Edith Dzieduszycka, Squarci, Racconti poetici, Progetto Cultura, 2018 pp. 180 € 12 – Loro, con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa e il Video del poemetto Traversata, voce recitante Pino Censi

 

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa del libro Squarci di Edith Dzieduszycka, Progetto Cultura, 2018 pp. 180 € 12

Questi tredici racconti poetici di Squarci sono fondati sulla catena metonimica, viaggiano sullo «spostamento» più che sulla «condensazione», vogliono andare al fondo della materia infiammabile che costituisce l’inconscio. Il linguaggio dell’inconscio è metonimico per eccellenza, ha una sua strategia per aggirare ed espungere le difese dell’io. Ma l’io reagisce, passa al contrattacco, inventa «una storia», «delle vite», afferra «frammenti»:

Inventare una storia
una vita
delle vite.
Afferrare frammenti
strappati rubati sfilati ad altri
altri inconsapevoli indifesi spogliati
privati della propria pelle
dal guscio protettivo
aperti sventrati esposti agli elementi.
Tutte emanazioni macerazioni carcasse
sbranate dal becco degli avvoltoi
dal dente delle iene
dalla bocca degli sparlatori
dall’indifferenza dei saggi
dal giudizio degli stolti.

L’io vuole raggiungere la domanda ultima, quella definitiva, ma si trova in scacco, non sa chi ha scritto quella «domanda», ed è costretto a capitolare. Con un tonfo:

Ecco.
Ci siamo.
Doveva finire così.
Era scritto che finisse così.
Scritto da chi?
Bella domanda…

Il primo racconto accenna a dei misteriosi «personaggi» che «si negavano con ostinazione», che «si mantenevano allo stato larvale… nascosti nella culla del possibile»; si dice chiaramente che sono dei «fantasmi», «ectoplasmi» che stanno «immobili fermi zitti/ invisibili senza voce/ senza forma né consistenza», che sperano «di passare inosservati», di sfuggire alla «trappola».

Nel secondo racconto c’è un personaggio femminile che «non riconosceva più sua madre […] Con quella voce di metallo arrugginito/ che le sgorgava dalle budella»; «sua madre voleva intaccare il magma… inventare storie sempre più terribili», «quello che cercava ed inseguiva/ le sfuggiva si ritraeva si allontanava/ risucchiato dalla nebbia».
Il personaggio di questi racconti è l’io colto nelle vicissitudini che comporta la stabilizzazione di una identità «la paura di non essere pronta / di mancare all’appuntamento/ arrivare presto arrivare tardi/ trovare strade sbarrate…». L’io si rivela essere un isolotto circondato dal magma pulsionale di un mare inospitale che vuole espungerlo, infirmarlo, dimidiarlo. La crisi dell’io è la crisi del Logos, crisi del linguaggio, inadeguatezza del linguaggio a identificare le «cose», inadeguatezza dell’io ad identificare i suoi nemici, interni ed esterni, reali e fantasmati. Di qui la labirintite dell’io e il suo cedimento strutturale.

Nel terzo racconto la vecchia automobile Opel viene mandata dallo «sfasciacarrozze», da quel momento l’oggetto automobile viene internalizzato e prende la forma di un fantasma che ossessiona nel ricordo la mente della protagonista che passa da divagazione a divagazione, la catena metonimica che conduce l’io sull’orlo della follia… e compaiono «alcuni personaggi [che] attirano la mia attenzione», finché lungo il percorso da pendolare che il personaggio fa ogni giorno, incontra «un essere luminoso» con «lunghi capelli biondi fino alle spalle», non viene specificato il sesso di questo misterioso personaggio ma forse è un transgender in quanto per l’inconscio dell’ossessivo l’Altro non ha una identità sessuale ma soltanto una nominale, figurale. Ecco che l’Altro si ripresenta di nuovo, sul treno dei pendolari con «una grossa borsa di tela nera/ un astuccio da violino/ che non avevo notato la prima volta». Il racconto rimane in sospeso, viene interrotto nel punto più interessante quando il lettore vorrebbe saperne di più. Ma qui fa capolino l’ignoto, il mistero, l’insondabile.

Nel quarto racconto il protagonista è una «pagina immacolata/ sulla quale tutto diventa possibile/ dove tutto può succedere». «Ci sono i viziosi che si fanno le seghe/ e si masturbano sui sedili da soli o in coppia». E poi c’è Marta, la moglie del tassista protagonista, l’alter ego dell’io narrante, insipida e bigotta donna che castra le fantasie narrative del marito narrante. Il racconto va avanti fino a quando…
Nel quinto racconto, «Traversata», c’è una «porta» che si socchiude, e gli «erranti» vanno «tutti verso quel sogno». «Ombre sulla soglia./ Quattro./ Una per ognuno dei punti cardinali./ Ombre grigie silenti in attesa».

Cercavano un’uscita
una porta
una porta qualunque
alla quale bussare
una porta
socchiusa nella memoria.
Dietro la quale
impazienti
voraci
li aspettavano
dall’alba dei tempi
quattro Ombre grigie.

Nel sesto racconto, «Loro», la narrazione raggiunge il climax. I «fantasmi», gli «ectoplasmi», «Loro./ Impalpabili./ Inafferrabili./ Tu ne eri cosciente./ Sentivi che anche Loro/ sapevano/ che tu li percepivi». Qui la belligeranza tra l’io e l’inconscio raggiunge la massima intensità, l’ostilità diventa violentissima, rischia di travolgere la fragile impalcatura auto organizzatoria dell’io. «Tanti contro uno./ Loro contro di me./ I Titani in azione». Ma l’io ha un’arma segreta, segreta in quanto costituita da soldati inconsapevoli: «le mie Amazzoni e i miei Gladiatori/ fedeli e devoti/ pronti a buttarsi nel fuoco per me. Non sanno niente di Loro/ né delle mie battaglie contro di Loro./ E se per caso sanno fanno finta di niente/ ma rinserrano i ranghi/ perché hanno sempre capito/ che la mia sconfitta sarebbe anche la loro».

Il settimo racconto, «Genesi», troviamo l’io ridotto alla sua nudità autoreferenziale:

Sono io.
Solo all’interno di me stesso.
Perché?
Perché io ?
Perché ora ?
Perché qui ?
Non lo so.
Mai lo saprò.
Una cosa soltanto so.
Sono vivo.
Vivo.

Non c’è scampo per l’io che è costretto a girare a vuoto come una duchampiana macchina celibe, l’io che vive «all’interno di me stesso… nell’inferno di me stesso», non ha altri argomenti che chiedersi: «Perché tutto questo?».

L’ottavo racconto, «Desprofondis», narra dell’inarrestabile processo di cadaverizzazione dell’io. Scompare il tempo, scompare lo spazio. Ecco il finale:

Si spalancò
di fronte a lei
una porta gelatinosa
dietro alla quale regnava un nulla nero
accogliente.
Non fece in tempo a chiedersi
se si trattasse dell’inizio
o della fine di quel viaggio.
Insieme alle entità sconosciute
che l’avevano trascinata
posseduta
assorbita
digerita
scivolò via
senza neanche accorgersene.

Il racconto successivo, «Prisma», è la narrazione di una «orrida vertigine/ d’un sogno senza senso/ d’un pozzo senza fondo». Tutti i segmenti del racconto sono il resoconto stenografico di una discesa agli inferi, in un luogo senza fondo «trappola più del pozzo». Sono scomparsi anche gli «ectoplasmi» che inseguivano l’io, ormai l’io è braccato, assediato, costretto in un «pozzo» dalle pareti verticali. Sono scomparsi spazio e tempo.
Nel racconto che segue, «Ritorno», l’io è diventato una «bambina» che non distingue più «tra mito e realtà/ sogno e desideri/ fantasmi e ricordi», il tutto è un «mosaico sconnesso/ così inestricabile/ da non poterne più delimitare/ i punti d’intersezione». L’io «dava la mano a suo padre/ questo sconosciuto./ Sprofondava con lui/ nel cuore d’una foresta»; «un merlo nero dal becco giallo/ si alzava in volo un momento/ poi si posava di continuo/ per aspettarli e mostrare loro la strada».

Tutto a un tratto guardò lo sconosciuto.
E lui la guardò
facendo un passo verso di lei.
La sua mano era diventata enorme e grigia.
Sembrava l’ala spiegata di un uccello rapace.
Lei stava sull’orlo del precipizio
il piede reggendosi appena sulla terra cedevole.
Chiuse gli occhi e aspettò.

Rimase così.
Preda. Sospesa.
Vuota sul vuoto.
Un secondo
un secolo
un’eternità.

Nell’undicesimo racconto, «Piccolo», «niente di niente/ la storia si è fermata,/ inceppato il meccanismo», l’io è diventato un nano. Nel dodicesimo, una donna parla della sua vita:

Un marito l’ho avuto.
Tempo fa.
Non ricordo nemmeno quando esattamente.
Un essere tecnologico.
Non un uomo di scienza.
No.
Non ha niente a che vedere.
Un robot sarebbe più giusto come definizione.
Un robot amante dei robot.
Avrebbe dovuto sposare una bambola gonfiabile.

Siamo giunti al tredicesimo racconto: ormai è inutile interrogarsi, le domande si sono inaridite, inabissate. «La vera prima era prima./ Ma non ero in grado/ né di capire/ né di ricordare». Adesso il nodo inestricabile s’è sciolto. La soluzione è arrivata. Come sarà nella prossima vita?

Sarà come ci hanno insegnato?
Sarà tutto diverso?
Non sarà?

Se me lo chiedete gentilmente
forse verrò a raccontarvelo
una sera d’inverno…

https://youtu.be/t4rIzauiCjE

Il retro di copertina recita:

Questi  tredici racconti poetici di Squarci sono fondati sulla catena metonimica, viaggiano sullo «spostamento» più che sulla «condensazione», vogliono andare al fondo della materia infiammabile che costituisce l’inconscio. Il linguaggio dell’inconscio è metonimico per eccellenza, ha una sua strategia per aggirare ed espungere le difese dell’io. Ma l’io reagisce, passa al contrattacco, inventa «una storia», «delle vite», afferra «frammenti». L’io vuole raggiungere la domanda ultima, quella definitiva, ma si trova in scacco, non sa chi ha scritto quella «domanda», ed è costretto a capitolare. Il primo racconto accenna a dei misteriosi «personaggi» che «si negavano con ostinazione», che «si mantenevano allo stato larvale… nascosti nella culla del possibile»; si dice chiaramente che sono dei «fantasmi», «ectoplasmi» che stanno «immobili fermi zitti/ invisibili senza voce/ senza forma né consistenza», che sperano «di passare inosservati», di sfuggire alla «trappola». In questi soliloqui illocutori  di Edith Dzieduszycka la catastrofe annunciata non avviene mai, viene sempre prorogata. Con il che il discorso illocutorio riprende sempre di nuovo come il ritorno di un fantasma dell’inconscio, giacché è chiaro che i personaggi che qui «parlano», sono Figure dell’inconscio, Ombre dell’Es. La scrittura dell’inconscio è onirica, si situa tra la veglia e il sonno, nella scissura tra «senso» e «significato», in quella zona d’ombra in cui si può sviluppare un discorso finalmente «libero» sia dal senso che dal significato, libero dal sistema articolatorio dell’io. Il motto di Lacan: «Penso dove non sono e sono dove non penso»,  indica la zona occupata dall’Es e dall’inconscio.
Una poesia come questa di Edith Dzieduszycka e della «nuova ontologia estetica» non si può comprendere appieno senza tenere nel debito conto il ruolo centrale svolto dall’inconscio e dall’Es nella strutturazione del discorso poetico, un grandissimo ruolo è giocato dall’Es, dalla sua istanza linguistica effrattiva.

LORO

È ovvio.
Le cose non possono più andare in questo modo.
Devo prendere dei provvedimenti.
Devo correre ai ripari.
Proteggermi dagli attacchi concentrici
sempre più ravvicinati
che Loro stanno piano piano organizzando
per accerchiarmi
rovinarmi
annientarmi.

Non ho ancora capito chiaramente
il momento in cui tutto questo ha preso inizio.
Si sono mossi in maniera così impercettibile
che ne voi ne io avremmo potuto accorgercene.
Poteva trattarsi di un sogno
ad occhi aperti sul vuoto.
Di un’impressione indefinibile e fuggitiva.
Di un soffio leggero che tutto a un tratto
ti sfiorava i capelli o le spalle
e percepivi come una carezza
dapprima quasi piacevole.

Ma si trasformava poi
lentamente
inesorabilmente
in un brivido sempre più intenso
che correva lungo la schiena.
Ancora un po’
e quel freddo ti avvolgeva
lunga mantella scura e umida.
Ti stringevi allora all’interno di te stesso
tiravi su il bavero della giacca
ci affondavi il collo e il mento.
Ti guardavi le mani
e ne scoprivi allibito le giunture
gialle e rigide come zampe di gallina
mentre la tua pancia si contraeva in onde gelide.

***

A volte invece
ti sentivi attraversato da vampate nebbiose
che ti facevano salire il sangue alla testa
correre veloce
sempre più veloce il battito del cuore
ritmate le pulsazioni delle arterie lungo il collo.
I radi capelli si appiccicavano
alla fronte alle tempie alle guance
gli occhi si arrossavano
la lingua si faceva così spessa e ruvida
simile a carta vetrata
da non riuscire nemmeno ad articolare
anche se non la smettevi
così ti sembrava
di parlare e di parlare ancora.

Non ho capito
e ancora oggi non riesco a decidere
di quelle manifestazioni
quali erano le più orripilanti e angosciose.
Non si alternavano in modo regolare.
Si dipanavano spesso in serie analoghe
imprevedibili e capricciose.
Cambiava soltanto la loro intensità.
Dopo un certo tempo
che poteva sembrarti interminabile o breve
smettevano brutalmente
per venir sostituite da altre nuove
ugualmente violente
che mano a mano diminuivano però d’intensità.
Per cui te ne stavi rannicchiato
col respiro trattenuto
nella speranza che fosse tutto finito.
E invece tutto ricominciava
in modo uguale e contrario
certe volte immediatamente
senza la minima pausa
altre dopo un intervallo
del quale non potevi mai intuire la durata.

Loro.
Loro erano lì.
Comunque.
Sempre.

Loro.
Impalpabili.
Inafferrabili.
Tu ne eri cosciente.
Sentivi che anche Loro
sapevano
che tu li percepivi.
E non potevi mai immaginare
né prevedere
di cosa sarebbe fatto l’istante dopo.
Cosa avrebbero inventato
per mantenerti in quello stato d’ansia
in quell’attesa perenne
insopportabile.

***

[Opere di Edith Dzieduszycka]

Fino a questo punto
erano rimasti silenziosi e muti
né udibili né visibili.
Soltanto ectoplasmi.
Impalpabili
senza consistenza né contorni.
Forse non c’erano nemmeno.
Forse li avevo immaginati.
O forse cominciavo piano piano
a pensarlo
a supporlo
non c’era il minimo dubbio
stavano proprio lì
rimpiattati nell’ombra.
E la loro strategia era una
una soltanto.
Riuscire a convincermi di non stare bene
di essere malato.
E quando dico malato
voglio dire invece fuori di testa.
Io mi sento assolutamente tranquillo a proposito.
Malato non sono
pazzo nemmeno
e continuo a pormi una moltitudine di domande.

Chi sono Loro?
Cosa vogliono da me?
Per quale motivo ce l’hanno con me ?
Con me soltanto
o anche con altri poveretti
in circolazione intorno a me?

Mi guardavo intorno
e osservavo tutti quegli innumerevoli altri
molto attentamente
ma anche discretamente
perché non si accorgessero della mia indagine.
Cercavo di capire dai loro discorsi
dalle loro parole
e perfino e soprattutto dai loro silenzi
dalle loro mosse ed atteggiamenti
da tutto il loro modo di comportarsi
insomma tentavo di verificare
se qualcosa li turbava internamente
o modificava il loro aspetto.
Se gesticolavano o parlavano da soli.
Se avevano dei tic o gli occhi strabuzzati.
Se tremavano sotto i raggi del sole
o se invece sudavano
e si asciugavano il viso e le mani
nelle fredde giornate di febbraio.
Se le loro facce diventavano gonfie e rubizze
sotto la pioggia gelata di novembre.

Ma non scoprivo niente di particolare.
Gli altri avevano i loro soliti stupidi musi di sempre
beati ed ebeti o sospettosi e corrucciati.
Cambiava poco.
La geografia delle multiple espressioni
adottate da quelle maschere ridicole
rimaneva nell’insieme invariata.
In quelle scialbe creature
non notavo nessun pallore o rossore
manifestazioni eccezionali o anormali.
Non si scambiavano racconti lamentosi
oppure sì. Qualche volta
e mi sembrava allora di percepire il mio nome.
Ma nell’insieme rimanevano uguali a loro stessi
imperturbabilmente patetici nella loro rozza pochezza.
E così non ci poteva essere il minimo dubbio.
Dall’alto di queste osservazioni meticolose e prolungate
potevo
dovevo dedurre una cosa sola.
Una cosa che avevo in fondo sempre
intuito immaginato indovinato.

Ero IO
nel loro mirino.
Soltanto IO.
IO SOLTANTO.

***

[opere di Edith Dzieduszycka]

Quel fatto enorme
mescolato a una sensazione di sorpresa di angoscia
diventava altresì per me fonte quasi inebriante
di soddisfazione e orgoglio.
Chi altro
poteva giustificare un tale dispiegamento di mezzi?
Quale altro bersaglio
era mai stato degno di tali attenzioni?
Loro forse ci avevano pensato a lungo e molto bene.
Probabilmente avevano cercato disperatamente
l’avversario alla loro altezza
e finalmente
dopo ricerche più affannose di quelle
destinate al ritrovamento del Santo Graal
l’avevano finalmente scoperto.
Tanti contro uno.
Loro contro di me.
I Titani in azione.
Una battaglia epica che si stava preparando.
Ma IO ero pronto.
In piedi col gladio in mano.
Non pensino mai di farmi paura.
Mai.
Sarò il più forte.

Sono d’altronde il più forte da sempre.
Senza il minimo dubbio.
Il loro astio non è che il riflesso,
la coscienza della loro imperfezione.
È soltanto invidia.
E rabbia.

***

E poi è cambiato qualcosa.
Una sera di novembre.
Loro si erano tenuti finora ad una certa distanza.
Non li udivo come non li vedevo.
Sapevo con certezza che mi stavano intorno
muta silente e tenace.
Sapevo che mi spiavano.

È dunque successo una sera di novembre
me lo ricordo perfettamente.
Una di quelle sere in cui il buio e l’ombra
senza preavviso
ti piombano addosso
quando già volteggiano nell’aria gelida
foglie rosse e ruggine prima di cadere
tappeto morbido che scricchiola sotto i passi.
Stavo proprio pensando
che non succedeva niente da un certo tempo
quando invece un po’ alla volta
ho cominciato a sentirli ronzare debolmente.
Percepivo il loro affannarsi
che somigliava al volo delle api intorno all’arnia.
Le api operaie indaffarate e solerte
intorno alla loro regina.
Regina o re non cambia.
Un fruscio costante e monotono
che dapprima mi diede un sottile fastidio.

Ma poi capii.
Si trattava del loro modo di comunicare con me
di rassicurarmi.
Erano segnali per ricordarmi
che non mi abbandonavano
che ero sempre al centro
dei loro pensieri
della loro attenzione
che il loro odio nei miei confronti
non era né sparito e nemmeno diminuito.
Che potevo contare sulla loro costante premura.
E così mi rasserenò.
Era quella la normalità.
Avevo finalmente capito.
Si trattava di un ingranaggio ben congegnato
di un complotto sapientemente ordito
finalizzato alla mia distruzione.

Dovevo reagire
lottare
impedire loro di mettere in opera i loro piani.
Piano piano mi sto
direi
abituando
quasi affezionando
a questo strano mondo
oscuro e brulicante intorno a me.
Mondo altroché affascinante e stimolante
se confrontato a quello banale e consueto
che tutti considerano ovvio
e di cui quasi tutti si accontentano.
Credo
anzi
che la diminuzione o la sparizione
della loro flebile litania
mi turberebbe non poco.
La loro presenza mi fa sentir vivo
combattivo pieno d’inventiva.
Devo ogni giorno programmare un giro di vite.
Per farli tacere.
Per smantellare la loro rete.
Conscio della loro presenza
come Loro della mia
conviviamo
sempre all’erta
sacerdoti ferventi delle nostre strane liturgie.

***

Ero convinto però
che sarebbero rimasti a distanza rispettosa
accontentandosi
in seguito ad un periodo di tranquillità
che mi fece temere di averli persi
di ringhiare
e di mostrare
in modo sempre più rumoroso
denti astratti
come cani arrabbiati intorno all’osso.

Dopo tanta prudenza accortezza discrezione
stavano invece modificando la loro tattica.
Dovevano manifestarsi
fare vedere al mondo
sordo cieco e incosciente
che esistevano
che bisognava prenderli in considerazione.
E mi facevano quasi pena
quei loro vani patetici tentativi
per intimidirmi
mettermi paura
costringermi a stare zitto
spingermi all’angolo del ring.
Ma era conoscermi male.

Provavo quasi compassione per quei loro sforzi.
Rimanere presenti sempre
sentinelle malvagie.
Non mollare mai
apparire vigili efficienti forti.
Più forti di me.
Però prudenti.
Non si sa mai.
Ancora non sentivo sulla mia faccia il loro alito fetido.
Forse trattenevano il respiro.
O la loro distanza da me non era ancora tale
da consentire loro di raggiungermi.
I miasmi delle loro calunnie s’infrangevano
contro la salda barriera della mia grandeur.

***

Sapevano che non li temevo.
Che li aspettavo
dritto fermo
deciso a non mollare
a respingere i loro attacchi.
Un soldato accerchiato
pronto a vendere cara la pelle.
Solo contro tutti
fiero e comunque sicuro di vincere.

Ma dico così per dire.
Perché la mia pelle
non la venderò comunque.
Mai.
Mi è troppo cara.
È d’altronde obbiettivamente troppo cara.
Infatti non ha prezzo.
Montagne d’oro sul piatto d’una bilancia
non basterebbero
a compensare il mio peso.
Poi intorno a me possiedo
le mie Amazzoni e i miei Gladiatori
fedeli e devoti
pronti a buttarsi nel fuoco per me.
Non sanno niente di Loro
né e delle mie battaglie contro di Loro.
E se per caso sanno
fanno finta di niente
ma rinserrano i ranghi
perché hanno sempre capito
che la mia sconfitta sarebbe anche la loro.

E io sto zitto.
Non devono sapere.
Nemmeno immaginare.
Questi sono fatti miei.
Fatti miei e basta.
Loro
muta non più silente
schierata intorno a me
li devo combattere
e sconfiggere
da solo
come San Giorgio fece con il Drago
Jason protetto dal Velo d’Oro
Ercole contro l’Idra.

Devo essere il Vincitore assoluto
di questo conflitto epocale
del quale si parlerà nei libri di storia
quando finalmente verrà fuori
alla luce del giorno
e quando tutti capiranno l’importanza
e l’ampiezza della posta in giuoco
del dramma che ho vissuto
del sacrificio che mi sono imposto
per il Bene di una comunità ingrata
neanche degna di me.

Sono IO
il Difensore della Verità,
della Giustizia,
dell’Onore.

Sono IO
il Difensore di Me Stesso.
Il simbolo vivente
di quelle Virtù.

***

Oggi mi hanno agguantato.
Il round finale si sta avvicinando.
Ero finalmente riuscito ad addormentarmi
cosa ormai rarissima
quando mi sono rizzato
con un soprasalto quasi mortale.
Uno di Loro
– come l’avranno scelto? –
aveva piantato i suoi artigli maledetti
nella mia carne viva
e mi aveva morso al collo.

Lo so.
Oggi si trattava di uno solo di Loro.
Ma prevedo che rapidamente
si avvicineranno gli altri
e che cercheranno di accerchiarmi.
Sarà la prova lampante della loro vigliaccheria.
Il branco si fa forte del suo numero.
Per questo so anche che non devo
mai più
stare in mezzo alle piazze
né al centro delle arene
ancora meno all’incrocio delle strade.
So che perfino i giardini e i parchi
le ville e i palazzi
le rive di mari e laghi
si riveleranno ben presto pericolosi.
Sento su di me milioni di dardi puntati
di lance alzate
di trappole aperte
di frecce avvelenate
lanciate nell’aria sospesa dall’attesa.

Le mie palpebre si fanno pesanti.
La bocca pastosa.
I membri stanchi.
Ma a questo punto devo stare vigile lo stesso.
Non è tempo di rilassamento.
Aspetto i Tartari. E so che sono vicini.

***

Le mie arme principali sono sempre state
la Parola
e il Giuoco
al quale li costringerò a sottostare.
Mostrerò loro il mio Schermo delle Meraviglie
la mia Scatola Magica
la mia Scacchiera di Fuoco.
Già li conoscono
ma questa volta
ne rimarranno affascinati fermi incantati
senza forze ancora più di prima.
Devo però aspettare che si avvicinino di più.
Ed è proprio questo
l’attimo pericoloso per me.
Devo capire e valutare
con una precisione diabolica
il secondo in cui potrebbero saltarmi addosso
ma durante il quale avrò insieme la capacità
di fermarli sull’orlo ultimo
di respingerli
e di farli precipitare nel burrone spalancato.

Bisbigli e sibili stanno diventando ululati
lamenti selvaggi e sconvolgenti.
Ne ho la testa piena.
Mi sembra a volte
che stia per scoppiare.
Ma devo resistere.
Fino in fondo.
Non è il momento di mollare.
Aver lottato fino a quel traguardo
per lasciarmi trafiggere
ora
sarebbe una sconfitta troppo clamorosa
troppo enorme perché la possa sopportare.

Mi aspettano ancora dei momenti dolorosi
non so quanto lunghi o intensi
ma devo potermi vedere allo specchio
Senza battere ciglia.
Guardarmi dritto negli occhi
e dirmi
“Sei stato il più bravo
il più coraggioso.
Il Più.”

E morire felice.
O forse no.
Chi può saperlo.

(2009)

edith dzieduszycka 1

edith dzieduszycka

D’origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa. Nel 1966 ottiene il Secondo Premio per una raccolta di poesie intitolata Ombres (Prix des Poètes de l’Est, organizzato dalla Società dei Poeti e Artisti di Francia con pubblicazione su una antologia ad esso dedicata). In quegli anni alcune sue poesie vengono pubblicate sulla rivista Art et Poésie diretta da Henry Meillant, mentre contemporaneamente disegna, dipinge e realizza collage. La prima mostra e lettura dei suoi testi vengono effettuate al Consiglio d’Europa durante una manifestazione del “Club des Arts” organizzato da lei e alcuni colleghi di quell’organizzazione.

Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate, poi Roma dove vive attualmente. Oltre alla scrittura, negli anni ’80 riprende la sua ricerca artistica, disegno, collage e fotografia (incoraggiata in quell’ultima attività da Mario Giacomelli e André Verdet), con mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Comincia a scrivere direttamente in italiano e partecipa a premi di poesia con inserimenti in numerose antologie.

Ha pubblicato: La Sicilia negli occhi, fotografia, Editori Riuniti, 2004, prefazione di Giampiero Mughini e Antonio Ducci.  Diario di un addio, poesia, Passigli Ed., 2007, prefazione di Vittorio Sermonti.  Tu capiresti, fotografia e poesia, Ed. Il Bisonte2007prefazione di Vittorio Sermonti, postfazione di Giovanni Paszkowski.  L’oltre andare, poesia, Manni Ed., 2008, prefazione di Ugo Ronfani.  Nella notte un treno, poesia bilingue, Ed. Il Salice, 2009, prefazione di Salvatore Malizia.  Nodi sul filo, racconti, Manni Ed. 2011.  Lo specchio, romanzo, Felici Ed., 2012.  Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013, presentazione di Massimo Giannotta.  Lingue e linguacce, poesia, Ginevra Bentivoglio Ed., 2013, prefazione di Alessandra Mattei, illustrazioni e nota di Paola Mazzetti,  A pennello, poesia, Ed. La Vita Felice, 2013, prefazione di Elisa Govi, postfazione di Mario Lunetta.  Cellule, poesia bilingue, Passigli Ed., 2014, prefazioni di Sandro Gallo e François Sauteron.  Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi Ed., 2014, prefazione di Sandro Gros-Pietro.  Incontri e scontri, poesia, Fermenti Ed., 2015, postfazione di Anton Pasterius. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016),  Trivella, poesia, 2 ballate, Genesi (2015); Come se niente fosse, poesia, Fermenti, 2016; La parola alle parole, poesia, Progetto-Cultura (2016); Intrecci, romanzo, Genesi (2016).  

Ha curato: Pagine sparse di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007, prefazioni di Pasquale Chessa, Umberto Giovine e Mario Pirani.  La maison des souffrances, Diario di prigionia di Geneviève de Hody, Ed. du Roure, 2011, prefazione di François-Georges Dreyfus; Le sol dérobé, Memorie di Marcel de Hody, Editions des Paraiges, (2015)

 

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15 risposte a “Edith Dzieduszycka, Squarci, Racconti poetici, Progetto Cultura, 2018 pp. 180 € 12 – Loro, con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa e il Video del poemetto Traversata, voce recitante Pino Censi

  1. Carlo Livia

    L’istanza soteriologica, palingenetica che sottende a questa conversione del pensiero in sogno scaturisce, come nel surrealismo, dal tentativo di purificare ed emancipare il pensiero inconscio dalle strutture linguistiche in cui, materializzandosi e formalizzandosi, si aliena, degrada, corrompe, dissacra, perdendo la relazione con la “Sorgente”, che, più che “Dire originario” (Heidegger) è sentire, desiderare, patire, sognare.

    Alla stimata Dzieduszycka.

    LA STAZIONE

    Ero nella grande stazione rosa, da dove le anime partono per l’eternità, in preda al terrore: statue viventi, furiose e terrificanti, cercavano di afferrarmi per uccidermi.
    Mi ero rifugiato in un ripostiglio, che era un luogo segreto del pensiero dove nessuno era mai stato prima; da una piccola apertura potevo scorgere l’ingresso: il cielo precipitava in grandi blocchi di pietra celeste, che cadendo si frantumavano mutandosi in una miriade di creature spirituali che emettevano un canto malinconico e struggente.
    Sapevo che tutti erano impazziti, ma senza saperlo; la follia si concretizzava in orribili maschere che si formavano sui volti delle persone che, in preda al furore, se le strappavano, ma subito ne ricrescevano altre, sempre diverse, ancora più mostruose.
    Poi, in fondo a tutto, come emergendo da un sipario, apparve la Verità: era una scritta o un pensiero, immenso e supremo, che subito si trasformò in una donna sconosciuta e ferita, che mi invocava: indicandomi una ferita all’altezza del cuore, da cui usciva un liquido luminoso; mi chiedeva piangendo di raggiungerla e guarirla.
    Ma non sapevo come fare, era in una lontananza inaccessibile, e poi non capivo perché chiamasse proprio me, fra tutte quelle anime, già pronte a perdersi nell’infinito.
    Allora il canto indistinto che sentivo aleggiare intorno formò un pensiero preciso: per colpa mia “l’Esilio era diventato Nulla”.

  2. caro Carlo Livia,
    Ritengo che il problema della nuova poesia e, in particolare, della nuova ontologia estetica o, come alcuni preferirebbero, la nuova fenomenologia estetica verte sul problema dell’inconscio…

    ecco un Ebook sulla poesia del Novecento fino alla nuova ontologia estetica creato dagli studenti della prof.ssa Rossana Levati:
    https://www.epubeditor.it/ebook/?static=112007

    Accludo anche questo link sul libro di Edith Dzieduszycka:

    https://lapresenzadierato.com/2018/06/03/edith-dzieduszycka-poesia-da-squarci-progetto-cultura-roma-2018-commento-di-donatella-costantina-giancaspero/#respond

  3. Si presenta come libro di un’amazzone, “Squarci” di Edith Dzieduszycka. In effetti, se pensiamo al “maschile” trattenuto nelle donne non dovrebbe stupire il fatto che, una volta liberato, potrà manifestarsi esplosivo, devastante, invincibile. Ma, scrive Edith, “Regina o re non cambia”. E io sono d’accordo.
    Pare a me che oggetto della ricerca, o dell’indagine, sia la virtù della FORZA. Così lo interpreto, come percorso psico terapeutico che si attua con la scrittura.
    Ci si aspetta quindi un libro contagioso, non perché solo emozionante ma perché in grado di generare trasformazione: presa di coscienza della propria forza trattenuta, seme di ribellione, con conseguenze positive per l’autostima, ma in generale sulla questione del POTERE ambivalente, sia positivo che negativo – positivo il fatto che si manifesti, ma positivo anche il “potere” se offre protezione, difesa, solidarietà. Il buon esito del processo psico analitico comprenderà un po’ tutti questi aspetti, e dovrebbe chiudersi in un cerchio.
    Un po’ mi ricorda la trasformazione di Musashi, il leggendario maestro di spada del romanzo di Eiji Yoshikawa.
    Auguro ogni bene a Edith, che il suo libro abbia successo; specie tra gli sconfitti, i troppo mansueti, gli accondiscendenti, i dimessi della storia.

  4. Premesso che non ho letto il libro, trovo che c’è frammento nella prosa di Edith, un frammento sonoro – Donatella Costantina Giancaspero, in una precedente nota introduttiva, faceva il nome della Rosselli – . Il riordino del testo in verso breve, senza togliere avverbi, mantiene intatta la prosa. Ma il problema dei generi qui non si pone in quanto mi sembra prevalente la frequenza del cambio immagine.
    Se dovessi scegliere uno strillo, sceglierei questo:

    Sento su di me milioni di dardi puntati
    di lance alzate
    di trappole aperte
    di frecce avvelenate
    lanciate nell’aria sospesa dall’attesa.

    E’ un frammento visivo, di straordinaria efficacia. Mi fa dimenticare la Rosselli. Non ci penso più, siamo nella nuova poesia.

  5. Una trista comunicazione: oggi si è spento il poeta e intellettuale Luciano Troisio. era un uomo curioso, un viaggiatore instancabile, un poeta ragguardevole.
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/06/05/25679/comment-page-1/#comment-35496
    Luciano Troisio, padovano, studi classici, ha insegnato nelle università di Padova, Pechino, Shanghai, Bratislava, Lubiana. Ha viaggiato molto specie nel Sudest Asiatico. È autore di varie pubblicazioni scientifiche e sperimentali.

    Riguardano la poesia: By logos, Lacaita, Manduria, 1979; Folia sine nomine, Seledizioni, Bologna, 1981; La trasparenza dello scriba, Vallardi, Padova, 1982;La poesia nel Veneto, Forum, Forlì, 1985; Ragioni e canoni del corpo, Asefi, Milano, 2001; Linee odierne della poesia italiana, Hebenon, Torino, 2001; Folia sine nomine secunda, Marsilio, Venezia, 2005.

    Inoltre ha pubblicato le raccolte poetiche: L’angelo alle spalle, Rebellato, Padova, 1960; Anamnesi in tre versioni, Rebellato, Padova, 1965; Precario, Lacaita, Manduria, 1980; Persistenza del cavallino, L’Arzanà, Alessandria, 1984;I giardini della maharani, Mercato saraceno, Treviso, 1986; Prove di diluizione, Edit, Fiume, 1999; Le poetesse cinesi, Ad Histmum, Padova, 2000; Three or four girls, Signum, Milano, 2002; Parnaso d’oriente, Marsilio, Venezia, 2004,Oriental Parnassus, translated by Luigi Bonaffini, Legas, New York, 2006;Strawberry–stop, pref. di Giorgio Linguaglossa, Faloppio, Lieto Colle, 2008;Papera Omnia, Panda, Padova, 2010; Locations, Impermanenza, Cleup, Padova, 2012.

  6. Un Appunto di Giorgio Linguaglossa

    La poesia di Edith Dzieduszycka si muove anch’essa all’interno di quella gigantesca problematica che nel novecento è stata denominata «esistenzialismo», con il che deve intendersi il problema del senso dell’essere dell’Esserci, ovvero, della «situazione emotiva fondamentale dell’angoscia come apertura caratteristica dell’esserci».1] Ecco alcune frasi paradigmatiche della Dzieduszycka:

    «Le previsioni del tempo sono buone»

    «Gli sguardi, i gesti, i silenzi non mentono e non ingannano»

    «Due settimane fa, esattamente»

    Ecco gli incipit delle tre poesie che introducono direttamente all’interno di «una» temporalità indicandone i limiti del calendario e, ironicamente, le caratteristiche climatiche della stagione; ma c’è anche un accenno ai tratti sopra segmentali del linguaggio umano: «Gli sguardi, i gesti, i silenzi» i quali, al contrario delle parole, «non ingannano». Ecco delineata la cornice temporale dell’esistenza umana, tra rammemorazioni, amnesie, rimozioni, denegazioni, abreazioni e informazioni, e poi «il vizio dei pensieri nascosti, perfino a se stessi». Anche qui ci sono degli elementi del quotidiano insignificante, banale, da rottamare, anzi, già rottamato, che entra nella sua poesia con il suo statuto di rottame, di frammento: «L’olio era finito. Pure lo zucchero e il caffè», insieme ad elementi delle intenzioni e delle preterintenzioni: «Devo andare alla banca per la domiciliazione delle bollette». Il parlato è fuso insieme al pensato e al quasi pensato; pensieri quasi inconsci friggono e collidono a contatto con i pensieri dell’io e con le istanze perentorie del super-io che irroga sentenze e sensi di colpa.

    Nella poesia della Dzieduszycka si assiste al dramma eroicomico e serissimo della rappresentazione dell’angoscia come su un palcoscenico; le sue poesie sono sempre teatralizzate, teatralizzazioni dell’inconscio e delle sue peripezie: il problema principe è la indistinzione della «verità» dalla ciarla e la impossibilità di darsi un orizzonte di autenticità. Una oscurità profondissima impedisce di discernere il vero dal falso, il subdolo dalla mistificazione, perché c’è qualcosa nel fondo limaccioso dell’inconscio che ci svia continuamente, qualcosa di inconoscibile che sovrasta l’io:

    «I nostri demoni sono più forti, riprendono il sopravvento».

    1] Martin Heidegger Sein un Zeit, Verlag, 1927. Essere e tempo, trad. it. a cura di Pietro Chiodi Milano, Longanesi, 1976 p. 231

  7. gino rago

    Non ho ancora avuto l’occasione di leggere Squarci di Edith Dzieduszycka
    ma lo stesso prendo parte al vivo dibattito in corso pubblicando per Edith, e per i tanti, e tutti competenti, frequentatori della nostra Rivista Letteratura Internazionale, l’Elegia da T. Rozewicz dedicata a Czeslaw Milosz, nella magnifica traduzione di Giovanna Tomassucci [della Università di Pisa]

    Elegia. In memoria di Cz. M.

    all’ultimo minuto!
    mi chiedo
    la scriverai tu mai un’ Elegia
    sul pane e il vino?
    ah cavarmela con una rima
    ribattere “In cielo e così sia!”
    invece per vergogna
    fin sotto terra piombo giù e rovino
    come talpa ora io meno la vita
    né più rammento
    cosa sia il canto
    il vino e anche la donna
    le nere montagnole
    sui prati verdi
    miei monumenti
    nostalgici di sole
    sono i soli ricordi
    di un’opera infinita
    e di noi che sarà?
    e le nostre dispute
    amiche?
    sei morto tu non puoi più domandare
    che ne è di me … io certo getterò le antiche
    forme vesti
    e non Orfeo sarò
    ma pala per scavare.

    [Traduzione dal polacco di Giovanna Tomassucci]

    GR

  8. Grazie a voi, Carlo Livia, Lucio e Gino, per i vostri commenti e le vostre dediche, e grazie particolarmente a Giorgio che mi ha dato fiducia in me stessa e voglia di proseguire sulla via difficile della poesia, stretta tra rovi e spine!

  9. Rossana Levati

    Mi scuso per non riuscire a svolgere, per scarsità di tempo dovuto agli impegni scolastici, un intervento più articolato; a me la lettura, su cui vorrei tornare con più calma, dei brani tratti dai racconti poetici di Edith Dzieduszycka ha fatto pensare a una descrizione artistica del processo mitopoetico dell’autrice: ho pensato proprio ai “Sei personaggi” di Pirandello e al suo racconto “La tragedia di un personaggio”.
    Quelle ombre o ectoplasmi che assediano impazienti lo scrittore, che bussano alla porta “voraci” e consapevoli della percezione che l’io narrante ha di loro , quella battaglia incessante dell’io contro “loro” mentre è in gioco la sconfitta dell’una o dell’altra parte, “entità sconosciute” che attendono di uscire dal guscio e che premono per avere vita, tra il pozzo dell’inconscio e il desiderio disperato di imporre alla coscienza la propria proiezione fino a raggiungere una consistenza, anche provvisoria, una breve identità, tutto mi ha riportato all’impianto di un dramma pirandelliano, riversato tuttavia in una forma poetica suggestiva e compatta, molto più densa della forma drammaturgica e priva dei cerebralismi o dell’artificiosità di certe costruzioni pirandelliane.
    Una lotta che esprime e porta a galla il processo creativo della mente artistica, tra chi o cosa vuole raggiungere la vita dell’opera d’arte e la voce narrante/la coscienza dell’autrice che può dare o togliere vita a ciò che preme al suo interno, a seconda che lo nomini e lo esprima oppure no.

    • “Una lotta che esprime e porta a galla il processo creativo della mente artistica, tra chi o cosa vuole raggiungere la vita dell’opera d’arte e la voce narrante/la coscienza dell’autrice che può dare o togliere vita a ciò che preme al suo interno, a seconda che lo nomini e lo esprima oppure no.”
      Non si poteva commentare meglio il processo di gestazione, o germinazione che accompagna la fuoruscita di qualcosa che sta dentro di sè e non si sa bene che cos’è… Grazie Rossana.
      Riprendo una poesia pubblicata nell’ “La parola alle parole”, su questo tema:
      Magma che trepida
      si agita e scalpita
      in fondo ai meandri
      di antri sotteranei

      magma che senza requie
      né tregua si dilata
      scava
      e dilaga

      magma che straripa
      trabocca
      ben presto ti sommerge
      colma ogni anfratto

      magma che ti invade
      ti divora
      piano piano sparisci
      Ha preso il tuo posto.

      Ora che ci siamo conosciuti all’Aleph, caro Carlo Livia (grazie per essere venuto e per il tuo bel intervento), sono ripassata nella “Stazione” da dove partono le anime e mi sono fatta piccola e complice tra di loro.

  10. Ho questo rimando.
    Grazie Ombra

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