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Per il 93mo compleanno di Alfredo de Palchi (13 dicembre 1926), Eventi terminali, Mimesis Hebenon, Milano, 2019 pp. 90 € 10 a cura di Giuseppe Talìa

alfredo de Palchi_1

Alfredo de Palchi

Giuseppe Talìa

Alfredo de Palchi e l’Invettiva del secondo Novecento

È sempre esistita, in Italia una grande stagione dell’Invettiva ininterrottamente divisa in due strade maestre e parallele, la prima è quella che fa capo alla linea di denuncia civile, profetica e sferzante che trova origine in Orazio, Giovenale e Dante, la seconda quella goliardica, iperbolica  e comico-realistica, alla maniera di un Cecco Angiolieri, per esempio.

Allo stesso modo, nella seconda metà del Novecento le due strade parallele dell’invettiva sono state percorse indistintamente da autori fortemente diversi per caratura e visione della letteratura, come appunto lo sono Pasolini e Sanguineti. In entrambi i casi le due vie maestre spesso incrociano ai crocicchi diverse forme di vituperium, come in Montale (più nessuno è incolpevole), fino ad arrivare a quello che recentemente è stato considerato come l’ossimoro dell’invettiva stessa, ossia la “rencontre lésionnelle”, dove l’oggetto diretto della invettiva incontra il pubblico che legge, il quale viene “colpito” tramite l’incontro choc nella lettura. Scrive a proposito Marie-Hélène Larochelle: «La violence verbale est en effet postulée comme une rencontre, lésionnelle s’entend, dans la mesure où l’échange comporte en soi un paradoxe puisqu’il repose à la fois sur le désir d’établir une communication et sur son refus»1

Nel quadro appena esposto, la poesia di Alfredo de Palchi si situa in una zona contigua e adiacente rispetto alle due vie maestre sopra riportate, seppure le forme retorico-poetiche che l’autore predilige siano da riportare alla linea profetica e sferzante in cui l’io poetico e l’io narrante trovano una definitiva collocazione a partire dal primo libro di poesia di de Palchi, la Buia Danza di Scorpione, pubblicato postumo rispetto al più conosciuto Sessioni con l’Analista (opera d’esordio del 1967), una esperienza psicoanalitica e sociologica che media e approfondisce il risarcimento narcisistico dell’io, dopo l’esperienza traumatica della prigione e dell’accusa di omicidio avvenuto nel dicembre 1944 di un partigiano veronese, Aurelio Veronese, detto “il biondino”, accusa che venne poi sciolta e che permise a de Palchi di riconquistare la libertà:

Solo in epoche malandrine
Leggi malandrine leggi

[…]

libertà dura uomo duro mattoni duri

[…]2

È da quella esperienza traumatica che prenderà corpo la poesia di de Palchi, non solo come riscatto per una ingiustizia subita, per la reclusione ingiusta di un giovane condannato a pagare per una colpa non commessa:

Il pezzo di pane mi nutre
In una putredine di patria
E traffico di truffatori
-il pane
sa di petrolio
lo mastico con bucce di limone
raccolte nelle immondizie3

giorgio linguaglossa alfredo de palchi 2011

alfredo de palchi, giorgio linguaglossa, Roma, 2011

È lo stesso autore in una lettera inviata Giorgio Linguaglossa il 15 dicembre 2014, e pubblicata sulla Rivista Internazionale L’Ombra delle Parole a definire il tracciato entro cui è nata e ha preso corpo la sua poesia anticipatrice rispetto alle poetiche che si svilupparono in Italia alla fine degli anni cinquanta del Novecento, in particolare  con l’avvento dei Novissimi:

«Le varietà poetiche, pseudo avanguardiste, del secondo Novecento, neanche le classificai nel mio mondo personale. Le avanguardiette le precedetti nel 1948 con Il poemetto Un ricordo del 1945, e pubblicato da Vittorio Sereni nel 1961 nel primo numero della nuova rivista “Questo e altro”; precedette di almeno dieci–quindici anni “I Novissimi” e le avanguardiette seguenti. Quel mondo finse di non averlo letto, e confermò il mio l’amico Leonardo Sinisgalli a New York durante le nostre camminate quotidiane per oltre un mese. Il poemetto menzionato, in uno stile psicologico nuovo per me, finì nel silenzio per non dare voce allo sconosciuto scrittore. Vivevo fuori d’Italia. Non avevo possibilità di farmi sentire, in più mi rifiutavo di chiedere qualcosa a qualcuno. Però ora dico che le menate dei “Novissimi”, avanguardiette, e cosiddette teorie o ricerche poetiche che descrivi, entrarono in un orecchio per uscire dall’altro.»4

Questo mondo non è altro che un abuso, scriveva François Villon. E de Palchi sceglie questo epigramma come calco per sugellare l’invettiva morale che sempre di più caratterizzerà l’opera poetica di de Palchi.

Nei successivi libri i nomi e i cognomi degli attori della storia travagliata verranno resi noti con sempre più corrosiva denuncia:

[…]

mentre ti senti potente con il rasoio
alla mia gola
Guerrino Manzani

Non è così che accade
sei troppo tonto e bugiardo nel tuo fagotto di stracci

[…] 5

Scrive a proposito l’autore in una nota a “Le déluge” contenuta in Paradigm:

La voce di questa breve silloge, dà concretezza all’aldilà (se l’aldilà, con il suo inferno, esiste) e senza timori prorompe in accuse definitive verso il mio paese di nascita, i suoi piccoli uomini grondanti malvagità, e le vicende grandi e piccole che hanno fatto la mia storia.

Dopo oltre sessant’anni di angherie e di ingiustizie politico-legali e politico letterarie, il rigurgito mi è venuto spontaneo […] 6

Giorgio Linguaglossa, nella monografia critica, La Poesia di Alfredo de Palchi (l’anello mancante del secondo Novecento) Progetto Cultura, Roma, 2017, scrive:

«il suo linguaggio è materico, nervoso, muscolare, manifesta una spiccata revulsione per i linguaggi edulcorati del post-ermetismo. Il suo lessicalismo è violentato e scheggiato, vive in un universo simbolico e iconico che proviene da quella antica fissazione dell’io […] L’Io nella poesia di de Palchi svolge un ruolo assolutamente centrale, ma è anche scentrato, espleta una funzione di riparo psicologico, va in contro tendenza rispetto alla visione che dell’io ha lo sperimentalismo italiano». 7

alfredo de palchi italy 1953

alfredo de palchi in Italia, 1953

Queste affermazioni del critico aprono spiragli diversi rispetto allo “sperimentalismo” di Pasolini, imperniato sull’impegno sociale e politico, rispetto alla vicende depalchiana che negli anni ha sempre tenuto una propria e personale  visione, immutata nel tempo. In de Palchi non c’è traccia, per esempio del poeta drop out, non vi è nessuna recriminazione riguardo ad una sentita lateralizzazione, quanto piuttosto una diretta via di continuazione di un discorso poetico originario e originale che nel trascorrere del tempo non risparmia mai l’invettiva ad personam, non dimidia il filone rivendicativo, ma rivolge lo sguardo verso l’«antropoide», una creatura mitica che nell’aspetto presenta i caratteri somatici dell’uomo, ma che palesa istinti primitivi, crudeli, aggressivi, distruttivi.

Il libro  Nihil, edito da Stampa 2016, a cura di Maurizio Cucchi, per esempio,  rappresenta uno spartiacque. La prima sezione, dal titolo “Ombre” 1998, inaugura l’innesto di prosa e poesia, dove la prosa è propedeutica alla riedizione di poesie degli anni precedenti:

[…]

poesie che informano sulla mia ingenua insolente perbene scomoda scontrosa e timida fanciullezza e adolescenza ; nient’altro, oppure  – perché sono ancora quale mi descrivo ma senza più timidezza – un accenno sparso dove capita per portarvi sulla insincerità dei compagni che tradirono la mia e la loro fanciullezza e adolescenza […] 8

In questa prima sezione siamo nell’ambito della risoluzione e lettura in chiave esplicativa di quello che Giorgio Linguaglossa indica come individualità biologica e singolarità esperienziale.

Nella seconda sezione del libro Nihil, dal titolo “Ombre 2008”, si ricondensa la forma poesia, e riappaiono alcuni temi centrali del precedente libro Foemina Tellus (2005-2009), quest’ultimo tutto incentrato sulla tematica erotica, in cui non mancano gli stilemi propri di un Marziale o di un Catullo: “Ti scrivo con mente pornografica/e corpo pornografico”.9

Dimentichi
che potrei espandere il vortice
dentro l’oceano del tuo corpo smaccato
mosso
tracotante di sbalzi improvvisi
delle verdi vallate che scrosciano
rotolando cupe di acqua
cupa incessante
che ti schiuma la concimaia sterile. 10

Significativa, a pagina 42 del libro Nihil, l’invettiva contro la “folla indegna del bel tempo” in una serie di scatti del parco di Union Square dove il poeta sdegna l’inciviltà dei cittadini che occupano il parco mentre ringrazia “con un cenno di mano” le statue di Lincoln, a nord Washington, a sud, Lafayette, a est, posizionate ai tre angoli del parco, lui, Alfredo, centrale rispetto ai tre grandi Padri degli Stati Uniti d’America, ognuno con un compito ben preciso nel teatro di un quotidiano pomeriggio autunnale: impedire l’accesso nel parco alla marmaglia. A ovest, invece, la statua della Madonna con il Bambino in braccio pare comunichi al poeta una predizione, “preparati per la scalata”; e il poeta a sua volta risponde, “per annunciare il mio discorso dalla montagna.” Ecco, in questo testo è contenuta magistralmente l’intera poetica di de Palchi, la sua totale refrattarietà ad un mondo che l’ha offeso e che continua ancora ad offenderlo; la postura dell’io di de Palchi occupa uno spazio centrale rispetto alla visione del simbolismo, del classicismo lirico moderno, come pure dell’antilirismo di Sanguineti, che come abbiamo visto lo anticipa con il pometto Un ricordo del 1945,  o rispetto alle maschere di Raboni; ecco, Alfredo de Palchi si distingue non solo narratologicamente rispetto al quadro letterario di fine anni cinquanta, in quanto non ha subito i modelli precedenti quali, l’ermetismo, il crepuscolarismo, l’elegia  tout court, bensì situandosi fin dall’esordio in una zona franca dove l’esperienza empirica dell’autore ha un valore di portata generale.

alfredo de palchi legge

alfredo de palchi

Vale la pena riportare interamente il testo poetico di pagina 42 del libro Nihil perché il tema della morte che attraversa l’intera silloge frammentata da ricordi,  dove versi e prosa si alternano in modo vorticoso, ci riporta un de Palchi tenacemente resistente anche con colei la quale nulla può nulla:

Ottobre di pomeriggio freddo di pioggia
Di foglie che spiccano voli
Da raffiche di vento sotto alberi
Che passano accanto tra panche deserte…
In simili giorni abito il parco di Union Square dove

La folla indegna del bel tempo
Mangia beve vomita e abbandona all’erba e piante
Cartocci plastica giornali sputi
Da disgustare i piccioni … e canestri vuoti di rifiuti

A nord su piedistallo Lincoln
È il turista slavato che porge
Grani a uccelli invisibili –
Lo ringrazio con un cenno di mano

A sud Washington a cavallo rifiuta l’entrata
Alla marmaglia nello sguazzo
Strappando le ombrelle –
Lo ringrazio con un cenno di mano 

A est il desolato Lafayette mano destra sul cuore
Con la sinistra indica al suolo la saving bank
Di fronte in greek revival fallita –
Lo ringrazio con un cenno di mano 

A ovest Miriam con Jesus in braccio gorgoglia
Dallo spicchio d’acqua
“preparati per la scalata”…
io che capisco se mi interessa di capire mormoro
“su per il tuo fianco a voragine
per annunciare il mio discorso dalla montagna”. 

Il recente libro di poesie di Alfredo de Palchi, Eventi Terminali, pubblicato da Mimesis Hebenon, 2019, con introduzione di John Taylor è una silloge incisa con la tecnica dell’acquaforte, mordente, nello stile di Albrecht Dürer, diremmo. La scelta della prosa poetica, l’uso delle sigle per indicare gli attori della storia (SQ=Salvatore Quasimodo), nella prima sezione dal titolo: Bellezza versus Bruttezza, Monologo di Eugenio Montale, in cui il transfert consapevole passa da una relazione significante, nel qual caso la conoscenza diretta e frequentazione di Alfredo e di Eugenio, ad una proiezione e conseguente sostituzione,  “lesionelle”, volta a colpire l’oggetto stesso dell’invettiva. In questo caso il termine invettiva trova un punto di riferimento anche nel titolo stesso della sezione, Bellezza versus Bruttezza, Amor sacro versus Amor profano, nella metonimia relazionale tra i due termini del contendere e tra i due attori che ne disputano. Essendo Montale non più vivo, Alfredo de Palchi si sostituisce al poeta degli Ossi di Seppia attraverso l’escamotage dell’immedesimazione: 

… “da quell’avrei voluto sono Eugenio il sosia che non manca a nessun se stessoma       dei due chi si finge poeta…11 

giorgio-linguaglossa-alfredo-de_palchi-serata-2011

Alfredo de Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Tutti i poeti del Novecento, a partire dalla data di pubblicazione di Ossi di Seppia del 1925, hanno dovuto fare i conti, prima o poi, con Eugenio Montale: si pensi, ad esempio, alla poesia sardonica di Mario Luzi “Versi scritti per tenere allegro Montale”,12 oppure il saggio nel quale Sanguineti individua in Montale una sorta di “Inettitudine metafisica [che]… sfocia in una Metafisica dell’Inesistenza.”13  De Palchi non si sottrae alla resa dei conti con il premio Nobel scegliendo una struttura complessa al suo Monologo di Eugenio Montale, basando i testi poetici in prosa sul poeta de Palchi, sul poeta de Palchi che presta la sua voce a Montale, su de Palchi il quarantenne che conosceva Montale, e quindi su Montale l’uomo, il poeta e il poeta nel vestito di Eusebio (John Taylor, Prefazione a Eventi Terminali, 2019).

Echi danteschi si rincorrono nella prosodia di questa prima sezione, in una unità linguistica che da sempre ha sostenuto l’impalcatura poematica di de Palchi. E’ noto il suo pensiero critico circa la poesia italiana imperniata nella bella calligrafia petrarchesca, quando, invece, tutta l’opera depalchiana riconosce in Dante il maestro. Si presti attenzione a tal proposito ai seguenti passi:

benché inganni, bellezza ammira se stessa quanto bruttezza non ingannando ammira…

e ancora,

…nel cuore infernale di nero di seppia è Beatrice che mi folgora di eusebiane “Occasioni”…

… e a imitazione dell’adolescente Dante dietro la chiesa appena fuori casa, io ho goduto di ordinarie erezioni […]

L’invettiva non risparmia nemmeno MLS, alias Maria Luisa Spaziani, che viene ricordata per la grande falcata e per l’ostentazione di “insipidi versi” quando il poeta, sempre con mente pornografica, stravede “invano per quella verticalmente slabbrata…” 14

Alla fine AdP fuoriesce dal corpus di Eusebio, come se il transfert dei ricordi necessariamente si interrompe dopo aver visitato i luoghi più cari e riconoscendo la statuità di almeno tre libri di Montale: Ossi di Seppia, La Bufera, Le Occasioni, di certo preferendo quest’ultimo al contemporaneo SQ, alias Salvatore Quasimodo “vanitoso dei suoi baffetti e dei telegrammi Nobel ancora in tasca?

Di certo Alfredo de Palchi non è uno scaramantico, tutt’altro, il numero 13 gli ha sempre portato fortuna nella sfortuna e le ricorrenze del numero 13 hanno inciso nella sua vita momenti di grande sconforto con momenti di liberazione e di riscatto, come il 13 dicembre del 1947 nel carcere di Poggioreale dove con un mozzicone di matita ha iniziato a graffiare i muri di poesia dando vita al de Palchi Poeta.

Che dire di me, malefico metafisico?… nato di venerdì 13 non reggo il destino                     sulla scaramanzia… non cerco ferro o legno da toccare con nocche a pugno per                         scongiuro… che l’evoluzione s’interrompa accomodando accidentalità e                                  colmando l’inefficienza del nulla? … non è il venerdì 13 o il semplice numero la                 sfortuna ma la disarmonia sgradevole dell’ignoranza… 15

L’ambiente “filosofico e dietetico” secondo la dizione di John Taylor, si complica nella linea comico-realistica dell’ultima sezione del libro, dove un Alfredo de Palchi, da leone che era si trasforma sarcasticamente in un Porco de Porci, non solo per via di quella valvola suina che gli fu impiantata, ma come “occasione” per rivedere ancora una volta in chiave catilinaria la storia stessa dell’antropoide che si ciba di cadaveri:

a me Porco de Porci disgusta essere forzato ad ingoiare lordura e vivere nella lordura    come i bifolchi che si credono migliori di me…16

Il finale del libro è apodittico e apocalittico allo stesso tempo, così come lo stesso titolo, Eventi Terminali, suggerisce e con il supporto della bella immagine di copertina dell’opera di Sebastian Stoskopff, Still-Life of Glasses in a Basket, 1644.

Buon compleanno, Alfredo.

(Firenze, 8 dicembre 2019)

  1. M.H. Larochelle, Présentation a Esthétiques de l’invective, in «Études littéraires», 39, 2, 2008, pp. 7-11, p. 9)
  2. Alfredo de Palchi, Sessioni con l’Analista, Mondadori 1967
  3. Alfredo de Palchi, La Buia danza di scorpione (1947-1950)
  4. https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/03/07/poesie-di-alfredo-de-palchi-da-sessione-con-lanalista-1948-1966-e-da-paradigm-chelsea-editions-2013-con-uno-scritto-di-luigi-fontanella-un-dialogo-tra-alfredo-de-palchi-e-giorgio-linguagl/
  5. Alfredo de Palchi, Paradigm, New and Selected Poems 1947-2009, Chelsea Editions, NY 2013 pag. 514
  6. ibidem, pag. 946
  7. Giorgio Linguaglossa, La Poesia di Alfredo de Palchi, Edizioni Progetto Cultura, Roma 2017
  8. Alfredo de Palchi, Nihil, Stampa 2016  ibidem, pag. 36
  1. Alfredo de Palchi, Paradigm, New and Selected Poems 1947-2009, Chelsea Editions, NY 2013 pag. 380
  2. Alfredo de Palchi, Eventi Terminali , Mimesis Hebenon 2019, pag. 13
  3. Mario Luzi, Tutte le Poesie, Garzanti 1991, pag. 714
  4. SANGUINETI, E. Montale e la mitologia dell’“inetto” (1989) In: _____. Il chierico organico. Milano: Feltrinelli, 2000, pag. 239
  5. Ibidem, Eventi Terminali, pag. 25
  6. Ibidem, pag. 40
  7. Ibidem, pag. 50

Giorgio Linguaglossa

Brodskij ha scritto: «dal modo con cui mette un aggettivo si possono capire molte cose intorno all’autore»; ma è vero anche il contrario, potrei parafrasare così: «dal modo con cui mette un sostantivo si possono capire molte cose intorno all’autore». Alfredo De Palchi ha un suo modo di porre in scacco il discorso poetico maggioritario: lo ignora totalmente; applica gli aggettivi e i sostantivi o al termine del verso, in espulsione, in esilio, o in mezzo al verso, in stato di costrizione e coscrizione, subito seguiti dal loro complemento grammaticale. Che la poesia di De Palchi sia pre-sintattica, credo non ci sia ombra di dubbio: è pre-sintattica in quanto pre-grammaticale, in quanto pre-storica. C’è in lui un bisogno assiduo di cauterizzare il tessuto significazionista del discorso poetico introducendo, appunto, delle ustioni, delle ulcerazioni semantiche, e ciò per ordire un agguato perenne alla perenne perdita dello status significante delle parole. Ragione per cui la sua poesia è pre-sperimentale nella misura in cui è pre-storica. Ecco perché la poesia di De Palchi è sia pre che post-sperimentale, nel senso che si sottrae alla storica biforcazione cui invece supinamente si è accodata gran parte della poesia italiana del secondo Novecento. Ed è estranea anche alla topicalità del minimalismo europeo, c’è in lui il bisogno incontenibile di sottrarsi al discorso poetico maggioritario e di sottrarlo ai luoghi, alla loro riconoscibilità (forse c’è qui la traccia dell’auto esilio cui si è sottoposto il poeta in età giovanile dopo aver subito sei anni di carcerazione preventiva in attesa di un processo dal quale sarà prosciolto dall’accusa infamante di omicidio). Nella sua poesia non c’è mai un «luogo», semmai ci possono essere «scorci», veloci e rabbiosi su un panorama di detriti di un «luogo». Non è un poeta raziocinante De Palchi, vuole ghermire, strappare il velo di Maja, spezzare il vaso di Pandora.

Così la sua poesia procede a zig zag, a salti e a strappi, a scuciture, a fotogrammi psichici smagliati e smaglianti, sfalsati, sfasati, saltando spesso la copula, passando da omissioni a strappi, da soppressioni ad interdizioni.

*

Potessi rivivere l’esperienza
dell’inferno terrestre entro
la fisicità della “materia oscura” che frana
in un buco di vuoto
per ritrovarsi “energia oscura” in un altro
universo di un altro vuoto
dove
la sequenza della vita ripeterebbe
le piccolezze umane
gli errori subordinati agli orrori
le bellezze alle brutture
da uno spazio dopo spazio
incolume e trasparente da osservarla io solo
rivivere senza sonni le audacie
e le storpiature
persino le finestre divelte
i mobili il violino il baule
dei miei segreti
tutti gli oggetti asportati da figuri plebei
miseri femori.

(21 giugno 2009, da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

*

Le domeniche tristi a Porto di Legnago
da leccare un gelato
o da suicidio
in chiusura totale
soltanto un paio di leoni con le ali
incastrati nella muraglia che sale al ponte
sull’Adige maestoso o subdolo di piene
con la pioggia di stagione sulle tegole
di “Via dietro mura” che da dietro la chiesa
e il muro di cinta nella memoria
si approssima ai fossi
al calpestio tombale di zoccoli e capre
nessuna musica da quel luogo
soltanto il tonfo sordo della campana a morto.

(22 giugno 2009, da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

*

Pretendi di essere il falco
che sale in volo
sussurrando storielle infertili
e vertiginosamente precipiti sulla preda
che corre alla tana del campo
mentre ti senti potente con il rasoio
alla mia gola
Guerrino Manzani

non è così che accade
sei troppo tonto e bugiardo nel tuo fagotto di stracci
a brandelli dalla tua preda
io
che ti gioca le infinite porte del cielo
ti eutanasia nella vanità
di barbiere da sottosuolo dove
a bocca colma della tua schiuma
ti strozzi finalmente sgraziato

non puoi vedere lo spirito malvagio che sai di possedere
gli specchi del vuoto fanno finzione
volando a pipistrello sei dannato
a rasoiarti la gola
a cercare il tuo nulla dentro il nulla

(27 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

*

Che tu sia sotto
in mucillagine di vermi
o sopra
a vorticare nel vuoto
rimani il bifolco delle due versioni
nell’oscurità totale

finalità troppo benigna per te
Nerone Cella seviziatore
rapinatore violentatore

le visioni di troppa madre di cristo
nella tua cella
non ti salvano con i tuoi compagni di tortura
subito spersi nell’Adige
il mio augurio di qualsiasi morte a voi
che vi dànno tra la terra e il primo spazio
mentre mi cinghiate mi bruciate le ascelle
mi spellate

la tua vergogna è alla luce dove
ti conto l’eternità di tempeste drammi nuvole
dove qui sta l’inferno
e tu flagellato alla gogna
designato a seviziare rapinare
e violentare carnalmente i tuoi compagni
di tortura e di malaffare.

(28 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013 )

*

Di poca intelligenza per la commedia dell’arte
Fabrizio Rinaldi
sei la maschera che sa di sapere
solo per sentito dire da chi
ha sentito dire

e scrivi sul giornale dei piccoli L’Arena
le lettere di presunti crimini
avvenuti prima della tua nascita geniale
tra bovari con mani di sputi
nella Legnago
riserva d’ignoranza e bassure

da pagliaccio di paese
ti arroghi di soffiare menzogne
ed io rispondo che ho sentito dire
da chi ha sentito dire che sei
culatina finocchio frocio orecchione pederasta pedofilo
e non ti diffondo sul giornale
ma in questo lascito

per te i beni augurabili da San Vito
sono i cancelli aperti alla notte
per cercare sulle strade deserte
e tra gli alberi della “pista”
l’invano.

(29 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

*

E voi bifolchi
eroici del ritorno
sul barcone dell’Adige
mostratevi sleali
e vili quali siete
con il numero ai polsi di soldati
prigionieri
non di civili dai campi di sterminio

siete sleali per tradimento
vili per la fuga verso
battaglie di mulini a vento
spacciandovi liberatori al culo dei vittoriosi
che vi scorreggiano in faccia

ora non scapate
da San Vito dov’è obbligo
narrarvi le stesse menzogne
tra compagni
rifare gli eccidi dei Pertini e dei Longo
criminali comuni all’infinito
e finalmente
spiegare la verità dei ponti antichi
lasciati saltare nell’Adige di Verona

forse anche i defunti avrebbero orecchie.

(30 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

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Per il 91mo compleanno di Alfredo de Palchi – Omaggio della redazione – Gli oggetti e le cose nella poesia di Alfredo de Palchi con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – Otto poesie da Foemina tellus, del 2010 

 

Alfredo de Palchi, Gerard Malanga e Rita

Alfredo de Palchi con Gerard Malaga, 2017, New York

Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York. Ha diretto la rivista Chelsea (chiusa nel 2007) e tuttora dirige la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto, e tuttora svolge, un’intensa attività editoriale. Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; II edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus Novi Ligure (AL): Edizioni Joker, 2010. Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a far tradurre e pubblicare in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane. Nel 2016 pubblica Nihil (Milano, Stampa9) e nel 2017 Estetica dell’equilibrio (Mimesis Hebenon).

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Alfredo de Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Gli oggetti fantasmati e le cose internalizzate nella poesia di Alfredo de Palchi

  Ieri ho scritto:

«Gentile Inchierchia, Le rispondo con una poesia di un maestro in ombra della poesia italiana: Alfredo de Palchi (1926) tratta da Foemina tellus, Ed Joker, 2010 p. 30

per il mio compleanno di errori

Martedì 10 dicembre 1926
l’anagrafe è un deposito di ceneri
dove venerdì 13
per la seconda volta
io, carta da bollo o da gioco,
urlo al mondo la truffa
fino alla fine della finalità

là che aspetta di segregarmi
al reticolato di denti sgretolati

(13 dicembre 2006)

 L’ho copiata perché, caro Inchierchia, questa è una poesia davvero sgraziata, disgraziata, cacofonica, smodata, smoderata, urticante, rabbiosa, cocciuta, irriducibile e riottosa alle mode della bella scrittura e della scrittura bene educata che purtroppo si fa da molto tempo in Italia. Questa per me è poesia».

   Si dice spesso che l’evento principiale è il silenzio, ma si tratta di un errore, in verità noi non percepiamo mai il silenzio, semmai percepiamo il linguaggio delle «cose», il linguaggio del fantasma delle «cose» e dei «luoghi», il rumore delle «cose», il rumore delle «parole». Ma il silenzio è cosa diversa dal rumore (inteso come ciò che precede il linguaggio) ed è privo di significazione. Il voler fare silenzio è una forzatura, un atto di bellico misticismo, è una imprecisione terminologica. A rigore, l’uomo non potrebbe sopravvivere nel silenzio, il silenzio lo dissolverebbe. Il silenzio (da non confondere con il vuoto), ovvero, l’assenza di suoni, non esiste. In realtà, le cose parlano e ci parlano, parlano sempre, e non possono che parlare in continuazione. Occorre essere addestrati ad ascoltarle. L’uomo parla in continuazione anche quando si trova nella più aspra delle solitudini. Così, il vento ci parla quando passa attraverso le foglie di un bosco, quando incontra degli ostacoli; la pioggia ci parla quando trascorre attraverso l’atmosfera e incontra degli oggetti, e così via… il mare «fragoroso» ci parla attraverso il suo incontro scontro con la terraferma e gli scogli… è l’incontro con le cose, con gli ostacoli, che fa parlare le «cose», senza incontro scontro non ci può essere né linguaggio né la parola, e neanche il silenzio. Linguaggio e parola possono prendere vita soltanto attraverso l’incontro scontro tra gli uomini e le cose, tra silenzio e rumore che il linguaggio umano decodifica e reinterpreta.

Strilli De Palchi poesia regolare composta nel 21mo secolo

[citazioni da Estetica dell’equilibrio (2017) di A. de Palchi, grafica di Lucio Mayoor Tosi]

Sono le «cose» collegate in un insieme

  che fanno sì che siano esse a parlareIl poeta deve soltanto porsi in posizione di ascolto. L’ascolto recepisce i suoni, le parole, il rumore. Il silenzio è un altro modo di essere del linguaggio: quando il linguaggio diventa silenzioso. L’ascolto predispone il linguaggio a formarsi, e il formarsi del linguaggio significa predisporre il silenzio all’interno del linguaggio. In questo caso si può parlare propriamente del silenzio del linguaggio quale sua custodia segreta. Il poeta abita questa custodia segreta. Ma anche tutti gli uomini abitano questa custodia segreta nei loro commerci quotidiani.

  Non è una prerogativa del poeta quella di abitare il silenzio delle parole, chiunque può attingere il silenzio delle parole attraverso la lettura di una poesia. Il silenzio abita il linguaggio; l’uomo abita il linguaggio, ovvero, il silenzio delle cose, la loro lingua segreta. Un poeta con la sua poesia si deve limitare a far parlare il silenzio, il rumore delle «cose», far parlare le cose, far parlare il linguaggio delle «cose». Tutto il resto è assolutamente secondario. Il dire in poesia è questo dire che sta dentro le cose, non quello che è fuori.

  Scrivere poesia nella età contingenza e dell’incertezza significa adottare uno stile ultroneo, in bilico sulla pesantezza e sulla leggerezza delle «cose». Una condizione esistenziale legata alla stazione dell’io, che è nient’altro che una istanza proiettiva, che pesca nelle profondità dell’inconscio e proietta sulla superficie della coscienza i propri geroglifici… ma c’è una «cosa» misteriosa che sta all’esterno del soggetto e dentro il soggetto, quella «Cosa» (Das Ding) che sta contemporaneamente dentro e fuori, che consiste nella sua estimità, nel suo essere, per Lacan «entfremdet» – alienato – «estraneo a me pur stando al centro di me», qualcosa tra il familiare e l’estraneo, che sta in bilico tra il detto e il non detto, tra il dentro e il fuori. Una figura di interrogazione interna all’io, dunque, perché le «cose», a ben guardare, sono curve, il mondo è curvo, l’intero universo è curvo, e forse anche il super universo dentro il quale noi ci troviamo è anch’esso curvo. Gli opposti si toccano.

Strilli De Palchi non si cancella nienteIl tempo non si azzera mai

  e la storia non può mai ricominciare dal principio, questa è una visione «estatica» del discorso poetico. Invece de Palchi frantuma il tempo, vuole abolire la distanza, riunire il tunc al nunc, e allora esorcizza i personaggi (i «bifolchi», i Fabrizio Rinaldi) che settanta anni fa hanno determinato che fosse rinchiuso, in custodia preventiva nelle carceri di Procida e Civitavecchia, per sei anni con l’orribile accusa di omicidio di un partigiano, per il quale fu anche condannato all’ergastolo in primo grado. de Palchi vuole azzerare il tempo ma il tempo non si può azzerare in nessun caso, semmai si ripete, ritorna in forma di fantasmi e di incubi, ritorna con il ritorno del rimosso. Ecco perché de Palchi introduce delle rotture e delle sgraziate gibbosità semantiche nel suo linguaggio poetico,  vampirizza il discorso poetico, lo de-psicologizza perché vuole annientare la distanza, e invece non può che ricadere  nella Jetztzeit, il «tempo-ora» del presente. Ecco la ragione del suo spostare, lateralizzare i tempi, moltiplicare i registri linguistici, diversificare i piani del discorso poetico, reiterare il medesimo «luogo» e i medesimi personaggi, temporalizzare gli spazi, spazializzare e ripetere il tempo, personalizzare i suoi fantasmi, fantasmare i suoi personaggi, erratizzare il discorso poetico…

  L’evento principe della poesia di Alfredo de Palchi è il ritorno del fantasma. Per questo occorreva uno stile ultroneo, furiosamente erratico e furiosamente gibboso, urticante. È soltanto a queste condizioni che i fantasmi possono incontrare le «cose», possono fondersi con le «cose» e la geografia dei «luoghi» (la «Legnago» fantasmata), quei «luoghi costanti» dove «non c’è misura del tempo», dove brilla «senza fuoco il sole» in «una idea senza fuoco». Continua a leggere

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Alfredo de Palchi, Testi scelti da Estetica dell’equilibrio, Milano, Mimesis Hebenon, 2017 pp. 80, € 10, con una Interpretazione di Donatella Costantina Giancaspero

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né rispetto né nobile rigore dalle azioni dell’antropoide…

Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York. Ha diretto la rivista Chelsea (chiusa nel 2007) e tuttora dirige la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto, e tuttora svolge, un’intensa attività editoriale. Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; II edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus Novi Ligure (AL): Edizioni Joker, 2010. Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a far tradurre e pubblicare in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane. Nel 2016 pubblica Nihil (Milano, Stampa9) e nel 2017 Estetica dell’equilibrio (Mimesis Hebenon).

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7 aprile 1945… quattro energumeni antropoidi armati di pistole e parabellum mi si piazzano a pochi passi davanti… io adolescente antropoide in disfatta guardo i quattro musi incerti se fucilarmi in piazza addosso una vetrina di tessuti..

Nota dell’autore

Ogni mia raccolta di poesie, inclusa questa di Estetica dell’equilibrio, si formò con lo stile scelto dal soggetto in prima stesura. Anche quest’ultima raccolta, accantonata precisamente per sei mesi, l’ho revisionata.

Ciascuna delle quattro sezioni ha il titolo adatto al proprio soggetto che fa immaginare straordinari concetti abbigliati di poesia in prosa. Naturalmente per me autore sono verità rivelate dalla realtà repellente dell’uomo dai suoi primordi al presente. Ovviamente, io sono autore, soggetto, e repellente  protagonista uomo.

È poesia in prosa, stile direi ignorato dai poeti italiani, i quali, se il materiale non è in versi, è semplice prosa. Allora penso che dubitino della grandezza di poeti francesi dell’Ottocento, notevoli anche di poesia in prosa, e quelli del Novecento. Ce ne sono pure in una Italia della prima metà del Novecento, però nessuno ci crede o ci pensa.
È sconcertante che una Italia medievale sforni annualmente centinaia di illusi addetti alla vana missione di voler superare il loro maestro Petrarca. Non lo ammettono, eppure ci insistono…

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto liricoInterpretazione di Donatella Costantina Giancaspero

Credo che questi testi del nuovo libro di Alfredo de Palchi, Estetica dell’equilibrio, appaiano quantomeno singolari ed abnormi ad un lettore italiano di oggi, disabituato dal linguaggio letterario corrente dal leggere testi scritti nell’antichissimo genere dell’invettiva. Oggi in Italia non si scrivono più da decenni invettive, quasi che questa forma fosse divenuta indicibile; ma l’indicibilità è la condizione assoluta affinché vi sia linguaggio e linguaggio poetico in particolare, per l’ovvia ragione che, se tutto fosse dicibile, cesserebbe di esistere anche il linguaggio. Lacan ci informa che il linguaggio poetico è la lacerazione, lo «strappo» del linguaggio ordinario, il «trauma» del linguaggio; là dove non può giungere il linguaggio ordinario può giungere il linguaggio poetico. Ma, per far questo, per rendere possibile questo obiettivo, il linguaggio poetico deve darsi una Estetica dell’equilibrio, un luogo in cui le lacerazioni e le avulsioni della lingua di relazione trovino finalmente una giustificazione e una composizione estetica. Di solito, un poeta arriva a questo luogo in tarda età, quando le revulsioni, le avulsioni, le intemperanze e le belligeranze della giovinezza si sono acquietate: allora è qui che è possibile per il poeta tracciare una propria estetica dell’equilibrio. Ma si tratta di un equilibrio instabile, incerto, frammentato, scheggiato, momentaneo, contingente. Paradossalmente, questo «equilibrio» è il sigillo di autenticità anche dell’arte moderna, perché afferma la sua contiguità con la morte, il suo parteggiare per la stasi avverso l’entropia di tutte le cose. Ecco perché io intendo questo libro di Alfredo de Palchi, non solo come una «estetica dell’equilibrio», ma anche come una «estetica della morte», una «estetica del male», una invettiva, la più possente che sia mai stata scritta da un poeta italiano contro la sua patria, i suoi abitanti e gli abitanti del pianeta Terra. La dizione poetica di de Palchi è la più asciutta immaginabile, è il pensiero urticante e rabbioso che pensa l’«infondatezza» dell’io e della specie homo sapiens, la sua mancanza costitutiva, il suo essere male, inautenticità, menzogna; de Palchi impiega un linguaggio di «cose», usa la parola come un oggetto contundente scagliato contro il lettore interlocutore, usa un linguaggio irriconoscibile nella sua forma: né poesia né prosa; un linguaggio piegato alle esigenze della comunicazione diretta, diretta come può essere un pugno dato in pieno viso. Alfredo de Palchi non avvisa il lettore, non impiega giri di parole, non lo prepara, lo colpisce con quanta più urticante violenza può, in pieno volto.

Il poeta, al contrario del filosofo, non si chiede mai «cosa è pensare? », «cosa è l’essere?», ma si limita alle domande rivolte al lettore: «cosa sei diventato?», «cosa significa parlare?», «perché io parlo?», «chi è che parla?», «a chi parlo?». Qui è l’inconscio significante di de Palchi che parla, parla perché l’inconscio è agito da pulsioni cieche (prive di parola) che cercano una via di uscita, una scarica nel linguistico. L’inconscio pensa, ma pensa-cose. Sotto il dominio del Lustprinzip, l’inconscio non può non muovere alla scarica linguistica, ed è in questo movimento che lo spinge alla deriva, che esso trova le sue parole, incontrando il Realitätprinzip, cioè la sua dimensione propriamente linguistica. Infatti, la scrittura depalchiana assume qui la forma del poemetto in prosa, o della prosa in poesia, una struttura che garantisce una consistenza icastica e didascalica, da referto medico legale, quasi scientifica e la forma del bilanciamento tra l’istanza dell’irruzione dell’impulso «cieco» e quella della sua formalizzazione linguistica.

In conclusione, cito quanto scrive Giorgio Linguaglossa nella sua monografia su de Palchi (Quando la biografia diventa mito, Edizioni Progetto Cultura, 2016):

«C’è in de Palchi il tentativo di operare con una scrittura altamente sismica e tellurizzata e, al contempo, di erigere una sorta di sistema anti sismico. Di operare al contempo una frattura e una sutura. Si tratta di una scrittura che procede e promana da una rimozione originaria, da cui deriva la frantumazione di un universo simbolico e metaforico altamente instabile ed entropico. Del resto, de Palchi non fa alcuno sforzo per tentare di dare una costruzione stabile alle sue costruzioni poematiche, anzi, le tracce e i frammenti sono lì a dimostrarlo: cacofonici e indisciplinati, tendono all’entropia. Si entropizzano e si disperdono.

La penultima sezione de L’Estetica dell’equilibrio è titolata Genesi della mia morte. È una gigantomachia e una perorazione ultimativa, è il soliloquio in prosa poetica più diretto e frontale che sia mai stato scritto nella poesia italiana del Novecento e dei giorni nostri. Una sentenza di condanna inappellabile irrogata al genere umano. Si parte dall’ominide antropoide, si passa attraverso l’homo erectus e si arriva all’homo sapiens, l’animale sanguinario più distruttivo che madre natura abbia mai generato perché dotato di coscienza la quale moltiplica all’ennesima potenza il suo bisogno incommensurabile di carne e di distruzione. Il poemetto termina con una gigantesca esplosione «Io Antropoide simbolo del male peggiore dalla finestra guardo il “globo” scendere a Times Square di Manhattan 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1… come fa un sasso lanciato nell’acqua il fondale del pianeta esplode allargando a cerchi l’irradiazione della massiva potenza nucleare.»

de Palchi chiude così per sempre la heideggeriana questione dell’autenticità, la «dimensione pubblica» è diventata ormai un falso; la «dimensione privata» è diventata un falso; la scelta tra due opposti è un falso. La speculazione a proposito dell’«autenticità» è una cosa fasulla da gettare alle ortiche. Non ci sarà un altro Principio. E non ci sarà altra fine che questa. Con la fine del genere umano nulla cambierà, l’universo continuerà la sua folle corsa verso il raffreddamento universale e l’entropia. Davvero, un testamento spirituale di condanna del genere umano senza appello questo di de Palchi».

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quando arrivo all’epoca Homo Erectus 1.8–1.3m suo ospite per 500mila anni mi trovo a camminare e correre in pena a schiena dritta dietro la vittima…

Testi tratti da Estetica dell’equilibrio

1

Dalla estinzione dell’epoca giurassica il pianeta riemerge in epoca seguente dal magma e dalle acque… ora rigoglioso di flora con foreste e giungle ricresciute su quelle pietrificate nel sottosuolo… diversità vigorosa di fauna in perpetua evoluzione anche nei suoi linguaggi si occupa a suddividersi in erbivora e carnivora e sopravvivere dentro le fitte foreste… l’erbivora–carnivora non rispetta la differenza, ne approfitta delle due possibilità di scelta…

7

curiosamente l’antropoide esce dalla giungla e si avventura in spazi liberi dove in mezzo a colline e montagne semidesertiche… è attratto da pietre schegge scaglie e ne raccoglie per qualche necessità… sì, intuisce che scalpellandole con sassi da una sola parte diventano oggetti taglienti… per colpire ferire e sgozzare… da una possibilità arriva a un’altra intuita immagine… con liane legare scaglie a dei rami robusti trasformati in lance… l’occasione è prossima perché mi cerca nella chiarità della savana… appena m’intravvede si avvicina colpendomi più volte con una lancia e scappa su un albero dove non lo posso raggiungere…mi lecco le ferite sapendo che può assassinarmi… Continua a leggere

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Per il novantesimo compleanno di Alfredo de Palchi – Adam Vaccaro nota critica su Alfredo de Palchi: Dettami e Risorse del Paradigma (2006) con un Appunto critico di Giorgio Linguaglossa

pittura-astratto49-digital-work-printed-on-canvas-130-x-100-cmAlfredo de Palchi, nato a Verona nel 1926, vive New York, dove dirige la Casa Editrice Chelsea Editions. Il suo lavoro poetico è raccolto in 8 libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; trad. inglese di I.L. Salomon, October House, New York, 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988); The Scorpion’s Dark Dance (trad. inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, California 1993); Anonymous Constellations (trad. inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California 1997, versione italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Minturno, 1998); Additive Aversions (trad. inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, California, 1999; Paradigma (Caramanica, Marina di Minturno, 2001). Paradigma, Tutte le poesie: 1947-2005, ripubblicato da Mimemis Hebenon, Milano, 2006; e Paradigm, New and Selected Poems 1947-2009, Chelsea Editions, New York, I ed. 2013. nel 2016 pubblica in italiano Nihil (Stampa2009)

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Nota critica di Adam Vaccaro

Dettami e Risorse del Paradigma di de Palchi
Testo critico di Adam Vaccaro inserito nel volume antologico appena uscito, Passione Poesia, CFR Ed., Milano, novembre 2016

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Due nomi subito connessi alla scrittura di Alfredo de Palchi: François Villon e Arthur Rimbaud. Del primo troviamo anche sentenze poste in esergo – la prima, Ce monde n’est qu’abusion. E di Rimbaud, richiamato pure in qualche testo, ricordo che sottolineava l’importanza del punto di partenza, umano o creativo, infernale o no. L’età adulta di de Palchi inizia nell’immediato dopoguerra in modo orribile, con anni di carcere e sevizie, per accuse di crimini poi risultate infondate. Impossibile immaginare sofferenze e segni inferti al Soggetto Storicoreale (SSR) in quel cupo recinto di spazio-tempo. Abbiamo però i versi che vennero graffiati, prima su muri ignobili e poi trascritti su carta dal Soggetto Scrivente (SS). Versi de La buia danza di scorpione (1947-1951), parzialmente in Sessioni con l’analista (1967), interamente in The Scorpion’s Dark Dance (California 1993) e infine in Tutte le poesie 1947-2005 di Paradigma (Mimesi-Hebenon 2006), cit. PT, e in Selected Poems 1947-2009 di Paradigm (Chelsea Ed., 2013), cit. PA.

Scelgo, non solo per il titolo, la poesia Paradigma del 1964, testo esemplificante una scrittura che, se molto ha cambiato lungo il suo percorso – inevitabilmente, se si concepisce la scrittura come traduzione di quanto sperimentato fuori dalla pagina – rimane costante nel nucleo profondo di stile, innervato nella ricerca di adiacenza e/o di coinvolgimento della totalità del SS. Questa composizione lo evidenzia con efficacia e forza straordinaria attraverso la tessitura di una catena di immagini e suoni del senso – in O/U, occhio-uovo-uomo-uragano –, che compongono una circolarità aperta, spiraliforme. Chi sa penetrare il reale distrugge le sovrastrutture false o superflue e apre, crea. La serpe è fatta simbolo e “mano stupenda”, “paradigma”, che congiunge alto e basso di sé (piede e mano) col suo occhio freddo, che però non cade in deliri (raziocinanti) di onnipotenza o sbocchi nichilisti, perché coinvolge il (pro)fondo fragile: scrigno ignoto di sacro e lingua che apre a re-azioni (da re di sé) vitali e biologiche, territorio mobile emozionale da cui può scaturire nuova energia e possibile rinascita. Una tensione antropologica e civile, ma lieve di ideologia.

È una poesia trasparente e complessa che non basta a se stessa, germinata da storia, geografia, esperienze di gioie e dolori, pensiero, amori, giudizio e carne, insomma dalla totalità e unicità del SSR, tradotta dal SS in una forma nuova-antica, voce di senso umano, anche quando questo sembra perso senza rimedio.
La modernità della scrittura depalchiana sta nel suo intreccio fenomenologico, che non ha soluzioni e ci chiede perciò la responsabilità di direfare, qui e ora, rovesciando la morte della vita imposta da orrori e poteri: “Fra le quattro ali di muro/ circolo straniero a pugno/ serrato…la parola è nella bocca dei forti”; “Concluso tra vilipendio/ e menzogne/…non so chi e cosa dovrebbe/ capitare a un figlio come me/ un quaderno di scritture per testimonianza” (PA, p.22); “mi mangio maturando e sulla pietra/ raspo per una vita dissimile” (PT, p.82); “Pane è pietra/ la sete pietra/ ho metri di pietra/ mordo la pietra”, ma “C’è in me dello spazio”, ”muro lustro d’aria”, “di me che sogno di uccidermi” (PA, p.24); “Il pezzo di pane mi nutre/ in una putredine di patria” (PT, p.71); “la collera della mia età è uno strappo/…entro me lacerato.” (PA, p.160);

“ciò che non vorrei apprendere o ammettere/ fra un miscuglio incongruo di oggetti/ di gente senza direzione/ che precisi i punti di ‘partenza ‘arrivo’/…formando…una roccia/ di collera nel ventre e vulnera/ la pera del cuore” (PT, p.192).

L’importanza dell’origine e dell’alveo costitutivo è, per de Palchi, L’Adige: “il principio/…con l’abbietta goccia che spacca/ l’ovum/ originando un ventre congruo/ d’afflizioni”; “Mi dicono di origini/ sgomente in queste acque: qui sono erede/ figlio limpido – ed amo il fiume/ inevitabile” (Il principio, PA, p.4).

Ma il Sé non può dire di sé, se non viene oggettivato dall’Altro della Lingua, per cui è inevitabile il rischio di parole-suono appagate solo di se stesse e del fascino di intrecci di falsovero, che a volte oscurano la gioia di conoscere. Aiutano il Resto e le lingue del corpo: “Ti si offende…malmenato sulla cassa rovesciata/ e ti si sgozza l’intelligenza, mentre il sangue ti sballotta” (PT, p.82).

E se tra origine e corde in atto di falsità “Nessuna certezza/ dalla spiritualità arcaica del mare”, “conscia/ dell’inarrivabile bagliore” (PA, p.146), viene fatta fonte di vita la sua negazione, in una riversa clessidra di nuovo inizio: “Uovo che si lavora nella luce ovale/ nuovo adamo/ invigorisco nell’altrui simulazione”, seppure “anch’io sono, io/ mi credo” (PA, p.20).

Il punto fermo è che “In mano ho il seme/ nero del girasole –/so che la luce cala dietro/ l’inconscio…e ho questo seme/ da trapiantare” (PA, p.6), “Nel chiasso/ di germogli ed uccelle/…trebbie e cortili che alzano un fumo/ buono di letame”; “Estate/ frutto propizio seno biondo/ …calata di sensazioni// nel belato d’alberi…tutto scompiglia: il verde-/ verde” (PA, p.8); “Dopo una lunga attesa la Rimbaudiana/ bellezza mi viene sui ginocchi//…la bruttura che possiede” (Carnevale d’esilio, PA, p.20).

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Dunque, tra canto e orrori, “Ciminiere fabbriche/ del concime e dello zucchero/ barconi ghiaia e qualche gatto/ lanciato dal ponte/ snaturano questa lastra di fiume/ questo Adige” (PA, p.10); “tra convulsioni di case/ e agguati…mentre scoppiano argini e barconi/ nuoto” con i “miei pochi anni”, mentre “Ad ogni sputo d’arma scatto/ mi riparo dietro l’albero e rido/ isterico” (da Un’ossessione di mosche, PA, p.12); mentre “Una madre sradicata del ventre geme/ per il figlio/…al palo del telegrafo penzola con me/ afferrato alle gambe (PA, p.14), sognando di “Non più/ udire il tonfo dei crivellati nel grano/…negli incendi e bui guazzi/ nell’Adige// vedere un branco di vili osservare/ chi s’affloscia al muro” (PA, p.16); mentre “Al calpestio di crocifissi e crocifissi/ sputo secoli di vecchie pietre/…e sputo sui compagni che mi tradirono”. (PA, p.18)

La guerra e le sue ignominie sono l’inferno da cui il SSR cerca possibilità di risalite. Trovate nella donna, centralità solare e energia vitale che consente di proseguire, anche se immersa nelle stesse contraddizioni irresolubili dell’uomo, tra tensioni di infinito e deliri di potere dell’Io. Dunque donna non idealizzata o spiritualizzata, ma corpo materno e fraterno, simile e diverso, unica nostra possibile prateria di liberazione: “accoglimi nella bocca materna/ soffice, nutriente di liquidi/ sorgenti dal vasto terreno che poco si adegua/ alla pochezza di me imbrattato”; “la chimica della mia materia/ precipita nella tua che si rinnova” (PA, p. 220); “sei l’acqua dell’origine che sporge/ la tetta gonfia di maternità/…uguale al serpe ti assorbo intera/ e tu da madre terraquea/ chiami alla nascita il mio ritorno all’aurora/ del grembo, la dimora/…per lo spirito in frammenti (PA, p.320).

La poesia di de Palchi scuote la nostra identità lacerata da modernità e post-modernità, per riproporre tra tanta inconsistente poesia di carta la disperazione e l’orgoglio di un paradigma di senso e di utilità antropologica della propria parola. Sapendo che ogni segno-parola (verde, uovo, uomo, serpe…) è su un crinale di sensi polisemico, e siamo solo noi a declinarlo in positivo o in negativo.

Il canto della vita che esplode contro “il mostro del vivere in mezzo/ al verde brutale, acido/ / il silenzio nel silenzio del silenzio” (PA, p. 290); “Dichiara il sistema del silenzio,/ sporca la pagina con la goccia di letame, / che ogni crescita spunti” (PA, p.288); Giallo// rosso cinabro// arancione/ il verde malato dell’autunno che trasgredisce” (PA, p.292);; “ Che dire di noi/…con quattro gatti/ che appiattiti sul tavolo/ seguono lo scorrere della penna/ su questa carta;/ nei loro occhi noto la lucentezza/ di te, di tutte le donne/ – forse solo questo volevo dire” (PA, p.210); “Sei: anagramma, motore/ ricettacolo, luce”; “sono: anagramma, asso/ asmatico, virilità” (PA, p.184); “Concepire l’assoluto naufragio….niente in vista/ eccetto un puntiglio rozzo/ nella corrente non ortodossa –/ ma la forza dell’errore compulsivo/ mi afferma/ per la controcorrente che conferma statica/ la posizione finché la mia totalità/ si esaurisce contro quella immune forza” (PA, p.170), “e la serpe che si sguscia/ abbietta, umana” (PA, p.252).

L’azione della scrittura di de Palchi è su una corda sensibile e vitale, necessaria quanto più è conscia che “il mondo è un abuso”. La poesia si fa arma estrema contro tale abuso, che tende a uccidere in noi orizzonti di speranza. Morire vivi, senso di “Contro la mia morte” (Padova, 2007 e PA, p.376).

Paradigma

L’occhio della serpe è un qualsiasi dio –
uragano che scopre fondamenta
travi chiodi
e con la spirale centripeta spazza
il quotidiano lasciando al raso
il reale più fecondo

Questa la serpe bella fredda
testa piatta a triangolo a stemma
di religione – l’amo perché strisciando
sibila con sveltezza la lingua
sulla centrifugazione degli oggetti
e nell’occhio centra stolidamente
le emozioni di chi non sa reagire

Ogni uovo di serpe contiene compatto un uomo
qualsiasi, l’uragano è la realtà che fabbrica
il piede: la mano stupenda – il paradigma.

(1964)

giorgio-linguaglossa-11-dic-2016-fiera-del-libro-romaAppunto critico di Giorgio Linguaglossa

Quando mi capita di riflettere sulla poesia di Sessioni con l’analista (1967) e, in generale, sull’intera opera poetica del Nostro, mi convinco sempre di più che l’originalità della sua poesia è in quel girare incessantemente intorno al suo oggetto misterioso, alla sua «Cosa». È la forza segreta della poesia depalchiana. Anche in questi ultimi due lavori: Nihil (Stampa2009, 2016), e Estetica dell’equilibrio (inedito), si può notare che de Palchi è infinitamente libero nel suo discorso, libero di divagare, di allontanarsi dal tema del discorso e poi di ritornarvi, e di contraddirsi, libero da condizionamenti di scuole, da precetti, da mode, libero di non seguire nessun modello proposizionalistico del discorso poetico, nessun modello eufonico o cacofonico della neo-narratività poetica oggi purtroppo di moda; de Palchi non cerca la dissonanza per la dissonanza, non cerca una presunta originalità, non insegue mai effetti speciali sta sempre piantato con i piedi per terra in agguato e lancia i suoi acuminati strali contro l’«antropoide» delittuoso. C’è una fortissima carica impolitica e impoetica in questa sua furia iconoclastica che si ripercuote anche sull’ordine del discorso e sul «modello» poetico che lo sottende e lo sorregge. È un modo di fare poesia senza rete. È una nuova e diversa visione del Logos poetico. Direi una visione ontologica del fare poesia. Per tutti questi motivi indico de Palchi come un antesignano di un diverso modo di intendere in Italia il discorso poetico. Sì, forse c’è dell’anarchismo, c’è della impolitica in questo suo modo di procedere e di intendere le finalità del discorso poetico, ma qui siamo in presenza del più vigoroso sforzo fatto dalla poesia italiana del secondo Novecento e contemporanea di abbattere il modello proposizionale del discorso poetico che si è fatto in Italia e, anche, in Occidente in questi ultimi cinquanta anni. E questo a me è sufficiente per portare la poesia di de Palchi come un esempio di grande coraggio intellettuale.

Ecco la ragione per la quale io adotto la poesia di de Palchi ad avamposto (non utilizziamo più la parola avanguardia ormai destituita di senso nel mondo di oggi) di una diversa organizzazione frastica di un discorso poetico libero da schemi e da pregiudizi formalistici e di scuole.

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Alfredo de Palchi LA QUESTIONE DELL’AUTENTICITÀ. 16 brani da Estetica dell’equilibrioGenesi della mia morte (inediti) – Il Soggetto, la Cosa e la Rimozione a cura di Giorgio Linguaglossa – Io Antropoide simbolo del male peggiore dalla finestra guardo il “globo” scendere a Times Square di Manhattan 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1. come fa un sasso lanciato nell’acqua il fondale del pianeta esplode allargando a cerchi l’irradiazione della massiva potenza nucleare

Giorgio Linguaglossa

LA QUESTIONE DELL’«AUTENTICITÀ» nella poesia di Alfredo de Palchi: Estetica dell’equilibrio (Inedito)

 Mi è stato chiesto da più parti che cosa intenda per «poesie sull’autenticità». Posta l’«autenticità», l’«inautentico» non è la negazione della «autenticità» ma entra in essa come sua determinazione indefettibile. Ne deriva che «autentico» e «inautentico» non sono l’uno la negazione dell’altro ma costituiscono il loro complemento perfetto. Penso che della «autenticità» non si possa dare una definizione, è un concetto che sfugge da tutte le parti, il meno rischiarato dal pensiero filosofico. Cionondimeno, il problema dell’autenticità esiste, è concreto, tangibile, lo avvertiamo in ogni momento della nostra giornata, esso esiste ed insiste, anche e soprattutto nella nostra vita quotidiana, e la poesia non può sottrarsi a questo confronto, ne va della sua essenza, della sua credibilità. Si può fare poesia sull’autenticità anche parlando di uno sgabello rotto o di un orologio fermo o delle proprie mani o del saluto di bambini in un furgone in corsa come ha fatto Kikuo Takano. Anzi, forse, è il solo modo per affrontare questo terribile argomento: parlare d’altro, prenderlo alla larga, girargli intorno. Oppure, come ha fatto Alfredo de Palchi, scrivere sulla fine del mondo, come in questo poemetto di cui presentiamo la sezione «Genesi della mia morte».

Alfredo de Palchi è nato a Verona nel lontano 1926 e vive negli Stati Uniti a New York dove si è dedicato con infaticabile acribia alla diffusione della poesia italiana tramite la rivista di letteratura “Chelsea” e la casa editrice Chelsea Editions. Ora che abbiamo tra le mani il volume delle opere complete del poeta italoamericano, a cura dell’infaticabile Roberto Bertoldo, possiamo riflettere sulla poesia depalchiana con mente sgombra e animo libero da pregiudizi. Il poeta di Paradigma (Mimesis, 2006), è senz’altro il poeta più  asintomatico del secondo Novecento. Il titolo del volume appare azzeccato per quell’alludere a un «nuovo» e «diverso» paradigma stilistico della poesia di de Palchi. Sta qui la radice della sua grande solitudine stilistica nella poesia italiana del tardo Novecento. Il suo primo libro Sessioni con l’analista esce in Italia nel 1967 con Mondadori grazie all’interessamento di Glauco Cambon e Vittorio Sereni, poi più niente, l’opera di de Palchi scompare dalle edizioni ufficiali italiane. Il silenzio che accompagnerà in patria l’opera di de Palchi è un destino tutto singolare ma non difficile da decifrare e comprendere. Innanzitutto, la poesia di Alfredo de Palchi fin dall’opera di esordio La buia danza di scorpione (il manoscritto è databile dalla primavera del 1947 alla primavera del 1951 scritta nei penitenziari di Procida e Civitavecchia, anzi, scalfita sull’intonaco dei muri della cella durante la detenzione politica del poeta), rivela una sostanziale estraneità stilistica e tematica dalla poesia italiana del suo tempo; estranea alle correnti letterarie allora vigenti, estranea al post-ermetismo e alla poesia neorealistica; negli anni seguenti alla seconda guerra mondiale, de Palchi non aveva alcuna possibilità di travalicare l’angusto orizzonte di attesa della intelligenza italiana, per di più de Palchi era visto con estremo sospetto per via della sua scelta politica in favore del regime fascista.

La poesia di de Palchi era chiaramente delineata fin dall’inizio: una individualità esasperata, un tragitto destinale che diventa tragitto della parola poetica. Il maledettismo di de Palchi non era nulla di letterario, non era costruito sui libri ma era stato edificato dalla vita, come la poesia del grande Villon la cui poesia costituirà per de Palchi un modello e un costante punto di riferimento per la sua opera. Da una parte dunque la poesia depalchiana era colpita dall’etichetta di collaborazionista e reazionaria, dall’altra non era comprensibile in patria dove le questioni di poetica venivano tradotte immediatamente in termini politici e di schieramento politico. Con l’avvento del neorealismo officinesco e della coeva neoavanguardia la poesia di de Palchi venne messa in sordina come minore e “laterale” e quindi posta in una zona sostanzialmente extraletteraria. Esorcizzata e rimossa. Il destino poetico della sua poesia era stato già deciso e segnato. Finito in fuorigioco, chiuso dagli schieramenti letterari egemoni, la poesia depalchiana uscirà definitivamente dalla attenzione delle istituzioni poetiche italiane e sopravviverà in una sorta di ghetto, vista con sospetto e rimossa nonostante l’apprezzamento di personalità come Giuliano Manacorda e Marco Forti. In ultima analisi, quello che risultava (e risulta) incomprensibile alle istituzioni poetiche nazionali, era una poesia sostanzialmente troppo dissimile da quella letterariamente edulcorata e spregiudicata della Tradizione tardo novecentesca, innanzitutto quella particolare «identità», quella convergenza parallela tra vicenda personale biografica e vicenda stilistica, era lo stigma di apparentamento della sua poesia con la poesia di altre esperienze linguistiche e tradizioni letterarie europee che la rendevano “oggettivamente” indigesta e illeggibile da parte del gusto medio corrente della civiltà letteraria nazionale. Con questo non voglio affermare che la poesia di de Palchi sia migliore di quella del Laborintus o de Le ceneri di Gramsci, tanto per intenderci, o delle filastrocche di Paolo Volponi che allora andavano di moda, voglio dire che la sua poesia era sostanzialmente estranea e refrattaria anche al decorativo gusto manieristico degli epigoni di Sandro Penna e dei neomanieristi orfici. Il risultato fu una oggettiva e naturale “chiusura” del gusto corrente alla poesia depalchiana.

Oggi i tempi sono maturi per una rilettura dell’opera di de Palchi libera da pregiudizi e da apriorismi ideologici. Ad una lettura «attuale» non può non saltare agli occhi appunto la profonda originalità del percorso poetico depalchiano, un percorso che proviene dalla «periferia del mondo» (per citare una dizione di Brodskij), da una entità geografica e spirituale distante mille miglia dalla madrepatria, e questo è da considerare un elemento discriminante della sua poesia, la vera novità della poesia degli anni Settanta insieme a quella di un poeta come Amelia Rosselli che in quei medesimi anni produceva una poesia singolare ed estranea al corpo della tradizione del Novecento italiano ma, per motivi legati ai movimenti di scacchiera del conflitto tra Pasolini e la nascente neoavanguardia, le poesie della Rosselli vennero pubblicate sul “Menabò” di Pasolini perché più comprensibili e decodificabili ed elette a modello di un proto sperimentalismo sperimentale. Questo almeno nelle intenzioni di Pasolini. Dall’altro lato della postazione, la neoavanguardia tentava di arruolare la Rosselli tra le proprie file battezzandola con l’etichetta di «irregolare». La poesia di de Palchi, invece, non era «arruolabile», e quindi il suo destino fu quello di venire dimenticata e rimossa come una specie di «fungo» letterario non riconoscibile e non classificabile. Per tornare all’attualità, oggi, con l’esaurimento del minimalismo, con il consolidamento della «nuova» sensibilità critica e poetica maturatasi a far luogo dagli anni Novanta del secolo scorso, la poesia di de Palchi può ritrovare un suo profilo di legittimazione estetica e storica e può essere considerata come uno degli esiti «laterali» più convincenti e significativi della poesia italiana della seconda metà del Novecento.

Secondo Adorno «Il frammento è l’intervento della morte nell’opera. Col distruggere l’opera, la morte ne elimina la macchia dell’apparenza».1 Il «frammento» e la «traccia», abitano di preferenza la paratassi, essi regnano sovrani nella poesia Alfredo de Palchi. I frammenti aforistici di questi inediti di Estetica dell’equilibrio indicano che si è [un tempo] verificato un sisma le cui avvisaglie si lasciano intravedere in queste scaglie, in queste tracce, in questi graffi, in queste frecce. Il linguaggio è ridotto a lacerti pseudo aforistici, a strappi, a frammenti conflittuali che non chiedono alcuna pacificazione ma semmai di essere trasferiti sulla pagina così come affiorano alla coscienza del poeta. Al fondo del principio costruttivo di questo sistema instabile e conflittuale qual è quest’ultima opera inedita di de Palchi, possiamo intravvedere, tramite una lente psicanalitica come una lente di ingrandimento, una sorta di traduzione da un testo originario [la Cosa] che è stato rimosso, da una «Cosa» che è scomparsa.

La scrittura poetica di de Palchi ha questa caratteristica, di voler tentare a tutti i costi di impossessarsi dalla Cosa, entrarci dentro, fare i conti con la Cosa che giace al fondo oscuro del linguaggio dell’inconscio, di fare una poesia «fuori dal significato» e «fuori dal significante». E noi ci chiediamo: Das Ding (la Cosa). Che cos’è la «Cosa»?

Per Lacan la «Cosa» non è «qualcosa»,2 una cosa in sé ineffabile o un noumeno, ma è un risultato dell’azione del linguaggio sul reale. Il linguaggio, agendo sul reale, lo traduce, lo negativizza, ma così facendo produce per differenza anche un «resto» della propria azione: la «Cosa», resto reale che non si lascia più assorbire nel significante.

Tra il linguaggio e la «Cosa» si dà dunque quel legame strutturale di implicazione reciproca che Lacan indica nell’altra proposizione fondamentale: «c’è identità tra il modellamento del significante e l’introduzione nella realtà di un’apertura beante, di un buco»,3 perché sono le due facce di un medesimo evento, che accadono insieme l’una per differenza dall’altra. È anche in rapporto al linguaggio che si può parlare di un’estimità della «Cosa»: la «Cosa» è un’esteriorità radicale al linguaggio perché come tale è indicibile e irrapresentabile, è «fuori significato», ma insieme è intima al linguaggio perché è un risultato del linguaggio e, una volta accaduto, il vuoto della «Cosa» si installa nella catena significante impedendone la totalizzazione.

Per Lacan la «Cosa» è radicalmente «fuori significato» e quindi fondamentalmente «velata», estranea e irriducibile a ogni significato con cui possiamo tentare di esprimerla; l’installarsi di questo piano al di là del significato intacca il soggetto stesso nella sua esperienza; la «Cosa» è «già per sempre perduta»: una volta entrati nel linguaggio, l’oggetto del primo mitico godimento è «già sempre perduto»; l’esperienza inizia con la perdita e la cancellazione dell’origine e, se l’oggetto del godimento è per sua natura un oggetto ritrovato, «che sia stato perduto è la conseguenza – ma a posteriori – esso viene ritrovato, senza che vi sia per noi altro modo di sapere che è stato perduto se non attraverso questi ritrovamenti».4

In quanto fuori significato e già sempre perduta, la «Cosa» non è mai rappresentata in se stessa ma sempre in modo sostitutivo da «Altra cosa»6: proprio per questo essa «sarà sempre rappresentata da un vuoto, per il fatto appunto di non poter essere rappresentata da qualcos’altro – o, più esattamente, per il fatto di non poter che essere rappresentata da qualcos’altro».5

Come abbiamo visto, la «Cosa» nella poesia di de Palchi è la traccia del negativo, la traccia di un «vuoto», di una zona oscura di tutto ciò che è stato fissato libidicamente  ed emotivamente nel periodo della carcerazione preventiva sofferta, è una costellazione di significanti che sfuggono a qualsiasi tentativo di metterli in ordine logico-causale, a qualsiasi razionalizzazione o ricostruzione secondaria degli eventi. In una certa misura, la teorizzazione di Lacan ci può aiutare a capire l’origine della scrittura depalchiana e la sua peculiarissima caratterizzazione espressiva, la sua instabilità semantica e la sua rigidità iconologica.

Come sappiamo, Heidegger viene utilizzato da Lacan in una direzione profondamente diversa. In Heidegger questa analisi si inserisce nel quadro di una descrizione fenomenologico-ontologica che cerca di pensare l’accadere del mondo nel rapporto con la singola cosa e nell’incrocio tra mortali e divini, terra e cielo, quindi pur sempre nel quadro di un pensiero che cerca il senso dell’abitare «poetico» dell’uomo nel mondo come una certa costellazione di significati. Lacan utilizza invece il tema del vuoto per installare nel cuore dell’esperienza un rapporto irriducibile alla pulsione e al godimento, una relazione con qualcosa che è radicalmente «fuori significato» e, potremmo dire, «fuori significante».

Questo «vuoto» della «Cosa», già nel Seminario VII e poi in seguito con l’elaborazione del concetto di «oggetto a», diventa un vuoto causativo del desiderio: che la «Cosa» sia «il termine estraneo attorno a cui ruota tutto il movimento della Vorstellung».6 Significa che essa non è semplicemente l’oggetto del desiderio, ma l’oggetto causa del desiderio, il vuoto che alle spalle del soggetto ne causa il desiderio mettendolo in movimento. L’esperienza del soggetto gravita attorno a questo vuoto inafferrabile che lo muove. Tra il soggetto e il godimento della «Cosa» si installa «il cerchio incantato».7 del linguaggio: la tensione verso il godimento assumerà così la forma della trasgressione di una barriera e quello del Seminario VII, come osserva Miller, è il paradigma del godimento impossibile.9 Il vuoto mette in movimento il desiderio del soggetto verso la «Cosa» come oggetto del godimento pieno e assoluto, il cui raggiungimento tuttavia comporterebbe la distruzione dell’esperienza del soggetto, perché questa si sostiene precisamente sulla distanza tra i due poli: «la distanza tra il soggetto e das Ding […] è appunto la condizione della parola»10.

È la concezione stessa del soggetto che si modifica significativamente rispetto alla tradizione psicoanalitica e all’esserci heideggeriano: l’accadere di questo «fuori significato» che è la «Cosa» intacca il soggetto e si incide nella sua carne, perché condiziona tutta la sua esperienza. Il soggetto paga il proprio ingresso nell’ordine simbolico con la perdita del godimento pieno e con la propria istituzione come soggetto radicalmente eccentrico in quanto desiderante. L’«al di là del significato» agisce dunque nell’istituirsi del soggetto come tale. Il soggetto si istituisce scindendosi tra l’ambito significante-linguistico e quel resto «fuori significato» che è la «Cosa» e tutta la sua esperienza consiste nell’oscillazione di questo rapporto, che è quel che ne scandisce il ritmo e ne scrive il dramma. In un certo senso, il soggetto stesso è la «Cosa», non è più il Ci dell’essere, ma ex-iste la «Cosa» e il suo «vuoto».

Questo legame costitutivo tra «soggetto» e «Cosa» porta con sé anche l’importanza dei temi del «supplemento» e del «resto» per ripensare lo statuto del soggetto. Se il soggetto accade in quel movimento differenziale tra linguaggio e reale, se la «Cosa» è già sempre perduta e rappresentata da altra cosa, l’esperienza si istituisce a partire dalla cancellazione dell’origine e consiste nella serie dei ritrovamenti di oggetti sostitutivi che suppliscono a un’origine che non ha mai avuto luogo come tale. L’esperienza del soggetto si svolge dunque in quella che Derrida descrive come «la strana struttura del supplemento: una possibilità produce a ritardo ciò cui è detta aggiungersi» 11.

C’è in de Palchi il tentativo di operare con una scrittura altamente sismica e tellurizzata e, al contempo, di erigere una sorta di sistema anti sismico. Di operare al contempo una frattura e una sutura. Si tratta di una scrittura che procede e promana da una rimozione originaria, da cui deriva la frantumazione di un universo simbolico e metaforico altamente instabile ed entropico. Del resto, de Palchi non fa alcuno sforzo per tentare di dare una costruzione stabile alle sue costruzioni poematiche, anzi, le tracce e i frammenti sono lì a dimostrarlo: cacofonici e indisciplinati, tendono all’entropia. Si entropizzano e si disperdono.

La penultima sezione de L’Estetica dell’equilibrio è titolata Genesi della mia morte. È una gigantomachia e una perorazione ultimativa, è il soliloquio in prosa poetica più diretto e frontale che sia mai stato scritto nella poesia italiana del Novecento e dei giorni nostri. Una sentenza di condanna inappellabile irrogata al genere umano. Si parte dall’ominide antropoide, si passa attraverso l’homo erectus e si arriva all’homo sapiens, l’animale sanguinario più distruttivo che madre natura abbia mai generato perché dotato di coscienza la quale moltiplica all’ennesima potenza il suo bisogno incommensurabile di carne e di distruzione. Il poemetto termina con una gigantesca esplosione «Io Antropoide simbolo del male peggiore dalla finestra guardo il “globo” scendere a Times Square di Manhattan 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1. . . come fa un sasso lanciato nell’acqua il fondale del pianeta esplode allargando a cerchi l’irradiazione della massiva potenza nucleare.»

de Palchi chiude così per sempre la heideggeriana questione dell’autenticità, la «dimensione pubblica» è diventata ormai un falso; la «dimensione privata» è diventata un falso; la scelta tra due opposti è un falso. La speculazione a proposito dell’«autenticità» è una cosa fasulla da gettare alle ortiche. Non ci sarà un altro Principio. E non ci sarà altra fine che questa. Con la fine del genere umano nulla cambierà, l’universo continuerà la sua folle corsa verso il raffreddamento universale e l’entropia. Davvero, un testamento spirituale di condanna del genere umano senza appello questo di de Palchi.

1 T.W. Adorno Teoria estetica, Einaudi, 1970, p. 514
2 Roberto Terzi, Il soggetto e l’al di là del significato: tra Heidegger e Lacan Nóema, 4-1 (2013)
  1. 140.
    3 Ivi, p. 144.
    4 Ivi, p. 141. Cfr. anche pp. 67-68.
    5 Ivi, p. 141.
    6 Ivi, p. 154.
    7 Ivi, p. 67.
    8 Ivi, p. 160.
    9 Cfr. J.-A. Miller, I sei paradigmi del godimento, in Id., I paradigmi del godimento,
10 J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 81.
11 Id., La direzione della cura, cit., p. 625. Lacan richiama la «libbra di carne» anche al termine de Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 373.
 

Alfredo de Palchi                

da ESTETICA DELL’EQUILIBRIO

Genesi della mia morte

1-16 novembre 2015

1

È animale quantitativo autoqualitativo autorevole prepotente razzista astuto violento e da unico vile appartenente alla fauna spadroneggia su ogni specie. . . nell‘antico Latium l’antropoide legionario conquista e costruisce civiltà a ovest sud est nord. . .

pregiudizialmente assume che tu, fine di tutto, sia femmina perenne temibile di nome Mors Moarte Mort Muerte Morte. . .

2

antropoide nemico dell’antropoide determino che sei il prototipo della femmina sensitiva e intuitiva più del figuro maschile Tod a nord. . . massiccio barbaro più temibile di te femmina alle centurie di Germanicus. . . la danza del Tod risplende massiccia nelle vampe che leccano via ingiustizia e ceneri dai forni. . . di tutti incolpevole arrivi all’istante deleterio dentro cui a ciascuna esistenza abbassi le palpebre. . .

3

il due novembre giorno delle ombre in piedi accanto al loro tumulo ostili al Giardino dell’Eden che hanno distrutto lasciando il mito senza ricordo. . . giorno che si tramuta in stranezza irreale quando moltitudini di defunti viventi spasseggiano vivaci nel cimitero. . . leggono lapidi d’ignoti e depositano crisantemi alla lapide d’un familiare. . . un precario sussurrare ssssss invade le tombe. . . da farabutto ogni scomparso diventa probo ma farabutto rimane per l’antropoide vivente che non smette di essere farabutto e assassino di animali docili del mitologico Giardino dell’Eden. . . il giorno dei fiori marciti non inganna il tuo giungere alla equa falcidia. . .

4

alla mia concezione concepisco la tua presenza e in quell’istante di turpiloquio genitoriale un’intesa superna inizia tra noi. . . per mesi in delirio da un male che mi infesta nelle giovani braccia della madre che non mi può allattare. . . a tre anni mi riporti alla vita sul triciclo in fondo alla scala dove mi spinge l’infantile invidia del compagno di giochi. . . mi riporti alla vita una seconda volta quando lo stesso piccolo antropoide mi spinge a stringere nella mano un filo elettrico. . . il corpo scuote fino all’arrivo del nonno che mi sente urlare. . . sei la protettrice e salvatrice dalla mia incoscienza alla coscienza. . . l’aspro tuo sentore d’incenso mi sottrae dagli odori dei defunti vivi che ti odiano senza capire quello che io capisco di te con riconoscenza. . . defunti vivi e perenni ti odiano perché mi felicito della tua beneficenza. . .

5

cosciente mi avvicino mentalmente a te Signora dell’altrove e ti fai riconoscere a soffi d’aria che mi rasentano delicatamente in segno di protezione. . . mi proteggi dalla SS nazista a Peschiera  in novembre 1943 quando misura la mia testa di sedicenne divertito senza sospettare un significato culturalmente criminale . . . la differenza di un millimetro può farmi distinguere ebreo. . . ebreo dalla sedicente scienza del frenologo austriaco Franz Joseph Gall.

6

autunno 1944 a Villabartolomea soldati tedeschi e brigatisti neri ritornano dal rastrellamento di sbandati nel fondo delle valli basso Veronese. . . la mia bionda compagna Ginetta mi avverte di non andare al traghetto sull’Adige. . . tramite la compagna tu mi fai evitare una raffica di pallottole proveniente dal traghetto e finita a bucare due brigatisti all’attracco. . . alla compagna ventenne mai chiedo di chiarire il mio sospetto. . . ci vogliamo bene e tu che mi proteggi sai se il bene talvolta è più forte del male. . .

7

27 aprile 1945. . . quattro energumeni antropoidi armati di pistole e parabellum mi si piazzano a pochi passi davanti. . . io adolescente antropoide in disfatta guardo i quattro musi incerti se fucilarmi in piazza addosso una vetrina di tessuti. . . in fretta giungono dei soldati americani che impongono fine alla scena schiaffeggiando i quattro musi infazzolettati di rosso bifolco al collo. . . nelle carceri mandamentali mi schiazzano la schiena a cinghiate di cuoio. . . steso sul pavimento di legno mi scarponano mi bruciano le ascelle con fogli de L’Arena. . . e mi forzano a ingoiare una scodella di acqua sapone e peli di barba. . . tu salvatrice che senti i miei urli di aiuto mi liberi dal loro male uno alla volta entro due mesi. . . chi in motocicletta si schiaccia sotto un camion. . . due che annegano nell’Adige. . . e Nerone Cella nome e cognome      anagrafico condannato per rapina a mano armata e violenza carnale. . . e sei anni più tardi liberi me dal mio autunnale maleficio nella Senna. . .

8

l’antropoide che non intuisce grazia e bellezza della tua carità generosa per tua concessione entra nell’oltre senza o con dolori atroci. . . per mali non generati dalla tua irreale verità che lenisce o fornisce altri mali pure generati dal divino volere che l’antropoide crede impresario del tutto. . . io che intuisco le tue manifestazioni di grazia o punitive seguo scientemente l’interminabile scia di strascinanti nel tempio di sacerdoti che in coro eterno vociano a porta inferi. . . un continuo aspro fumo d’incenso svolazza attorno il catafalco universale sopra cui splende la spietata tua presenza del lutto. . .

9

con felicità intatta non temo l‘assidua protezione che mi sfiora a sbuffi lievissimi d’aria. . . che tu segua la mia positiva certezza indica che non dubiti del mio rispetto. . . mi accorgo che ti avvicini e io non fuggo poi che la mia esistenza si prolunga e la tua maniera protettiva si gratifica della mia gratitudine. . . chi ti teme e scongiura vive da defunto. . . non intuisce che sai che terrorizzato aspetta la convenienza polare. . .

10

alla mia indifferenza occorre che ogni male canceroso e virale termini dolorosamente la razza antropoide. . . non basta la guerra si getti le carogne dentro fosse e corroderle con la calcina e nei musei cimiteriali. . . non basta il terrorismo  si

consideri  giustizia o crimine. . . non basta il tuo imparziale giudizio o nuovo evento. . . non basta qualsiasi religione sia cancro incurabile. . . non basta il globo terracque sia stracarico di antropoide massa. . . che la tua equa indifferenza la sforzi all’asfissia. . .

11

Il pianeta sta affondandosi nell’abisso infinito per abbondanza di destinati a smorzare poesia della loro insufficienza. . .  superfluamente megalomani antropoidi masse di indistinti li onorano effigiati di eccelsa vanità. . . i rari eletti anch’essi brutali in sciame di vespe svolazza punzecchiando senza sgocciare miele. . . ognuno adatto alla fatica nei campi si convince a inventarsi barattiere bancario commesso al monte di pietà e di essere di troppo e mercenario partecipante all’inevitabile. . . Gentile Signora liberali tutti dal male della poesia liberandoli dal male di essere antropoidi. . . gestiscili nella vanitas vanitatum omnia vanitas. . .

12

con totale volere disprezzo l’errore di natura la mia razza brutale inferiore schifosa sudiciume da cui provengo e a cui schianto l’anatema. . . che il torturatore in nome della scienza vivisezioni i propri figli. . . che l’operaio del massacro quotidiano nel mattatoio abbia stessa sorte. . . che il cacciatore cada nella trappola sia colpito dalla freccia e dal proiettile. . . che il cucciolo antropoide cresca odiando il padre che lo istruisce a diventare mostro seviziatore e assassino di animali puri abbia la medesima gioia di urlare in pena. . . che ciascun antropoide sia usato abusato seviziato torturato e sbudellato. . . che la mia infima razza si abolisca dalla grande fauna sul pianeta in caduta libera. . . che l’eliminazione della mia razza sia la realizzazione del mitico Giardino dell’Eden. . .

13

con il loro sudiciume miliardi di futili antropoidi sovrappesano sul pianeta che sbalza nel vuoto infinito. . . società e culture di insaziabili divorano tutto di tutto. . . dalla radice ai vegetali alle granaglie dal verme allo scarafaggio dalla talpa allo scoiattolo dal nido di topo al nido di rondine dall‘animale domestico a quello ormai estinto. . . periodi estremi di carestia segnalano generosità della terra che si alleggerisce della quantità enorme di sterco da degradarsi con la mucillaggine cadaverica. . .

14

non ho un pensiero di te morte. . . sei tu che mi pensi con realistica nostalgia di nutrice in diamanti foschi che mi leggi un breviario lunghissimo di note lessicalmente stonate secondo il solfeggio di ombre e di luci. . . tu mi pensi con amore di madre coraggio per un figlio antico che troppo lentamente cresce tra rigori di vili che insulto perché non restino in pace. . .

15

Madre natura, non è madre, è casualità potente dal microbo alla radice d‘ogno tipo di vegetazione e di animale. . . incluso

l‘animale che presume di essersi dissocato dalla fauna. . . si è autorizzato a ingrandirsi chiamandosi epocalmente una varietà di homo, ipocritizzando la sua vita  microbiologica apice della natura. . . natura è indifferente, micidiale, è di una bellezza inquietante, ed è il male assoluto. . . homo, apice del male, è natura distruttiva e commette pulizie terrestri quante ne combina natura. . . si allegirisce di Homo, diventa morte che non ha immagine. . 

16

periodi lunghi di pestilenze puliscono il globo di antropoidi inceneriti dalla fiamma che ti illumina sul pianeta. . . ma la fiamma non fa abortire la femmina del mostriciattolo che le gonfia a calci la pancia. . . moltitudini affamate e prepotenti non smettono di devastare inquinare e inaridire la terra. . . razza sleale elettasi superiore al pianeta per imporsi ed esplodere terrore. . . io non mi esimo benché manchi d’innati componenti terroristici. . . la mia fine suggestiva sarebbe di assistere allo svuotarsi del pianeta e sapere che tu smetti di proteggermi liberandomi per ultimo dal male globale. . .  e che il pianeta libero dal superno male della mia razza sia finalmente Giardino dell’Eden.

 

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