e Poesia, nel 2005 il Premio della Presidenza del Consiglio. Nel 2014 esce con Progetto Cultura di Roma, in un unico libro, la sua produzione poetica, Cinquantanni di poesia. È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010  con la direzione di Sergio Campailla , insieme a Fabio Pierangeli ha tenuto un laboratorio di scrittura  creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008, un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.

Laboratorio-15-febbraio-2018

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Salvatore Martino fa parte della fitta schiera di poeti della cosiddetta Quinta Generazione, locuzione con la quale Giampaolo Piccari diede vita all’omonima Rivista e a una significativa produzione poetica ed editoriale nelle regioni d’Italia. Martino entra nella Poesia con Attraverso l’Assiria del 1969, con testi che hanno una propria visibilità e tracciamento  estetico, fino al volume La metamorfosi del buio del 2012.

La poesia italiana fra le due guerre ha avuto un notevole impatto nella società delle lettere a Nord e a Sud dell’Italia. Su queste due aree hanno operato le grandi Case Editrici con una autonomia selettiva, escludendo poeti di rilievo con l’appoggio collaborativo della critica militante. Non c’è dubbio che la “questione meridionale” abbia avuto un ruolo importante in un periodo di crisi socio-economica e culturale. I poeti del Sud, in un certo senso, si sono autoemarginati con la loro poesia, minoritaria e monotematica, legandosi al paesaggio e agli affetti familiari, saturando l’ambiente, tra realtà e mito, all’interno della cosiddetta “civiltà contadina”. Più verosimilmente si trattò di una esperienza poetica e generazionale nel ristretto tempo in cui si venne a formare all’interno di una serra fatta di svariate vegetazioni poetiche.

Il superamento dalla stasi poetica, tipo country, avvenne  con la nascita della Neoavanguardia, che con il Gruppo 63 operò una vera e propria rivoluzione linguistica, determinando una frattura con la Tradizione. L’appoggio di Riviste come I Quaderni Piacentini, Officina, Tam Tam, ES, Carte Segrete, ecc. portò ad una rivoluzione sistemica e linguistica nella poesia. Dire dove nasce e muore la poesia o codificarla con delle proiezioni temporali, per un’analisi delle strutture e delle forme, è operazione assai complessa considerati gli innumerevoli reperti testuali e verboiconici, così ricchi di mezzi toni e di falsetti, e tuttavia abbastanza significativi nell’esprimere il clima dentro il quale si muove il poeta. Intanto, bisogna risalire agli anni Settanta, dopo l’operazione estetico-critica avviata da Luciano Anceschi con la rivista Il Verri, fino al Gruppo 63 di Sanguineti, con le varie indicazioni poetico ideologiche diffuse in Italia come strutture-simbolo dai ciclostili di “impegno e di lotta”, per avere una discontinuità con le forme più conservatrici della poesia. Va da sé ricordare che il cammino non è stato agevole e che ha avuto  periodi caratterizzati da flussi e riflussi, da impegno e disimpegno nella operatività ricostruttiva della parola, che rimane sempre il vero campo d’azione per rimuovere steccati e barricate. Qui ci si limita a indicare le antologie che maggiormente si introdussero nel “mare della oggettività”, come  I Novissimi,  di Alfredo Giuliani del 1961, Il pubblico della poesia, di Berardinelli e Cordelli, del 1975, La parola innamorata, di Pontiggia e Di Mauro del 1978, La poesia degli anni Settanta, di Antonio Porta del 1979, l’ampio Repertorio  della poesia italiana contemporanea di Zagarrio del 1983 e La parola Plurale di Cortellessa del 2005, inclusiva di una anagrafe poetica tra le più diverse e propositive. Le ragioni che hanno portato le antologie a immettere e ad escludere nomi e opere, sono da ricercare nella mercificazione del prodotto poetico basato sul profitto e non sulla qualità. Il fenomeno delle omissioni ha modificato completamente il quadro operativo e poetico di stagioni molto diverse l’una dall’altra, all’interno di una Storia che ha falsificato la realtà, procedendo per “repressioni, per grandi operazioni di natura etnica” (Luigi Baldacci: Novecento passato remoto, pagine di critica militante. Rizzoli, gennaio 2000-pp. 18.19).

L’invisibilità di questi poeti ci ricorda, vagamente, Il Cavaliere Inesistente, di Italo Calvino, e più in specifico, il protagonista Agilulfo Emo Bertrandino dei Guidilverni e degli Altri di Corbentraz  e Sura, Cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez, pignolo  e intransigente paladino che non esiste, dato che nella sua brillante armatura è il vuoto, e per questo è deriso e schermito dai suoi compagni. Tuttavia, Agilulfo è il migliore tra tutti gli armigeri al servizio di Carlo Magno. Ma quanti poeti hanno rivestito il ruolo di Agilulfo?, quante opere sono andate al macero o dimenticate solo perché non rientranti nelle antologie ufficiali? In occasione del ritiro del Premio Nobel, Montale ebbe a dire che: “La poesia è una entità di cui si sa  assai poco, tanto che due filosofi diversi  come Croce Storicista idealista, e Gilson cattolico, sono d’accordo nel ritenere impossibile una storia della poesia”. Allora a che serve scrivere? E come si giustificano le mille pagine relative a una produzione poetica pari a Cinquantanni di lavoro da parte di Salvatore Martino? un poeta meridionale che ha assorbito l’humus del proprio territorio senza esporsi alla cultura contadina con tutte le problematiche che essa poneva, tra ambiente sociale, povertà economica e figurazione del paesaggio?

Quando Salvatore Martino si propose con la sua prima opera poetica nel 1969, persistevano sul territorio italiano contraddizioni e dualismi di enorme portata. Alla poesia non bastava più il Gruppo e l’Antigruppo, l’umano e il disumano, il conscio e l’inconscio, il plurilinguismo e il neologismo, la metempsicosi  e la fabulazione discorsiva, il fumismo e la metafora, la viola d’amore e di morte, ma le occorreva un supplemento di rifondazione linguistica per colpire la stagnazione concettuale in cui si era immersa la cultura e la società. Su tutto questo bailamme, Salvatore Martino ha operato con una propria poesia democratica, e mai riduttiva; un long playing senza forzature sintattiche e visionarismo romantico. Si potrebbe tentare di dire che la sua opera rispecchi la vita di un uomo segnata da impegno e sincerità. Ora ci si trova qui ad esaminare la sua  Autoantologia – Cinquantanni di poesia, Edizioni Progetto Cultura, Roma 2014, che assembla itinerari linguistici e poetici di diversa proposizione. Ne viene fuori una struttura linguistica dove non pochi sono i procedimenti che hanno dato uniformità alla parola con ideogrammi psicoestetici. Si può dire che questa di Martino è una biografia in versi fatta di espressionismo soggettivo e di classicismo moderno. Egli si avvale di significative esposizioni stilistiche rispetto allo sperimentalismo tout court, che non ha mai influito sul suo modo di fare poesia, stabilendo fusioni con la memoria e il quotidiano, ricorrendo alla lingua chiara e a immagini mai surreali, o strumentali, scegliendo la nitidezza delle esposizioni e privilegiando soprattutto il rapporto con il lettore attraverso il vissuto, e le frammentazioni della vita, spesso come  un Poème en Prose.

Una poesia che emerge dal mondo interno del poeta senza schemi rigidi o da decriptare. Nessuna contraddizione, quindi, negli eventi temporali e psicologici, largamente motivati da una realtà in continuo fermento. Una esperienza poetica di tutto rispetto, fedele a un clichè che ha garantito nel tempo, uno spartito linguistico anche con il disagio di chi avverte un velo di tristezza sopra l’anima. Una via poetica rimasta sempre sulla giusta tangenziale, con un IO psichico anch’esso multiplo nella riflessione critica e soggettiva delle cose. Si va, dunque, da un lato verso la contiguità con L’Essere e dall’altro, lungo le rifrazioni del proprio periscopio esterno.

In questa operazione c’è posto anche per la dinamica metrica e polifonica. Martino si è visto costretto a fare una scelta operativa dopo l’establishment poetico degli anni Sessanta, con una operazione linguistica diversa  dalle correnti più consolidate, accumulando decenni e decenni di lavoro silenzioso e ricostruttivo secondo lo spirito del proprio Tempo. Egli sa aprire e chiudere il dialogo, il racconto, la storia di un evento, le figurazioni dell’effimero nel teatrino del mondo. Martino coglie dalla profondità dell’ES, gli aspetti più controversi dell’ everyday life  per riportarli in superficie alla luce del sole, attraverso un linguaggio che, all’epoca della sua formulazione, si lascia indietro le architetture e i centri storici della poesia interpretativa di un meridionalismo  fatto di miseria e desolazione. E qui che il disboscamento culturale si fa avanzamento estetico e prassi necessaria per arginare il vuoto, le iperplasie linguistiche, instaurando un modello di poesia racconto, di cadenze accentuative nel ritmo basilare delle storie e degli eventi, affidandosi, senza maschere e coperture,  alle richieste del subconscio convocandone i soggetti e le storie nella continua leggibilità del mondo esterno. L’immaginario e il realistico emergono come onde di un fiume in piena. Si ha a che fare con un magnetismo poetico. Ci sono grovigli di memoria per implosioni della materia mentale e psichica, scarti onirici dove il poeta ci si immerge per trovare un punto di sintesi e di armonia. A volte è una fuga dal quotidiano, altre volte è un ritorno ai micro-mondi evaporati. Non c’è ricorso all’utopia e agli universi extrasensoriali. Il suo linguaggio si presenta, in rapporto ai poeti della metà del Novecento, come strumento di innovazione rispetto alle tematiche della letteratura popolare.

Nelle sue stanze poetiche Martino dà appuntamento alle figure altamente lampeggianti nella memoria. Non so se egli abbia mai fatto una “dichiarazione di poetica”. Sarebbe interessante, in questo caso, seguirne i sottopassaggi dove sosta il mondo della reificazione. Forse si coglierebbero gli aspetti più segreti, perché partono da un poeta che ha costruito il proprio verbum senza palcoscenici. A volte sembra di imbattersi in certi traumi, attraverso l’infittirsi di relazioni, tra collasso e ricostruzione della vita, “nel silenzio di Dio e nell’erotismo del corpo e della mente”. La sua poesia vuole appunto dirci tutto questo. Sta dentro il paesaggio esistenziale. Lo scardina, lo lascia, riprendendolo subito dopo, per non restare in vedovanza, convivendo con la poesia; una specie di chiatta di salvataggio contro l’effimero e il quotidiano.

Qui si riportano alcuni stralci di autoanalisi poetica fatta da Martino nella sua relazione tenuta presso il Laboratorio di poesia dell’Ombra delle parole del 30 marzo 2017, che sembrano allinearsi con quanto sopra espresso, trovando dei rapporti interattivi tra:

“Ispirazione e immaginazione sentimento e magma, filo rosso col mondo più sotterraneo, una scrittura talvolta quasi automatica alla maniera dei surrealisti, queste credo furono le vie che intrapresi. Al vers libre preferii la cadenza non ritmata. Cercavo sempre anche in un ipermetro una certa musica, che verificavo con la lettura ad alta voce. Devo ammettere che già allora non avevo interesse per la poesia che si andava materializzando in Italia. Leggevo, conoscevo, ma nella totale indifferenza….. cominciarono a delinearsi le tematiche che mi avrebbero accompagnato nell’arco di oltre cinquanta anni: il rapporto dell’IO con se stesso, la maschera (persona), l’archetipo dello specchio, il colloquio con l’Altro, il viaggio reale e quello sognato, l’ambiguità dell’essere e delle parole, Eros nella sua duplice natura, principio di relazione proprio alla vita, o progenie della notte, fratello della morte, incapace di salvarci da essa, e i sogni (oneiroi), che sia Omero che la mitologia orfica collocano nel regno di Ade. Tutto sotto la freccia apollinea, l’ebbrezza dionisiaca, il fuoco della conoscenza, il freddo del bisturi nell’indagine razionale”.

Su queste coordinate si allinea il lavoro di Salvatore Martino, un poeta che traccia i disagi della vita di fronte ai suoi processi corrosivi, al caos degenerativo delle cose nell’accumulo degli eventi dai quali è impossibile uscirne fuori. Il tutto con l’elaborazione di una poesia, moderna, ricostruita secondo schemi propri sull’onda di un lirismo controllato e di diversa vocalità e immaginazione. Una poesia cresciuta patrimonializzando la lettura di poeti come  Pound, ed Eliot ed altri ancora, che hanno arricchito la sua sensibilità da cui sono poi nate le ripercussioni estetiche trascritte come egli scrive su “fogli, lettere, alfabeti, frammenti, tentativi lunghi e brevi, dispersi e ritrovati, abbandonati sui tavoli e mai distrutti, custoditi in un codice della memoria”.

                                                                                                 (Mario M. Gabriele)

Da La fondazione di Ninive (1965-!976)

…….Colmato è il piano Si procede a distanza dagli ultimi
vigneti per un’estate obliqua nella magia degli occhi
Si scendono pendii e bianco alla vista dei corvi
l’arsura ci unisce fino alla decima carta S’abbassano
a cerchi e intorno la sterpaglia assetata Qui riluce
il falco e si chiamano ovunque giostre di uccelli Quando
verranno a prenderti Un sibilo di piume Il gioco delle
sfere La pelle si attorciglia alla carotide Quando verranno
a prendermi Il gioco degli specchi oltre la decima carta
e il rammarico di non aver parlato e come potesse
finire un’altra storia o soltanto impietrirsi nel ricordo
Quando verranno a prenderci legati a doppio anello
di menzogne quando muti verranno col freddo piede
di uccello l’unghia ritorta nella gola – …….. Continua a leggere

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Salvatore Martino (1940) UNDICI POESIE da “La fondazione di Ninive” (1977), Cinquantanni di Poesia 1962-2013 (Roma, Progetto Cultura, 2015 pp.  1000 € 25), con un Appunto dell’Autore e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

salvatore martino copertina la fondazione di ninivo
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Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel cuore più segreto della Sicilia, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra(1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). Ha ottenuto i premi Ragusa, Pisa, Città di Arsita, Gaetano Salveti, Città di Adelfia, il premio della Giuria al Città di Penne e all’Alfonso Gatto, i premi Montale e Sikania per la poesia inedita. Nel 1980 gli à stato conferito il Davide di Michelangelo , nel 2000 il premio internazionale Ultimo Novecento- Pisa nel Mondo per la sezione Teatro e Poesia, nel 2005 il Premio della Presidenza del Consiglio. È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010  con la direzione di Sergio Campailla  e insieme a Fabio Pierangeli ha tenuto un laboratorio di scrittura  creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008, un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.
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Salvatore Martino in pensiero

Salvatore Martino

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Appunto di Salvatore Martino
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Intorno alla città mitica e reale, mai distrutta nella memoria
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Cominciai a scrivere “La fondazione di Ninive” nel 1965, in seguito alla folgorazione, quasi una via di Damasco incontrando T.S.Eliot e il suo maggior fabbro Ezra Pound. The Wast land e i Four Quartets, i Pisan Cantos abitarono la mia casa come in seguito ad uno sconvolgimento tellurico, incrociando il mio specchio, la mia anima, la mia razionalità.
Molte cose avevano preceduto questo evento, la scrittura volgeva allora verso i grandi spagnoli del ‘98 Jimenez e Machado, e a quelli della generazione del ‘27 segnatamente Lorca e Guillen.  Fogli,  lettere,  alfabeti, frammenti, tentativi lunghi e brevi, dispersi e ritrovati, abbandonati sui tavoli, e mai distrutti, ferocemente segnati, custoditi comunque in un codice della memoria. Adesso finalmente costituiscono il corpo iniziale del mio werk, “Cinquantanni di poesia”.
Cominciai a intravedere “Ninive” come ho già detto nel 1965, avendo in qualche modo chiaro il disegno di un poema in tre parti. In realtà codesta divisione era l’unica finestra in un magma materico da evocare dal letto dove dormiva da chissà quanto tempo. Sapevo soltanto che sarebbe stato un viaggio, la ricerca di una identità perduta, forse un lontano gennaio,di un anno che non possiede numeri, la resa dei conti con l’Altro. Del resto attore per vocazione di alchimista, ma anche di viandante, in ultima analisi di randagio, ho sempre viaggiato, maledicendo sempre la partenza, sperando la sosta ad ogni stazione di treni, ad ogni angolo di aeroporti, in un ciclo costante di ritorni, ma non è stata mai una fuga, solo la condizione ineluttabile dell’essere mio e dell’Altro.
E “Ninive” descrive appunto questa lunga parabola nelle tre sezioni, in cui il poema si divide: il viaggio/ la casa/ steep darkness. Un cammino che cerca un approdo, il richiamo definitivo nella speranza che la tua dimora ti  avvolga e ti possieda, ma l’itinerario scivola inesorabilmente nella ripida oscurità. Tutto ho messo di me in gioco in queste pagine, l’eros e l’assassinio, la maschera, il teatro, l’abbandono degli studi di medicina e della normalità, il disprezzo per le cose banali, la condanna politica, il senso ambiguo della storia, l’erotismo del corpo e della mente, il silenzio di Dio, le navi e l’oceano, gli eroi del mito, lo specchio che rimanda la tua immagine che a volte non sai decifrare, lo sguardo tuffato dentro il cosmo, la precarietà degli affetti, gli inganni e l’amicizia, e tante altre cose.

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Ninive mi ha perseguitato con rabbia a volte, spesso con dolcezza, con disperazione nell’arco di undici lunghissimi anni, dilatandosi ed essiccandosi alternativamente quasi in maniera autonoma, al di là, altra da me. Dal 1976 cammina finalmente la sua strada, con fatica, ma libera, non mi appartiene più.
Mi rendo conto che i testi riprodotti in questa sede non possono minimamente raccontare tutto il poema, tra l’altro sono fra i più brevi, ma certo Linguaglossa avrà avuto le sue ragioni per sceglierli.
Voglio riportare, e mi scuso se approfitto dello spazio rubandolo, almeno la chiusa del saggio introduttivo che il grande Ruggero Jacobbi regalò al mio “La fondazione di Ninive”.
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Martino ha percorso questo iter rischioso, talora spaventoso, per giungere a un riscatto che egli stesso ha propiziato, in modi di verso e prosa, che non somigliano a niente d’oggi, che sono soltanto suoi e meritano dalla critica, un’attenzione senza pregiudizi, capace di illuminare la vera sostanza di questo dramma di questo romanzo di questa elegia.
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Salvatore martino cinquantanni-di-poesia-1962-2013
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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
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La fondazione di Ninive riunisce poesie scritte dalla metà degli anni Sessanta fino all’anno precedente l’assassinio di Moro, il 1977, ma del gusto degli anni Sessanta-Settanta questi testi di Salvatore Martino non recano traccia alcuna; è una scrittura che soffre di aperta discronia stilistica e spirituale rispetto alla poesia del suo tempo. Questo è un dato di fatto dal quale io partirei per avvicinarmi alla poesia di Martino. Che la sua poesia non fosse in linea di consonanza con il suo tempo credo che fosse chiaro anche all’autore all’epoca della stesura delle poesie. Ma il problema è che quando un’opera manca l’appuntamento con il lettore, o meglio, con l’uditorio maggioritario, ne deriva che la sua collocazione viene a non essere riconosciuta per mancanza di simultaneità e di scambio reciproco tra l’autore e il lettore, tra cerchie letterarie e l’opera. È quello che è accaduto al secondo libro di Salvatore Martino, che si situava in un suo spazio proprio, anche linguisticamente, isolato e isolazionista, se pensiamo al taglio squisitamente retorico (di alta retorica) del lessico e della sintassi Martiniane, per quel suo desiderio di rendersi non riconoscibile, di ritrarsi in un mondo oscuro e nella penombra di una parola che era e sembrava elusiva ed allusiva, enigmatica, magmatica e che puntava molto su tali quintessenze. Questi aspetti  finivano per accentuare il fatto che il testo sembrava essere il lettore di se stesso. Un testo che rischiava di apparire «squisito», «effabile» e, quindi, «elitario» in un momento in cui la parola d’ordine l’avevano pronunciata Giovanni Giudici con La vita in versi del 1965 e Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965), per una poesia di taglio colloquiale, civile, con tematiche industriali e urbane, dove la chiarezza denominativa e l’abbassamento dei registri stilistici erano ritenuti elementi assolutamente prioritari. Insomma, Martino privilegiava la via della oscurità del tragitto esistenziale, l’esperienza erotica e dionisiaca e l’accentuazione di certo orfismo, quando i tempi invece si orientavano verso la chiarezza del nesso referenziale, l’abbassamento del lessico, l’ambientazione e i temi urbani. Martino punta ancora sulla analogia e sulla simbolizzazione, in una parola, sulla connotazione, in un periodo nel quale invece l’uditorio letterario preferiva la denotazione e la letteralizzazione. A rileggerlo oggi quel libro ci appare fuori delle aspettative dell’epoca, fuori del suo orizzonte degli eventi, e, direi, più inaspettato rispetto a quello di Giovanni Giudici. Oggi, paradossalmente, La fondazione di Ninive, ci appare più in sintonia con le esigenze della ricerca poetica odierna, e pensare che sono trascorsi cinquanta anni dalla stesura di quei testi, ma il fatto è spiegabile perché, in poesia, ciò che si pone come contemporaneo invecchia presto, mentre spesso ciò che si sottrae al contemporaneo, alla lunga, si rivela essere più moderno delle opere un tempo considerate di punta. Con il suo secondo libro il giovane Martino coglieva nel segno di un’opera nata sotto l’egida di uno smaccato anacronismo e di uno scandaloso elitarismo della soggettività. E venne subito archiviato. Forse, oggi si può cogliere con maggiore distacco e serenità la sensuosità di certi passaggi-paesaggi della poesia martiniana, forse di gusto un po’ floreale e appassionato, ma proprio per questo oggi vicini alla sensibilità del lettore moderno. Scrive Donato Di Stasi nella Introduzione al volume Cinquantanni di Poesia 1962-2013 (Roma, Progetto Cultura, 2015 pp.  1000 € 25): «Opera viscerale e cerebrale, La Fondazione di Ninive espone il grumo a cui la coscienza è stata ridotta nella postmodernità… concentra nei suoi risvolti stilistici una formidabile lotta fra il linguaggio e mondo, una partita luttuosa fra l’eros sempre in fuga dalle catene della stabilità e il nostos, sinonimo di necessità e di ritorno a un porto sicuro di significati». (Ibidem p. 135)
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Salvatore Martino in tralice

Salvatore Martino

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da Cinquantanni di Poesia 1962-2013 (Roma, Progetto Cultura, 2015 pp.  1000 € 25)

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A una distanza pari dalla giungla seguendo il filo di un
airone basso nelle correnti dell’aria Disposti a seguitare
malgrado l’oroscopo straniero verso l’alto del piano dove
spirali si rincorrono e la schiera alata dei pesci Intorno
il sentiero mostrava tracce d’un’altra carovana passata
chissà in un giorno di aprile Si avanzava per gradi
lo sguardo fisso al perimetro del dolore

but if you think of a periscopal motion
of thinghs and animals

L’arsenico nel vino i segnali del passo Dalla bocca del
capanno un grido di fucili Stormi inquieti di volatili e
il rosso cremisi delle piume alla vista dei cani
Ci spingemmo avanti senza l’appiglio delle streghe
Poi avrai notizie dagli agenti del cielo Orbite e sonde
le riprese di luna e mille crateri illuminati dalla
fiamma silicea Come sciogli il granito?

A una distanza pari dalla giungla l’anima si riduce ad una
massa che invade le finestre entra nelle cantine squarcia
i vetri e le porte precipita negli alambicchi Piombo
***
Doppiata la collina si piega il tempo per cogliere il
tracciato che scende in un azzurro paese dove laghi
s’incontrano il verde meridiano e oltre la fossa il cielo

Tradito dai sicari

Ci siamo tinte le mani con bianchissima calce
coperto i sopraccigli col sudario una flora batterica
per coltivare agavi o la demenza di chi spera
al mattino un oroscopo astuto delle carte

Non c’è comparazione col metallo quello duro e temprato!
La fossa spaventosa degli inganni precipita intatte
carovane l’oro disciolto nei crogioli l’interminabile spirale
conquista il punto Ricomincia l’ascesa a gironi più fondi
Nel Maelström attorcigliati Cibele e il corpo di Attis
ritrovato una piatta famiglia di lombrichi Sirene
calamitate a riva da un canto più del loro sinistro

Siede il giovane Orfeo la lira stanca lungo il braccio
sul cavalcante Egeo stanco dell’Ade stanco dell’Olimpo
tradito dagli amici le mani di bianchissima calce e un
vuoto contro la mezzaluce balenata in pieno dormiveglia
dalla camera accanto

Dovremmo salire E gonfiare nell’azoto

Una centuria volatile

***

Se ancora disperi di vedermi e i passi si cancellano
nella veglia a mezz’aria tra desiderio e fatica

E un’ora dopo ai piedi di una lunga valle
ti prendessero per mano quasi dicendo una preghiera

Mercoledì 8 gennaio in una valle

E ti conducessero per cerchi e rottami senza una
cruda stanchezza ch’è poi attesa di non attendere

E ti prendessero quando singhiozzano i merli con una
storia da decifrare portandoti attraverso canali di metallo

Se ancora i passi si cancellano
***

A sera la camicia sporca O luna O luna come non sei!
Che il nodo sale e l’anima si spezza Che faremo a gennaio?
Darker and on other time siamo invasi di calma ora
che il tempo è entrato a far parte di noi e l’attimo
blocca le scale O luna O luna per coprirci la mano

***

Esistono giorni che vorresti partire ma per restare e
partire domani o non partire più che hai perso la
logica del partire e ogni logica di transito ch’è poi la
logica di tutto che passi la meditazione della giornata
sopra una mosca e il vento ostinato di grecale contro
l’azzurro del sole Esistono giorni che potrebbero finire
giorni come esistiamo noi senza numeri e segni

E vorresti partire non più domani nel transito di una
mosca uccisa non far niente e sparire non essere stato
non essere mai cancellare ogni presenza del tuo niente
Che niente?

***

Se poi ti addormenti il sonno ti avrà posseduto
come appartenne a te il sonno prima di essere
sonno e ancora alla fine Il miracolo cresce ha
lunghi capelli che non risentono d’influssi ormonali
il letto e il tavolo sono le due dimensioni basta con
gli inganni! Perché il letto è ancora vuoto e io che
aspetto di dormire sono un numero senza matrice il
mistero di un punto fino al finito sirena e luce Il letto
non dovrà aspettare! Ma incidere i grovigli? Gli occhi
rifiutano di vedere perché seguitare? 9/8/6/3 Si sente
un fiato che cresce fino a gonfiare l’aria E poi niente

 

salvatore martino col sigaro

salvatore martino

***

Eros il saggio si sedette sull’orlo della cisterna

A volte mi domando ed è una lunga sera di quelle che non
puoi uscire attraccato alla porta con le scarpe in mano
e una sedia per passi e la stanza prende vigore dal caldo
una cortina separata dalla strada irreale Una di queste
sere mi domando quando il canto degli alberi è rotto dal
silenzio e significa speranza il modulato avvertimento
dei pesci nell’ora della rete per tante miglia tirata da
comode barche e speranza l’assetto del cielo e le
innumeri galassie e il freddo arriva dal mare e non ha
forza e i marosi distaccano i denti incagliati nella sabbia
A volte mi domando

Il dolore è mancanza

***

Giungono d’ogni parte assassini dagli occhi di smeraldo
e la pelle assetata la barba corrosa dal libeccio

– Ma il sangue s’è appiccicato al pavimento non viene
via Non viene ! Via! Più gratto e più lo si vede –
Un garofano macchia la platea Le sventure rimangono
appiccicate a un piedistallo geometrico emergono dalle
latrine come il cotone introdotto per forza nell’esofago

Dannato colui che si perde nei cunicoli impensati
della memoria e l’altro che decifra il limbo del futuro

***

Se un giorno ci siamo amati che sia possibile intrecciare
memorie di viaggi con la candela in mano e trafiggere
le stimmate di una qualche avventura prossima ormai
alla fine e dormire con la bocca interrata in un campo
di vermi trascinando l’aratro del tuo sesso per anfratti
sovrani seminare sventure nella terra di Sisifo che sia
possibile se un giorno ci siamo amati non importa in
quale angolo di strada o piazza o camera d’albergo al
terzo piano attraverso giorni dominati dal vento che
sia possibile se molto ci siamo amati confondere
il seme e la testa l’unica memoria del viaggio

L’amore sulla pietra arenaria Perché ci legarono i sassi
Arpionati Dalla bocca a taglio dello squalo But if you
like it Se ti domando l’universo in parti disuguali
o mi trascende un segno dei tuoi capelli In tutta questa
storia ci legarono i sassi alla scoperta di sabbie
lacustri nei lunghi pomeriggi Arpionati La testa in
parti uguali I piedi che si sfaldano

***

Nell’universo quando due storie
si equivalgono restano inespresse

Attraverso chilometriche fiale
Darker the sky on the back of the mountain
Segni di un antico dominio
Sempre gli stessi libri Sbiadiscono i capelli

Quando mi dissero di lasciare la casa
lo feci senza rumore
Perché negare l’assoluto?
Presi le cose che più mi appartenevano
lasciando ad altri l’inventario e la strage
Il mondo può avere rispondenze precise
in cambio del piacere il piacere

Le storie si equivalgono
su bassa frequenza di contatti

Lo feci senza rumore come
sradicando l’albero della prima infanzia
e il petto struggente della madre

Nuvole imbiancate a calce lungo siepi giganti
calpestano fiori di loto e l’acqua solitaria dello stagno
dove il giovane bello coglie il bacio mortale

Non c’è silenzio così grande che non possa

***

Colmato è il piano Si procede a distanza dagli ultimi
vigneti per un’estate obliqua nella magia degli occhi
Si scendono pendii e bianco alla vista dei corvi
l’arsura ci unisce fino alla decima carta S’abbassano
a cerchi e intorno la sterpaglia assetata Qui riluce
il falco e si chiamano ovunque giostre di uccelli Quando
verranno a prenderti Un sibilo di piume Il gioco delle
sfere La pelle si attorciglia alla carotide Quando verranno
a prendermi Il gioco degli specchi oltre la decima carta
e il rammarico di non aver parlato e come potesse
finire un’altra sto
ria o soltanto impietrirsi nel ricordo
Quando verranno a prenderci legati a doppio anello
di menzogne quando muti verranno col freddo piede
di uccello l’unghia ritorta nella gola

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Salvatore Martino – Autoantologia – Poesie (1969 -2013)

salvatore martino col sigaro salvatore martino copertina la fondazione di ninivoSalvatore Martino è nato a Cammarata, nel cuore più segreto della Sicilia, a mezza strada tra Palermo e Agrigento, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969) , La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra(1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012) .
È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010 ha tenuto un laboratorio di scrittura creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008 un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli

salvatore martino 2 Da La fondazione di Ninive 1977

Questa notte mi hanno visitato le formiche

Hanno preso le mani
imbavagliati i piedi
stretto d’assedio il letto

Che sia solo la stanza a respirare?

Il resto giace Inerte
tenuto insieme da robusti negri
il lago infame e la memoria

Estraneo alla vicenda
il viaggiatore ride
acquattato nell’angolo

E aspetta
Che tutto si cancelli?!
Divorato nel sangue

Una brezza invadente increspa l’aria

Ci sono stati morbidi passi nella scala
parole sussurrate incantamenti e riti
una musica dolce sulla soglia

Il viaggiatore infìdo arriva dritto dall’Ade

Ma non ci paralizza l’ignoto grido
o l’avvicinarsi del branco
né il richiamo ingannevole col nome

L’occhio dentro l’occhio
avvitato dalla morsa che sai e non conosci
e decifri il mandante l’involucro lo scopo

Mi hanno visitato questa notte
gente partita da lontano emersa in superficie
attraverso i rigori dell’inverno
e navigando cristalline montagne
prati innevati e case crocefissi e paludi

adesso è qui

Olio sopra la fronte l’orecchio e il labbro

 

François Clouet

François Clouet

copertina salvatore martino metamorfosi del buio

 

 

 

 

 

 

 

Da Il guardiano dei cobra 1992

La delazione

I

In uno dei loro ultimi avatàra
attorno a un fragile fuoco di fascine
cadeva come d’obbligo la sera
ombre allungavano
l’imbarazzo gli sguardi
Giuda di Kiriat
un tempo noto per la sua bellezza
riconobbe nell’uomo
che gli sedeva accanto
immerso in lontane previsioni
il maestro baciato quella notte
nel segno estremo della riconoscenza

Erano mutati nel frattempo
l’occhio del Rabbi divenuto scuro
i suoi capelli rossi ora corvini
proprio come li aveva
il figlio del cambiavalute

Tacevano entrambi
in questa interminabile partita
dentro la consuetudine eterna delle stelle

Jeshua a un tratto tese la mano
per toccare quel volto
così tragicamente conosciuto
Assomigliava all’altro familiare
che per trent’anni
l’aveva accerchiato d’ogni parte
ombra inquieta nella via
immagine nell’acqua
in un metallo colpito dalla luce
il vetro minaccioso di un negozio

Arrestò a mezza strada il movimento
perché non risuonasse equivoco il suo gesto

– Non mi domandi se ti ho perdonato? –

– Non vedo ragione ch’io lo faccia
la tua delazione presso il Padre
incominciò avanti la mia colpa
io conclusi un disegno
irrevocabile già prima di essere
come adesso ch’è stato
e tu non comprendesti o fu solo finzione?
quanto nessuno io ti amavo
e questo cieco amore mi ha perduto
affinché si compisse il tuo destino –

Riconoscendo il Rabbi
in quel compagno occasionale
la propria antica faccia

– Non ti ha perduto se siamo ancora qui
a ragionare insieme come un tempo
Io non ti scelsi è vero
né tu scegliesti me
come distinguere l’identico dal doppio?
Chi ci guidò nel bianco della sorte?
Invenzione sublime
il bieco pomeriggio sulla croce
la salvezza degli uomini –

– Io rinunciai all’amore
all’anfora della mia pace
al regno dei cieli in cui credevo
cercai l’inferno
perché la tua felicità mi bastava
perché la felicità è attributo divino
che gli uomini non debbono usurpare

Chiara più tardi l’altra verità

Come ultimo degli uomini sprezzato
uomo di dolore esperto in afflizione
era questi il Messia
il Dio incarnato
nell’atroce avvenire
nel tempo e nell’eternità
il Dio che si fa uomo fino all’infamia
e sceglie un infimo destino
s’incarna in Giuda il delatore –

Con un lieve sorriso il Nazareno

accettava quelle dure parole
poi a mala pena udibile
in un soffio

– La nostra vita oscura
perfino a noi stessi la celiamo
il raggiro sincero dello specchio
il tradimento della parte ombra

Anche il respiro è sale
qualunque azione inganno
Non potevamo esercitare
la disciplina della vendetta
costringere su noi la perdizione
sorridere mentre l’Altro affondava
Lo scambio di consegne
comunque da entrambi rispettato
Forse nel prossimo avatàra
riconquistando le sembianze
portate quei giorni in Galilea
sarò io a baciarti nel Getsemani –

copertina salvatore martino le città dalla luna II

La luna trafiggeva il fosso desolato

Dopo una lunga attesa
in quel chiarore talmente innaturale
che ricorda
ogni perfetta forma d’increato
il Rabbi disse

– Sì io sapevo
e mi prestai al gioco
perché la volontà del Padre si compisse
nell’ultimo avatàra che ci resta
prima di ritornare e sempre nel silenzio
rivelerò il mio il tuo segreto
perché duri l’oblio su questa storia –

Salite da un mattino di calce
le stelle scomparivano
Stanchi del viaggio
i due si abbandonarono alla luce
le strade in tanti secoli
confuse sotto cieli diversi
decidevano di sciogliersi
per circoli lontani

Giuda guardò dritto nel cuore
il suo Maestro
con un sorriso complice alle labbra

Adesso si sentiva Uno
in quella solitudine
marea dell’infinito

Si aggiustò la djellaba
guardò all’orizzonte
dove la Città Santa dileguava
lo baciò sulla bocca
per cancellare il proprio antico gesto
e verso l’albero ascese dentro il cielo

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Da Libro della cancellazione”2004

Libro della cancellazione

Mi chiedo a volte
quando dal fiume salgono i vapori
e il paesaggio assume
i colori tonali del risveglio
mi chiedo a volte
dove si disperde il sentiero fissato
se il carcere ossessivo
del piacere dell’armonia del bello
possa esorcizzare
quest’aggrumo di segni
quest’abitare dentro la ferita

Chi siamo mi domando?
Quale fato ci guida?

Diventano risposte le domande
senza mai esserlo
che importa?

Forse siamo quel fuoco immaginario
la montagna coperta di ghiacciai
la scala dimenticata contro l’albero
la tormenta e la luna
Siamo i depositari dell’assurdo
il viandante emerso dalle crete
il vuoto di un addio
la sabbia che purifica i peccati
il faro intravisto di lontano

Siamo l’acqua del fiume dei dannati
la cronaca infinita delle lotte
l’arbitrio e la dimenticanza
siamo l’isola ormai disabitata
siamo la strada alata
la cancellazione

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COPERTINA SALVATORE MARTINO sonetto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Da La prigione azzurra del sonetto 2009

IX
Sopra un cavallo rosso s’avventura
all’incontro temuto e così forte
il più invocato quello della morte
ma il cavaliere va senza paura

Farnetica una strana congettura
di scardinare le temute porte
il bastione invocato tante volte
domestico rifugio di sventura

Il viaggio della vita è così breve
e così lunga la dimenticanza
la cenere che plasma i nostri corpi

Nel bozzolo di seta siamo avvolti
dal tempo e così privi di speranza
ma il cavallo nel vento è così lieve

 

LXIV
Il vento di ponente ha rilanciato
nell’ora maledetta la sua sfida
suonavano le tre era salita
la freccia che nel mondo m’ha lanciato

nel più profondo sud che sono nato
l’incredibile isola fiorita
da civiltà straniere imbarbarita
da genti diversissime marchiato

La terra di Toscana m’ha ghermito
adolescente intriso di speranze
per incidere un segno nel cammino

Non lo sapevo che non c’è destino
più atroce di colui che nell’istante
mentre legge l’oscuro è già smarrito

copertina salvatore martino cancellazione

 

 

 

 

 

 

 

Da La metamorfosi del buio 2012

Muto dialogo con l’Altro

a Pepito Torres

regalame esta noche
retrasame la muerte
Abbiamo tanto camminato insieme
elogiato il tempo della nostra fatica
le molte incomprensioni
non hanno scardinato
la nostra fedeltà
bambino amaro e felice
custode del mio sangue
asceta delle mie paure

Le guerre non ci hanno separati
le miserie e nemmeno il successo
i riconoscimenti che ci hanno accomunati
atroce bambino mio consolatore
specchio del mio diaframma
oltre il quotidiano insulto delle parole

Ci sveliamo da sempre i nostri enigmi
nella notte come nella primavera
nel meriggio accecato e nell’autunno
nel pallore dell’alba e dell’estate
nel bagliore meridiano dell’inverno

Quanti alberi e conchiglie
e per quanti anni
ci vedranno procedere appaiati
un passo altro passo un altro ancora
in totale armonia

Certo lo so
Dovrò lasciarti

Siamo stati bene
e accanto a te ho creduto talvolta
di essere immortale

E quando non ci sarò più
cosa avverrà
delle nostre lotte e delle contumelie
degli amori e gli inganni i desideri
questo diuturno generarsi dalla morte?
Cosa sarà di te e di me
che non hai deciso di partire
che non ho deciso di partire
di abbandonare
alla solitudine il compagno

Nondimeno non posso intercedere
perché non so con chi
perché le mie preghiere
come le tue del resto
non giungono a nessuno
e non c’è vento che le inchiodi
al dirupo del cielo
Quanto mi mancherai
quanto ti mancherò
perché senza di te
persino la morte è inconcepibile

Addio mio compagno
mio padrone mio schiavo

A questo non eravamo preparati
Ma siamo pronti

 

 

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